Archive pour mai, 2014

ALLA PORTA DEL PARADISO – Gianfranco Ravasi

http://www.novena.it/mattutino/mattutino19.htm

ALLA PORTA DEL PARADISO

Gianfranco Ravasi

Un uomo bussò alla porta del paradiso. «Chi sei?», gli fu chiesto dall’interno. «Sono un ebreo», rispose. La porta rimase chiusa. Bussò ancora e disse: «Sono un cristiano». Ma la porta rimase ancora chiusa. L’uomo bussò per la terza volta e gli fu chiesto ancora: «Chi sei?». «Sono un musulmano». Ma la porta non si aprì.
Bussò ancora. «Chi sei?», gli chiesero. «Sono un’anima pura», rispose. E la porta si spalancò. Mistico e poeta musulmano, Mansur al-Hallaj (858-922) morì prima crocifisso e poi decapitato, lasciando dietro di sé una straordinaria testimonianza di fede e di amore. Dai suoi scritti abbiamo estratto questa parabola suggestiva.
La vera appartenenza religiosa non si misura – come ribadivano i profeti biblici – sull’adesione esteriore, sugli atti di culto, sull’ostentazione, ma sull’intima fedeltà, sulla purezza d’animo, sull’amore operoso. È questa scelta di vita che spalanca le porte del regno dei cieli. Ma vorremmo ora allegare un’altra testimonianza musulmana (anche per mostrare un volto diverso dell’islam rispetto a quello fondamentalista). Il mistico Rumi (1207-1273), fondatore dei dervisci danzanti, diceva: «La verità era uno specchio che, cadendo, si ruppe. Ciascuno ne prese un pezzo e, vedendovi riflessa la propria immagine, credette di possedere l’intera verità».
Il mistero glorioso della verità ci precede: dobbiamo deporre ogni arroganza ideologica e spirituale e ascoltare anche l’altro col suo bagaglio di verità da lui scoperta. Certo, questo non significa che tutte le idee e le credenze siano automaticamente frammenti di verità, essendo possibili i miraggi, le illusioni, gli accecamenti. L’autenticità brillerà attraverso l’amore, la donazione a Dio e al fratello, la ricerca umile e appassionata.

 

ATTI 6,1-7 – COMMENTO BIBLICO

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Atti%206,1-7

ATTI 6,1-7 – COMMENTO BIBLICO

1 In quei giorni, mentre aumentava il numero dei discepoli, sorse un malcontento fra gli ellenisti verso gli Ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana. 2 Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense. 3 Cercate dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest’incarico.
4 Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola». 5 Piacque questa proposta a tutto il gruppo ed elessero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timòne, Parmenàs e Nicola, un proselito di Antiochia. 6 Li presentarono quindi agli apostoli i quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani.
7 Intanto la parola di Dio si diffondeva e si moltiplicava grandemente il numero dei discepoli a Gerusalemme; anche un gran numero di sacerdoti aderiva alla fede.

COMMENTO
Atti 6,1-7
I sette «diaconi»

Nella prima parte degli Atti (1,15- 8,4) si narra la prima espansione del cristianesimo in Gerusalemme. Essa termina con il racconto delle vicende che hanno come protagonista Stefano, la cui morte violenta darà l’avvio all’annunzio del vangelo al di fuori della città santa. Il racconto si apre con l’elezione di sette uomini deputati al servizio delle mense (At 6,1-7). Uno di costoro, Stefano, si dà alla predicazione e viene arrestato dal sinedrio (6,8-15). In questa occasione egli pronunzia un duro discorso di condanna nei confronti dei suoi accusatori (7,1-53) e alla fine del quale viene lapidato (7,54-60). La liturgia propone qui il racconto della nomina dei sette incaricati. L’autore descrive anzitutto la situazione (v. 1), indica poi la presa di posizione dei Dodici (vv. 2-4) e infine rende nota la decisione della comunità (vv. 5-7).

La situazione (v. 1)
Il nuovo racconto si apre con la descrizione di una situazione nuova che si era verificata nella comunità di Gerusalemme: «In quei giorni, mentre aumentava il numero dei discepoli, sorse un malcontento fra gli ellenisti verso gli ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana.» (v. 1). L’episodio viene situato nel tempo mediante una formula temporale piuttosto vaga: «In quei giorni» (cfr. 1,15). Compare qui per la prima volta il termine «discepoli», usato poi una trentina di volte nel corso del libro per indicare coloro che aderiscono al movimento di Gesù. Il numero dei discepoli continua ad aumentare, ma la vita della comunità è minacciata da una grave tensione fra due gruppi che si sono formati al suo interno.
Il primo di questi gruppi viene designato con l’appellativo di «ellenisti» (hellênistai). Questo termine riappare in At 9,29 dove designa un gruppo di giudei residenti a Gerusalemme, senza dubbio gli stessi che frequentavano «la sinagoga detta dei “liberti” comprendente anche i cirenei, gli alessandrini e altri della Cilicia e dell’Asia» (cfr. 6,9): si tratta dunque di giudei originari di questi paesi, i quali nelle loro sinagoghe leggevano la Scrittura nella loro lingua nativa, il greco, secondo la versione detta dei Settanta. Proprio da questo ambiente provenivano coloro che erano presenti in occasione della pentecoste (cfr. 2,5). Aderendo alla comunità dei discepoli di Gesù costoro avevano formato un gruppo a sé. Il secondo gruppo è quello degli «ebrei» (hebraioi): in contrasto con gli ellenisti, costoro non possono essere che i primi seguaci di Gesù, i quali erano sempre vissuti in Palestina, leggevano la Scrittura in ebraico e parlavano questa lingua (in realtà si trattava piuttosto dell’aramaico, che aveva sostituito l’ebraico come lingua parlata).
Il contrasto tra questi due gruppi viene alla luce nel campo della «assistenza (diakonia) quotidiana» che veniva prestata alle vedove (chêrai). L’assistenza a queste persone diseredate faceva parte del programma della comunità, che si era posta l’obiettivo della condivisione dei beni (At 4,32.34). È probabile che le vedove fossero più numerose fra coloro che erano venuti dai paesi della diaspora per trascorrere gli ultimi anni della loro vita a Gerusalemme: forse proprio per la loro origine straniera esse ricevevano meno attenzione delle altre. Di conseguenza gli ellenisti protestano perché ritengono che le vedove del loro gruppo siano trascurate.

Le direttive degli apostoli (vv. 2-4)
I Dodici vengono a conoscenza dello scontento che serpeggia nella comunità e lo affrontano apertamente: «Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense» (v. 2). Queste parole lasciano intendere che indirettamente la critica riguardasse proprio loro, in quanto amministratori dei beni che venivano messi in comune (cfr. 4,35). Essi perciò dichiarano che non ritengono giusto dedicarsi al servizio delle mense, con il rischio di trascurare la parola di Dio. Il «servizio delle mense» (diakonein trapezais) era un incarico religioso importante nelle confraternite farisaiche, essene o battiste; esso consisteva sia nell’organizzazione delle agapi fraterne sia nell’equa distribuzione del cibo ai poveri.
Per risolvere il problema alla radice i Dodici propongono una divisione dei compiti. A tal fine incaricano la comunità di scegliere sette uomini di buona reputazione, «pieni di Spirito e di saggezza», ai quali affidare il servizio delle mense (v. 3). Il loro ragionamento si ispira a quello di Mosè il quale, di fronte alla crescita del popolo, chiede di essere coadiuvato nel compito di giudice dai capi (Dt 1,9-18). Si noti che proprio la saggezza aveva abilitato Giuseppe a svolgere una funzione amministrativa di importanza vitale nel paese d’Egitto (Gn 41,33.39); la stessa virtù doveva qualificare i capi delle tribù designati da Mosè come giudici (Dt 1,15). I Dodici esprimono l’intenzione di riservare a sé la preghiera (proseuchê) e il «servizio della parola» (diakonia tou logou) (v. 4), cioè il ruolo di «testimoni» della risurrezione di Cristo (cfr. 1,22).

La decisione comunitaria (vv. 5-6)
L’assemblea accoglie la proposta dei Dodici e procede all’elezione del gruppo dei Sette: «Piacque questa proposta a tutto il gruppo ed elessero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas e Nicola, un proselito di Antiochia» (v. 5). Stranamente tutti i prescelti portano un nome greco: si ritiene quindi che appartenessero al gruppo degli ellenisti. Nella lista dei «Sette», il primo e l’ultimo meritano una menzione particolare: Stefano, «uomo pieno di fede e di Spirito santo», cioè un uomo eccezionale dal punto di vista della fede e del vigore missionario di cui si parlerà subito dopo. Nicola invece è presentato come un «proselite», cioè un gentile che si era convertito al giudaismo prima di abbracciare la fede cristiana. Questi inoltre è originario di Antiochia, una città ellenistica, che avrà un posto molto importante nel seguito del racconto, perché lì si formerà una comunità aperta ai gentili (cfr. 11,19).
L’investitura dei Sette si svolge in un clima liturgico, con la preghiera e l’imposizione delle mani (v. 6): nel testo greco non è chiaro se questo rito sia compiuto dagli apostoli o da tutta la comunità. Luca non fornisce nessuna spiegazione sul significato specifico di tale gesto, ma sembra evidente che si tratti di una benedizione e di un conferimento di autorità per compiere il loro ruolo specifico.
Al termine del brano appare di nuovo il ritornello della crescita, che accosta la diffusione della parola di Dio all’incremento numerico dei membri della chiesa (v. 7). Luca riprende qui la stessa espressione del v. 1, lasciando intendere che la felice soluzione di una crisi interna apre la strada a un nuovo progresso nell’evangelizzazione. Viene detto inoltre che fra i convertiti figurano molti «sacerdoti» (hiereis), cioè esponenti del sacerdozio giudaico. Luca non spiega il motivo di questo fatto, ma la logica del racconto lascia supporre che queste conversioni abbiano il loro peso nel conflitto che scoppierà subito dopo.

Linee interpretative
Il racconto di Luca non appare del tutto verosimile. Anzitutto è strano che i nomi dei prescelti siano tutti greci. Si può certo supporre che per un eccesso di buona volontà sia stato affidato proprio agli ellenisti il compito di provvedere a tutte le vedove, per evitare alla radice il pericolo che essi si sentissero discriminati. Ma è più probabile che questo dettaglio sia un indizio che in realtà i Sette esistevano già prima come gruppo a sé stante e svolgevano un ruolo direttivo nell’ala ellenista della comunità. Ciò sembra trovare conferma nel fatto che certe comunità della diaspora giudaica erano rette da sette «giudici». Di fatti almeno due di essi, Stefano e Filippo, si dedicheranno subito dopo non al servizio delle mense ma alla predicazione. Infine è strano che la persecuzione scoppiata dopo la morte di Stefano colpisca solo gli ellenisti, i quali devono lasciare Gerusalemme, mentre gli apostoli, e presumibilmente il loro gruppo (gli «ebrei»), vi restano indisturbati (cfr. 8,1).
Si può dunque supporre che in realtà molto presto si fosse verificata nella comunità di Gerusalemme, composta quasi esclusivamente di giudeo-cristiani, una scissione tra coloro che parlavano aramaico, i quali erano guidati dai Dodici, e quelli di lingua greca rappresentati dai Sette. La ragione remota di questa separazione era certamente di origine linguistica. Si può anche supporre che, come apparirà nel discorso di Stefano, gli ellenisti abbiano preso una posizione critica nei confronti del tempio di Gerusalemme e della legge mosaica (cfr. 6,13-14; 7,48-53), mentre gli apostoli e il loro gruppo erano fedeli osservanti della legge e partecipavano al culto del tempio (cfr. 2,46). O forse gli ellenisti erano più audaci nel proclamare l’imminente ritorno di Gesù e l’instaurazione del regno di Dio.
Il trattamento riservate alle vedove potrebbe essere stato quindi semplicemente l’occasione che ha fatto esplodere il dissidio, ma questo aveva ragioni più remote. Ai fini di presentare in modo armonico lo sviluppo della chiesa primitiva, Luca nasconde di proposito la rottura che si era già prima verificata all’interno della comunità. Anzi, pur non chiamando mai i Sette con il nome tecnico di «diaconi», li presenta come i primi incaricati di un ministero, quello del diaconato, che si svilupperà nelle comunità paoline alla fine del I secolo (cfr. 1Tm 3,8-13). Facendoli diventare diaconi prima del tempo, egli ha voluto far capire che anche i dissidenti non hanno rotto il legame di comunione con il resto della comunità, la quale invece li ha accolti come fratelli. Ciò è importante per lui perché saranno proprio loro i primi missionari che porteranno il vangelo ai gentili (cfr. 8,4; 11,20).
La vicenda degli ellenisti, così come è stata raccontata da Luca, può essere letta come esempio delle modalità con cui una comunità deve superare il rischio della scissione, che minaccia ogni gruppo umano, anche e soprattutto quello che appare più unito intorno ad una “verità” ritenuta assoluta e indiscutibile. Il fatto che i dissidenti non vengano espulsi ma ricevano un incarico di responsabilità nella comunità stessa mostra che i diversi punti di vista devono essere considerati non come occasione di divisione, ma piuttosto come espressione di una ricchezza che dà origine a compiti e servizi diversi.

