Archive pour la catégorie 'BIBBIA'

IL PIÙ GRANDE COMANDAMENTO: AMARE DIO E AMARE IL PROSSIMO

https://www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/Il-piu-grande-comandamento-amare-Dio-e-amare-il-prossimo

IL PIÙ GRANDE COMANDAMENTO: AMARE DIO E AMARE IL PROSSIMO

Una domanda su uno dei versetti più celebri del Vangelo, dove Gesù mette in parallelo l’amore per noi stessi e quello per il prossimo. Risponde don Stefano Tarocchi, docente di Sacra Scrittura alla Facoltà Teologica dell’Italia Centrale.

Percorsi: SPIRITUALITÀ E TEOLOGIA
22/07/2018 di Redazione Toscana Oggi

Oltre ai Dieci Comandamenti dati da Dio a Mosè sul Monte Sinai, Gesù ha riassunto il tutto con un’unico comandamento che è quello dell’amore che dice: «Ama il prossimo tuo come te stesso». Se uno non ama se stesso quindi non può amare il prossimo?
Marco Giraldi

Il testo a cui il lettore fa riferimento è tratto dal Vangelo di Matteo: «i farisei, avendo udito che egli aveva chiuso la bocca ai sadducei, si riunirono insieme e uno di loro, un dottore della Legge, lo interrogò per metterlo alla prova: “Maestro, nella Legge, qual è il [più] grande comandamento?”. Gli rispose: “Amerai il Signore tuo Dio con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua mente. Questo è il grande e primo comandamento. Il secondo poi è simile a quello: Amerai il tuo prossimo come te stesso. Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti”» (Mt 22,34-40). Se anche si leggono i paralleli di Marco e Luca (Mc 12,29-30.33; Lc 10,27) si rimane sulla stessa linea.
Come si vede, i comandamenti che riassumono tutte le Sacre Scritture («la Legge e i Profeti») sono due, e non uno soltanto. Più che alle dieci parole date da Dio a Mosè sul Sinai (i «dieci comandamenti»), scritte nell’Esodo (20,2-18) e nel Deuteronomio (5,1-21), è bene riferirsi al celebre testo del credo degli Israeliti, il: «Ascolta, Israele (Shemà Israel): il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze» (Deuteronomio 6,4-5).
Anche se ci affidiamo al terzo libro di Mosè, il comandamento dell’amore per il prossimo, compare sempre quello dell’amore per il Signore: «parla a tutta la comunità degli Israeliti dicendo loro: “Siate santi, perché io, il Signore, vostro Dio, sono santo. Ognuno di voi rispetti sua madre e suo padre; osservate i miei sabati. Io sono il Signore, vostro Dio. Non rivolgetevi agli idoli, e non fatevi divinità di metallo fuso. Io sono il Signore, vostro Dio”» (Levitico 19,2-4). E, così prosegue, rasentando la stringente attualità: «quando mieterete la messe della vostra terra, non mieterete fino ai margini del campo, né raccoglierete ciò che resta da spigolare della messe; quanto alla tua vigna, non coglierai i racimoli e non raccoglierai gli acini caduti: li lascerai per il povero e per il forestiero. Io sono il Signore, vostro Dio» (Lv 19,9-10). E infine: «non coverai nel tuo cuore odio contro tuo fratello; rimprovera apertamente il tuo prossimo, così non ti caricherai di un peccato per lui. Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso. Io sono il Signore» (Lv 19,17-18). Come si vede, anche la tradizione giudaica che conosce ben 613 precetti (365 al negativo, 248 al positivo) cerca un principio unificatore.
San Paolo, che parte anch’egli dalle dieci parole di Dio a Mosè, così riassume: «non commetterai adulterio, non ucciderai, non ruberai, non desidererai, e qualsiasi altro comandamento, si ricapitola in questa parola: Amerai il tuo prossimo come te stesso. L’amore non fa alcun male al prossimo: pienezza della Legge infatti è l’amore» (Romani 13,9-10).
Peraltro, nella cena avanti la passione del Vangelo secondo Giovanni, troviamo un’altra formulazione, che ci aiuta ad interpretare il comandamento dell’amore per il prossimo sotto un profilo più alto: «se io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi» (Gv 13,14-15). E ancora: «vi do un comandamento nuovo: che vi amiate gli uni gli altri. Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri» (Gv 13,34).
Leggiamo ancora in Giovanni: «come il Padre ha amato me, anche io ho amato voi. Rimanete nel mio amore. Se osserverete i miei comandamenti, rimarrete nel mio amore, come io ho osservato i comandamenti del Padre mio e rimango nel suo amore … Questo è il mio comandamento: che vi amiate gli uni gli altri come io ho amato voi. Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la sua vita per i propri amici» (Gv 15,9-13).
Lo stesso discepolo ripeterà nella prima lettera: «carissimi, amiamoci gli uni gli altri, perché l’amore è da Dio: chiunque ama è stato generato da Dio e conosce Dio. Chi non ama non ha conosciuto Dio, perché Dio è amore» (1 Gv 4,7-8).
Peraltro, ancora questa lettera, stabilisce che «noi amiamo perché egli ci ha amati per primo» quindi, «se uno dice: «Io amo Dio» e odia suo fratello, è un bugiardo. Chi infatti non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede». E così conclude: «questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio, ami anche suo fratello» (1 Gv 4,19-21). Non credo possa esserci una sintesi più efficace.

 

IL MARE E LA BIBBIA, DI G. RAVASI

https://www.cercasiunfine.it/meditando/scelti-da-noi/sul-tema-mare-n.-71-di-cercasi-un-fine#.X5G4jNAzbDc

IL MARE E LA BIBBIA, DI G. RAVASI

Più di 1500 versetti dell’Antico Testamento sono « bagnati » dalle acque e per 397 volte è jam, il « mare », a dilagare. Tuttavia sbaglierebbe chi volesse mettersi davanti alle pagine sacre marine con quell’atteggiamento di serena contemplazione, di requie, di pace che forse alcuni nostri lettori stanno sperimentando lungo una spiaggia mentre scorrono queste righe.
il Mare e la Bibbia (in www.vatican.va)

più di 1500 versetti dell’Antico Testamento sono « bagnati » dalle acque e per 397 volte è jam, il « mare », a dilagare. Tuttavia sbaglierebbe chi volesse mettersi davanti alle pagine sacre marine con quell’atteggiamento di serena contemplazione, di requie, di pace che forse alcuni nostri lettori stanno sperimentando lungo una spiaggia mentre scorrono queste righe. È questo un equivoco in cui sono caduti molti esegeti che hanno ricondotto il tema del mare al bacino semantico più vasto delle « acque », in ebraico majim (582 volte nell’Antico Testamento). Emblematico è, ad esempio, lo sterminato Grande Lessico del Nuovo Testamento che nella sua quindicina di volumi non trova spazio per la voce thálassa, « mare », e si accontenta di hydor, « acqua ». Al massimo ci s’interessa del mar Rosso o mar delle Canne, del mar Morto, del mare di Galilea (il lago di Tiberiade), del « Mare » per eccellenza che è il Mediterraneo (nella Bibbia la locuzione « verso il mare » sta per « occidente »), del « mare di bronzo », il grande bacino di acqua lustrale del tempio di Salomone (80.000 litri di capacità). E se è robusta la bibliografia sull’acqua biblica, segno vitale e catartico, per il mare dobbiamo in pratica ancor oggi far riferimento solo al saggio di Otto Kaiser, intitolato Die mythische Bedeutung des Meeres in Ägypten, Ugarit und Israel, pubblicato a Berlino nel 1959 e riedito nel 1962. Sì perché il mare per l’antico Vicino Oriente è stato prima di tutto e sopra tutto un grandioso simbolo negativo, una categoria espressa con un vocabolo che a Ugarit, celebre città cananea della Siria, era il nome stesso di una divinità, Jamn appunto, che attentava allo splendore del cosmo e duellava col dio della creazione Baal. In questa linea si collocano i sinonimi come tehom, l’abisso acquatico primordiale da cui era sbocciata la terra, o le « molte acque », majim rabbim che trascinavano con sé diluvio e morte. Difficile è, perciò, per l’uomo biblico sostare davanti al mare su un litorale e cantare, come fa Luzi, « il mare fermo sotto il volo dei gabbiani sfrangiato appena tra gli scogli dell’isola, dove una terra nuda si fa ombra con le sue gobbe ». Un’eccezione c’è ed è nello stupendo « cantico delle creature » del Salmo 104, da alcuni raccordato all’Inno ad Aton del faraone « monoteista » solare Akhnaton. In un bozzetto di straordinaria intensità pittorica anche i famosi mostri marini come Leviatan (o Rahab o Behemot o Tannin), simboli del caos e del nulla, partecipano a una festa di vita e di pace: « Ecco il mare ampio e spazioso, là brulicano innumerevoli animali piccoli e grandi; là passano le navi e il Leviatan che hai plasmato per tuo divertimento » (versetti 25-26). In questo spirito nel corale cosmico del Salmo 148, intonato da 22 creature tante quante sono le lettere dell’alfabeto ebraico anche il mare è invitato a intonare il suo halleluia: « Lodate il Signore mostri marini e voi tutti abissi! » (versetto 7).
Ma questa è una piacevole eccezione. Nella Bibbia il mare incombe arcigno, come nel tempestoso canto V dell’Odissea, allorché « si sciolsero a Odisseo le ginocchia e il cuore » o come nella turbinosa scena del I canto dell’Eneide (versi 81-123) o come in tanti altri passi « procellosi » della letteratura classica. Tutto era cominciato con la creazione allorché « Dio Disse: Le acque che sono sotto il cielo si raccolgono in un solo luogo e appaia l’asciutto. E così avvenne. Dio chiamò l’asciutto terra e la massa delle acque mare » (Genesi 1,9-10). La bellezza del mondo (« Dio vide che era cosa buona e bella ») riposa su questo equilibrio instabile, frutto dell’atto creativo, tra la terraferma e il mare che è visto come un’esplosione in superficie del grande abisso sotterraneo, il tehom appunto (la divinità Tiamat negativa mesopotamica), che è il sottofondo « infernale » della mappa cosmologica biblica. Il Creatore ha steso una frontiera tra i due esseri in tensione, mare e terra: è la battigia del litorale. Lo dice in modo superbo Dio stesso nel libro di Giobbe, comparando il mare a un bimbo turbolento stretto nelle fasce delle nubi e a un prigioniero inchiavardato in un carcere di massima sicurezza: « Chi serrò tra due battenti il mare quando erompeva a fiotti dal suo grembo materno, quando gli davo per manto le nubi e per fasce la foschia, quando spezzavo il suo slancio imponendogli confini, spranghe e battenti, e gli dicevo: Fin qui tu verrai e non oltre, qui si abbasserà l’arroganza delle tue onde? » (38,8-11). Un’idea, questa, ripetuta nel canto autocelebrativo che la Sapienza divina creatrice proclama nel capitolo 8 del libro dei Proverbi: « Quando stabiliva al mare i suoi confini sicché le sue acque non oltrepassassero la spiaggia io ero con lui (il Creatore) », (versetti 29-30). Dante nel Convivio parafraserà il testo: « Quando (Dio) circuiva lo suo termine al mare e poneva legge a l’acque che non passassero li suoi confini con lui io era » (III, 15,16). Stare, perciò, sul bagnasciuga vuol dire per l’antico ebreo vivere un’esperienza simile a quella di chi s’affaccia su un cratere vulcanico, colto quasi da vertigine. Esperienza ben diversa da chi ora sta ammirando il giuoco delle onde, come aveva fatto Montale in un suo bel distico: « Una carezza disfiora la linea del mare e la scompiglia ». Il diluvio nel libro della Genesi è, allora, visto come lo scardinamento di quell’equilibrio cosmico perché alle acque celesti si incrociano quelle del mare, lasciato libero da Dio di impazzare sulla terra: « e ruppero tutte le sorgenti del grande abisso e le cateratte del cielo si aprirono » (7,11). È per questo che il mare viene iscritto nella panoplia con cui il Dio giudice condanna l’umanità peccatrice: « È lui che comanda alle acque del mare, dichiara il profeta Amos (5,8) e le spande sulla terra ». Gli fa eco Geremia: « Il Signore degli eserciti solleva il mare e ne fa mugghiare le onde » (31,35). In versetti e versetti della Bibbia la potenza divina si dispiega in tutta la sua infinità proprio dominando il mare e tenendo saldo l’organico della creazione, con la terra come una piattaforma sospesa su colonne sopra l’abisso caotico marino. È per questo che nell’esodo d’Israele dall’Egitto Dio prima impone al mare di bloccarsi come muraglia, obbedendo al suo potente imperativo (Esodo 14,22), e poi scatenandolo come arma del suo giudizio sugli oppressori egiziani: « Al soffio della tua ira si accumularono le acque, si alzarono le onde come un argine, si rappresero gli abissi in fondo al mare. Soffiasti col tuo alito: il mare li coprì, sprofondarono come piombo in acque profonde » (Esodo 15,8.10). Suggestiva è la rielaborazione poetica dell’evento offerta dal Salmo 114: « Il mare vide e si ritrasse indietro.. Che hai tu, mare, per fuggire? » (versetti 3,5). Esemplare è, al riguardo, la scena evangelica della tempesta sedata ove Cristo, identificato ormai col Signore Creatore, attacca il mare come se fosse un essere diabolico, riprendendo una classica concezione mitica, e lo sottopone a un esorcismo: « Sgridò il vento e disse al mare: Taci, calmati! Furono presi da grande timore e si dicevano l’un l’altro: Chi è costui al quale anche il vento e il mare obbediscono? » (Marco 4,39. 41). Se noi, dunque, ci tuffiamo in mare come in una specie di grembo sereno, l’uomo biblico vi penetra con terrore sentendolo quasi come il sudario della morte. Dio solo può strapparlo da quelle fauci, come canta Davide nel Salmo 18: « Stese la mano dall’alto, mi afferrò, mi sollevò dalle grandi acque mi portò al largo, mi liberò perché mi vuol bene » (versetti 17 e 20). Dio solo può « con una minaccia prosciugare il mare: i suoi pesci, per mancanza d’acqua, restano all’asciutto, muoiono di sete » (Isaia 50,2). A questa ripulsa nei confronti del mare contribuì, certo, anche la configurazione della costa palestinese piuttosto rettilinea: solo Salomone organizzò una flotta di bandiera, usando tecnici fenici, la cui competenza era celebre in tutto il Mediterraneo.
Israele fu, infatti, un popolo di santi, di eroi, di poeti ma non di navigatori. Se ne ricordano di famosi solo tre e tutti sfortunati. C’è innanzitutto Giona il profeta renitente alla sua missione, che si imbarca su una nave fenicia diretta a Tarshish (forse Gibilterra o la Sardegna) per sfuggire all’ordine divino che lo invia all’antipodo, cioè a Ninive, e che incappa in un terribile fortunale.
Il delizioso racconto, una specie di favola morale di taglio universalistico comprende, come è noto, anche il ricorso ai mostri oceanici mitici, l’enorme pesce che inghiotte il misero per tre notti e tre giorni. Dal ventre del mostro Giona riesce anche a cantare un salmo « marino »: « Mi hai gettato nell’abisso, nel cuore del mare, tutti flutti e le onde sono passate sopra di me. Le acque mi hanno sommerso fino alla gola, l’abisso mi ha avvolto, l’alga si è avvinta al mio capo » (2,4.6.).
Sarà l’Onnipotente a comandare al cetaceo di vomitare Giona su una spiaggia. Su una spiaggia, quella di Malta, andrà ad approdare coi suoi compagni di avventura anche Paolo, al termine di un uragano scatenatosi sul Mediterraneo mentre veniva trasferito a Roma per il processo d’appello.
Chi ama racconti di mare alla Conrad dovrebbe leggere il capitolo 27 degli Atti degli Apostoli con la sua pittoresca descrizione della vicenda vissuta da Paolo su una nave oneraria romana. Lo stesso Apostolo confesserà di « aver fatto naufragio tre volte e di aver trascorso un giorno e una notte in balia delle onde » (2 Corinzi 11,25). Ma è con un terzo navigatore, questa volta anonimo, che vogliamo concludere il nostro breve viaggio sui flutti marini della Bibbia. Nel Salmo 107 entrano in scena quattro personaggi che nel tempio di Gerusalemme stanno sciogliendo i loro voti. C’è un carovaniere che aveva smarrito la pista nel deserto e l’aveva ritrovata, c’è un carcerato liberato, c’è un malato grave guarito. Alla fine si alza a pronunciare il suo ex-voto un marinaio e il suo è il racconto più emozionante. Il Siracide, sapiente biblico del II secolo a.C., riconosceva che « i naviganti parlano dei pericoli del mare e a sentirli coi nostri orecchi restiamo stupiti » (43,24).
Ascoltiamo anche noi il marinaio devoto. « Coloro che solcavano il mare sulle navi facendo commerci sulle acque immense, videro le opere del Signore e i suoi prodigi nelle profondità marine. Egli parlò e fece levare un vento tempestoso che sollevò le onde. Salivano al cielo, scendevano negli abissi, il respiro veniva meno per il pericolo. Ballavano e barcollavano come ubriachi, tutta la loro perizia era svanita. Nell’angoscia gridarono al Signore ed egli li estrasse da quell’angustia. Ridusse la tempesta alla calma, s’acquetarono le onde del mare. Giorino per la bonaccia ed egli li guidò al porto sospirato » (versetti 23-30). Théophile Briant nella sua antologia Les plus beaux textes sur la Mer, pubblicato a Parigi nel 1951, ha inserito questa strofa accanto ai classici delle tempeste marine, dai citati Omero e Virgilio, ad Alceo e Ovidio. Potremmo pensare anche all’Ulisse dantesco: « Un turbo nacque, e percosse del legno il primo canto. Tre volte il fe’ girar con tutte l’acque; a la quarta levar la poppa in suso e la prora ire in giù, com’Altrui piacque, infin che ‘l mar fu sopra noi rinchiuso » (Inferno XXVI, 137-142). Ma per la Bibbia, come si è ripetuto, non c’è solo il terrore primordiale dell’uomo di fronte alle energie scatenate della natura.
Non c’è solo l’esperienza fisica dello stordimento e del mal di mare, usata tra l’altro dal libro di Proverbi per dipingere ironicamente l’ondeggiare dell’ubriaco: « Sarai come chi giace in mezzo al mare, come chi siede sull’albero maestro » (23,24). C’è, invece, l’emozione tutta metafisica dell’incontro col nulla; c’è la sensazione raggelante dell’abbraccio con gli inferi e con la morte.
È per questo che nella nuova e perfetta creazione escatologica il mare scomparirà: « Vidi un nuovo cielo e una nuova terra, annota Giovanni nell’Apocalisse perché il cielo e la terra di prima erano scomparsi e il mare non c’era più ». (21,1)