18 MAGGIO 2014 | 5A DOMENICA DI PASQUA A – LECTIO DIVINA : GV 14,1-12

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18 MAGGIO 2014 | 5A DOMENICA DI PASQUA A | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : GV 14,1-12

Nelle parole di Gesù si riflette la situazione che vivevano i discepoli dopo Pasqua: sapevano che Cristo era risuscitato, ma erano ancora addolorati per la sua assenza. Li riempiva un triste sentimento di sentirsi orfani, rubando l’allegria recuperata di sapere che Gesù era vivo. Incoraggiandoli, Gesù spiega loro la sua apparente assenza: sta preparando loro un posto nella casa del Padre; la sua apparente lontananza attuale è dovuta alla preoccupazione che viene dai suoi; dovrebbero saperlo ed avere coraggio: la fede in Dio deve viversi da ora in poi come fede in Gesù; che, risuscitato, deve stare con suo Padre. Le domande dei discepoli esprimono il loro sconcerto: non sanno bene dove sta andando il loro Signore, non conoscono la strada per seguirlo. Gesù non insiste sul suo nuovo destino personale, Dio Padre; per i suoi discepoli è Lui la via, la verità, la vita: senza passare per lui nessuno arriva a Dio. E, pertanto, risponde a chi desidera vedere Dio che vedere Lui è contemplare il Padre: Gesù Resuscitato è il volto umano di Dio, dal quale Dio ci guarda e nel quale contempliamo Dio. Non è impressionante, e significativo che Gesù debba pregare i suoi discepoli perché gli credano?.

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli:
1 « Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me.
2 Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto;
3 quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io.
4 E del luogo dove io vado, voi conoscete la via ».
5 Gli disse Tommaso: « Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via? ».
6 Gli disse Gesù: « Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.
7 Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto ».
8 Gli disse Filippo: « Signore, mostraci il Padre e ci basta ».
9 Gli rispose Gesù: « Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre?
10 Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere.
11 Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse.
12 In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre.

1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
L’annuncio del tradimento di Giuda (Gv 13,21-30) e del rinnegamento di Pietro (Gv 13,36-38) ha riempito di turbamento il coraggio di alcuni discepoli. Il testo, incorniciato sul tema della fede (14,1.10.11.12), non ha uno sviluppo chiaro: dopo aver spiegato ai suoi discepoli perché si è assentato e che cosa fa mentre essi si sentono soli (14,1-4), Tommaso, in primo luogo, e dopo Filippo domandano a Gesù la strada per arrivare al Padre (14,5.8). Gesù adotta un tono magistrale (14,1.9.11), mentre i discepoli si sforzano per capirlo, senza troppo successo.
Il discepolo che si sente abbandonato, ha la fede come aiuto. Ma una cosa è credere in Dio ed un’altra, ben distinta e più difficile, è credere in un uomo che è stato tradito e rinnegato da essi e che, ora, restituito alla vita, non convive con essi. Vissuta nella solitudine, la fede non dispera: la solitudine non è il destino ultimo del credente, poiché l’assenza è mezzo per costruire una nuova casa con Dio. Casa è qui immagine di accoglienza e familiarità, posto dove il credente è ricevuto da Dio, stato di salvezza escatologica: avendo la casa di Dio molte dimore uno può essere accolto in diversi modi (14,2a). Gesù li ha lasciati, affinché essi trovino accoglienza in Dio, dove è il Figlio. Che i discepoli avranno accesso a Dio è opera del Figlio. Nella loro solitudine devono ritrovare la serenità. « Vada, dunque, il Signore a prepararci il posto » commentò Sant’ Agostino – « va e non lo vediamo; nasconditi affinché crediamo. Si prepara il posto vivendo nella fede. Desideriamolo per la fede per averlo per il desiderio, perché il desiderio di amare anticipa il fare. Prepara, dunque, Signore, quello che stai preparando: ci prepari per te e te per noi ». La sua partenza non è definitiva: ritornerà ai suoi affinché stiano con Lui. Più che lasciarli abbandonati, Gesù lascia i suoi speranzosi; la sua solitudine è puramente apparente. Quando ritorna, conosceranno dove è andato e la strada per arrivare.
La domanda di Tommaso (14,5; 11,16) introduce un nuovo sviluppo (14,5-11): chi ha fatto il cammino verso Dio, in Lui trova strada e meta, via e accesso, mezzo e fine (14,6). Gesù è la strada, l’unico, che conduce a Dio. E lo è senza altri concorrenti, in esclusività: nessuno può pensare altre vie o proporre altri sentieri per andare dal Padre che quella che Lui è e realizza. Conoscendolo, l’accesso a Dio è garantito: solo Lui, le sue parole e le sue opere, manifestano Dio pienamente. In quanto mediatore esclusivo dell’incontro col Padre, è verità definitiva (1,14.17; 5,33; 8,32.40.44-46); accolto come tale, si fa vita (1,4; 6,33.35.48.63.68; 8,12; 10,10; 11,25).
Con sorprendente audacia, Gesù arriva a dire che la conoscenza vitale della sua persona è già visione del Padre, conoscenza di Dio senza intermediari né segni (14,7): diventare amico di Gesù, conoscerlo, è la condizione per accedere al Padre. Come discepoli, lo hanno già conosciuto e, perciò, ora possono conoscere e vedere il Padre, compito impossibile all’uomo (1,18. Is 45,15).
Filippo, incomprensibilmente, chiede a Gesù che manifesti il Padre (14,8. Es 33,18) e rimanere così soddisfatto. Per il credente di tutti i tempi costituisce una tentazione perenne la sentita necessità di uno svelamento definitivo del suo Dio; vedere Dio è la suprema aspirazione dei suoi fedeli (Es 33,12-23; Sal 27,8.9.13; 24,6; 43,3.4.19; 105,6; Mt 5,7; 1 Gv 3,2). Gesù esautora quella speranza vana e si lamenta; il malessere di Gesù va diretto a tutti i suoi discepoli: sarebbe dovuto bastare il tempo di convivenza affinché fosse sorto in essi il riconoscimento che in Gesù si vede il Padre (10,38). Gesù è la definitiva teofania di Dio, la sua migliore definizione e la sua più completa esegesi: chi lo vede, vede il Padre (14,9); per chi crede (12,44-45), non desidera prove né dimostrazioni ulteriori. La fede che vede Gesù come Figlio fa vedere suo Padre, non perché si contempla Dio bensì perché si accetta il Figlio; in presenza del Figlio si sta in presenza di Dio.
Gesù motiva la sua affermazione (14,11-12): è il mediatore che risiede nel Padre ed il Padre in lui. La coabitazione di Gesù ed il Padre, l’abitare reciproco, si realizza nelle parole di Gesù che sono opere del Padre (14,10). L’intimità di Gesù con Dio è la prova che Gesù porta affinché il discepolo passi dalla sua ignoranza alla fede dell’amico (14,11). La legittimità della rivelazione che Gesù fa di Dio riposa sulla mutua relazione che esiste tra tutti e due: quello che fa Gesù sono azioni di Dio. Se non servono le sue parole che, almeno, valgano le opere che fa il Padre in lui.

2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
Oggi il vangelo ci mostra Gesù, che saluta i suoi discepoli alla vigilia della sua morte violenta e consolandoli anticipatamente per la sua precoce sparizione. I cristiani tornarono a ricordare questa scena e le parole di Gesù, quando, dopo la sua resurrezione, si sentirono soli e sconsolati: Gesù era vivo, certamente, ma non stava oramai con essi. Non era oramai come prima, quando camminavano predicando il regno di Dio, godendo della sua presenza e delle sue attenzioni; ora, benché lo sapessero risuscitato, non tutti potevano vederlo, alcuni non riuscivano a riconoscerlo e tutti temevano dover vivere senza di lui. Superata la prima sorpresa ed appena guadagnata l’allegria, si andarono rendendo conto che Gesù Resuscitato non apparteneva loro oramai come prima. Il godimento della sua presenza non doveva durare molto; Gesù aveva recuperato la vita, ma i discepoli non recuperarono il loro Signore: il Risuscitato tornava a Dio ed essi si dovevano sentire, sempre di più, orfani di Gesù.
La resurrezione di Gesù fu, senza dubbio, il trionfo di Dio sulla morte, ma, momentaneamente, suppose anche la sparizione fisica di Gesù tra i vivi: i discepoli, appena superato il trauma della morte violenta del loro maestro, non molto sicuri ancora di averlo vivo, dovettero abituarsi a non contare su di lui per tutto; a cosa poté servirgli che il Signore recuperasse la vita, se essi non recuperavano il loro Signore? Se Gesù risuscitato non ritornava con essi, che beneficio otterrebbero della sua gloriosa resurrezione?
Non è anche quella la nostra situazione? Non ci sentiamo anche noi abbandonati alla nostra sorte nei confronti di Gesù? Abbiamo celebrato la resurrezione di Gesù e sappiamo – è il cuore stesso della nostra fede e la ragione della nostra speranza – che egli vive per sempre e per noi. Ma ciò non ci basta per sentirci sicuri, per liberarci dalla sensazione di abbandono, per recuperare la fiducia in lui. Incapaci di poter vedere e palpare Dio nel nostro mondo, senza sentire le sue attenzioni né sentirsi oggetto della sua preoccupazione, dubitiamo del suo interesse per noi e si accrescono le nostre paure. Sembra che viviamo, come i primi apostoli, senza dubitare che Gesù sia realmente vivo e con Dio, ma senza poter credere che non ci ha abbandonati. Come ad essi, oggi Gesù ci ripete: « Non sia turbato il vostro cuore, abbiate fede in Dio e abbiate fede in me. »
Ed il motivo convince, perché, ben mirato, è tanto consolante! Recuperata la vita, Gesù non ci recupera immediatamente. Deve prima prepararci un posto nella casa del Padre, la nostra casa vicino a Dio. E si allontana, fisicamente da noi; non rimane neanche a portata delle nostre mani, come qualche volta abbiamo desiderato, del nostro cuore. Ma non ci abbandona: si sta occupando di convincere Dio affinché vicino a Lui ci faccia un posto nel suo cuore e ci dia un luogo a portata delle sue mani, mani di Dio e cuore di Padre. La sua sparizione, benché faccia male al discepolo di Gesù il non vedere il suo Signore né sentirlo vicino, è ben motivata: sta facendoci posto vicino a Dio, sta allargando il cuore di Dio, affinché dove Egli è già, staremo anche noi. Non staremmo all’altezza della sua bontà, se interpretassimo la sua sparizione come disinteresse o dimenticanza, se ci lamentassimo di essere stati abbandonati a noi stessi: credere oggi in Cristo Risuscitato suppone accettare che non sta totalmente con noi, perché vuole stare per sempre con noi vicino a Dio. Potevamo aspettare qualcosa di meglio? Abbiamo fede in lui, per più abbandonati che ci sentiamo; non disperiamo di lui, benché tutto ci dica che ci ha lasciato.
Come Tommaso, non riusciamo sempre a capire Gesù, che, se ci lascia momentaneamente, ci ha trasmesso anche la sua promessa di ritornare; e se ciò fosse poco, si è impegnato personalmente ad essere via verso Dio, c’è stato offerto come la strada da percorrere: chi si sente lontano dal suo Signore, può ricorrere a lui percorrendo la sua strada; vivere come egli lo fece è il modo di recuperarlo, è la forma per renderlo presente. Il discepolo che si sente solo che gli dolga l’allontanamento di Dio, trova la via del suo recupero, se prende la vita di Gesù come cammino da percorrere, come verità per i suoi dubbi, come vita per le sue morti.
Avere Cristo Gesù come cammino non è ideale lontano né meta irraggiungibile; significa sforzarsi giorno per giorno per ripetere i suoi gesti, realizzare le sue esigenze e camminare dietro le sue orme; rifare quello che ha fatto Gesù può essere faticoso e perfino eroico, inusuale e oggi perfino impopolare, ma ottiene la meta, la familiarità con Dio: Gesù è l’unico che non ci assicura trionfi perituri, bensì un fine davvero felice: « solo Lui ci mostra il Padre. » E quello lo fa meritevole della nostra fiducia e di qualunque sforzo.
È vero: accettare Gesù come via, verità e vita non è sempre facile; molte volte, neanche lo desideriamo; lo pensiamo, ma lo temiamo. Perché significa mettere Cristo Gesù al centro della nostra vita, farlo ragione delle nostre decisioni e giudice dei nostri sentimenti. E ciò può risultare complicato e perfino pericoloso: supporrebbe avere un’altra persona, con le sue idee e le sue esigenze, coi suoi valori e le sue necessità, come ispiratore e motore della nostra vita personale. E per non osar dare a Cristo ciò che gli corrisponde, scegliamo di vivere una vita che non è cattiva, ma che neanche è troppo buona, senza fare male ma omettendo il bene. Non ci distinguiamo per i nostri peccati, ma neanche brilliamo per la nostra santità; senza smettere di essere uomini buoni durante tutta la nostra vita, non riusciamo ad essere buoni discepoli di Cristo.
Ci manca di fare un passo, il decisivo, collocare Cristo al centro dei nostri pensieri ed affetti, del nostro volere e del nostro fare; solo quando Egli sarà il nostro Signore, sarà la nostra strada verso Dio; è per paura di perderci noi stessi, se prendiamo sul serio Dio, che ci perdiamo la casa che Cristo ci prepara vicino a Dio e ci sentiamo abbandonati, soli durante il tragitto della vita. Non è che Cristo Risuscitato ci abbia lasciato soli; è che persistiamo a percorrere altre vie più piacevoli ed a seguire altri signori meno esigenti. E non otteniamo, logicamente, di trovarci con Cristo né sapere che ci dirigiamo a Dio.
Quando nella nostra vita non vi è niente che lasci vedere che siamo di Cristo, niente ci sarà in lei che assomigli a Dio. Come Filippo, abbiamo potuto stare tutta la vita con Gesù e non conoscerlo realmente. Sarebbe un grave equivoco ed un gran fallimento. Se vogliamo evitarli, dobbiamo dare a Cristo il posto che gli spetta: sia Lui la nostra via, la verità e la nostra vita. Saremo vincitori: smetteremo di sentirci soli ed avremo guadagnato Dio.
3 – PREGARE : Prega il testo e desidera la volontà di Dio: cosa dico a Dio?
Signore Gesù, mi rallegra saperti già, vicino a Dio Padre, vincitore della morte, ma mi fa paura vedermi tanto abbandonato. Dammi quella fede che mi chiedi affinché calmi la mia ansietà e riempia i miei vuoti di te. Mi dà molta fiducia saperti occupato a prepararmi una casa, un posto di riposo e di intimità in Dio. Non sai quanto mi consola sapere che dove ora stai, non vuoi stare senza di me, che ritornerai per me e che, affinché possa raggiungerti, tu sarai la mia strada. Se santo, mio Signore, grande amico e meglio, fratello.
Ora che ti riconosco già come la mia strada e la meta, la mia verità e la vita, lasciami vedere in te il Padre. Mi basterebbe per trovare la pace ed il coraggio di potere contemplarlo come Padre e contemplarmi come figlio. Lasciami vederlo in te, permettimi che ti veda affinché lo veda e rimanga soddisfatto.
Che stupendo sei con me! Come stimoli la mia povera fede quando mi prometti, come a Filippo un giorno, di fare opere maggiori che le tue, se mi mantengo fedele e fiducioso!