Publié dans:BIBBIA, CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 22 octobre, 2020 |Pas de commentaires »

I SALMI DEI MALATI (LUCIANO MANICARDI)

http://dimensionesperanza.it/aree/spiritualita/item/998-i-salmi-dei-malati-luciano-manicardi.html

I SALMI DEI MALATI (LUCIANO MANICARDI)

Pubblicato da Fausto Ferrari

All’interno del Salterio vi sono alcuni Salmi pronunciati da uomini malati.

All’interno del Salterio vi sono alcuni Salmi pronunciati da uomini malati. Vi possiamo annoverare almeno i Salmi 6; 38; 41; 88; 102; 143; ma troviamo accenni a situazioni di malattia in diversi altri Salmi (p. es., Sal 107, 17-22) e, ovviamente, a una vasta gamma di situazioni di sofferenza: fisica, psichica, morale. Generazioni di credenti hanno trovato in queste preghiere le parole per dire la propria, personale situazione di sofferenza e malattia, e ancora oggi noi vi troviamo un autentico magistero per « dirci nella malattia », per dire la nostra sofferenza davanti a Dio, per dare voce a collera e rabbia, a protesta e ribellione, e per dar forma di invocazione e di supplica ad angoscia e speranza.
Il Salterio, in effetti, presenta una ricca varietà di « linguaggi della sofferenza », estremamente preziosa per noi che di fronte alla sofferenza e al dolore siamo sempre più nell’afasia, nell’incapacità di tradurre verbalmente le emozioni e i sentimenti che ci traversano e sconvolgono, e così siamo privati del primo, fondamentale ed elementare passo per assumere la malattia, per viverla. E in questo modo rischiamo solo di subirla o di delegare alla tecnica e a personale specialistico la sua gestione. La malattia pone l’uomo in stato di invocazione. E questa è verbale e corporea. È grido (Sal 69,4; 142,2), è domanda (di guarigione, come in Sal 6,3 o semplicemente e più radicalmente di senso, come nel tenebroso Salmo 88), è protesta che chiede conto a Dio («Perché?»: Sal 22,2; «Fino a quando?»: Sal 13,2-3), è dialogo interiore di chi, in una drammatica lotta con se stesso, cerca di integrare il pesante vissuto di sofferenza (Sal 42,5.12; 43,5), è lamento (Sal 5,2), è pianto (Sal 6,7-9). Coinvolgendo tutte le fibre dell’uomo, il pianto è un linguaggio particolarmente efficace e veridico. Dice un testo rabbinico: «La preghiera è fatta in silenzio, il grido ad alta voce, ma lacrime sorpassano tutto».
Chi prega, infatti, nei Salmi, e particolarmente nelle situazioni di malattia, è il corpo stesso. L’esperienza di malattia costringe l’uomo a prendere coscienza del proprio corpo. Mentre esprime la propria sofferenza, l’orante dei Salmi dice anche il proprio corpo: il senso di disarticolazione, consunzione o bruciore delle ossa dovuto alla febbre che priva di forza il malato impedendogli di stare in piedi e costringendolo all’orizzontalità che anticipa la morte. Gli occhi che si consumano nel patire, per il troppo piangere, o la vista che abbandona il malato che rischia la cecità, angosciano l’orante che si sente privato dell’integrità della vita.
L’orante parla della gola, canale attraverso cui passa il respiro, e sovente dichiara di trovarsi nell’angoscia, nella tsarà, cioè, nel soffocamento, nella situazione di mancanza di respiro, oltre che nell’aridità di chi soffre la sete. Sofferenza psichica e dolore fisico sono intrecciati e le espressioni salmiche mantengono una valenza simbolica che manifesta l’uomo malato come totalità sofferente. La situazione di disfacimento del proprio essere è espressa parlando del cuore, sede dell’energia vitale e organo centrale e misterioso della vita, che si scioglie e viene meno. La carne in cui non c e più nulla di sano, i fianchi che ardono infiammati, il ventre torturato dalla pena, le mani e le braccia infiacchite, sono frammenti del discorso con cui l’orante cerca di ritrovare davanti a Dio l’unità vitale infranta dalla malattia.
Pregare i Salmi manifesta dunque un aspetto liberante che «consiste nel vivere le parole del testo assumendole in se stessi. Occorre lasciarsi trascinare dal loro realismo; noi non oseremmo mai pronunciare spontaneamente queste parole perché sono troppo forti, perché ci implicano troppo. I Salmi sono la possibilità di rimettere piede in un mondo censurato; sono la possibilità di poter ‘parlare’ ciò di cui abbiamo preso l’abitudine di non parlare più. Perché non vogliamo riconoscere che siamo in un corpo che ci lega, ci limita, a volte perfino ci schiaccia, ma che è il nostro unico luogo di verità, la nostra sola possibilità di esistenza e di espressione veramente umana, veramente personale» (Matthieu Collin). E i Salmi ci ricordano che è l’orante è un corpo orante: «Il fragile strumento della preghiera, l’arpa più sensibile, il più esile ostacolo alla malvagità umana, tale è il corpo. Sembra che per il salmista tutto si giochi là, nel corpo. Non che sia indifferente all’anima, ma al contrario, perché l’anima non si esprime e non traspare se non nel corpo. Il Salterio è la preghiera del corpo. Anche la meditazione vi si esteriorizza prendendo il nome di « mormorio », « sussurro ». Il corpo è il luogo dell’anima e dunque la preghiera traversa tutto ciò che si produce nel corpo. È il corpo stesso che prega: « Tutte le mie ossa diranno: Chi è come te, Signore? » (Sal 35,10)» (Paul Beauchamp).
E poiché il corpo è il libro del tempo, la tavoletta su cui il tempo incide la propria traccia, ecco che l’orante malato sente con particolare angoscia e drammaticità il passare del tempo: in Sal 102 si esprime un uomo che, nel pieno delle forze, a metà della sua vita, si sente strappato prematuramente alla vita da un male che lo consuma inesorabilmente giorno dopo giorno. Di fronte a lui il tempo cosmico (i monti, il cielo), che era prima di lui e che sarà dopo di lui, e soprattutto il tempo di Dio, colui «i cui anni non hanno fine» e a cui egli si rivolge chiedendo che «presto» intervenga: il suo tempo, infatti, sta per scadere… Le notti insonni, l’alba che non spunta mai, il tempo lunghissimo perché abitato dal dolore, ma anche l’angoscia del finire inesorabile della vita, la rapidità con si srotola il gomitolo del tempo, sono le contrastanti sensazioni che vive il Salmista nella sua malattia.
Nei Salmi le espressioni sono troppo generiche perché si possa risalire alla precisa malattia che affliggeva l’orante, ma soprattutto il salmista più che parlare di malattie, parla di morte che invade la sfera della vita, che fa incursioni nell’esistenza di un uomo. Là dove c’è debolezza e malattia, là è attiva la morte, così che in certi Salmi l’orante si presenta come un morto, come un uomo finito, già posto nella fossa (cfr. Sal 88). Se la vita è relazione, tutto ciò che è sentito come minaccia alla pienezza delle relazioni è letto come opera della morte. La morte appare così come una potenza nemica che irrompe nella vita di un uomo: siamo di fronte a una concezione della morte incomparabilmente più ricca rispetto a quella moderna che è fisica, puntuale, legata allo spegnimento di alcune funzioni biologiche vitali. Per la Bibbia anche mancanza di libertà e peccato, malattia e oppressione, angoscia e privazione di diritti, sono forme di « morte nella vita ». La supplica, dunque, linguaggio dell’uomo nella malattia e nella non pienezza di vita, tende sempre a mutarsi in lode, che è il linguaggio della relazione piena e serena con Dio, è linguaggio della vita («Non i morti, infatti, ma i viventi lodano il Signore»: Sal 115,17-18).
Ma forse, l’elemento che più colpisce all’interno dei Salmi è il rapporto spesso posto, da diversi punti di vista, fra malattia e peccato. Il malato chiede perdono a Dio e il peccatore spesso si presenta come un malato. Né si tratta di mera e grossolana applicazione della teoria della retribuzione, per cui la malattia sarebbe il castigo del peccato commesso.
Il nesso fra malattia e peccato è profondo psicologicamente: nella malattia, l’orante è condotto quasi inconsciamente a correlare la propria finitezza al senso di colpa. Ma nella Bibbia e nei Salmi tale correlazione ha a che fare con il problema del senso della malattia, del messaggio che in essa è insito e indica al credente vie e forme per affrontarla e per farla rientrare all’interno della propria esperienza umana e di fede. Questo legame, del resto, non è specifico della rivelazione biblica, ma è elemento comune ad altre culture e tradizioni religiose.
Legando la malattia al peccato (ed entrambe queste realtà hanno in comune il fatto di essere dei mali) la Bibbia rende leggibile, comprensibile e dominabile anche la malattia, che per l’uomo biblico poteva invece essere un non senso. Il Dio che ha potere sul male e sul peccato, il Dio capace di perdono, è anche capace di liberare dalla malattia e di guarire: in questo modo quel potenziale assurdo che è la malattia, viene rimessa nella mani del Signore della vita e recuperata al senso, dunque alla vivibilità e sopportabilità. All’orante è data infatti la forza di combattere che viene dal poter nutrire una speranza. Dio, infatti, cantano i Salmi, «perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie» (Sal 103,3).