JUAN JOSE BARTOLOME sdb

Jesus Christ, King of Mercy – Kathleen Anderson – 1993

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http://www.iconsexplained.com/iec/02191_divine_mercy2_kanderson_398x500.htm

Publié dans:immagini sacre |on 15 mai, 2014 |Pas de commentaires »

GIOBBE: L’UOMO CHE NON HA PERSO LA SFIDA CON DIO

http://www.tempidifraternita.it/archivio/bodratoweb/bodrato11.htm

GIOBBE: L’UOMO CHE NON HA PERSO LA SFIDA CON DIO

Le pagine d’apertura della Bibbia (Gn 1-11) non sono le uniche che ci offrono un’immagine dell’atto creativo di Dio e delle sue possibili implicazioni teologiche. Nel saggio esegetico collettivo, La création dans l’Orient Ancien (Parigi 1987) vengono ricordati e commentati almeno sei blocchi di testi biblici antichi che dicono la loro su questo argomento: i Salmi (33, 104, 136, 148), il Secondo Isaia (44-55), Geremia (versetti sparsi), Giobbe (38-41), Sapienza (1, 13-14; 9,), 2Maccabei (7, 28). Gli autori chiariscono che ognuna di queste riprese del tema genesiaco ha il suo taglio, la sua prospettiva interpretativa e, se a tutto ciò aggiungiamo le riprese neotestamentarie dell’argomento (prologo di Giovanni e passi specifici di Paolo), dobbiamo concludere che la Scrittura nel confessare la sua fede nel Creatore è, se non equivoca, per lo meno plurivoca. Vale a dire presenta molte linee interpretative, tese alla continua rilettura problematica e attualizzante del tema, come ci dimostra questa rapida e sorprendente incursione nel libro di Giobbe.

E il serpente tentò Dio
Tutti conosciamo questo scritto e tutti sappiamo che è composto da una cornice narrativa fiabesca in prosa e da un ampio dialogo o dibattito in versi, in cui il protagonista, in contesa con gli amici e con Dio, si mostra ben più campione dei diritti dell’innocente perseguitato che di muta pazienza. Non tutti ci rendiamo conto, però, che la soluzione del problema teologico dell’antico testo fa strettamente corpo con la soluzione del suo problema letterario.
Ma quale è questo problema? Esso è precisamente rappresentato dalla difficoltà di cogliere l’unità compositiva dell’intero testo, di conciliare la pazienza del Giobbe fiabesco con la ribellione di quello dialogico, di dare identità coerente e credibile al Dio « tentato » del prologo e a quello « autocelebrativo » dei capitoli 38-41, di capire perché proprio quest’ultimo dia ragione a Giobbe, che lo ha contestato, e non agli amici, che lo hanno difeso, e perché infine Giobbe ritiri le sue accuse a Dio e con lui si riconcili senza avere apparentemente ricevuto risposta alle sue domande.
Un modo per evitare tutte queste questioni è quello di considerare le diverse parti dell’opera come scritti eterogenei di gran pregio messi insieme da un redattore piuttosto approssimativo. Si semplifica così il problema letterario e si sterilizza quello teologico. E’ la strada scelta dai più, ma non è la nostra: visto che la struttura narrativa e poetica del testo esige di essere valutata nella forma in cui ci è pervenuta e che un’ipotesi di lettura unitaria è suggerita dai rimandi che legano ad incastro fiaba e dialogo; visto, infine, che solo l’intervento di un quarto campione di Dio, l’Elihu dei cap.32-37, risulta sicuramente estraneo all’impianto originario e inserito in secondo momento da altra mano, con altro intento, approfittando del carattere aperto e problematico dell’opera.
Ora la prima indicazione, che ci viene dalla valorizzazione del legame tra cornice narrativa e dialogo, è la focalizzazione del testo sulla relazione uomo-Dio, assai più che sul problema del male. L’avventura inizia in cielo perché, mentre Giobbe vive in terra felice e rispettoso dei divini precetti, Satana, ispettore celeste delle umane cose, riesce a gettare l’ombra del dubbio sulle vere ragioni che lo spingono a tanto esercizio di virtù e di pietà. « Forse che Giobbe crede in Dio per nulla? »: sussurra a Dio (1, 9) e Dio deve metterlo alla prova, privandolo dei beni, dei figli e della salute. Alla fine, dopo il drammatico sviluppo dialogico, in cui il tema del male diventa il terreno di verifica del rapporto uomo-Dio, ecco la logica conclusione di questo tema e non di quello: Giobbe ha detto bene di Dio e non gli amici. E’ il suo sacrificio in loro favore e non il loro parlare a favore di Dio ad ottenere la restaurazione della felice condizione iniziale (42, 7-17). Solo Giobbe, infatti, ha saputo stare faccia a faccia con Dio dimostrando dignità, forza e sincerità; ma anche solo Dio è riuscito a reggere la sfida di Giobbe e a farsi accettare con un discorso altrettanto franco e spregiudicato.
Il problema del male è in tutto ciò il terreno di confronto e di scontro, ma non è il problema centrale, tant’è vero che viene discusso, rimescolato fin dalle fondamenta, ma non risolto e altrettanto si dica del problema della creazione che è qui insistentemente evocato.
Con grande acume lo coglie per noi G. Borgonovo: « Rispetto alla teologia profetica pre-esilica e a quella deuteronomistica della legge e della remunerazione il libro di Giobbe colloca il discorso su Dio nell’orizzonte della creazione, un orizzonte più ampio e fondativo. Per esso non si può spiegare la realtà del male partendo da un’etica dell’alleanza. Bisogna presupporre che il Dio dell’alleanza sia il Dio creatore, colui che ha posto in essere l’uomo e il mondo, in quanto realtà in divenire. Da questo punto di vista l’affermazione del II Isaia che da Jhwh, come unico Dio creatore e salvatore, vengono il bene e il male (Is 45, 7) e il contributo di Ezechiele sul principio della responsabilità individuale (Ez 18) rendono incandescente il problema della teodicea. Proprio dall’unione di tali dottrine poteva, infatti, sorgere l’intollerabile immagine di Dio messa in scena contro Giobbe negli interventi dei suoi amici » (La notte e il suo sole, Roma 1995, p. 338).
Il che ci consente di pensare che il libro di Giobbe, insieme al DeuteroIsaia, potrebbe essere una delle voci che hanno spinto i redattori del Pentateuco a valorizzare il tema creativo fino a farne l’apertura della Torah, anche se è evidentissimo che rispetto ai testi qui confluiti esso affronta questo tema con assoluta originalità e persino con spregiudicatezza.
La figura di Satana, ad esempio, che nella prima pagina del libro tenta Dio a proposito di Giobbe, evoca sottilmente ed ironicamente quella del serpente, che in Genesi 3 tenta Adamo ed Eva a proposito di Dio, e l’esito è lo stesso: il precipitare dell’uomo da una condizione edenica di felicità e benessere ad uno stato di prostrazione e dolore. Né le novità spregiudicate si fermano qui.
Negli interventi di Giobbe, infatti, la visione del creato si presenta coi caratteri di una potenzialità negativa sconosciuta ai testi genesiaci e nell’apologia finale del nostro eroe compare un’inaudita rivendicazione di pienezza e dignità umana superiore a quella di Adamo. E’ in tali discorsi che l’uomo manifesta con estrema chiarezza la coscienza dei propri limiti creaturali, il carico di infelicità che lo minaccia e il sospetto che all’origine di tutti i suoi mali non stiano tali limiti, né una sua colpa, ma l’onnipotenza cieca di un Dio potenzialmente sadico.

Giobbe, il riscatto di Adamo
E’ sufficiente ricordare alcune delle affermazioni più incisive del testo. Giobbe inizia con la maledizione del giorno della sua nascita, maledizione che ha sì accenti biografico-esistenziali, ripresi da Geremia (Ger 20, 14-18), ma che subito assume risonanze cosmiche, evocando luci che non risplendono, eclissi di sole, notti prive di computo lunare, incantesimi degni dell’Oceano e di Leviatan, stelle che si negano e aurore che non sorgono (3, 1-9). Non c’è da meravigliarsi se, invitato dagli amici ad affidarsi all’insindacabile giustizia onnipotente di Dio, egli replica che proprio questo lo atterrisce: il potere incontrollabile di un creatore despota che può fare tutto e il contrario di tutto. Può « dispiegare i cieli da solo e cavalcare il mare », ma può anche « impedire al sole di sorgere e tenere sotto sigillo le stelle ». Può condannare l’innocente e ridersela delle tragedie dell’indifeso (9, 1-24). Si interroghino pure le creature del cielo e della terra e in coro confesseranno che quando Lui « blocca le acque tutto inaridisce e quando le libera tutto inonda »; può « rendere potenti i popoli o esiliarli » e può mandare  » a tentoni gli uomini nel buio senza luce » (12, 1-25). E’ Dio, creatore e signore della storia, non l’uomo, la vera minaccia. Dio è in grado di fare ciò che vuole, l’uomo è invece debole, fragile, mortale, più effimero persino di un arbusto (14, 1-22).
Eppure, neanche ad un Dio così immaginato, Giobbe si sottrae o rifiuta la sua attenzione. Lo chiama in giudizio, lo invoca, chiede un mediatore per confrontarsi con Lui e infine si presenta come un Adamo, privo di colpe e pronto a non nasconderle. « Non ho come Adamo occultato il mio delitto, né ho celato nel mio petto la mia colpa…Datemi qualcuno che mi ascolti… Il mio rivale scriva la sua accusa. Io me la caricherei sulle spalle e me la cingerei come diadema. Gli renderei conto di tutti i miei passi e come un principe mi presenterei a Lui. »(31, 33-37; trad. Ravasi)..
Giobbe di più non può dire e non dice. Spetta, infatti, a Dio prendere la situazione in pugno. Naturalmente non Dio in persona, come talvolta sembrano ritenere i commentatori, ma Dio come lo mette in scena l’autore del libro, come lo pensa questo singolare contestatore della teologia del patto e della retribuzione. Bisogna ricordarselo per non esagerare il valore della teofania cosmogonica dei capitoli 38-41 e per ricordare che, come nei primi undici capitoli di Genesi, anche qui siamo nel racconto e nell’immagine mitica. Siamo alle prese con una nuova rivisitazione simbolica e teologica del problema della creazione e del rapporto in essa tra bene e male, tra uomo e Dio.

La trascendenza di Dio e l’alterità del creato
Ciò che soprende e lascia interdetti i commentatori è l’assoluta dissonanza tra le richieste di Giobbe e la duplice risposta di Dio. Il primo sollecita un confronto per chiarire la sua posizione e avere spiegazioni sulle cause dei suoi mali e il secondo gli squaderna con sovrabbondanza d’immagini la magnificenza della propria opera di creatore. Non solo, quasi lo sfida a misurarsi con Lui in questa impresa, che tutto comprende: la progettazione e la messa in opera degli astri e del controllo sui loro movimenti, la disciplina delle acque e di ogni altra potenza cosmica, la cura paziente di ben otto specie viventi, tutte selvagge e indomabili per l’uomo, e di due mostri mitici come Behemot e Leviatan, simbolo della violenza e del male. Tutto comprende, meno l’uomo.
Se ritenessimo, come è uso comune, che il libro di Giobbe è una riflessione sul problema del male, non potremmo che concludere che Dio evita la difficoltà, si rifugia nella sua inaccessibilità, schernisce e schiaccia l’uomo dall’alto della sua onnipotenza. Se pensiamo invece, come suggerisce la cornice fiabesca, che la questione in gioco è la relazione uomo-Dio, la loro diversità, ma anche il loro saper stare con dignità l’uno di fronte all’altro, ecco che questi discorsi divini sulla creazione acquistano diversa sonorità. Diventano un’inedita autopresentazione di Dio e della sua trascendente attenzione all’uomo, attraverso un’inedita presentazione dell’alterità della creazione dall’uomo.
In sostanza Dio fa presente a Giobbe, che protesta per la presenza del male nella sua vita, che proprio Lui ha messo in opera e mantiene in vita una molteplicità di esseri naturali, capaci di vivere in totale indipendenza dall’uomo, che Lui sa tenere a bada le stesse potenze del male, senza distruggerle. E così gli rivela che la sua trascendenza non esclude attenzione e cura per l’opera delle sue mani, non è a misura d’uomo, ma neanche insensata e capricciosa. Di fronte all’accusa di Giobbe di essere il despota di un mondo caotico e ingiusto e al tentativo dei suoi amici di costringerlo al ruolo ideologico di difensore dell’ordine costituito, di garante di una giustizia da bempensanti, Dio manifesta la propria diversità dall’uomo, ma anche la propria attenzione a lui e lo fa mettendo in scena una creazione non antropocentricamente ordinata, eppure non inospitale.
Il che è come dire che l’autore del libro di Giobbe segue e propone un modello creativo alternativo sia al racconto Jahvista che a quello Sacerdotale, in quanto rifiuta tanto l’idea del dominio dell’uomo sul mondo animale, quanto quella di una natura uscita perfettamente ordinata e buona dalle mani di Dio. Costitutiva è, infatti, in essa la presenza del mare e del deserto, coi suoi animali irriducibili ad ogni disciplina, ineliminabile quella di Behemot e Leviatan.
A ragione dunque R. Otto considera la teofania di Giobbe come l’espressione dell’ « assolutamente stupendo, del quasi demoniaco, dell’incomprensibile e indecifrabile mistero della creazione e del creatore » (Il Sacro, Milano 1966, p.87). Ma ancor più nel vero è O. Keel quando osserva che tale incomprensibilità non rende impossibile, ma facilita l’incontro dell’uomo con Dio, perché non carica pregiudizialmente né l’uno né l’altro della totale responsabilità del male, ma pone le basi per la loro collaborazione nella lotta contro la sua misteriosa e non invincibile presenza (Dieu répond à Job, Parigi 1988, pp. 129-130).
Ecco perché Giobbe può piegarsi al mistero trascendente di Dio senza perderci la faccia, perché può dire: « Ti conoscevo per sentiro dire, ora i miei occhi ti hanno veduto » (42, 5). Ed ecco perché Dio può, senza pericolo, ammettere che proprio Giobbe, il ribelle, ha parlato bene di lui e con fondamento (42, 8). Ecco infine perché G. Borgonovo può proporre, in luogo di « Per questo ritratto e mi pento sopra la polvere e la cenere » (42, 6), quest’altra traduzione, audace ma non filologicamente infondata: « Detesto polvere e cenere, ma ne sono consolato » (Op, cit., p.285).
L’uomo e Dio faccia a faccia, ambedue in piedi, l’uno immagine dell’alterità misteriosa dell’altro, a confronto in un mondo che contribuisce al dialogo con la sua specifica e problematica presenza. Giobbe nuovo Adamo e Dio nuovo sempre.

Aldo Bodrato

PORTE APERTE TRA IL TEMPIO E LA PIAZZA – O.R. Gianfranco Ravasi

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2011/013q04a1.html

PORTE APERTE TRA IL TEMPIO E LA PIAZZA – O.R. Gianfranco Ravasi

Pubblichiamo il testo della « lectio magistralis » che il cardinale presidente del Pontificio Consiglio della Cultura tiene il 17 gennaio a Roma presso la facoltà di Architettura dell’università La Sapienza.

di Gianfranco Ravasi

« Il mondo è come l’occhio: il mare è il bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme è la pupilla e l’immagine in essa riflessa è il tempio ». Questo antico aforisma rabbinico illustra in modo nitido e simbolico la funzione nel tempio secondo un’intuizione che è primordiale e universale. Due sono le idee che sottendono all’immagine. La prima è quella di « centro » cosmico che il luogo sacro deve rappresentare, un tema sul quale il grande studioso delle religioni Mircea Eliade (1907-1986) ha offerto un vasto dossier documentario. L’orizzonte esteriore, con la sua frammentazione e con le sue tensioni, converge e si placa in un’area che per la sua purezza deve incarnare il senso, il cuore, l’ordine dell’essere intero.
Nel tempio, dunque, si « con-centra » la molteplicità del reale che trova in esso pace e armonia: si pensi solo alla planimetria di certe città a radiali connesse al « sole » ideale rappresentato dalla cattedrale posta nel cardine centrale urbano (Milano, per esempio, « centrata » sul Duomo ne è un esempio evidente, come New York è la testimonianza di una diversa visione, più dispersa e babelica). Dal tempio, poi, si « de-centra » un respiro di vita, di santità, di illuminazione che trasfigura il quotidiano e la trama ordinaria dello spazio. Ed è a questo punto che entra in scena il secondo tema sotteso al detto giudaico sopra evocato.
Il tempio è l’immagine che la pupilla riflette e rivela. Esso è, quindi, segno di luce e di bellezza. Detto in altri termini, potremmo affermare che lo spazio sacro è epifania dell’armonia cosmica ed è teofania dello splendore divino. In questo senso un’architettura sacra che non sappia parlare correttamente – anzi, « splendidamente » – il linguaggio della luce e non sia portatrice di bellezza e di armonia decade automaticamente dalla sua funzione, diventa « profana » e « profanata ». È dall’incrocio dei due elementi, la centralità e la bellezza, che sboccia quello che Le Corbusier definiva in modo folgorante « lo spazio indicibile », lo spazio autenticamente santo e spirituale, sacro e mistico.
Certo, questi due assi portanti trascinano con sé tanti corollari: pensiamo alla « sordità », all’inospitalità, alla dispersione, all’opacità di tante chiese tirate su senza badare alla voce e al silenzio, alla liturgia e all’assemblea, alla visione e all’ascolto, all’ineffabilità e alla comunione. Chiese nelle quali ci si trova sperduti come in una sala per congressi, distratti come in un palazzetto dello sport, schiacciati come in uno sferisterio, abbrutiti come in una casa pretenziosa e volgare.
A questo punto vorremmo proporre una riflessione di indole più specifica che abbia come codice di riferimento proprio quelle Sacre Scritture bibliche che sono state indubbiamente « il grande codice » della stessa civiltà artistica occidentale. È indiscutibile il rilievo che in esse ha una « teologia » dello spazio, anche se – come si vedrà – essa è inverata in una teologia superiore, quella del tempo e della storia (l’Incarnazione riassume in sé queste due dimensioni ricollocandole nella loro gerarchia).
« Ai tuoi servi sono care le pietre di Sion » (Salmo, 102, 15). Questa professione d’amore dell’antico salmista potrebbe essere il motto stesso della tradizione cristiana che allo spazio sacro ha riservato sempre un rilievo straordinario, a partire dalla « pietra » del Santo Sepolcro, segno della risurrezione di Cristo, attorno alla quale è sorto uno dei templi emblematici dell’intera cristianità. Tra l’altro, è curioso che simbolicamente le tre religioni monoteistiche si ancorino a Gerusalemme attorno a tre pietre sacre, il Muro Occidentale (detto popolarmente « del Pianto »), segno del tempio salomonico per gli ebrei, la roccia dell’ascensione al cielo di Maometto nella moschea di Omar per l’islam e, appunto, la pietra ribaltata del Santo Sepolcro per il cristianesimo.
Certo è che, senza la spiritualità e la liturgia cristiana, la storia dell’architettura sarebbe stata ben più misera: pensiamo solo al nitore delle basiliche paleocristiane, alla raffinatezza di quelle bizantine, alla monumentalità del romanico, alla mistica del gotico, alla solarità delle chiese rinascimentali, alla sontuosità di quelle barocche, all’armonia degli edifici sacri settecenteschi, alla neoclassicità dell’Ottocento, per giungere alla sobria purezza di alcune realizzazioni contemporanee (un esempio per tutte: l’affascinante chiesa del citato Le Corbusier a Ronchamp).
C’è, dunque, nel cristianesimo una celebrazione costante dello spazio come sede aperta al divino, partendo proprio da quel tempio supremo che è il cosmo.
Un grande storico della teologia Marie-Dominique Chenu (1895-1990), al termine della sua vita si rammaricava di aver riservato troppo poco spazio alle arti sia letterarie sia figurative sia architettoniche nella sua storia del pensiero religioso, perché « esse non sono soltanto illustrazioni estetiche ma veri soggetti teologici ». Dall’anonimato in cui si relegavano i grandi costruttori di cattedrali basterebbe solo fare emergere, a titolo esemplificativo, un genio architettonico e artistico come l’abate Sugero di Saint-Denis (xiii secolo).
Detto questo c’è però nella concezione cristiana una componente molto pesante che – come si diceva – sposta il baricentro teologico dallo spazio al tempo. Ed è su questo aspetto che ora vorremmo fissare la nostra attenzione. Nell’ultima pagina neotestamentaria, quando Giovanni il Veggente si affaccia sulla planimetria della nuova Gerusalemme della perfezione e della pienezza, si trova di fronte a un dato a prima vista sconcertante: « Non vidi in essa alcun tempio perché il Signore Dio Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio » (Apocalisse, 21, 22). Tra Dio e uomo non è più necessaria nessuna mediazione spaziale; l’incontro è ormai tra persone, si incrocia la vita divina con quella umana in modo diretto. Da questa scoperta potremmo risalire a ritroso attraverso una sequenza di scene altrettanto inattese.
Immaginiamo di rincorrere questo filo rosso afferrandolo al capo estremo opposto. Davide decide di erigere un tempio nella capitale appena costituita, Gerusalemme, così da avere anche Dio come cittadino nel suo regno. Ma ecco la sorprendente risposta oracolare negativa emessa dal profeta Nathan: il re non costruirà nessuna « casa » a Dio ma sarà il Signore a dare una « casa » a Davide: « Te il Signore farà grande, poiché una casa farà a te il Signore » (ii Samuele, 7, 11). In ebraico si gioca sulla ambivalenza del termine bayit, « casa » e « casato ». Dio, quindi, allo spazio sacro di una casa-tempio preferisce la presenza in una casa-casato, ossia nella storia di un popolo, nella dinastia davidica che si colorerà di tonalità messianiche.
Certo, lo spazio non è dissacrato. Il figlio di Davide, Salomone, innalzerà un tempio che la Bibbia descrive con ammirata enfasi. Eppure quando egli sta pronunziando la sua preghiera di consacrazione, dovrà necessariamente interrogarsi così: « Ma è proprio vero che Dio può abitare sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito! » (1 Libro dei Re, 8, 27). Il tempio, allora, è solo l’ambito di un incontro personale e vitale (non per nulla si parla nella Bibbia di « tenda dell’incontro ») che vede Dio chinarsi « dal luogo della sua dimora, dal cielo » della sua trascendenza verso il popolo che accorre nel santuario di Sion con la realtà della sua storia sofferta della quale si elencano i vari drammi.
I profeti giungeranno al punto di minare le fondamenta religiose del tempio e del suo culto qualora esso si riduca a essere solo uno spazio magico-sacrale, dissociato dalla vita della piazza civica, ossia dall’impegno etico-esistenziale, e affidato solo a una presenza meramente e ipocritamente rituale.
Basti solo, tra i tanti passi profetici di analogo tenore, leggere questo paragrafo del profeta Amos (viii secolo prima dell’era cristiana): « Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni. Anche se voi mi offrite olocausti io non accetto i vostri doni. Le vittime grasse di pacificazione neppure le guardo. Lontano da me il frastuono dei vostri canti, il suono delle vostre arpe non riesco a sopportarlo! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne! » (5, 21-24).
Ma entriamo nel cristianesimo in modo diretto. Cristo, come ogni buon ebreo, ama il tempio gerosolimitano. Non esita a impugnare una sferza e a menare fendenti contro i mercanti che lo profanano con i loro commerci, ne frequenta le liturgie durante le varie solennità, come faranno anche i suoi discepoli che si riserveranno persino un loro spazio nell’area del cosiddetto « Portico di Salomone ». Eppure lo stesso Cristo in quel meriggio assolato al pozzo di Giacobbe, davanti al monte Garizim, luogo sacro della comunità dei samaritani, non teme di dire alla donna che sta attingendo acqua: « Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre… È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità » (Giovanni, 4, 21-24).
Ci sarà un’ulteriore svolta che insedierà la presenza divina nella stessa « carne » dell’umanità attraverso la persona di Cristo, come dichiara il celebre prologo del Vangelo di Giovanni: « Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi » (1, 14), con evidente rimando alla « tenda » del tempio di Sion. Tra l’altro, il verbo greco eskénosen, « pose la tenda » ricalca le radicali s-k-n del vocabolo ebraico con cui si definiva la « Presenza » divina nel tempio di Sion, Shekinah. Gesù sarà anche più esplicito: « Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere ».
E l’evangelista Giovanni annota: « Egli parlava del tempio del suo corpo » (2, 19-21). Paolo andrà oltre e, scrivendo ai cristiani di Corinto, affermerà: « Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi… Glorificate dunque Dio nel vostro corpo! » (i, 6, 19-20).
« Un tempio di pietre vive », quindi, come scriverà san Pietro, « impiegate per la costruzione di un edificio spirituale » (i, 2, 5) un santuario non estrinseco, materiale e spaziale, bensì esistenziale, un tempio nel tempo. Il tempio architettonico sarà, quindi, sempre necessario, ma dovrà avere in sé una funzione di simbolo: non sarà più un elemento sacrale intangibile e magico, ma solo il segno necessario di una presenza divina nella storia e nella vita dell’umanità. Il tempio, quindi, non esclude o esorcizza la piazza della vita civile ma ne feconda, trasfigura, purifica l’esistenza, attribuendole un senso ulteriore e trascendente. Per questo, una volta raggiunta la pienezza della comunione tra divino e umano, il tempio nella Gerusalemme celeste, la città della speranza, si dissolverà e « Dio sarà tutto in tutti » (1 Corinzi, 15, 28).
Terminiamo la nostra riflessione con tre testimonianze. La prima riassume i gradi del discorso finora fatto. È una cantilena ebraica cabbalistica medievale che ricorda i vari passaggi per trovare il luogo dove s’incontra veramente Dio. Ecco il ritornello in ebraico, ritornello assonante che si ripete a ogni strofa: hu’ hammaqôm shel- maqôm / we’en hammaqôm meqomô. Con un gioco di parole e un’intuizione folgorante si dice: « Egli, Dio, è il Luogo di ogni luogo, / eppure questo Luogo non ha luogo ».
La seconda testimonianza è legata alla figura di san Francesco ed è desunta dal capitolo 37 della Vita seconda di Tommaso da Celano, francescano abruzzese. Un frate dice a Francesco: « Non abbiamo più soldi per i poveri ». Francesco risponde: « Spoglia l’altare della Vergine e vendine gli arredi, se non potrai soddisfare diversamente le esigenze di chi ha bisogno ».
E subito dopo aggiunge: « Credimi, alla Vergine sarà più caro che sia osservato il vangelo di suo Figlio e nudo il proprio altare, piuttosto che vedere l’altare ornato e disprezzato il Figlio nel figlio dell’uomo ». Ci dobbiamo, dunque, soltanto spogliare del tempio e della sua bellezza? No, perché Francesco è convinto che Dio ci offrirà di nuovo il tempio, con tutti gli ornamenti: « Il Signore manderà chi possa restituire alla Madre quanto ci ha dato in prestito per la Chiesa ».
La terza e ultima considerazione ci è offerta dalla spiritualità ortodossa. Un noto teologo laico russo del Novecento vissuto a Parigi, Pavel Evdokimov, dichiarava che tra la piazza e il tempio non ci deve essere la porta sbarrata, ma una soglia aperta per cui le volute dell’incenso, i canti, le preghiere dei fedeli e il baluginare delle lampade si riflettano anche nella piazza dove risuonano il riso e la lacrima, e persino la bestemmia e il grido di disperazione dell’infelice. Infatti, il vento dello Spirito di Dio deve correre tra l’aula sacra e la piazza ove si svolge l’attività umana. Si ritrova, così, l’anima autentica e profonda dell’Incarnazione che intreccia in sé spazio e infinito, storia ed eterno, contingente e assoluto.