(da l’Ancora, 11, 2003)

Publié dans:BIBBIA. A.T. SALMI |on 11 février, 2020 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – UDIENZA GENERALE – Salmo 126 (2011)

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20111012.html

BENEDETTO XVI – UDIENZA GENERALE – Salmo 126 (2011)

Piazza San Pietro
Mercoledì, 12 ottobre 2011

Cari fratelli e sorelle,

nelle precedenti catechesi abbiamo meditato su alcuni Salmi di lamento e di fiducia. Quest’oggi vorrei riflettere con voi su un Salmo dalle note festose, una preghiera che, nella gioia, canta le meraviglie di Dio. È il Salmo 126 – secondo la numerazione greco latina 125 -, che celebra le grandi cose che il Signore ha operato con il suo popolo e che continuamente opera con ogni credente.
Il Salmista, a nome di tutto Israele, inizia la sua preghiera ricordando l’esperienza esaltante della salvezza:

«Quando il Signore ristabilì la sorte di Sion,
ci sembrava di sognare.
Allora la nostra bocca si riempì di sorriso,
la nostra lingua di gioia» (vv. 1-2a).

Il Salmo parla di una “sorte ristabilita”, cioè restituita allo stato originario, in tutta la sua precedente positività. Si parte, cioè, da una situazione di sofferenza e di bisogno a cui Dio risponde operando salvezza e riportando l’orante alla condizione di prima, anzi arricchita e cambiata in meglio. È quello che avviene a Giobbe, quando il Signore gli ridona tutto quanto aveva perduto, raddoppiandolo ed elargendo una benedizione ancora maggiore (cfr Gb 42,10-13), ed è quanto sperimenta il popolo d’Israele ritornando in patria dall’esilio babilonese. E’ proprio in riferimento alla fine della deportazione in terra straniera che viene interpretato questo Salmo: l’espressione “ristabilire la sorte di Sion” è letta e compresa dalla tradizione come un “far tornare i prigionieri di Sion”. In effetti, il ritorno dall’esilio è paradigma di ogni intervento divino di salvezza perché la caduta di Gerusalemme e la deportazione a Babilonia sono state un’esperienza devastante per il popolo eletto, non solo sul piano politico e sociale, ma anche e soprattutto sul piano religioso e spirituale. La perdita della terra, la fine della monarchia davidica e la distruzione del Tempio appaiono come una smentita delle promesse divine, e il popolo dell’alleanza, disperso tra i pagani, si interroga dolorosamente su un Dio che sembra averlo abbandonato. Perciò, la fine della deportazione e il ritorno in patria sono sperimentati come un meraviglioso ritorno alla fede, alla fiducia, alla comunione con il Signore; è un “ristabilimento della sorte” che implica anche conversione del cuore, perdono, ritrovata amicizia con Dio, consapevolezza della sua misericordia e rinnovata possibilità di lodarLo (cfr Ger 29,12-14; 30,18-20; 33,6-11; Ez 39,25-29). Si tratta di un’esperienza di gioia straripante, di sorrisi e grida di giubilo, talmente bella che “sembra di sognare”. Gli interventi divini hanno spesso forme inaspettate, che vanno al di là di quanto l’uomo possa immaginare; ecco allora la meraviglia e la letizia che si esprimono nella lode: “Il Signore ha fatto grandi cose”. È quanto dicono le nazioni, ed è quanto proclama Israele:

«Allora si diceva tra le genti:
“Il Signore ha fatto grandi cose per loro”.
Grandi cose ha fatto il Signore per noi:
eravamo pieni di gioia» (vv. 2b-3).

Dio fa meraviglie nella storia degli uomini. Operando la salvezza, si rivela a tutti come Signore potente e misericordioso, rifugio dell’oppresso, che non dimentica il grido dei poveri (cfr Sal 9,10.13), che ama la giustizia e il diritto e del cui amore è piena la terra (cfr Sal 33,5). Perciò, davanti alla liberazione del popolo di Israele, tutte le genti riconoscono le cose grandi e stupende che Dio compie per il suo popolo e celebrano il Signore nella sua realtà di Salvatore. E Israele fa eco alla proclamazione delle nazioni, e la riprende ripetendola, ma da protagonista, come diretto destinatario dell’azione divina: «Grandi cose ha fatto il Signore per noi»; “per noi”, o ancor più precisamente, “con noi”, in ebraico ‘immanû, affermando così quel rap­porto privilegiato che il Signore intrattiene con i suoi eletti e che troverà nel nome Immanuel, “Dio con noi”, con cui viene chiamato Gesù, il suo cul­mine e la sua piena manifestazione (cfr Mt 1,23).
Cari fratelli e sorelle, nella nostra preghiera dovremmo guardare più spesso a come, nelle vicende della nostra vita, il Signore ci ha protetti, guidati, aiutati e lodarlo per quanto ha fatto e fa per noi. Dobbiamo essere più attenti alle cose buone che il Signore ci dà. Siamo sempre attenti ai problemi, alle difficoltà e quasi non vogliamo percepire che ci sono cose belle che vengono dal Signore. Questa attenzione, che diventa gratitudine, è molto importante per noi e ci crea una memoria del bene che ci aiuta anche nelle ore buie. Dio compie cose grandi, e chi ne fa esperienza – attento alla bontà del Signore con l’attenzione del cuore – è ricolmo di gioia. Su questa nota festosa si conclude la prima parte del Salmo. Essere salvati e tornare in patria dall’esilio è come essere ritornati alla vita: la liberazione apre al sorriso, ma insieme all’attesa di un compimento ancora da desiderare e da domandare. È questa la seconda parte del nostro Salmo che suona così:

«Ristabilisci, Signore, la nostra sorte,
come i torrenti del Negheb.
Chi semina nelle lacrime mieterà nella gioia.
Nell’andare, se ne va piangendo,
portando la semente da gettare,
ma nel tornare, viene con gioia,
portando i suoi covoni» (vv. 4-6).

Se all’inizio della sua preghiera, il Salmista celebrava la gioia di una sorte ormai ristabilita dal Signore, ora invece la chiede come qualcosa ancora da realizzare. Se si applica questo Salmo al ritorno dall’esilio, questa apparente contraddizione si spiegherebbe con l’esperienza storica, fatta da Israele, di un ritorno in patria difficile, solo parziale, che induce l’orante a sollecitare un ulteriore intervento divino per portare a pienezza la restaurazione del popolo.
Ma il Salmo va oltre il dato puramente storico per aprirsi a dimensioni più ampie, di tipo teologico. L’esperienza consolante della liberazione da Babilonia è comunque ancora incompiuta, “già” avvenuta, ma “non ancora” contrassegnata dalla definitiva pienezza. Così, mentre nella gioia celebra la salvezza ricevuta, la preghiera si apre all’attesa della realizzazione piena. Per questo il Salmo utilizza immagini particolari, che, con la loro complessità, rimandano alla realtà misteriosa della redenzione, in cui si intrecciano dono ricevuto e ancora da attendere, vita e morte, gioia sognante e lacrime penose. La prima immagine fa riferimento ai torrenti secchi del deserto del Neghev, che con le piogge si riempiono di acqua impetuosa che ridà vita al terreno inaridito e lo fa rifiorire. La richiesta del Salmista è dunque che il ristabilimento della sorte del popolo e il ritorno dall’esilio siano come quell’acqua, travolgente e inarrestabile, e capace di trasformare il deserto in una immensa distesa di erba verde e di fiori.
La seconda immagine si sposta dalle colline aride e rocciose del Neghev ai campi che i contadini coltivano per trarne il cibo. Per parlare della salvezza, si richiama qui l’esperienza che ogni anno si rinnova nel mondo agricolo: il momento difficile e faticoso della semina e poi la gioia prorompente del raccolto. Una semina che è accompagnata dalle lacrime, perché si getta ciò che potrebbe ancora diventare pane, esponendosi a un’attesa piena di incertezze: il contadino lavora, prepara il terreno, sparge il seme, ma, come illustra bene la parabola del seminatore, non sa dove questo seme cadrà, se gli uccelli lo mangeranno, se attecchirà, se metterà radici, se diventerà spiga (cfr Mt 13,3-9; Mc 4,2-9; Lc 8,4-8). Gettare il seme è un gesto di fiducia e di speranza; è necessaria l’operosità dell’uomo, ma poi si deve entrare in un’attesa impotente, ben sapendo che molti fattori saranno determinanti per il buon esito del raccolto e che il rischio di un fallimento è sempre in agguato. Eppure, anno dopo anno, il contadino ripete il suo gesto e getta il suo seme. E quando questo diventa spiga, e i campi si riempiono di messi, ecco la gioia di chi è davanti a un prodigio straordinario. Gesù conosceva bene questa esperienza e ne parlava con i suoi: «Diceva: “Così è il regno di Dio: come un uomo che getta il seme sul terreno; dorma o vegli, di notte o di giorno, il seme germoglia e cresce. Come, egli stesso non lo sa» (Mc 4,26-27). È il mistero nascosto della vita, sono le meravigliose “grandi cose” della salvezza che il Signore opera nella storia degli uomini e di cui gli uomini ignorano il segreto. L’intervento divino, quando si manifesta in pienezza, mostra una dimensione prorompente, come i torrenti del Neghev e come il grano nei campi, evocatore quest’ultimo anche di una sproporzione tipica delle cose di Dio: sproporzione tra la fatica della semina e l’immensa gioia del raccolto, tra l’ansia dell’attesa e la rasserenante visione dei granai ricolmi, tra i piccoli semi gettati a terra e i grandi cumuli di covoni dorati dal sole. Alla mietitura, tutto è trasformato, il pianto è finito, ha lasciato il posto a grida di gioia esultante.
A tutto questo fa riferimento il Salmista per parlare della salvezza, della liberazione, del ristabilimento della sorte, del ritorno dall’esilio. La deportazione a Babilonia, come ogni altra situazione di sofferenza e di crisi, con il suo buio doloroso fatto di dubbi e di apparente lontananza di Dio, in realtà, dice il nostro Salmo, è come una semina. Nel Mistero di Cristo, alla luce del Nuovo Testamento, il messaggio si fa ancora più esplicito e chiaro: il credente che attraversa quel buio è come il chicco di grano caduto in terra che muore, ma per dare molto frutto (cfr Gv 12,24); oppure, riprendendo un’altra immagine cara a Gesù, è come la donna che soffre nelle doglie del parto per poter giungere alla gioia di aver dato alla luce una nuova vita (cfr Gv 16,21).
Cari fratelli e sorelle, questo Salmo ci insegna che, nella nostra preghiera, dobbiamo rimanere sempre aperti alla speranza e saldi nella fede in Dio. La nostra storia, anche se segnata spesso da dolore, da incertezze, da momenti di crisi, è una storia di salvezza e di “ristabilimento delle sorti”. In Gesù, ogni nostro esilio finisce, e ogni lacrima è asciugata, nel mistero della sua Croce, della morte trasformata in vita, come il chicco di grano che si spezza nella terra e diventa spiga. Anche per noi questa scoperta di Gesù Cristo è la grande gioia del “sì” di Dio, del ristabilimento della nostra sorte. Ma come coloro che – ritornati da Babilonia pieni di gioia – hanno trovato una terra impoverita, devastata, come pure la difficoltà della seminagione e hanno sofferto piangendo non sapendo se realmente alla fine ci sarebbe stata la raccolta, così anche noi, dopo la grande scoperta di Gesù Cristo – la nostra vita, la verità, il cammino – entrando nel terreno della fede, nella “terra della fede”, troviamo anche spesso una vita buia, dura, difficile, una seminagione con lacrime, ma sicuri che la luce di Cristo ci dona, alla fine, realmente, la grande raccolta. E dobbiamo imparare questo anche nelle notti buie; non dimenticare che la luce c’è, che Dio è già in mezzo alla nostra vita e che possiamo seminare con la grande fiducia che il “sì” di Dio è più forte di tutti noi. E’ importante non perdere questo ricordo della presenza di Dio nella nostra vita, questa gioia profonda che Dio è entrato nella nostra vita, liberandoci: è la gratitudine per la scoperta di Gesù Cristo, che è venuto da noi. E questa gratitudine si trasforma in speranza, è stella della speranza che ci dà la fiducia, è la luce, perché proprio i dolori della seminagione sono l’inizio della nuova vita, della grande e definitiva gioia di Dio.