(L’Osservatore Romano 17-18 gennaio 2011)

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Creation of the creatures

Creation of the creatures dans immagini sacre creation_right_lg

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PREGHIERA E IMMAGINE DI DIO – Enzo Bianchi

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=124091

PREGHIERA E IMMAGINE DI DIO

Enzo Bianchi

L’uomo che prega si rivolge a Dio «che non si vede» (cfr. 1 Giovanni 4,20). E tuttavia nella preghiera è implicata necessariamente una certa immagine di Dio da parte dell’uomo… il rischio è quello di forgiarsi un Dio a propria immagine e somiglianza e rendere la preghiera un atto autogiustificatorio, autistico, rassicurante.

L’uomo che prega si rivolge a Dio «che non si vede» (cfr. 1 Giovanni 4,20). E tuttavia nella preghiera è implicata necessariamente una certa immagine di Dio da parte dell’uomo. È evidente allora come sia facile il rischio della menzogna e dell’idolatria: il rischio è quello di forgiarsi un Dio a propria immagine e somiglianza e rendere la preghiera un atto autogiustificatorio, autistico, rassicurante. L’esempio della preghiera del fariseo e del pubblicano al Tempio nella parabola lucana (Luca 18,9-14) è significativo. I due diversi atteggiamenti di preghiera esprimono due differenti immagini di Dio relative a due differenti immagini che i due uomini hanno di sé. In particolare, la preghiera del fariseo manifesta l’atteggiamento di chi «si sente a posto con Dio»; ai suoi occhi il suo Dio non può che confermare il suo agire, eppure la frase finale della narrazione sconfessa l’immagine di Dio che quest’uomo aveva: egli non tornò a casa sua giustificato! Mentre il pubblicano si espone radicalmente all’alterità di Dio entrando così nel rapporto giusto con Dio, il fariseo sovrappone il suo «ego» all’immagine di Dio: nella sua preghiera c’è (con)fusione tra il suo «io» e «Dio». Rischio, questo, molto frequente presso gli uomini religiosi!
Ora, il primato dell’ascolto nella preghiera cristiana indica che essa è lo spazio in cui le immagini di Dio che noi forgiamo vengono spezzate, purificate, convertite. La preghiera, infatti, è ricerca di un incontro fra due libertà, quella dell’uomo e quella di Dio. In questa ricerca la distanza fra immagine di Dio forgiata dall’uomo e alterità rivelata di Dio diviene lo scarto fra la domanda e l’esaudimento, fra l’attesa e la realizzazione. Ecco perché al cuore della preghiera cristiana c’è l’invocazione: «Sia fatta la tua volontà» (Matteo 6,10). Nello scarto fra volontà dell’uomo e volontà di Dio la preghiera agisce come spazio di conversione e accettazione della volontà di Dio. È lo scarto, ed è la preghiera, che ha vissuto Gesù stesso al Getsemani: «Abba, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice! Però non ciò che io voglio, ma ciò che tu vuoi» (Marco 14,36). È lo scarto, ed è la preghiera, che Paolo ha vissuto con particolare drammaticità: «Perché non montassi in superbia per la grandezza delle rivelazioni, mi è stata messa una spina nella carne, un inviato di Satana incaricato di schiaffeggiarmi, perché io non vada in superbia. A causa di questo per ben tre volte ho pregato il Signore che l’allontanasse da me. Ed egli mi ha detto: “Ti basta la mia grazia; la mia potenza, infatti, si manifesta pienamente nella debolezza”» (2 Corinti 12,7-9). Paolo accetta la contraddizione portata alla sua richiesta che non viene esaudita e così la sua preghiera lo porta a riflettere esistenzialmente l’immagine del Dio che non l’esaudisce, ma che gli resta accanto nella sua debolezza. Paolo deve accettare la modificazione della sua, pur corretta e rispettosa, immagine di Dio. Così la sua vita si conforma sempre più all’immagine rivelata di Dio: quella del Cristo crocifisso.
La preghiera cristiana conforma l’orante all’immagine del Cristo crocifisso. E il Crocifisso nel suo grido sulla croce ha accettato l’assenza assoluta di immagini di Dio. Il grido: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?» (Marco 15,34) denuncia la distanza fra l’immagine conosciuta del volto di Dio e la realtà presente. E dopo il grido dell’abbandono, secondo Marco, c’è solo un urlo inarticolato: «Gesù, dando un forte grido, spirò» (Marco 15,37). Non c’è più parola, non c’è più immagine; non c’è più teo-logia, non c’è più parola su Dio; non c’è più rappresentazione di Dio. Dunque, non c’è più riduzione di Dio a idolo! Il silenzio e il buio delle tre ore dall’ora sesta all’ora nona sono il sigillo di questo indicibile e invisibile di Dio che salvaguarda il suo mistero e la sua alterità.
Ma proprio quel radicale annichilimento di immagini di Dio (chi mai ha raffigurato Dio in un condannato a morte?) e di parole su Dio (il Dio crocifisso non spezza forse ogni 16 gos?) è l’abolizione radicale dell’idolatria, della riduzione di Dio a immagine dell’uomo. La presenza di Dio, l’immagine di Dio ormai va vista lì, nel Cristo crocifisso: «Egli è l’immagine del Dio invisibile» (Colossesi 1,15). Sì, il Cristo crocifisso annichilisce Dio come immagine dell’uomo e ci presenta un uomo come immagine (eikon) di Dio. Il Cristo crocifisso è l’immagine di Dio che spezza le nostre immagini di Dio. Il Crocifisso è anche l’immagine di fronte alla quale noi preghiamo, ma che deve spezzare le immagini che, volenti o nolenti, proiettiamo su Dio. L’immagine di Dio manifestata dal Cristo crocifisso smentisce l’immagine di Dio «professata» dal fariseo al Tempio, immagine connessa a una certa considerazione di sé supportata da un’immagine – spregiativa – degli altri. La preghiera è dunque composizione attorno al Cristo crocifisso delle immagini di sé, degli altri e di Dio. L’immagine di Dio che è il Cristo crocifisso custodisce Paolo dalla tentazione dell’orgoglio, del «super-io» (il «montare in superbia», hyper-airomai, 2 Corinti 12,7, convertito nel porre il proprio vanto nelle sofferenze patite «per Cristo», hypèr Christou, 2 Corinti 12,10) e lo conduce, grazie alla preghiera, a parteciparla nella sua vita: «lo porto le stigmate di Gesù nel mio corpo» (Galati 6,17; cfr. Colossesi 1,24). Così la preghiera, conformando al Cristo crocifisso, diviene anche promessa di resurrezione, spazio di trasfigurazione nell’immagine gloriosa del Signore (cfr. 2 Corinti 3,18).

Publié dans:Enzo Bianchi, preghiera (sulla) |on 14 mai, 2014 |Pas de commentaires »

IL DOLORE, LO SPAZIO TRA LUI E NOI…LO SQUARCIO DOVE ENTRA DIO

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IL DOLORE, LO SPAZIO TRA LUI E NOI

IL DOLORE, LO SQUARCIO DOVE ENTRA DIO

LA PREGHIERA NELLA SOFFERENZA: FAR BATTERE IL CUORE AL RITMO DEL SUO

Il dolore è lo squarcio dell’Io dove entra Dio. Così dicevano già anticamente i mistici. Dio lo sa che l’uomo sofferente ha bisogno di consolazione e per questo gli si avvicina. Lo fa sempre, come ci ricorda anche il Santo Padre: “Dio non ha occhi altezzosi e consola i sofferenti ». (Benedetto XVI, catechesi del 18 maggio 2005).
Il dolore è lo squarcio dell’Io dove entra Dio. Egli vi entra da solo, ma ha talora bisogno che ci sia un uomo consolatore ad aprirGli la porta, con l’altro. E il Dio Consolatore è già lì, per entrambi.
Questa prosecuzione della frase è per noi l’inizio di riflessioni che faremo insieme, insieme con i sofferenti e con coloro che li assistono, partendo da una considerazione: Dio ci vuole sani, e Dio ci consola se malati. Dio ci offre la medicina e la scienza, per curarci; ci offre gli operatori ed i famigliari, per curarci ed assisterci; ci offre gli operatori spirituali, per curarci e consolarci; a tutti offre la preghiera, come medicina, cura, assistenza, consolazione. Lui solo ci offre la guarigione, attraverso le opere che ha Creato e le altre creature.
«Amerai il Signore Dio tuo con tutto il cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente» (Mt 22,37), «Ama il prossimo tuo come te stesso» (Mt 19,19): ancora di più capiremo quanto abbiamo bisogno di questo amare ed essere amati vicendevolmente, soprattutto nella sofferenza.
La preghiera fatta dal profondo diviene una mirabile porta che lascia entrare in noi il Respiro di Dio: il Suo alito di vita che porta la salute e la salvezza; un alito incessante, interminabile, eternamente vivificante. La nostra preghiera si sforzi di imitarne queste caratteristiche sovratemporali, e per questo sia un pregare incessante, incessante come il respirare di chi è vivo; una preghiera che si fonda sul Suo ritmico pulsare e che si ritroverà presto, se vissuta nel totale abbandono, scandita dal ritmo dell’amore e della calma che sono i segni della Sua presenza. Miriamo a pregare incessantemente come vorremmo respirare senza fine, sperimentando nel nostro quotidiano quella forma di preghiera incessante, chiamata anche Preghiera del Cuore.
Ecco il mandato di queste pagine: sottolineare ed apprendere il ruolo della preghiera, nella sofferenza. La preghiera è il luogo dove malati e operatori, sofferenti e loro aiutanti, possono trovare una più piena alleanza terapeutica, una totale alleanza.
“Da dove viene la preghiera dell’uomo? Qualunque sia il linguaggio della preghiera (gesti e parole), è tutto l’uomo che prega. Ma, per indicare il luogo dal quale sgorga la preghiera, le Scritture parlano talvolta dell’anima o dello spirito, più spesso del cuore (più di mille volte). È il cuore che prega. Se esso è lontano da Dio, l’espressione dlla preghiera è vana.
Il cuore è la dimora dove sto, dove abito (secondo l’espressione semitica o biblica: dove « discendo »). È il nostro centro nascosto, irraggiungibile dalla nostra ragione e dagli altri; solo lo Spirito di Dio può scrutarlo e conoscerlo. È il luogo della decisione, che sta nel più profondo delle nostre facoltà psichiche. È il luogo della verità, là dove scegliamo la vita o la morte. È il luogo dell’incontro, poiché, ad immagine di Dio, viviamo in relazione: è il luogo dell’alleanza.”
(Catechismo della Chiesa Cattolica, 2562-2563)