I SALMI NELLA LITURGIA DELLE ORE

https://www.domuni.eu/it/ricerca/le-risorse-on-line/risorsa/i-salmi-nella-liturgia-delle-ore/

I SALMI NELLA LITURGIA DELLE ORE

22 marzo 2019
Il canto dei salmi faceva parte della liturgia ebraica del tempio e della sinagoga, e per osmosi naturale e` entrato a far parte anche della liturgica cristiana. La liturgia cristiana si pone infatti in continuita` con la liturgica ebraica, anche se in sostanziale novita`.

di fr Raffaele Quilotti OP, docente di Liturgia

Il canto dei salmi faceva parte della liturgia ebraica del tempio e della sinagoga, e per osmosi naturale e` entrato a far parte anche della liturgica cristiana. La liturgia cristiana si pone infatti in continuita` con la liturgica ebraica, anche se in sostanziale novita`. In continuita` perche´ molti elementi della liturgia ebraica sono stati assunti nella celebrazione cristiana; in novita` perche´ il centro della liturgia cristiana e` il mistero del Cristo: noi celebriamo la sua persona, la sua opera, la sua pasqua, usufruendo per la celebrazioni anche di gesti e testi, acclamazioni, termini ebraici e aramaici (amen, alleluia, sabaoth, hosanna…) gia` della liturgia del tempio, di quella sinagogale e personale.
Il “Salterio”
I salmi giunti fino a noi sono 150, raccolti in un libro biblico chiamato salterio. Salterio e` il nome di uno strumento musicale: i salmi si cantavano accompagnati da strumenti musicali che ne davano il ritmo e l’intonazione. Questo ci dice gia` che i salmi sono dei canti poetici e che vanno cantati, un po’ come tutti i poemi antichi. Cantati in modo diretto, cioe` tutto di seguito, o a cori alterni, o cantati da un solista, o in modo responsoriale tra salmista e ritornello dell’assemblea (cf. Principi e Norme per la Liturgia delle Ore [=PNLO], nn. 121-123).
“E` risaputo che i salmi (cf. i nn. 103-120, che inviterei a rileggere) sono strettamente connessi con la musica; lo dimostra la tradizione sia giudaica che cristiana. In verita` alla piena comprensione di molti salmi contribuisce non poco il fatto che essi vengano cantati o almeno siano sempre considerati in questa luce poetica e musicale. Pertanto, se e` possibile, e` da preferirsi questa forma, almeno nei giorni e nelle Ore principali, e secondo il carattere proprio dei salmi. I diversi modi di eseguire la salmodia sono descritti ai nn. 121-123 (di PNLO). La loro varieta` non deve essere dettata tanto da circostanze esterne, quanto piuttosto, dal diverso genere di quei salmi che ricorrono nella medesima celebrazione. Secondo questo criterio i salmi sapienziali e storici si prestano forse meglio a essere ascoltati, mentre, al contrario, quelli di lode e di rendimento di grazie comportano per se´ il canto in comune. Quel che conta piu` di tutto e` che la celebrazione non si leghi a schemi rigidi e artificiosi, non obbedisca solo a norme puramente formali, ma risponda allo spirito autentico dell’azione che si compie. Il primo scopo da raggiungere e` infatti quello di formare gli animi all’amore per la preghiera genuina della Chiesa e di rendere gioiosa la celebrazione della lode di Dio (cf. Sal 146)” (PNLO, nn. 278- 279).
Composizione del salterio
Nella composizione del salterio i salmi non si susseguono in modo casuale ma sono raccolti seguendo un ordine: si inizia con la scelta di vita (salmo 1: Beato l’uomo che non segue) e si conclude con la glorificazione di Dio con canti e tutti gli strumenti musicali (salmo 150: Lodate il Signore nel suo santuario). Il salterio si suddivide in cinque libretti che terminano ognuno con due Amen: “Amen, Amen”(1-41; 42-72; 73-89; 90-1l6; 107-150). Il salterio e` come un libro che va letto da cima a fondo progressivamente, e cosi` veniva pregato, con una lettura continua. Questa impostazione di fondo e` stata conservata grosso modo anche nell’ultima riforma della Liturgia delle Ore.
Distribuzione generale dei salmi nella LO
Tuttavia nella distribuzione dei salmi si e` tenuto conto (del resto come gia` in passato) anche delle Ore del giorno, dei giorni della settimana, nonche´ di particolari feste e periodi dell’anno liturgico. Per questo, ad esempio, a Compieta ci sono dei salmi adatti alla sera prima di andare a dormire; alle lodi mattutine e ai vespri, nonche´ per i salmi invitatori, le scelte sono diverse. Gli stessi criteri si applicano anche agli inni delle varie Ore e dei giorni. Possiamo dunque distinguere: i salmi invitatori, il salmi di Lodi, i salmi di Vespro, i salmi di Compieta, i salmi per l’Ufficio di lettura o mattutino, i salmi della domenica (pasquali), i salmi del venerdi` (penitenziali), i salmi del sabato (storici e sapienziali). Ne riparliamo.
Da dove partire
La nuova forma della liturgia delle Ore (LO) conseguente alla riforma liturgica del concilio Vaticano II, ha come punto di partenza iniziale la Sacrosanctum Concilium, che tratta della Liturgia delle Ore al cap. IV. L’Ufficio divino, nn. 83-101. Il capitolo inizia dal valore teologico della LO, opera di Cristo e della Chiesa (nn. 83-85), e prosegue sulla sua dimensione pastorale (nn. 86-87). Da qui l’esigenza di una riforma per adeguare questa celebrazione alle mutate condizioni odierne (nn. 88-89). Il n. 89 chiedeva un numero minore di salmi per il Mattutino (Ufficio di Lettura), la soppressione dell’Ora di Prima e per la Compieta la scelta di salmi piu` appropriati per la fine della giornata. Il n. 91 parla della distribuzione dei salmi, tenendo presente che deve essere una celebrazione accessibile a tutti i fedeli (anche laici), con celebrazioni piu` brevi (numero dei salmi); da qui l’apertura anche all’uso delle lingue vive (n. 101). Su questi criteri di fondo e` stata pensata una nuova struttura della LO, che si snodi in uno spazio di tempo piu` lungo di una settimana (n. 91). La commissione incaricata si e` messa subito all’opera ma prima di arrivare ad una struttura definitiva condivisa ci sono voluti sei anni. Alla fine il ritmo della Liturgia delle Ore si snoda su quattro settimane, con tre salmi (o tre parti di salmi) per ogni Ora del giorno, eccetto Compieta che ha un salmo solo (eccetto la prima Compieta della domenica e la compieta del mercoledi` che ne hanno due, perche´ brevi). I salmi piu` lunghi furono divisi in due o tre parti, mentre il lungo salmo 118 conservo` le sue 22 parti, quante le lettere dell’alfabeto ebraico. Per le Ore minori (facoltative: Terza, Sesta e Nona) si ricorse ai brevi salmi “graduali”, cioe` i salmi che gli ebrei pregavano salendo in pellegrinaggio a Gerusalemme (119-127).
Due tipi di salmi difficili
Due tipi di salmi da tempo facevano difficolta`: i salmi imprecatori e i salmi storici, che sembravano poco adatti ad una preghiera, soprattutto evangelica (soprattutto i primi).
I salmi imprecatori (57, 82, 108, ma numerosi versetti anche in altri salmi) erano salmi o espressioni psicologicamente difficili da comprendere in ambito evangelico, in bocca a Cristo, in quanto sono preghiere che invocano la vendetta di Dio e la maledizione sugli avversari, mentre Gesu` chiedeva di perdonare anche i nemici e pregare per i persecutori. Il bellissimo e nostalgico salmo 136: Sui fiumi di Babilonia la` sedevamo piangendo al ricordo di Sion, si conclude con una crudelissima invettiva contro la citta` nemica: beato chi afferrera` i tuoi piccoli e li sfracellera` contro la pietra. Come pregare questi versetti da parte di persone non preparate a leggere e capire il genere letterario dei salmi? Eppure anche questi salmi sono Parola di Dio e Gesu` li ha pregati. In ogni caso si e` deciso di tralasciare questi salmi o questi versetti (i monaci invece, giustamente, li hanno mantenuti).
I salmi storici (77, 104, 105) sono quei salmi che ripercorrono la storia del popolo ebreo. Che senso possono avere nella preghiera dei cristiani? Hanno senso nel fatto che essi ripercorrono le opere salvifiche di Dio, che avranno il loro coronamento nella morte e resurrezione di Gesu`, nella pasqua di Gesu`. Per questo motivo questi salmi storici sono stati riservati al sabato (di Avvento e Natale, Quaresima e Pasqua), come introduzione alla domenica (PNLO, n. 130).
Cantici biblici e evangelici
ai 150 salmi, nel tempo erano subentrati nella preghiera cristiana della LO anche altri Cantici presenti in altri libri biblici dell’AT, e negli stessi vangeli (Benedictus, Magnificat, Nunc. dimittis). Il numero del Cantici biblici fu completato in modo che ogni giorno delle quattro settimane avesse un suo cantico dell’AT alle Lodi; si aggiunsero poi 9 cantici presi dai libri del NT da recitarsi settimanalmente nei Vespri (questi ultimi cantici sono una novita`) e si e` conservata la recita quotidiana dei tre cantici evangelici per Lodi, Vespri e Compieta.
Assegnazione dei salmi nelle varie celebrazioni del giorno
(PNLO, nn. 126-135 sui salmi; 136-139 sui Cantici)
Cio` premesso ci chiediamo con quali criteri sono stati scelti giorno per giorno i salmi e i cantici. Forse questo ci aiutera` a pregare meglio le varie Ore del giorno. Teniamo presente che il canto dei salmi c’e` anche nella Liturgia delle Parola della liturgia eucaristica, come salmi responsoriali o canti (antifone) di ingresso.
1. Salmi invitatori (PNLO, nn. 34-36).
Essi hanno il compito di introdurre alla preghiera del giorno, sono un invito a cantare le lodi di Dio, ad ascoltare la sua voce, aspettando il riposo del Signore. Si cantano o si recitano al mattino, come prima preghiera, in forma responsoriale.
Il tradizionale salmo invitatorio, introduttivo alla preghiera, e` il salmo 94, Venite applaudiamo al Signore, un invito solenne a lodare ringraziare, adorare, ascoltare; l’ascolto esige una risposta.
A questo salmo ne sono stati aggiunti altri tre. Il salmo 99, Acclamate al Signore voi tutti della terra; e` simile al salmo 94; tutto pervaso di gioia per l’incontro col Signore, nostro creatore e nostro pastore. Il salmo 66, Dio abbia pieta` di noi e ci benedica; tre brevi strofe con un ritornello di alleluia; esprime l’anelito che il regno di Dio si estenda a tutti i popoli. Infine il salmo 23, Del Signore e` la terra e quanto contiene; un salmo che esprime le condizioni ideali per entrare davanti al Signore; una esortazione ad allargare le porte perche´ entri il Signore a regnare nel nostro cuore.
2. Salmi a Lodi mattutine, Vespri e Compieta (PNLO, nn. 37-54.84ss. 136-139).
a) Le Lodi mattutine. Sono stati scelti tre salmi, in crescendo come importanza. Il primo salmo e` inerente all’ora del mattino, un salmo legato alla luce. Il secondo e` un cantico dell’AT. Complessivamente i Cantici del VT sono 26, alcuni presi dalla tradizione, altri dall’Ufficio monastico. I cantici delle lodi delle domeniche sono ripetuti. Il terzo salmo infine e` il vero canto di lode; e` il piu` importante e solenne dei tre, e lo deve essere anche nel tono.
b) Vespri. Per questa preghiera si sono scelti dei salmi piu` semplici, a partire dal salmo 109 (l’ultima parte del salterio, che sono salmi di lode). Come terzo canto e` stato scelto un cantico del NT, il piu` importante dei tre. Complessivamente sono 9 i cantici del NT, presi in prevalenza dal libro dell’Apocalisse. Ai Vespri delle domeniche nel tempo di quaresima, il cantico alleluiatico di Apocalisse 19 (Alleluia. Salvezza gloria e potenza) e` stato sostituito da 1Pt 2, 21-24 (Cristo pati` per voi). Inoltre per l’Epifania e la Trasfigurazione si e` ricorso a 1Tm 3,16 (Cristo si manifesto` nella carne).
c) Compieta. Per questa Ora prima del sonno (non della sera) sono stati scelti dei salmi di fiducia in Dio, con la possibilita` di pregare tutti i giorni i salmi della domenica, in particolare il salmo 90: Tu che abiti al riparo dell’Altissimo, un salmo di abbandono in Dio.
La preghiera dei salmi viene aiutata dal titolo proprio del salmo e dalle antifone, che ne mettono a fuoco alcuni aspetti. Si voleva riprendere anche l’uso antico della orazioni salmiche, che sono un interpretare il salmo in senso cristologico, ma l’intento non ha trovato molto seguito (nn. 110-120).
Salmi nelle celebrazioni settimanali e nelle solennita` e feste
a) Salmi secondo i giorni della settimana. Per tradizione si e` tenuto conto anche dei giorni della settimana, in particolare della domenica, la cui celebrazione inizia con i primi vespri, la quale ha una dimensione spiccatamente pasquale. Sarebbe lungo enumerare tutti i salmi della domenica, settimana per settimana. Alleniamoci a scoprire in questi salmi la dimensione pasquale. Anche il mattutino del sabato risente talvolta della attrazione della domenica. Uguale attenzione si e` dato al venerdi`, con una dimensione penitenziale. Alle Lodi del venerdi` c’e` sempre il salmo 50 (Pieta` di me o Dio) e nell’Ora media della 3a settimana il salmo 21 (Dio mio, Dio mio, perche´ mi hai dimenticato).
b) Salmi nelle solennita` e feste. Pensiamo in particolare alle solennita` di Natale, Epifania, Pasqua (Triduo pasquale), Ascensione e Pentecoste, sulle quali c’era gia` stata molta attenzione anche in passato. Uguale lavorio per i Comuni: Dedicazione, Beata Vergine Maria, apostoli, martiri, confessori e dottori, vergini, santi e sante, e per l’Ufficio dei defunti. Una qualche differenziazione c’e` anche tra le solennita` e le feste: piu` curate, nella forma d’insieme, le prime. La scelta di un salmo e` suggerita da qualche suo versetto particolare, spesso nella tradizione latina o nella traduzione italiana. Cambiando la traduzione (gli agganci) talvolta si e` cambiato anche il salmo.
In ambito domenicano pensiamo alle solennita` e alla feste del nostro calendario: san Domenico, san Tommaso, santa Caterina da Siena, sant’Alberto Magno (non so se sara` possibile mantenere questo grado anche nel nuovo Ordinamento del Calendario domenicano, in attesa di approvazione da parte della Congregazione per il culto).
Vorrei inserire qui una riflessione riguardo la celebrazione dei confessori e dottori, finora uniti insieme in un medesimo formulario. Essere confessori (pastori: vescovi, sacerdoti e diaconi) e essere dottori, sono due cose diverse, perche´ possono essere dottori anche dei cristiani non insigniti del sacramento dell’Ordine (esempio delle donne). Questo portera`, penso, in futuro, a qualche ulteriore distinzione. In ogni caso, anche riguardo gli insigniti del sacramento dell’Ordine, mi sembra piu` importante essere vescovi e sacerdoti che dottori. Perche´ esser dottori evidenzia un ministero particolare, quello profetico, rispetto ai ministero pastorale che include tre funzioni: sacerdotale, profetico e regale. Naturalmente queste considerazioni, in concreto, dipendono dal carattere particolare dei singoli confessori, se sono stati piu` grandi nel ministero pastorale o in quello magisteriale. Nell’Ordine domenicano si e` dato naturalmente piu` importanza al fatto di essere dottori che essere vescovi, ma teologicamente non e` cosi` (mi sembra). Ulteriori riflessioni sui salmi porteranno forse a preferire alcuni di essi piuttosto che altri. La Liturgia non e` mai un tutto fisso.

Conclusione
Concludo citando un testo della bella Introduzione alla Liturgia delle Ore, che mi sembra significativo, proprio sui salmi.
“Nella Liturgia delle Ore la Chiesa prega in gran parte con quei bellissimi canti, che i sacri autori, sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, hanno composto nell’Antico Testamento. Per la loro stessa origine, infatti, essi hanno una capacita` tale da elevare la mente degli uomini a Dio, da suscitare in essi pii e santi affetti, da aiutarli mirabilmente a render grazie a Dio nelle circostanze prospere, da recare consolazione e fermezza d’animo nelle avversita`.
I salmi, tuttavia, non offrono che un’immagine imperfetta di quella pienezza dei tempi che apparve in Cristo Signore e dalla quale trae il suo vigore la preghiera della Chiesa. Pertanto puo` talvolta accadere che, pur concordando tutti i cristiani nella somma stima dei salmi, trovino tuttavia qualche difficolta`, nello stesso tempo in cui cercano di far propri nella preghiera quei canti venerandi.
Ma lo Spirito Santo, sotto la cui ispirazione i salmisti hanno cantato, assiste sempre con la sua grazia coloro che eseguono tali inni con fede e buona volonta`. E` tuttavia necessario che ciascuno, secondo le sue possibilita`, si procuri «una maggiore formazione biblica, specialmente riguardo ai salmi». Inoltre si deve arrivare ad assimilare bene il modo e il metodo migliore per pregarli come si conviene” (PNLO, cap. III, nn. 100-102).
Riferimenti-base per approfondire il discorso
- La Costituzione conciliare Sacrosanctum Concilium (=SC), nn. 83-101 (dic. 1964)
- La Costituzione apostolica di Paolo VI Laudis Canticum, per la promulgazione del rinnovato Ufficio divino (nov. 1970).
- Principi e norme per la Liturgia delle Ore (=PNLO, Introduzione alla LO) (aprile 1971). Qui vedere in particolare il cap. II. La santificazione del giorno ossia le varie Ore liturgiche (nn. 34 ss), e il cap. III. I diversi elementi della Liturgia delle Ore: I. I salmi (nn. 100-109); III. Il modo di Salmodiare (121-15); IV Criteri di distribuzione dei salmi nell’Ufficio (nn. 126-135); V I cantici dell’Antico e Nuovo Testamento (nn. 136-139); cap. V. Riti da osservare…: II. Il canto nell’Ufficio (nn. 267-284, in particolare, nn. 278-279).
- Lo studio di IOSEPH PASCHER, Il Nuovo ordinamento della salmodia nella Liturgia romana delle Ore, in: AA.VV., Liturgia delle Ore, Quaderni di Rivista Liturgica, n. 14, Elledici, Torino-Leumann, 1972, pp. 161- 184, uscito a commento subito dopo la riforma. Il presente articolo deve molto a questo studio.

(il testo e` apparso nel fascicolo 1, 2019 di Dominicus)

Publié dans:BIBBIA, BIBBIA. A.T. SALMI |on 17 juin, 2019 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI – UDIENZA GENERALE – IL « GRANDE HALLEL » SALMO 136 (135)

https://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2011/documents/hf_ben-xvi_aud_20111019.html

BENEDETTO XVI – UDIENZA GENERALE – IL « GRANDE HALLEL » SALMO 136 (135)

Piazza San Pietro

Mercoledì, 19 ottobre 2011

Cari fratelli e sorelle,

oggi vorrei meditare con voi un Salmo che riassume tutta la storia della salvezza di cui l’Antico Testamento ci dà testimonianza. Si tratta di un grande inno di lode che celebra il Signore nelle molteplici, ripetute manifestazioni della sua bontà lungo la storia degli uomini; è il Salmo 136 – o 135 secondo la tradizione greco-latina.
Solenne preghiera di rendimento di grazie, conosciuto come il “Grande Hallel”, questo Salmo è tradizionalmente cantato alla fine della cena pasquale ebraica ed è stato probabilmente pregato anche da Gesù nell’ultima Pasqua celebrata con i discepoli; ad esso sembra infatti alludere l’annotazione degli Evangelisti: «Dopo aver cantato l’inno, uscirono verso il monte degli Ulivi» (cfr Mt 26,30; Mc 14,26). L’orizzonte della lode illumina così la difficile strada del Golgota. Tutto il Salmo 136 si snoda in forma litanica, scandito dalla ripetizione antifonale «perché il suo amore è per sempre». Lungo il componimento, vengono enumerati i molti prodigi di Dio nella storia degli uomini e i suoi continui interventi in favore del suo popolo; e ad ogni proclamazione dell’azione salvifica del Signore risponde l’antifona con la motivazione fondamentale della lode: l’amore eterno di Dio, un amore che, secondo il termine ebraico utilizzato, implica fedeltà, misericordia, bontà, grazia, tenerezza. È questo il motivo unificante di tutto il Salmo, ripetuto in forma sempre uguale, mentre cambiano le sue manifestazioni puntuali e paradigmatiche: la creazione, la liberazione dell’esodo, il dono della terra, l’aiuto provvidente e costante del Signore nei confronti del suo popolo e di ogni creatura.
Dopo un triplice invito al rendimento di grazie al Dio sovrano (vv. 1-3), si celebra il Signore come Colui che compie «grandi meraviglie» (v. 4), la prima delle quali è la creazione: il cielo, la terra, gli astri (vv. 5-9). Il mondo creato non è un semplice scenario su cui si inserisce l’agire salvifico di Dio, ma è l’inizio stesso di quell’agire meraviglioso. Con la creazione, il Signore si manifesta in tutta la sua bontà e bellezza, si compromette con la vita, rivelando una volontà di bene da cui scaturisce ogni altro agire di salvezza. E nel nostro Salmo, riecheggiando il primo capitolo della Genesi, il mondo creato è sintetizzato nei suoi elementi principali, insistendo in particolare sugli astri, il sole, la luna, le stelle, creature magnifiche che governano il giorno e la notte. Non si parla qui della creazione dell’essere umano, ma egli è sempre presente; il sole e la luna sono per lui – per l’uomo – per scandire il tempo dell’uomo, mettendolo in relazione con il Creatore soprattutto attraverso l’indicazione dei tempi liturgici.
Ed è proprio la festa di Pasqua che viene evocata subito dopo, quando, passando al manifestarsi di Dio nella storia, si inizia con il grande evento della liberazione dalla schiavitù egiziana, dell’esodo, tracciato nei suoi elementi più significativi: la liberazione dall’Egitto con la piaga dei primogeniti egiziani, l’uscita dall’Egitto, il passaggio del Mar Rosso, il cammino nel deserto fino all’entrata nella terra promessa (vv. 10-20). Siamo nel momento originario della storia di Israele. Dio è intervenuto potentemente per portare il suo popolo alla libertà; attraverso Mosè, suo inviato, si è imposto al faraone rivelandosi in tutta la sua grandezza ed, infine, ha piegato la resistenza degli Egiziani con il terribile flagello della morte dei primogeniti. Così Israele può lasciare il Paese della schiavitù, con l’oro dei suoi oppressori (cfr Es 12,35-36), «a mano alzata» (Es 14,8), nel segno esultante della vittoria. Anche al Mar Rosso il Signore agisce con misericordiosa potenza. Davanti ad un Israele spaventato alla vista degli Egiziani che lo inseguono, tanto da rimpiangere di aver lasciato l’Egitto (cfr Es 14,10-12), Dio, come dice il nostro Salmo, «divise il Mar Rosso in due parti […] in mezzo fece passare Israele […] vi travolse il faraone e il suo esercito» (vv. 13-15). L’immagine del Mar Rosso “diviso” in due, sembra evocare l’idea del mare come un grande mostro che viene tagliato in due pezzi e così reso inoffensivo. La potenza del Signore vince la pericolosità delle forze della natura e di quelle militari messe in campo dagli uomini: il mare, che sembrava sbarrare la strada al popolo di Dio, lascia passare Israele all’asciutto e poi si richiude sugli Egiziani travolgendoli. «La mano potente e il braccio teso» del Signore (cfr Deut 5,15; 7,19; 26,8) si mostrano così in tutta la loro forza salvifica: l’ingiusto oppressore è stato vinto, inghiottito dalle acque, mentre il popolo di Dio “passa in mezzo” per continuare il suo cammino verso la libertà.
A questo cammino fa ora riferimento il nostro Salmo ricordando con una frase brevissima il lungo peregrinare di Israele verso la terra promessa: «Guidò il suo popolo nel deserto, perché il suo amore è per sempre» (v. 16). Queste poche parole racchiudono un’esperienza di quarant’anni, un tempo decisivo per Israele che lasciandosi guidare dal Signore impara a vivere di fede, nell’obbedienza e nella docilità alla legge di Dio. Sono anni difficili, segnati dalla durezza della vita nel deserto, ma anche anni felici, di confidenza nel Signore, di fiducia filiale; è il tempo della “giovinezza”, come lo definisce il profeta Geremia parlando a Israele, a nome del Signore, con espressioni piene di tenerezza e di nostalgia: «Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento, quando mi seguivi nel deserto, in terra non seminata» (Ger 2,2). Il Signore, come il pastore del Salmo 23 che abbiamo contemplato in una catechesi, per quarant’anni ha guidato il suo popolo, lo ha educato e amato, conducendolo fino alla terra promessa, vincendo anche le resistenze e l’ostilità di popoli nemici che volevano ostacolarne il cammino di salvezza (cfr vv. 17-20).
Nello snodarsi delle «grandi meraviglie» che il nostro Salmo enumera, si giunge così al momento del dono conclusivo, nel compiersi della promessa divina fatta ai Padri: «Diede in eredità la loro terra, perché il suo amore è per sempre; in eredità a Israele suo servo, perché il suo amore è per sempre» (vv. 21-22). Nella celebrazione dell’amore eterno del Signore, si fa ora memoria del dono della terra, un dono che il popolo deve ricevere senza mai impossessarsene, vivendo continuamente in un atteggiamento di accoglienza riconoscente e grata. Israele riceve il territorio in cui abitare come “eredità”, un termine che designa in modo generico il possesso di un bene ricevuto da un altro, un diritto di proprietà che, in modo specifico, fa riferimento al patrimonio paterno. Una delle prerogative di Dio è di “donare”; e ora, alla fine del cammino dell’esodo, Israele, destinatario del dono, come un figlio, entra nel Paese della promessa realizzata. È finito il tempo del vagabondaggio, sotto le tende, in una vita segnata dalla precarietà. Ora è iniziato il tempo felice della stabilità, della gioia di costruire le case, di piantare le vigne, di vivere nella sicurezza (cfr Dt 8,7-13). Ma è anche il tempo della tentazione idolatrica, della contaminazione con i pagani, dell’autosufficienza che fa dimenticare l’Origine del dono. Perciò il Salmista menziona l’umiliazione e i nemici, una realtà di morte in cui il Signore, ancora una volta, si rivela come Salvatore: «Nella nostra umiliazione si è ricordato di noi, perché il suo amore è per sempre; ci ha liberati dai nostri avversari, perché il suo amore è per sempre» (vv. 23-24).
A questo punto nasce la domanda: come possiamo fare di questo Salmo una preghiera nostra, come possiamo appropriarci, per la nostra preghiera, di questo Salmo? Importante è la cornice del Salmo, all’inizio e alla fine: è la creazione. Ritorneremo su questo punto: la creazione come il grande dono di Dio del quale viviamo, nel quale Lui si rivela nella sua bontà e grandezza. Quindi, tener presente la creazione come dono di Dio è un punto comune per noi tutti. Poi segue la storia della salvezza. Naturalmente noi possiamo dire: questa liberazione dall’Egitto, il tempo del deserto, l’entrata nella Terra Santa e poi gli altri problemi, sono molto lontani da noi, non sono la nostra storia. Ma dobbiamo stare attenti alla struttura fondamentale di questa preghiera. La struttura fondamentale è che Israele si ricorda della bontà del Signore. In questa storia ci sono tante valli oscure, ci sono tanti passaggi di difficoltà e di morte, ma Israele si ricorda che Dio era buono e può sopravvivere in questa valle oscura, in questa valle della morte, perché si ricorda. Ha la memoria della bontà del Signore, della sua potenza; la sua misericordia vale in eterno. E questo è importante anche per noi: avere una memoria della bontà del Signore. La memoria diventa forza della speranza. La memoria ci dice: Dio c’è, Dio è buono, eterna è la sua misericordia. E così la memoria apre, anche nell’oscurità di un giorno, di un tempo, la strada verso il futuro: è luce e stella che ci guida. Anche noi abbiamo una memoria del bene, dell’amore misericordioso, eterno di Dio. La storia di Israele è già una memoria anche per noi, come Dio si è mostrato, si è creato un suo popolo. Poi Dio si è fatto uomo, uno di noi: è vissuto con noi, ha sofferto con noi, è morto per noi. Rimane con noi nel Sacramento e nella Parola. E’ una storia, una memoria della bontà di Dio che ci assicura la sua bontà: il suo amore è eterno. E poi anche in questi duemila anni della storia della Chiesa c’è sempre, di nuovo, la bontà del Signore. Dopo il periodo oscuro della persecuzione nazista e comunista, Dio ci ha liberati, ha mostrato che è buono, che ha forza, che la sua misericordia vale per sempre. E, come nella storia comune, collettiva, è presente questa memoria della bontà di Dio, ci aiuta, ci diventa stella della speranza, così anche ognuno ha la sua storia personale di salvezza, e dobbiamo realmente far tesoro di questa storia, avere sempre presente la memoria delle grandi cose che ha fatto anche nella mia vita, per avere fiducia: la sua misericordia è eterna. E se oggi sono nella notte oscura, domani Egli mi libera perché la sua misericordia è eterna.
Ritorniamo al Salmo, perché, alla fine, ritorna alla creazione. Il Signore – così dice – «dà il cibo a ogni vivente, perché il suo amore è per sempre» (v. 25). La preghiera del Salmo si conclude con un invito alla lode: «Rendete grazie al Dio del cielo, perché il suo amore è per sempre». Il Signore è Padre buono e provvidente, che dà l’eredità ai propri figli ed elargisce a tutti il cibo per vivere. Il Dio che ha creato i cieli e la terra e le grandi luci celesti, che entra nella storia degli uomini per portare alla salvezza tutti i suoi figli è il Dio che colma l’universo con la sua presenza di bene prendendosi cura della vita e donando pane. L’invisibile potenza del Creatore e Signore cantata nel Salmo si rivela nella piccola visibilità del pane che ci dà, con il quale ci fa vivere. E così questo pane quotidiano simboleggia e sintetizza l’amore di Dio come Padre, e ci apre al compimento neotestamentario, a quel “pane di vita”, l’Eucaristia, che ci accompagna nella nostra esistenza di credenti, anticipando la gioia definitiva del banchetto messianico nel Cielo.
Fratelli e sorelle, la lode benedicente del Salmo 136 ci ha fatto ripercorrere le tappe più importanti della storia della salvezza, fino a giungere al mistero pasquale, in cui l’azione salvifica di Dio arriva al suo culmine. Con gioia riconoscente celebriamo dunque il Creatore, Salvatore e Padre fedele, che «ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna» (Gv 3,16). Nella pienezza dei tempi, il Figlio di Dio si fa uomo per dare la vita, per la salvezza di ciascuno di noi, e si dona come pane nel mistero eucaristico per farci entrare nella sua alleanza che ci rende figli. A tanto giunge la bontà misericordiosa di Dio e la sublimità del suo “amore per sempre”.
Voglio perciò concludere questa catechesi facendo mie le parole che San Giovanni scrive nella sua Prima Lettera e che dovremmo sempre tenere presenti nella nostra preghiera: «Vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio, e lo siamo realmente» (1Gv 3,1). Grazie.