Come si fa la Preghiera del Cuore?
Scrive Edith Stein: “Il cammino della preghiera parte da ciò che è più prossimo a noi, da ciò che possiamo esprimere nella preghiera vocale; tocca poi la sfera del pensiero con la formula incessantemente ripetuta e di lì può espandersi in una preghiera più intima, la preghiera del cuore. Quest’accesso al “nucleo” dell’anima, dunque al centro vero della persona, permette d’intuire ciò che ognuno è nel profondo di sé, ma anche di ricevere ciò cui ognuno è chiamato” (E. Stein, Il discernimento, San Paolo ed.)*******
In occasione della Giornata del Malato 2012 in due ci siamo recati all’Ospedale dei Bambini per portare il conforto di Cristo. Dopo la partecipazione alla S.Messa il Cappellano ci ha chiesto (essendo uno di noi Ministro Straordinario) di passare tra i reparti a distribuire la S. Comunione a chi la richiedesse, anche dove eravamo Operatori.
Abbiamo incontrato una famiglia la cui figlia era ricoverata con una malattia polmonare grave ed in quel momento in una situazione clinica severa. La febbre persistente non rispondeva più alla terapia antibiotica. Si pensava di metterla in lista per il trapianto bipolmonare. La mamma e la figlia erano veramente disperate e le lacrime accompagnavano le loro giornate. Abbiamo parlato con la mamma, il papa’ e lei e abbiamo a tutti e tre dato Gesù Eucarestia. Li abbiamo invitati alla Preghiera con il gruppo ogni giorno rassicurandoli che, come gruppo, li avremmo messi « in cura » con la Preghiera Incessante.

Poi la paziente e’ stata dimessa.
A distanza di circa dieci mesi rivedo la paziente in corsia, per un ricovero di routine.
Sta abbastanza bene; le porto i saluti e l’abbraccio di chi con me aveva fatto il giro nel reparto, quel giorno.
La mamma, che trovo molto più serena e con una disponibilità’ collaborativa migliorata nei confronti dell’equipe di cura, dice: « Adesso posso dirglielo, cara dottoressa: abbiamo capito che lei si occupa della cura totale dell’uomo. Quel giorno eravamo veramente disperati. Non riuscivamo più a pregare, mia figlia era convinta che era inutile e che Gesu’ non poteva ricordarsi tra tanti proprio di lei, lei che non aveva niente di speciale… Ma siete arrivati voi. Siamo rimasti particolarmente colpiti. Gesù ci aveva ascoltato era venuto da noi e Lo avevamo sentito vicino. Da quel momento non abbiamo mai abbandonato la preghiera. Abbiamo cominciato con voi, come promesso, la Preghiera Incessante ».
Pensando a quanto successo viene subito alla mente il brano del vangelo di Matteo:
Andando via di là, Gesù vide un uomo, seduto al banco delle imposte, chiamato Matteo, e gli disse: “Seguimi”. Ed egli si alzò e lo seguì. Mentre Gesù sedeva a mensa in casa, sopraggiunsero molti pubblicani e peccatori e si misero a tavola con lui e con i discepoli. Vedendo ciò, i farisei dicevano ai suoi discepoli: “Perché il vostro maestro mangia insieme ai pubblicani e ai peccatori?”. Gesù li udì e disse: “Non sono i sani che hanno bisogno del medico, ma i malati. Andate dunque e imparate che cosa significhi: Misericordia io voglio e non sacrificio. Infatti non sono venuto a chiamare i giusti, ma i peccatori”. (Mt 9, 9-13)
Abbiamo parlato del valore della Preghiera del Cuore, o Preghiera di Gesù. Come farla? Possiamo prendere una parola – il nome di Gesù, per esempio, o nello specifico dicendo: Gesù, Medico di tutto me stesso – e riporla nel cuore. La pronunciamo silenziosamente, col cuore, ripetendola molto lentamente.
Più che dire Gesù, o Gesù Medico di tutto me stesso, lasciamo che sia la parola stessa a pronunciarsi da sola più e più volte nel cuore. Ci concentriamo sul Suo nome, ripetendolo silenziosamente e lentamente. Concentrandoci sul Suo nome, ci concentriamo su di Lui; Gli permettiamo di portarci all’unione con Lui.
La Preghiera del Cuore, o di Gesù, non dipende affatto dai pensieri o dall’intelletto. E’ una preghiera contemplativa, una preghiera silenziosa e non concettuale. L’unico contenuto è il Santo Nome. Quando la parola è Gesù, allora il contenuto della preghiera è Gesù stesso e l’unione d’amore con Lui. Essa aiuta ad entrare più profondamente in un’unione di amore con Lui, e ad evitare le distrazioni. Possiamo usare questa preghiera per tutta la durata del colloquio con Lui, oppure possiamo usarla per iniziare a «confidare nel Signore», e poi possiamo combinarla con il Rosario, o con le Sacre Scritture, o altro. Quando nella preghiera rimettiamo qualcosa nelle mani del Signore, sotto la sua autorità e la sua cura amorosa, allora questa entra a far parte maggiormente della nostra relazione personale con Lui. Più lo facciamo e più la vita – attraverso la preghiera – diverrà unificata, incentrata su Gesù, cooperando davvero col disegno di Gesù su di noi. Certi che Maria non ci lascerà mai nemmeno per un solo istante in questo colloquio con Suo Figlio, e ci farà capire a cosa dire ancora il nostro SI’.
«Signore Gesù, insegnami a pregare.
Concedimi il dono di una fede più grande.
Aiutami a pregare con semplicità, come un bambino, senza tante idee e parole.
Aiutami a restare fedele al mio tempo con te ogni giorno. Amen».
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F. ha 39 anni. Ha una malattia con grave insufficienza respiratoria. E’ in ospedale per uno dei ricoveri lunghi. Conosce il nostro gruppo di operatori e di preghiera, e sa che spesso abbiamo pregato anche per lui. L’ultima volta che siamo stati a Loreto, in ritiro con il gruppo, lui era ricoverato, ma sapeva che l’avremmo portato con noi in Santa Casa. Oggi è domenica e due di noi sono in Cappella in ospedale a partecipare alla celebrazione della S. Messa. Subito dopo inizia il giro tra i malati per portare Gesù Eucarestia. Arriviamo anche nella stanza di F. Ci aspetta, ci attendeva e (ora) ci sorride. Si alza dal letto nonostante la sua grande difficoltà a compiere anche piccoli movimenti. Anche la sua mamma è presente. Il clima è quello di chi attende amici, (ed ora li incontra.) Parliamo un poco e poi preghiamo con lui e leggiamo il brano del vangelo dal nostro foglietto: « Apostolato della Parola che guarisce e consola ». Recitiamo il Padre Nostro tenendoci uniti per mano ed infine salutiamo la Vergine con la Preghiera dell’Angelus. Poi F. vuole Gesù… Ci ringrazia ed il suo Volto alla fine esprime una Gioia mai vista in lui in questi giorni di ricovero. Siamo certi, e glielo ripetiamo, che noi siamo parte dell’equipe di Gesù, il Medico Divino: « Lui sa -gli diciamo- dei nostri bisogni fisici… ma -completa questa volta F. la frase- sa anche di quelli spirituali ».
Una caratteristica del tempo che l’uomo è chiamato a vivere, nella salute come nella sofferenza, è “l’attesa”. Nella Bibbia incontriamo spesso chi attende: -Abramo attendeva il compimento delle promesse di Dio. (Gn 17,1-2) -Giovanni Battista attende Colui che deve venire dopo di lui. (Mc 1,7); -Il popolo attende Zaccaria. (Lc 1,21); -Maria attende la nascita del Figlio di Dio. (Lc 1,31); -Giuseppe attende il compimento della parola del Signore. (Mt 2,14); -Simeone attende di vedere Gesù. (Lc 2, 25);
E oggi: i malati attendono la guarigione; i peccatori attendono il perdono e la salvezza; noi attendiamo il Signore: “L’anima nostra attende il Signore egli è nostro aiuto e nostro scudo”(Sal 33,20); “T’invoco e sto in attesa” (Sal 5)
Tutti attendono; Dio stesso per primo aspetta l’uomo: “Il Signore Dio chiamò l’uomo e gli disse: Dove sei?”, (Gn 3,9). Ma spesso la creatura si allontana dal Creatore ed inizia l’attesa di Dio: attende il nostro ritorno a Lui. E’ un Dio che desidera camminare con l’uomo e per questo è disposto ad aspettarci: chiede di “entrare” nella nostra vita. “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui cenerò ed egli con me”, (Ap 3,20).
“Sto alla porta e busso”. Dio bussa perché vuole entrare nella casa della persona amata, e la casa ci dice l’intimità alla quale Dio chiama ad un incontro personale ogni uomo. Maria era in casa quando l’angelo andò da lei: “ Entrando da lei le disse…” (Lc 2,28). E’ in casa di Simone che Gesù viene unto con olio profumato. (Mt 26,6). A Zaccheo fu chiesto di scendere dall’albero e di accogliere in casa Gesù. (Lc 19,2) Gesù desidera mangiare la Pasqua con i suoi in casa. (Mc 14,14).
La casa è il cuore, è il centro. Dio non incontra l’uomo in periferia, perché per Dio non ci sono periferie: dove Lui è quello è il centro. Benedetto XVI a Loreto ha detto: “Non c’è periferia, perché dove c’è Cristo, lì c’è tutto il centro”. Dio incontra l’uomo nel centro della sua esistenza e della sua sofferenza. Aprire la porta del nostro cuore è desiderare di incontrare colui che sta bussando: è il momento in cui il desiderio di Dio e il desiderio dell’uomo si incontrano. Dio che ci ama e vuole integralmente sani, noi che desideriamo almeno una guarigione del male che abbiamo. S. Agostino diceva che il cuore dell’uomo è inquieto finché non riposa in Dio: fino a quando tiene chiusa la porta di “casa », e questo luogo di incontro con Dio oltre ad essere il nostro cuore, è ciò che dal cuore parte, è la PREGHIERA.
“Tu invece, quando preghi, entra nella tua camera e, chiusa la porta, prega il Padre tuo nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà” (Mt 6,6): nella preghiera Egli davvero condivide con noi tutto il suo essere. Siamo chiamati a pregare incessantemente, senza mai stancarci (Lc 18,1), proprio per questo: perché così Lui ci dona la sua Parola e la sua grazia, perché così il desiderio di Dio e dell’uomo si incontrano, fondendosi: “non sono più io che vivo ma Cristo vive in me”. Ecco il desiderio di Dio che in Gesù cerca l’uomo, lo cerca ovunque e lo raggiunge là dove egli si trova, nella sofferenza come nella salute. Allora si fa commensale e compagno di viaggio, non esclude nessuno e questo fa rinascere la speranza. A volte è chi prega per il malato che fa il gesto di aprire a Lui la porta al suo posto, sapendo che Chi bussa è Dio. La salvezza e la guarigione totale dell’uomo nascono proprio dal “bussare” di Dio alla porta della nostra umanità ammalata, e la nostra salvezza e la nostra salute sono il venire di Dio.
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Bianca, donna di fede viva ed impegnata nel sociale, dopo una vita di lavoro e famiglia si ritrova sola: il marito muore dopo una complicata e affaticante malattia, e il figlio si sposa. All’inizio lei è serena, il volontariato e Dio sono la sua vita, ma dopo due anni comincia a tralasciare la cura di sé e, prega Dio anche se non Lo sente più come prima.
Lei prega perché “è giusto farlo” ma non Lo sente: resta solo presente al colloquio che Dio, fedele, ha con lei.
Seppure depressa rifiuta i farmaci e dice: « Ho paura che i farmaci mi tolgano la sensazione che Gesù e Maria ci sono; non voglio perderli anche se non li sento ».
Bianca fa una richiesta di aiuto ma per qualche tempo nulla cambia; in fondo per quale motivo dovrebbe cambiare, per fare cosa e andare dove? Ormai è sola e non sente più il suo Gesù… Abbiamo provato ad aiutarla, e sul piano spirituale per lei importante l’abbiamo invitata a immaginare Maria quando aveva « perso Gesù » nel Tempio e a immaginarsi di andare con Maria a cercarLo, per consolarla e confortarla; Bianca all’inizio non riesce ma vuole, e “per poter aiutare Maria che così tanto amo… », accetta una terapia farmacologica, continuando anche la preghiera in unione col gruppo. Una terapia e una preghiera ora « motivate”.
Ecco la novità per Bianca: una riscoperta motivazione…
L’assenza di una motivazione di vita le aveva fatto perdere fiducia, ma grazie ad una ri-motivazione ha recuperato la fiducia e riscoperto la fedeltà.
Dopo tre mesi la serenità torna sul suo volto specchio della sua anima ed anche nel suo fisico, e la sua preghiera diventa partecipazione e fedeltà reciproca: di Bianca a Dio, nella certezza di quella di Dio verso di lei, Sua figlia.
San Giovanni Crisostomo, vescovo, scrive: « La preghiera, o dialogo con Dio, e` un bene sommo. E`, infatti, una comunione intima con Dio. Come gli occhi del corpo vedendo la luce ne sono rischiarati, cosi` anche l’anima che e` tesa verso Dio viene illuminata dalla luce ineffabile della preghiera. Deve essere, pero`, una preghiera non fatta per abitudine, ma che proceda dal cuore. Non deve essere circoscritta a determinati tempi od ore, ma fiorire continuamente, notte e giorno… » (Omelia 6 sulla preghiera)
La storia di Bianca ci rimanda al racconto dell’evangelista Luca:
C’era anche una profetessa, Anna, figlia di Fanuèle, della tribù di Aser. Era molto avanzata in età, aveva vissuto col marito sette anni dal tempo in cui era ragazza, era poi rimasta vedova e ora aveva ottantaquattro anni. Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere. Sopraggiunta in quel momento, si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino a quanti aspettavano la redenzione di Gerusalemme. (Lc 2,36-38)
Sottolineiamo un lato del carattere di Anna: “Non si allontanava mai dal tempio, servendo Dio notte e giorno con digiuni e preghiere”. Anna è donna della fedeltà, e la fedeltà è uno dei principali tratti del carattere di Dio (cfr. Dt 7,9; Sal 146,6; Sap 15,1; 1Ts 5,4; Eb 10,23; 1Gv 1,9).
In questo clima di concretezza e piena fiducia il Signore ascolta la preghiera di Anna e la conduce al tempio al momento giusto, all’arrivo di Gesù Cristo con Maria e Giuseppe, e così “si mise anche lei a lodare Dio e parlava del bambino”.
Luca dice che “non si allontanava mai dal tempio”: Anna si impegna con costanza ad invocare Dio affinché abbia misericordia dei sofferenti che lei incontra e per i quali prega; Anna ha fiducia nella fedeltà di Dio, e attua quello che poi dirà l’apostolo Giacomo, “pregate gli uni per gli altri, affinché siate guariti; molto può la preghiera del giusto, fatta con efficacia” (Gc 5,16).
Nel Nuovo Testamento leggiamo che la guarigione dei malati avviene quando Gesù li incontra e tocca, riconosce la loro fede e chiede al Padre la loro salute e salvezza. Ma i malati devono prima “mettere a nudo” davanti a Cristo la loro situazione e avere piena fiducia e fedeltà, affinché la Sua forza sanante possa scorrere sulle loro ferite e le possa trasformare.
La preghiera del cuore, o preghiera incessante, è una preghiera di fedeltà e fiducia di chi vuole sentire la costante presenza guaritrice di Gesù. E’ questa fedeltà che poco a poco aiuta a fare pace con se stessi, con la vita e i traumi presenti, ed anche con Dio e gli altri. Fare pace con Dio e gli altri è poi l’avvio di un’amicizia e lì, dove si è in due o più, Cristo è sempre presente. (Mt 18,20).
Dio che è fedele risponde all’impegno di fedeltà dei Suoi figli (cfr. 2Tm 2,11-13; 1Cor 1,8-9), soprattutto quando come Maria temono di avere perso Gesù.
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“Bruna, 68 anni, vedova da circa tre, arriva al servizio ambulatoriale a seguito di un intervento per tumore all’intestino, per un problema che le limita molto la vita in famiglia e nel sociale. Al primo incontro la accolgo, ci sediamo e iniziamo la nostra conversazione, per la conoscenza e la raccolta dell’anamnesi. Ben presto emerge che oltre al problema oggettivo ci sono anche seri motivi di tristezza o depressione: è rassegnata ed ha anche poca fiducia nella riuscita del trattamento fisioterapico. Dopo il primo incontro, in rispetto all’apostolato che ci chiama ad essere Operatori e Oranti allo stesso tempo con i pazienti in cura, la affido a Gesù Medico, e lo faccio pregando in sua presenza dopo il trattamento, mentre tengo le sue mani tra le mie. Rimane molto sorpresa e resta in silenzio, ma alla fine mi ringrazia senza fare alcun commento. Nelle successive sedute, sempre a fianco del trattamento per cui è in cura, continuo anche l’affidamento a Maria, confidando in Gesù la possibilità di guarigione. Preciso: sono solo io Operatore che prego; lei, Bruna, ascolta serenamente, ma sembra proprio che aspetti sempre più “i trattamenti”. Poco a poco inizia ad aprirsi con “racconti » più personali che mi fanno capire come stia acquistando fiducia nei miei confronti. Il trattamento inizia a portare risultati positivi anche se non eccezionali, e Bruna inizia a vivere ed affrontare diversamente il suo problema, al punto che finalmente si sente di riaprirsi anche alla vita sociale: riprende ad incontrare le amiche e mette in pratica da sola i piccoli esercizi che abbiamo sperimentato insieme. Il problema sanitario non è più un totale impedimento. Non ha mai pregato con me ma, un giorno, mi confida che ha “rimesso piede in chiesa dopo mesi che non ci andava”, si è accostata al Sacramento della Riconciliazione e di nuovo sente Gesù vicino a lei”.
(dal racconto della fisioterapista)
Una sintesi della storia clinica trascritta potrebbe essere questa: “E la preghiera fatta con fede salverà il malato” (Gc 5,15).
Nei Vangeli troviamo un esempio di preghiera di intercessione nell’evento della guarigione del servo del centurione (Mt 8,5-13):
Entrato in Cafarnao, gli venne incontro un centurione che lo scongiurava: “Signore, il mio servo giace in casa paralizzato e soffre terribilmente”. Gesù gli rispose: “Io verrò e lo curerò”. Ma il centurione riprese: “Signore, io non sono degno che tu entri sotto il mio tetto, dì soltanto una parola e il mio servo sarà guarito” … All’udire ciò, Gesù ne fu ammirato e disse a quelli che lo seguivano: “In verità vi dico, presso nessuno in Israele ho trovato una fede così grande” … E Gesù disse al centurione: “Va’, e sia fatto secondo la tua fede”. In quell’istante il servo guarì.
Quest’uomo il centurione, è un uomo che chiede intercessione in un modo nobile, semplice e possibile. Siamo di fronte ad un bisogno umano, una malattia; un affetto, quello del centurione per il suo servo. A volte ci troviamo noi operatori nella situazione del centurione.
Nella preghiera di intercessione Gesù ci mostra la sua volontà di agire sempre a seguito della fede di chi prega Lui. Egli si incammina con noi. Possiamo evidenziare alcuni elementi utili per vivere in pienezza la preghiera di intercessione, che è un puro gesto d’amore disinteressato.
“Intercedere, chiedere in favore di un altro, dopo Abramo, è la prerogativa di un cuore in sintonia con la misericordia di Dio. Nel tempo della Chiesa, l’intercessione cristiana partecipa a quella di Cristo: è espressione della comunione dei santi. Nell’intercessione, colui che prega non cerca solo « il proprio interesse, ma anche quello degli altri » (Fil 2,4)” (C.C.C. 2635)
La compassione verso il sofferente potrebbe essere il primo degli atteggiamenti necessari per fare questa preghiera; un cuore innamorato di Gesù, attento e che sappia ascoltare senza giudizi è un secondo; e poi che l’intercessione sia gioiosa un terzo. Ma come è possibile, potremmo obiettare, avere un cuore gioioso se siamo in presenza (anche solo spirituale) di un sofferente? Forse il dubbio si risolve grazie ad un pensiero: con questa preghiera attuiamo un “colloquio” tra noi e il Signore in merito a qualcun altro, per potere fare dono a quel qualcun altro della certezza dell’azione sempre sanante di Cristo, e della consolazione sempre presente di Maria Sua Madre. Cioè: chi fa la preghiera di intercessione ha la certezza della presenza dello Spirito del Signore nel cuore di un’altra persona, e affidando la persona direttamente al Signore che la salverà secondo il Suo Progetto di vita, chi prega può farlo con gioia in quanto sa che Gesù sta già portando a quella persona una nuova vita. Ciò non significa che per pregare per gli altri dobbiamo aspettare di avere noi oranti l’umore gioioso, anzi possiamo anche pregare nel mezzo del nostro dolore, ma restando tuttavia attenti autenticamente all’altro e con l’intenzione profonda per lui: capita così che quando noi preghiamo per qualcun altro il Signore sta guarendo anche noi.
Pregare per qualcun altro vuol dire avere una certezza nel profondo del cuore, una certezza che toglie dubbi alla mente, una certezza che calma le membra e tutta l’anima piena di una certezza:
“Non ricordate più le cose passate, non pensate più alle cose antiche! Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?” (Is 43)
Allora si diceva tra le genti: «Il Signore ha fatto grandi cose per loro». Grandi cose ha fatto il Signore per noi: eravamo pieni di gioia. (Salmo 125)
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Sergio ha 58 anni, viene colpito da ischemia cerebrale con conseguente emiparesi. Inizia un trattamento riabilitativo neuromotorio senza alcuna motivazione, ed anzi con grande chiusura verso tutti gli altri. Anche la relazione con la fisioterapista è difficile. A causa di questa situazione depressiva e apatica si ricercano strategie motorie che possano anche rimotivarlo, avendo durante i colloqui scoperto le sue passioni: i cavalli e l’uliveto. I progressi sono difficili. In più c’è un limite ad ogni tentativo: il senso di colpa per il passato, ed il vissuto di giusta punizione che Dio gli ha inflitto attraverso la malattia. Anche quando vede minimi progressi quasi li rifiuta: non si concede di essere amato da Dio, perché si giudica e non ama come persona. Il terapista, in un’ottica di ministero della consolazione e della preghiera di intercessione, inizia a vivere questo carisma affiancato al trattamento sanitario, con l’intento di aiutare Sergio a sostituire l’idea di un Dio punitivo a quella di Dio Misericordioso. Poco alla volta Sergio si lascia attrarre e rivive con gioia questo “nuovo Dio” in Cristo Medico, e la collaterale ripresa delle condizioni psico-fisiche favorisce una riapertura alla vita. Finisce il trattamento. In occasione delle festività natalizie torna in Ospedale per salutare e ringraziare i terapisti e, come segno di fiducia e condivisione porta a loro un dono ed un piccolo sacco: una corda destinata ad un uso estremo, qualora la salute non fosse più tornata…
Vi sono alcuni nodi cruciali che hanno attraversato l’atteggiamento cristiano nei confronti della malattia: l’immagine di un Dio perverso e punitore dei peccati, con la malattia e la sofferenza. Se è vero che molte parole che la spiritualità ha speso sulla malattia per spiegarla o farla accettare vanno comprese storicamente, è anche vero però che queste parole, questi pensieri vanno sempre giudicati sul Vangelo. Allora proviamo a leggere le parole su Gesù Buon Pastore: “…ma voi non credete, perché non siete delle mie pecore. Le mie pecore ascoltano la mia voce e io le conosco ed esse mi seguono; e io do loro la vita eterna e non periranno mai e nessuno le rapirà dalla mia mano. Il Padre mio che me le ha date è più grande di tutti; e nessuno può rapirle dalla mano del Padre. Io e il Padre siamo uno”. (Giovanni 10, 26-30). …ecco: esprimono forse l’idea di un padre punitivo o vendicativo?
A volte, invece, chi soffre può anche pensare che la malattia sia la conseguenza di colpe morali o spirituali; non possiamo negare che alcune volte certe malattie siano la conseguenze di qualche scelta volontaria o involontaria dell’uomo, ma perché attribuirle genericamente a Dio?
Sono solenni le parole dell’Arcivescovo Manning di New York: “La nostra fede è in Uno che non cambia nel tempo, Uno il cui amore e potere sono ancora in grado di assolvere i peccatori e guarire gli ammalati, e di dar vita dall’alto a tutti coloro che lo seguono: Uno in cui possiamo riporre tutta la nostra fiducia in questa vita e per tutta l’eternità: il Signore Gesù, lo stesso ieri, oggi e domani”
Allora se questo è vero, come possiamo pensare che Dio o Suo Figlio mandino le malattie? Se voi aveste la necessità di punire un figlio lo fareste ammalare? Gli dareste una malattia per punirlo? E perché Dio invece dovrebbe farlo?
Mi sembra interessante, piuttosto, osservare un dato interessante: vi è la presenza di Dio pressoché sempre nella mente dell’uomo, soprattutto in situazioni critiche. Anche il neurologo Viktor Frankl si esprime in tal senso: per lui la religiosità “esperienza della frammentarietà e della relatività sullo sfondo dell’assoluto », sembra dare una piena risposta di significato esistenziale alla vita con un appello all’autotrascendenza, e Dio è sempre presente nella vita dell’uomo (cfr.: V. Frankl, Dio nell’inconscio, Morcelliana, 2002); egli lo riconosce consapevolmente, oppure lo vive anche inconsapevolmente ma lo sa pur sempre presente, perché l’uomo non può fare a meno di Dio, di confrontarsi con Lui, almeno con l’idea che ha di Lui: in certi casi proprio questo “confrontarsi” con Lui, non potendo fare a meno di pensarLo, è già preghiera. Quando i discepoli, uomini religiosi, portano un cieco dalla nascita da Gesù gli fanno un domanda: ha peccato lui o i suoi genitori? E Gesù risponde: « …né lui, né i suoi genitori.. » (Gv 9, 3): la malattia non dipende da un peccato, non è il meccanismo messo da Dio per colpire i peccati degli uomini.
Ma allora cosa fare quando una malattia arriva e non possiamo giustificarla come punizione di Dio? Forse una cosa sola, come Sergio nell’esempio: imparare a lasciarsi addomesticare da Dio, lasciare che Dio entri, a poco a poco con la preghiera, ad-domus-meam, a casa nostra. Nella mente, nel cuore, nell’anima, in tutto il nostro essere.
“Dio, ti ringrazio. Ti ringrazio per il fatto di abitare dentro di me”, e sempre penso che “…dalle tue mani, Dio mio, accetto tutto, così come viene… Ho il coraggio di guardare ogni sofferenza in fondo agli occhi e la sofferenza non mi fa paura.” (Etty Hillesum)
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Fabrizio è un uomo di circa 45 anni, italo-belga, che incontriamo in città, di passaggio sulla Via Francigena verso Roma, dove vuole arrivare per la Solennità dei Santi Pietro e Paolo. Stamane è arrivato e si è recato al Monastero indicato sulle carte come luogo di accoglienza per i pellegrini. Nessuno era presente. Ha allora chiamato il numero indicato e Dino, operatore-volontario, è subito corso: quale strano gioco della Provvidenza si stava disegnando, perché proprio per il Vespro di quel giorno era prevista in città la benedizione dei prossimi pellegrini che sulla Via Francigena si recheranno a Roma per la stessa data, e poteva esserci migliore occasione per accogliere chi veniva da così lontano? All’incontro segue subito l’intimità. E Dino mette in atto l’ascolto che si fa cura esso stesso. Due anni fa a Bruxelles a Fabrizio hanno diagnosticato una malattia incurabile. I sintomi lo costringono al riposo dal lavoro e lui prende una decisione: fare pace, cercare l’amicizia con gli uomini e con Dio, e decide di mettersi sulla via verso Santiago. Non vuole stare fermo ad aspettare… Lo percorre tutto il Cammino del nord di Santiago ed al ritorno gli esami clinici dicono che la malattia non è guarita, ma nemmeno progredita come era altamente presumibile. Com’è possibile? Ma deve riposarsi, gli impongono. E lui cosa fa? Vuole riposarsi stando “in cammino con Cristo e con Maria”, perché ha scoperto che, comunque, Lui è guarigione, e con Loro è lo stare bene, il guarire vero: vuole testimoniarlo al mondo al rientro dopo essere andato fino a Roma sulla Via Francigena… Lo ha già sperimentato una volta il senso del Logos, e vuole ora darne anche testimonianza e dunque speranza ad altri, lungo il cammino e dopo. Guarirà? Non lo sa. Ma che è « già guarito », profondamente e veramente nella sua anima e nella sua psiche, è un dato di fatto. Lo racconta anche al gruppo ed in Chies, meravigliando anche i tanti Medici presenti.
Partiamo da una constatazione: « Lui, Gesù, ha saputo comprendere le miserie umane, ha mostrato il volto di misericordia di Dio e si è chinato per guarire il corpo e l’anima. Questo è Gesù. Questo è il suo cuore che guarda tutti noi, che guarda le nostre malattie, i nostri peccati. Gesù è Dio, ma si è abbassato a camminare con noi. E’ il nostro amico, il nostro fratello… La nostra gioia nasce dal sapere che con Lui non siamo mai soli, anche nei momenti difficili… Seguiamo Gesù! Noi accompagniamo, seguiamo Gesù, ma soprattutto sappiamo che Lui ci accompagna e ci carica sulle sue spalle: qui sta la nostra gioia, la speranza che dobbiamo portare in questo mondo ». (Papa Francesco, Domenica delle Palme, 2013)
E’ importante per noi sapere quello che Gesù ci dice sia il Suo compito nei nostri confronti. Dice: «Io pregherò il Padre ed egli vi darà un altro Consolatore perché rimanga con voi per sempre, lo Spirito di verità» (Gv 14, 16-17).
E’ importante che chi soffre ricordi queste parole, così come è successo a Fabrizio. Lui ha capito che i sensi per il corpo umano sarebbero inutili se venissero meno i requisiti per il loro esercizio. Ma ha anche compreso che la stessa dinamica vale per l’anima dell’uomo: se l’anima non avrà attinto per mezzo della Fede il dono dello Spirito Santo, essa avrà sì la capacità di intendere Dio, ma le verrà meno la luce per conoscerLo, sperimentarLo, viverne la Speranza nella quotidianità.
« Il dono, che è in Cristo, è dato interamente a tutti. Resta ovunque a nostra disposizione e ci è concesso nella misura in cui vorremo accoglierlo. Dimorerà in noi nella misura in cui ciascuno di noi vorrà meritarlo » (dal « Trattato sulla Trinità » di Sant’Ilario, Vescovo), allora possiamo pensare che la Preghiera Incessante, la Preghiera del Cuore di cui parliamo in queste pagine, sia un buon mezzo per accedere al Padre attraverso la « Porta Fidei », e averLo in noi per tutto il tempo e nella misura in cui vorremo meritarLo.
« Questo dono resta con noi fino alla fine del mondo, è il conforto della nostra attesa, è il pegno della speranza futura nella realizzazione dei suoi doni, è la luce delle nostre menti, lo splendore delle nostre anime. » (idem)
Gesù allora disse loro: «Abbiate fede in Dio! In verità vi dico: chi dicesse a questo monte: Levati e gettati nel mare, senza dubitare in cuor suo ma credendo che quanto dice avverrà, ciò gli sarà accordato. Per questo vi dico: tutto quello che domandate nella preghiera, abbiate fede di averlo ottenuto e vi sarà accordato. Quando vi mettete a pregare, se avete qualcosa contro qualcuno, perdonate, perché anche il Padre vostro che è nei cieli perdoni a voi i vostri peccati» (Mc 11,22-25). E’ Gesù che parla direttamente del nostro comune Padre, in una preghiera carica di tutto quello che un figlio e un fratello può desiderare per i suoi amici. Come è semplice pregare così, com’è diretto, famigliare, intimo. E’ Gesù che ci dà di nuovo un esempio di come si fa la preghiera dicendoci anche cosa occorre fare per poter essere liberi per la preghiera. E ora anche noi, volontari della Preghiera di Intercessione per i sofferenti, imitiamoLo ancora una volta senza poi smettere di farlo, mai.
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Da troppo tempo amici e conoscenti mi confidano l’insoddisfazione che provano quando devono chiamare il medico di famiglia o lo vanno a trovare per una visita, magari urgente. “Non mi ascolta, non mi lascia dire tutto quello che vorrei”, è più o meno la lamentela. Già qualche anno fa uno studio europeo stimava in pochi secondi il tempo che intercorre tra l’inizio del racconto del paziente e la prima interruzione del medico, che in genere inizia a parlare magari per formulare subito una diagnosi… Spesso il medico interrompe… E così perfino i pazienti organizzati (quelli che si sono segnati su un foglietto le cose da dire e da chiedere) perdono il filo del discorso, si scoraggiano, balbettano, tacciono… Naturalmente non sempre è così, ma la tendenza va in questa direzione… E’ un errore. Non è questo il medico che ci serve, e una medicina organizzata su questi ritmi assurdi sarà per forza inefficace… Credo di non aver bisogno di aggiungere che questo medico è il contrario di quello che un paziente desidera.
(dal Blog della Fondazione Umberto Veronesi, 6/4/201: Il medico che non sa ascoltare il paziente)