 

Publié dans:BIBBIA, BIBBIA. A.T. SALMI |on 6 juin, 2019 |Pas de commentaires »

LECTIO DIVINA SU AT 2, 1 – 12 LA PENTECOSTE. (IL Papa oggi mercoledì…

https://dondavidarca.wordpress.com/2013/05/14/lectio-divina-su-at-2-1-12-la-pentecoste/

LECTIO DIVINA SU AT 2, 1 – 12 LA PENTECOSTE. (IL Papa oggi mercoledì…

ha parlato del suo viaggio in Romania, io posto questa letio, presumo che la prossima settimana continui con li Atti)

At 2, 1 – 12: la Pentecoste.

1 Mentre stava compiendosi il giorno della Pentecoste, si trovavano tutti insieme nello stesso luogo. 2Venne all’improvviso dal cielo un fragore, quasi un vento che si abbatte impetuoso, e riempì tutta la casa dove stavano. 3Apparvero loro lingue come di fuoco, che si dividevano, e si posarono su ciascuno di loro, 4e tutti furono colmati di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, nel modo in cui lo Spirito dava loro il potere di esprimersi.
5Abitavano allora a Gerusalemme Giudei osservanti, di ogni nazione che è sotto il cielo. 6A quel rumore, la folla si radunò e rimase turbata, perché ciascuno li udiva parlare nella propria lingua. 7Erano stupiti e, fuori di sé per la meraviglia, dicevano: «Tutti costoro che parlano non sono forse Galilei? 8E come mai ciascuno di noi sente parlare nella propria lingua nativa? 9Siamo Parti, Medi, Elamiti, abitanti della Mesopotamia, della Giudea e della Cappadòcia, del Ponto e dell’Asia, 10della Frìgia e della Panfìlia, dell’Egitto e delle parti della Libia vicino a Cirene, Romani qui residenti, 11Giudei e prosèliti, Cretesi e Arabi, e li udiamo parlare nelle nostre lingue delle grandi opere di Dio». 12Tutti erano stupefatti e perplessi, e si chiedevano l’un l’altro: «Che cosa significa questo?». 13Altri invece li deridevano e dicevano: «Si sono ubriacati di vino dolce».

Nei vv. 1 – 4 è narrata la discesa dello Spirito. Invece dal v. 5 lo scenario cambia improvvisamente per aprirsi ad una immagine mondiale con Gerusalemme sullo sfondo. Entrano infatti in scena giudei di ogni nazione del mondo. Scompare il contesto spaziale della casa in cui erano radunati gli apostoli ed emerge un nuovo contesto simbolico che ha per sfondo Gerusalemme e in primo piano la folla immensa dei giudei.
Le due parti sono tra loro collegate grazie al riferimento del “parlare in lingue” (2, 4. 6), la folla infatti li ascolta parlare ciascuno nella sua lingua. Non si tratta di glossolalia, come la derisione di alcuni spingerebbe a pensare ( “si sono ubriacati di mosto”) ma precisamente di un parlare in modo comprensibile ad uomini di lingue diverse. Infatti Luca modifica la locuzione paolina “parlare in lingue”, indicante l’espressione inarticolata di suoni conosciuta come glossolalia, tramite un aggettivo: “altre”. Essi non stanno, secondo Luca, semplicemente parlando in lingue, ma in “altre lingue”, ossia stavano parlando “delle grandi opere di Dio” in lingue comprensibili a ciascun uditore.
Le immagini del fragore e del vento, descritti da Luca come una “voce” (v. 6), l’immagine del fuoco possono avere come sfondo la teofania (manifestazione di Dio) sul monte Sinai (Es 19, 16 – 19). [1]
ll fatto che i presenti siano riuniti tutti insieme nello stesso luogo rafforza l’idea di unità e comunione della prima Chiesa, non solo esteriore, ma anche intima e spirituale. Essi infatti sono seduti, in un posizione abituale alla preghiera sinagogale. Potrebbero essere solo i dodici apostoli (cfr. 2, 14) ma più probabilmente qui si allude ai 120 che già erano riuniti nello stesso luogo, per la scelta del sostituto di Giuda (cfr. 1, 15). Come nel battesimo di Gesù, anche qui l’evento scaturisce dal cielo come un rumore di vento impetuoso, che riempie tutta la casa. Se il vento può essere un immagine collegabile allo Spirito (cfr. Gv 20, 22) in realtà l’accento di questa descrizione cade sulla totalità, ossia sul fatto che la presenza di Dio riempie tutto di se stessa, secondo una modalità cara all’Antico Testamento (cfr. Is 6, 3). Le lingue di fuoco si dividono e cadono ciascuna su ogni presente. L’immagine mostra chiaramente un unico fuoco e vuole significare la capacità dello Spirito di essere presente, nella sua unità e totalità in ciascun individuo singolarmente. A sua volta la metafora della fiamma come lingua di fuoco, anticipa il dono della parola, il potere di parlare in “altre” lingue. Questa pienezza dello Spirito Santo si riversa su ognuno e lo riempie di una potenza comunicativa, in grado di trasferire la testimonianza degli apostoli in “altre lingue”. Il contenuto di questa comunicazione sono le grandi opere di Dio, ossia il Vangelo che viene annunziato a tutti i popoli. Quando la scena cambia di colpo, con l’immagine dei giudei di tutti i popoli (v. 5), essa era già stata preparata dal riferimento alle lingue parlate dagli apostoli.
Chi sono questi personaggi che godono dell’annuncio evangelico? Si tratta di giudei, residenti a Gerusalemme e provenienti da tutte le nazioni del mondo. Tale presenza di giudei della diaspora a Gerusalemme è storicamente attestata ma ha anche un significato profondamente simbolico per Luca. La salvezza viene dai giudei, e nella prima parte del libro degli atti il Vangelo è annunciato solo ad essi. Essi sono residenti a Gerusalemme, come luogo del mistero Pasquale di Cristo, da cui il Vangelo si irradia fino ai confini del mondo. Essi provengono da tutti i popoli del mondo, per indicare l’universalità dell’annuncio che parte da Gerusalemme. Ciò che qui sta accadendo, contiene in nuce tutto il libro degli Atti.
Le domande retoriche di questa folla (vv. 7 – 8), intendono sottolineare il carattere miracoloso di questo accadimento, per il lettore. Se dei poveri galilei, gente dalla provenienza non così illustre, acquistano il potere di parlare in tante lingue diverse e portare un annuncio di questo tipo fino ai confini del mondo, ciò non può che provenire da Dio. L’elenco delle nazioni (vv. 9 – 11) intende moltiplicare la meraviglia del lettore attraverso lo stupore degli astanti, per una così grande varietà di popolazioni raggiunte. Si tratta probabilmente di una lista di regioni della diaspora giudaica, a cui Luca aggiunge la specifica “giudei e proseliti” (v. 11), che indica la presenza sia dei circoncisi già appartenenti al giudaismo, sia di quei pagani che si erano avvicinati al giudaismo e avevano iniziato a frequentare il culto sinagogale. Il carattere missionario del giudaismo ellenistico di epoca romana diviene ora proprio della comunità cristiana, che utilizzando come punto di partenza le comunità giudaiche sparse lungo il mediterraneo e il medio oriente, arriverà ben presto a raggiungere tutti i confini del mondo conosciuto.
In una visione unitaria e sintetica viene riassunto tutto il progetto salvifico ed insieme ecclesiologico degli Atti degli Apostoli, ossia generare, attraverso l’annuncio apostolico, un’ unica Chiesa universale in ciascuna delle Chiese che nasceranno nei diversi luoghi e culture del mondo. Come le fiamme di un unico fuoco si dividono su ciascun apostolo, senza diminuire la loro potenza e pienezza, così il messaggio di un unico vangelo si rende presente in ogni uditore, rendendo possibile la nascita dell’unica Chiesa, nelle tante Chiese fondate dalla predicazione degli Apostoli.
Suggerimenti per la preghiera
1. Mi dispongo davanti a Dio in preghiera. Sto in ginocchio o seduto, per entrare in colloquio con il Signore, o meditare su ciò che leggo, a seconda di ciò che voglio.
2. Leggo con attenzione il brano di Vangelo.
3. Chiedo al Signore di godere intensamente dei santi effetti della resurrezione, che si manifestano nel dono dello Spirito che Gesù fa anche a me nella Chiesa.
4. Vedo le persone che agiscono, osservo come si comportano. I discepoli sono insieme nello stesso luogo, perché lo Spirito non agisce su superuomini solitari ma su uomini radunati insieme nella Chiesa.
5. Ascolto ciò che dicono i personaggi. Lo stupore degli uditori della Parola è anche il mio. Come può la parola del Vangelo essere moltiplicata in modo tale e rimanere sempre se stessa? Considero le grandi diversità di cultura, storia, sensibilità che vi sono nella Chiesa tra le tante Chiese locali e i diversi movimenti e li immagino come la manifestazione dell’unica fiamma dello Spirito che si divide in tante “lingue”, pur rimanendo se stessa.
6. Come gli apostoli, anch’io ricevo il dono dello Spirito per poter parlare le “lingue” dei bambini, degli anziani, degli adulti e in genere degli uomini e delle donne di oggi. La comunicazione del Vangelo avviene infatti per un contatto “cuore a cuore” che solo lo Spirito può provocare. Supplico il Signore di utilizzarmi, se e come vuole, per essere testimone ed evangelizzatore del Suo Vangelo. Prego anche per la Chiesa di Rimini, che possa vivere una sempre maggiore forza spirituale per comunicare il Vangelo agli uomini di oggi.
7. Concludo con un Padre Nostro.