Tre amici di Giobbe, Elifaz di Teman, Bildad di Suac e Zofar di Naama, avendo udito tutti questi mali che gli erano piombati addosso, partirono, ciascuno dal proprio paese, e si misero d’accordo per venire a confortarlo e a consolarlo. Alzati gli occhi da lontano, essi non lo riconobbero, e piansero ad alta voce; si stracciarono i mantelli e si cosparsero il capo di polvere gettandola verso il cielo. Rimasero seduti per terra, presso di lui, sette giorni e sette notti; nessuno di loro gli disse parola, perché vedevano che il suo dolore era molto grande. (Giobbe 2, 11-13)
Ha ragione il giornalista americano Norman Cousins, appassionato di medicina, quando descrivendo i pazienti fa riferimento alla loro ampia gamma di bisogni emotivi: vogliono essere ascoltati, rassicurati, e sapere che per chi li “cura” c’è una grande differenza se loro vivono o muoiono. Vogliono sentirsi nei pensieri di chi li cura ed è questo l’aspetto più influente nell’ambito della professione, o dell’azione volontaria. (La volontà di guarire: anatomia di una malattia, Roma, A. Armando, 1982)
Siamo al fondamento della necessità per l’operatore di una continua formazione al fine di cercare con ogni strumento di conoscere al meglio la singolarità della persona che aiuta, e così dare davvero risposte che siano per lui: l’empatia e la compassione sono sì innate ed istintive ma come talenti vogliono crescere ed evolvere, devono essere coltivate. Occorrerà da un lato un continuo affinamento della capacità d’osservazione, e dall’altro una progressiva crescita nella personale disponibilità e capacità di vivere la relazione di aiuto: dove il dialogo è terapia. Le due modalità ci rappresentano l’umana possibile risposta alla richiesta fatta da chi soffre a chi lo aiuta, lo cura ed accompagna: se la richiesta è di compassione alla fonte della vita, la richiesta di un sentimento al livello più sottile, non è possibile avere carenze d’amore o di compassione. Perché ci sembra che solo l’amore e l’attenzione offerte rappresentino il massimo riconoscimento a lui sofferente del suo essere persona, soggetto vero; lui, il sofferente, che invece teme di non essere più persona–soggetto e “proprio in virtù della sua debolezza”. (cfr: documento della C.E.I. (Conferenza Episcopale Italiana) per la VII Giornata Mondiale del Malato, 1998, dove al punto 2 leggiamo: “Non potrà mai essere terapeutica e quindi salutare una relazione nella quale una delle due parti del rapporto, proprio in virtù della sua debolezza, sia negata come soggetto”.)
Occorre piuttosto ricordare che “esiste una correlazione tra preghiera, stato di salute e innalzamento della soglia di dolore. E la fede religiosa aiuta a migliorare la qualità della vita e contrastare la depressione”, – sostiene Bonifacio Honings, padre carmelitano e studioso della relazione tra “religione, spiritualità e salute” -, “la scienza e la fede non si contraddicono, ma si aiutano a vicenda… e nell’uomo c’è un’interconnessione molto stretta tra corpo, anima e spirito”, dunque lo strumento principe di questa relazione, la preghiera, diviene una terapia di tale importanza che trascurarla equivarrebbe a somministrare una confezione di compresse che poi si rivelasse priva del farmaco che avrebbe dovuto contenere. Solo una scatola, solo un’illusione di terapia per qualcuno…
Recita una bella preghiera del curante: Signore Gesù, Medico Divino, che nella tua vita terrena hai prediletto coloro che soffrono ed hai affidato ai tuoi discepoli il ministero della guarigione, rendici sempre pronti ad alleviare le pene dei nostri fratelli. Fa che ciascuno di noi, consapevole della grande missione che gli è affidata, si sforzi di essere sempre, nel proprio quotidiano servizio, strumento del tuo amore misericordioso… Fa’ che in ogni paziente sappiamo scorgere i lineamenti del tuo Volto divino.

Publié dans:MALATTIA (LA), meditazioni |on 14 mai, 2014 |Pas de commentaires »

San Mattia Apostolo

San Mattia Apostolo dans immagini sacre st_matthias_by_rubens

http://angelicpsalter.wordpress.com/prayers/apostles/saint-matthias-apostle/

Publié dans:immagini sacre |on 13 mai, 2014 |Pas de commentaires »
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