[1] Ad esempio secondo Filone di Alessandria questa voce e questo fuoco del Sinai sono in realtà un’unica manifestazione di un “rumore” che agita l’aria e la trasforma in un “fuoco a forma di fiamme”. Una conferma ulteriore viene dal fatto che la tradizione rabbinica ha messo in relazione anche la festa di Pentecoste con il dono della Legge (cfr. Giub 1, 1). Dunque la Pentecoste è il tempo in cui viene sancita la nuova alleanza, con la voce di Dio e il fuoco, che sono simboli del dono dello Spirito, che compie la legge (Ez 36, 26). Non a caso infine coloro che godranno di questo fenomeno spirituale narrato da Luca sono giudei pii, ossia osservanti della legge, provenienti da ogni nazione.

BENEDETTO XVI -UDIENZA SALMO 123 – (2005)

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/audiences/2005/documents/hf_ben-xvi_aud_20050622.html

BENEDETTO XVI -UDIENZA SALMO 123 – (2005)

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 22 giugno 2005

Salmo 123
Il nostro aiuto è nel nome del Signore
Vespri – Lunedì 3a settimana

1. Ecco davanti a noi il Salmo 123, un canto di ringraziamento intonato da tutta la comunità orante che eleva a Dio la lode per il dono della liberazione. Il Salmista proclama in apertura questo invito: «Lo dica Israele!» (v. 1), stimolando così tutto il popolo a innalzare un grazie vivo e sincero al Dio salvatore. Se il Signore non si fosse schierato dalla parte delle vittime, esse con le loro forze limitate sarebbero state impotenti a liberarsi e gli avversari, simili a mostri, le avrebbero dilaniate e stritolate.
Anche se si è pensato a qualche evento storico particolare, come la fine dell’esilio babilonese, è più probabile che il Salmo voglia essere un inno inteso a ringraziare il Signore per gli scampati pericoli e ad implorare da Lui la liberazione da ogni male.
2. Dopo l’accenno iniziale a certi «uomini» che assalivano i fedeli ed erano capaci di «inghiottirli vivi» (cfr vv. 2-3), due sono i momenti del canto. Nella prima parte dominano le acque dilaganti, simbolo per la Bibbia del caos devastatore, del male e della morte: «Le acque ci avrebbero travolti; un torrente ci avrebbe sommersi, ci avrebbero travolti acque impetuose» (vv. 4-5) L’orante prova ora la sensazione di trovarsi su una spiaggia, miracolosamente salvato dalla furia impetuosa del mare.
La vita dell’uomo è circondata dall’agguato dei malvagi che non solo attentano alla sua esistenza ma vogliono distruggere anche tutti i valori umani. Il Signore si erge, però, a tutela del giusto e lo salva, come si canta nel Salmo 17: «Stese la mano dall’alto e mi prese, mi sollevò dalle grandi acque, mi liberò da nemici potenti, da coloro che mi odiavano… Il Signore fu mio sostegno; mi portò al largo, mi liberò perché mi vuol bene» (vv. 17-20).
3. Nella seconda parte del nostro canto di ringraziamento si passa dall’immagine marina a una scena di caccia, tipica di molti Salmi di supplica (cfr Sal 123,6-8). Ecco, infatti, l’evocazione di una belva che stringe tra le sue fauci una preda, o di una rete di cacciatori che cattura un uccello. Ma la benedizione espressa dal Salmo ci fa comprendere che il destino dei fedeli, che era un destino di morte, è stato radicalmente mutato da un intervento salvifico: «Sia benedetto il Signore, che non ci ha lasciato in preda ai loro denti. Noi siamo stati liberati come un uccello dal laccio dei cacciatori: il laccio si è spezzato e noi siamo scampati» (vv. 6-7).
La preghiera diviene qui un respiro di sollievo che sale dal profondo dell’anima: anche quando cadono tutte le speranze umane, può apparire la potenza liberatrice divina. Il Salmo si può, quindi, concludere con una professione di fede, entrata da secoli nella liturgia cristiana come premessa ideale di ogni nostra preghiera: «Adiutorium nostrum in nomine Domini, qui fecit caelum et terram – Il nostro aiuto è nel nome del Signore; Egli ha fatto il cielo e la terra» (v. 8). In particolare l’Onnipotente si schiera dalla parte delle vittime e dei perseguitati «che gridano giorno e notte verso di lui» e «farà loro giustizia prontamente» (cfr Lc 18,7-8).
4. Sant’Agostino dà di questo Salmo un commento articolato. In un primo tempo, egli osserva che questo Salmo è adeguatamente cantato dalle «membra di Cristo che hanno conseguito la felicità». Quindi, in particolare, «lo hanno cantato i santi martiri, i quali, usciti da questo mondo, sono con Cristo nella gioia, pronti a riprendere incorrotti quegli stessi corpi che prima erano corruttibili. In vita subirono tormenti nel corpo, ma nell’eternità questi tormenti si cambieranno in ornamenti di giustizia».
Però, in un secondo tempo, il Vescovo di Ippona ci dice che anche noi possiamo cantare questo Salmo nella speranza. Egli dichiara: «Siamo anche noi animati da sicura speranza e canteremo nell’esultanza. Non sono infatti estranei a noi i cantori di questo Salmo… Pertanto, cantiamo tutti in unità di cuore: tanto i santi che posseggono già la corona quanto noi che con l’affetto ci uniamo nella speranza alla loro corona. Insieme desideriamo quella vita che quaggiù non abbiamo ma che non potremo mai avere se prima non l’abbiamo desiderata».
Sant’Agostino ritorna allora alla prima prospettiva e spiega: «Ripensano i santi alle sofferenze che hanno incontrate, e dal luogo di beatitudine e di tranquillità dove ora si trovano guardano al cammino percorso per arrivarvi; e, siccome sarebbe stato difficile conseguire la liberazione se non fosse intervenuta a soccorrerli la mano del Liberatore, pieni di gioia esclamano: ‘Se il Signore non fosse stato con noi’. Così inizia il loro canto. Non hanno detto nemmeno da che cosa siano scampati, tanto grande è la loro esultanza» (Esposizione sul Salmo 123, 3: Nuova Biblioteca Agostiniana, XXVIII, Roma 1977, p. 65).

Publié dans:BIBBIA, BIBBIA. A.T. SALMI |on 22 avril, 2019 |Pas de commentaires »

IN ALTO LO SGUARDO! A TE CHE ABITI NEI CIELI. SALMO 123

http://www.communiobiblica.org/blog/2016/02/27/in-alto-lo-sguardo-a-te-che-abiti-nei-cieli-salmo-123/#

IN ALTO LO SGUARDO! A TE CHE ABITI NEI CIELI. SALMO 123

BY ROBERTO TADIELLO

27 FEBBRAIO 2016

Il quarto salmo della raccolta «I canti delle ascensioni» è caratterizzato dalla fiducia e contiene un motivo di supplica. L’orante pellegrino, che si trova in una situazione di costante umiliazione, si rivolge direttamente a Dio, elevando fiducioso i suoi occhi a Lui, come suo padrone e Signore. A nome della comunità lo supplica insistentemente (v. 3) perché si nuova a pietà del suo popolo, oggetto di scherno e di disprezzo da parte di nemici vanitosi e superbi (v. 4).

Dopo il titoletto («Canto delle ascensioni. Di Davide»), il salmo si suddivide in un’introduzione (v. 1b), cui segue la descrizione dell’atteggiamento di fiducia con l’immagine dei servi e della serva (v. 2) e una supplica finale con motivazione (vv. 3-4).

1 Canto delle salite. Di Davide.
A te alzo i miei occhi,
a te che siedi nei cieli.
2 Ecco, come gli occhi dei servi
alla mano dei loro padroni,
come gli occhi di una schiava
alla mano della sua padrona,
così i nostri occhi al Signore nostro Dio,
finché abbia pietà di noi.
3 Pietà di noi, Signore, pietà di noi,
siamo già troppo sazi di disprezzo,
4 troppo sazi noi siamo dello scherno dei gaudenti,
del disprezzo dei superbi.

Occhi al cielo
I vv. 1b-2 sono costruite sull’immagine degli occhi e della mano. Le parole «a te levo i miei occhi» con cui la preghiera si apre descrivono l’atteggiamento dell’orante biblico, come ad esempio nel Sal 121,1 («Alzo gli occhi verso i monti») oppure in Dan 13, 35 dove si dice che Susanna ingiustamente condannata, «piangendo alzò gli occhi al cielo, con il cuore pieno di fiducia nel Signore». Il gesto di alzare gli occhi è immagine della preghiera che sale a Dio. Il Salmo inizia, quindi, con un vortice ascensionale dello sguardo che è allegoria di una misteriosa elevazione spirituale, dal momento che i cieli sono considerati la sede della divinità. Qui il Signore non è nominato espressamente, ma in segno confidenziale l’orante gli si rivolge col pronome personale: «a Te». Dio per chi prega non è mai un estraneo! Il Signore viene tuttavia ben identificato dalle parole seguenti: Egli è colui che «abita nei cieli», sede del suo trono. Letteralmente Dio è invocato: «o mio abitante nei cieli». La confidenza della preghiera rasenta quasi il possesso da parte dell’orante di Dio e dice tutta l’intimità di relazione.
L’immagine degli occhi alzati per noi frequentatori dei vangeli ci riporta alla memoria i gesti simili compiuti da Gesù. Egli varie volte ha levato gli occhi al cielo per pregare; in particolare nella prima moltiplicazione dei pani e dei pesci raccontataci da Matteo: «Prese i cinque pani e i due pesci e, alzati gli occhi al cielo, pronunziò la benedizione…» (Mt 14, 19 e passi paralleli). Gesù anche in altre occasioni ha elevato gli occhi al cielo come ad esempio nella guarigione di un sordomuto (Mc 7,3), prima della risurrezione di Lazzaro (Gv 17,1) a cui fa poi seguire la seguente preghiera: «Padre, ti ringrazio che mi hai ascoltato. Io sapevo che sempre mi dai ascolto, ma l’ho detto per la gente che mi sta attorno, perché credano che tu mi hai mandato». Il gesto di elevare gli occhi manifesta in Gesù la sua profonda relazione e comunione con il Padre che lo ha mandato. Ancora una volta la preghiera scaturisce e si nutre dell’intimità dell’orante con Dio.
La mano protesa
Nel v. 2 il salmista specifica il significato del gesto dell’elevare gli occhi: è un atteggiamento di fiducia e di supplica perseverante. Lo fa ricorrendo ad un’altra metafora, questa volta con protagonisti i servi e i padroni, probabilmente desueta nel nostro immaginario, ma carica di significato nell’immaginario biblico. L’atteggiamento di implorazione e di fiducia, espresso dagli occhi, è paragonato a quello dei servi verso il loro padrone o di una schiava verso la sua padrona. Essi stanno attendendo un beneficio dalla mano del padrone o della padrona. Fuori dall’immagine, la mano è quella di Dio, che nella mentalità biblica, crea, protegge, benedice ed edifica. Ciò che viene ribadito è l’atteggiamento di fiducia che l’orante deve assumere, ma anche quello dell’insistenza, proprio perché, come il servo insiste verso il suo padrone per avere il necessario per vivere, così l’orante nei confronti di Dio. Lo stesso Gesù, ce lo ricorda l’evangelista Luca, invitava i suoi discepoli a pregare con perseveranza, anche rischiando di diventare importuni (Lc 11,5-10) e pregare continuamente senza stancarsi mai: «[Gesù] disse loro una parabola sulla necessità di pregare sempre, senza stancarsi…» (18,1.5).
Il secondo versetto si chiude con l’espressione: «finché abbia pietà di noi». Il salmista fa capire finalmente il motivo suo e quello della comunità di tanta insistenza nell’atteggiamento di supplica: essi si aspettano che Dio si muova a compassione per loro.
La richiesta diventa esplicita nei vv. 3-4 dove, con un imperativo, l’orante, non più solo ma con la comunità dei credenti, chiede «pietà di noi», di «avere pietà». La richiesta è insistente, dato che il verbo «avere pietà» è ripetuto per ben tre volte. Tale richiesta, che solo nel salterio ricorre più di venti volte, sarà ripresa nel Nuovo Testamento dai vari personaggi evangelici: i due ciechi (Mt 9,27), la donna cananea (Mt 15,22), l’epilettico (Mt 17,14), i due ciechi di Gerico (Mt 20,30), i dieci lebbrosi (Lc 17,13), il pubblicano nel tempio (Lc 18,13). La sua formulazione classica si trova nel racconto della guarigione del cieco di Gerico, quando «costui, al sentire che c’era Gesù Nazareno, cominciò a gridare e a dire: “Figlio di Davide, Gesù, abbi pietà di me!”. Molti lo sgridavano per farlo tacere, ma egli gridava più forte: “Figlio di Davide, abbi pietà di me!”» (Mc 10,47-48). L’invocazione diventerà poi la preghiera del cuore del pellegrino russo ed entrerà nella liturgia con l’espressione «Kyrie eleison».
Una vita controcorrente
La ripetizione nel salmo esprime l’intensità della preghiera. La motivazione è l’abbondanza di scherni da parte dei nemici, fino a raggiungere il colmo. Colpisce la descrizione della sazietà (vv. 3-4) a cui il giusto è ora sottoposto «ingozzato da troppi insulti, con la gola sazia di sputi e di scherni» (Turoldo). L’orante subisce gli scherni dei gaudenti e il disprezzo dei superbi (v. 4). I primi sono gli spensierati che si sentono tranquilli e che assumono un atteggiamento indifferente nei riguardi di Dio, arrivando a sfidarlo con arroganza (cf. Is 5,19). I superbi sono gli orgogliosi e i presuntuosi che umiliano i poveri e i giusti, oggetto di predilezione particolare da parte di Dio. Ne consegue che Egli non può restare indifferente (cf. Sal 42,10-11; 43,2). Il Nuovo Testamento applicherà il versetto a Gesù. Egli, servo per amore, e fedele alla volontà di Dio Padre, proprio per compiere questa volontà accetta liberamente di sottoporsi a scherni e disprezzo nella sua vita pubblica (Lc 10,16; 16,14; Gv 8,59), ma soprattutto nella passione (cf. Mt 27,29.39.41). Gli stessi cristiani furono e sono scherniti come testimonia la lettera agli Ebrei (11,36), la seconda di Pietro (3,3) e la lunga storia della chiesa di cui fa parte la nostra stessa attualità.
Il salmo non nasconde che alle volte la mano di Dio, a causa dei nemici, può diventare pesante, ma anche in questa pesantezza è un mano di padre che corregge i suoi figli. San Pio da Pietralcina così ne parla in una sua lettera: «Vi esorto poi nella dolce carità di Cristo a tranquillizzare il vostro spirito per riguardo a ciò che dovrà avvenirmi […]. Ad ogni modo vivete in pace con voi stesso, sapendo che il vostro avvenire è disposto da Dio con ammirabile bontà pel vostro bene: a voi non rimane che rassegnarvi a ciò che Dio vorrà disporre di voi e benedire quella mano che alle volte sembra respingervi, ma che in realtà è la mano di questo sí tenerissimo Padre che non respinge mai, sibbene, chiama, abbraccia, carezza e se tal volta percuote, ricordiamoci che è sempre la mano di un padre» (Epistolario IV, pp 187-198).

 

Publié dans:BIBBIA, BIBBIA. A.T. SALMI |on 26 mars, 2019 |Pas de commentaires »

CAMMINANDO CON IL « CUSTODE DI ISRAELE » SALMO 121

http://www.atma-o-jibon.org/italiano8/stancari_salmi2.htm

CAMMINANDO CON IL « CUSTODE DI ISRAELE » SALMO 121

Pino Stancari

Il nostro amico è partito. Si è messo sulla strada attuando la sua decisione.
Il Salmo 121 ci aiuta ad accompagnare colui che ormai è diventato pellegrino nel corso del suo distacco dall’ambiente nel quale stava tanto male, quell’ambiente al quale pure appartiene e dal quale distaccarsi non è stato facile.
Ora affronta strade nuove. Ha nostalgie e ripensamenti, non mancano incertezze. Dinanzi a lui ci sono anche orizzonti nuovi: («Alzo gli occhi verso i monti: da dove mi verrà l’aiuto?». Così inizia il Salmo.

SALMO 121

1 Canto delle ascensioni.
Alzo gli occhi verso i monti:
da dove mi verrà l’aiuto?

2 Il mio aiuto viene dal Signore,
che ha fatto cielo e terra.

3 Non lascerà vacillare il tuo piede,
non si addormenterà il tuo custode.

4 Non si addormenterà,
non prenderà sonno,
il custode d’Israele.

5 Il Signore è il tuo custode,
il Signore è come ombra che ti copre,
e sta alla tua destra.

6 Di giorno non ti colpirà il sole,
né la luna di notte.

7 Il Signore ti proteggerà da ogni male,
egli proteggerà la tua vita.

8 Il Signore veglierà su di te,
quando esci e quando entri,
da ora e per sempre.

Il capo alzato, il timore, la commozione

Ha camminato a testa bassa, ora alza gli occhi.
Ha guardato i sassi della strada, ha cercato di interpretare l’avanzare delle ore nel corso della giornata in base all’inclinazione dell’ombra. A testa bassa: è un tempo di ripensamento interiore, per lui. Comunque la sua avanzata procede ed egli è risoluto.
Questo suo atteggiamento di ferma intraprendenza è confermato dal gesto di alzare il capo. Un gesto da sottolineare.
Un altro pellegrino, il pellegrino per antonomasia – Gesù – alzerà gli occhi per guardare innanzi a sé mentre sale a Gerusalemme. Nel Vangelo più volte viene notato questo gesto proprio nei riguardi di Gesù. Si dice spesso: «Alzati gli occhi» o «Alzato lo sguardo al cielo».
Così il pellegrino alza il capo: dinanzi a lui l’orizzonte è chiuso: una catena di montagne. La visione per certi versi l’intimorisce. Sono montagne che devono essere affrontate, scalate e superate. Ci sono queste che si vedono e poi altre ancora: quante bisognerà affrontarne per raggiungere la montagna su cui è edificata Gerusalemme?
Insieme con il timore – si noti – c’è un senso di commozione. Da quando si è messo in viaggio tutte le montagne che si notano all’orizzonte e che egli ha buoni motivi per considerare una fatica in più sulla sua strada, tutte acquistano per lui il valore esemplare, didattico, di una conferma a riguardo della meta verso la quale è incamminato: se questa montagna in vista non è ancora quella di Gerusalemme è comunque una montagna; essa è momentaneamente occasione di fatica in più, ma assicura che non sono fuori strada. Comunque io sono indirizzato verso una montagna.
Timore ed entusiasmo si confondono.
Il pellegrino non può più volgersi indietro, non può contare su appoggi rassicuranti e situazioni nuove lo attendono: mai percorso questo territorio, mai affrontata questa regione, mai visitate queste montagne… Ecco il timore. Ed ecco, insieme, l’entusiasmo: «È proprio vero, questa montagna di oggi mi parla già della montagna verso cui sono orientati i miei passi; imparo a scrutare l’orizzonte e preparo il mio sguardo alla visione che – immancabilmente – si manifesterà ai miei occhi.
Solo, eppure stretto in un abbraccio
Il pellegrino è sempre più solo, lontano dall’ambiente solito. Quanto tempo durerà il suo viaggio?
Il Salmo ci aiuta a partecipare a quel ripensamento che occupa il cuore del pellegrino, alla sua commozione, intensissima nonostante sia priva di riscontri sensibili; una commozione che sostiene il suo entusiasmo di viandante: «Il mio aiuto viene dal Signore, che ha fatto cielo e terra».
Mai come oggi quest’uomo si è reso conto di essere accompagnato. Eppure oggi è solo.
Si lamentava di essere straniero: da quando si è messo in viaggio è più straniero che mai. Ha abbandonato quella terra in cui era straniero e che pure era la sua terra. Chi incontra per la strada è sconosciuto, pericoloso; deve guardarsi da tutti e scrutare gli orizzonti e gli imprevedibili incroci. Eppure proprio adesso il pellegrino scopre di essere accompagnato. Una presenza invisibile, indefinibile e indecifrabile.
Parla di «cielo e terra». Avanza sulla superficie del mondo e avverte di essere stretto in un abbraccio: sotto il cielo e sulla terra. Il cielo è chinato su di lui e la terra lo sostiene.
Quelle montagne di cui si parlava prima, che danno insieme timore e speranza, acquistano un significato simbolico particolarmente persuasivo: sono elemento di congiunzione tra cielo e terra. Dovranno essere scalate e superate con fatica, ma confermano l’attualità dell’abbraccio che il Signore onnipotente concede mediante la docilità di tutte le creature, che si dispongono in modo da rendergli praticabile il viaggio.
L’universo intero, creatura di Dio, gli fa compagnia e il Creatore stesso gli concede questa misteriosa solidarietà con tutte le creature che stanno tra cielo e terra: un sasso nel quale urti col piede, la pioggia che ti sorprende allo scoperto, coloro che incontri lungo il percorso, ogni creatura, in prima istanza forse temuta come una possibile minaccia e poi riconosciuta come dono insostituibile, ed apprezzata. Sono tutti doni preparati provvidenzialmente allo scopo di rendere possibile un viaggio carico di entusiasmo.
Mai così solo e mai così in comunione. Tanto è vasto l’orizzonte, così è grande la presenza del Signore, mediata da una corona consolante di elementi che accompagnano il pellegrino nel viaggio, lo benedicono e custodiscono.
Dal monologo al dialogo
Il Salmo si divide nettamente in due sezioni. La prima è quella che abbiamo letto (vv. 1-2), la seconda si ha nei versetti seguenti.
C’è un evidentissimo salto grammaticale tra le due sezioni. Nella prima il pellegrino parla in prima persona singolare; nella seconda interviene un’altra voce, in terza persona: «Non lascerà vacillare il tuo Piede…».
C’è un salto. Nella prima sezione il pellegrino riflette tra sé e sé, si incoraggia. Nella seconda una voce si rivolge a lui, una voce esterna che commenta il significato della presenza di Dio e la fedeltà dell’ opera svolta dal Signore per chi è in viaggio. Un commentatore interviene, un osservatore esterno che dialoga con lui.
Il passaggio dal monologo al dialogo è importante. Una esperienza di meditazione solitaria si apre al dialogo con un’altra voce: un altro viandante si avvicina, qualcuno cammina con lui. Una voce che viene da lontano. Potrebbe essere una sapienza antica, ricordi che emergono dal fondo della coscienza.
Man mano che prosegue il nostro personaggio riesce ad oggettivarsi. In un primo momento è molto preso dal bisogno di dirsi le sue cose, e questo è comprensibile, ma quanto più procede tanto più si accorge che qualcun’altro gli sta parlando.
Assume allora un atteggiamento di ascolto ed emerge allora, con evidenza incontestabile, la presenza di Dio. L’attenzione si concentra, con precisione ed onestà, dove la presenza di Dio si manifesta.
Preoccupato di sé e dei suoi progressi il pellegrino scopre che la presenza del Signore si impone. Monologava ed ora ascolta.
Non sappiamo chi sta ascoltando, ma importa poco. Si aprono spazi nuovi, insondati, nel segreto del cuore. Dio domina e tutto ruota intorno a lui. Ogni vicenda si trasforma in vera e propria contemplazione di colui che in segreto è presente, colui che sconosciuto – è il Signore.
Ricordiamo come il nostro personaggio prima di partire fosse ansiosamente aggrappato al nome indicibile di Dio. Ora avviene che da quando si è messo in viaggio – anche se ancora non ha raggiunto la meta – già incontra il Signore vivente: per il semplice fatto che è in cammino. Già aderisce alla presenza viva di colui che è Signore. La meta forse è lontana, ma il Signore è presente adesso e qui.
Il Signore è il tuo custode
La seconda sezione del Salmo è caratterizzata dalla ripetizione per sei volte di espressioni derivanti dal verbo shamar, custodire. È un tipico verbo del vocabolario pastorale: Shomèr è il custode.
Nella nostra traduzione questo insistente ritorno non appare: per tre volte appare l’espressione «custode», nei vv. 7-8 si parla di protezione e veglia. In ebraico è sempre la stessa radice. Per sei volte si insiste sullo stesso concetto: «Il Signore è il tuo custode… ».
Se si guarda all’ultimo versetto del Salmo 119 si ascoltano queste parole: «Come pecora smarrita vado errando; cerca il tuo servo… » (Sal 119, 176). Per tutto questo lungo Salmo noi abbiamo ascoltato i belati di una pecora smarrita!
Il pastore è già in cammino, alla ricerca. Ora egli è qui.
Gli stessi ostacoli, pesi e drammi sono strumento di cui il Signore si serve per dimostrare che, con pazienza e fedeltà, accompagna il fedele. Egli è così il Signore della tua vita, della tua storia e della storia del popolo e dell’umanità.
Questa sezione del Salmo si divide in tre strofe brevissime con un crescendo nel riconoscimento della presenza pastorale del Signore.
La prima sono i vv. 3-4: «Non lascerà vacillare il tuo piede… ».
Ecco: i singoli momenti di incertezza vedono un suo intervento occasionale, puntuale e momentaneo, fino a quell’essere permanentemente chinato sul pellegrino per cui veglia mentre egli dorme.
Si incontra il Signore nei diversi momenti del viaggio. Questi momenti si infittiscono fino a dare la sensazione di una presenza continuata: la veglia del Signore su di te. n rapporto con il Signore è qui ancora estrinseco. Interviene in singoli momenti e stabilisce un rapporto di vigilanza incessante dal di fuori.
Seconda strofa (vv. 5-6): «… il Signore è come ombra che ti copre…».
Il rapporto si fa più discreto e impalpabile, eppure è più intenso, profondo e interiore. Siamo accarezzati da Lui. Non è solo colui che stende intorno una cintura di protezione. È colui che ti vela, aderisce a te, ricalca la tua fisionomia, penetra in te, ti attraversa e sonda, giunge alla tua profondità interiore. Così è ombra. Un’ombra che protegge. Non perché tiene lontani i raggi del sole e della luna, ma perché penetra e abita in te. Anche una goccia di sudore sotto il sole parla di Lui e un fremito nella notte fa altrettanto.
Ricordiamo Maria, Madre del Signore. Ricordiamo qui l’ombra che la copre.
Dio trova piccole crepe nascoste per entrare in te, anche interstizi che tu nascondi. È una presenza insieme forte e delicata, fedele e paziente. Così è il tuo custode.
Terza strofa (vv. 7-8): «Il Signore ti proteggerà da ogni male…».
Un crescendo, ancora. Qui si dà risalto all’impegno con cui si esprime la libertà di un uomo in cammino. Egli «esce ed entra», espressione che l’evangelista Giovanni usa per parlare della vita delle pecore guidate dal Signore (Gv 10,1-5). È un impegno che suppone armonia e chiarezza interiore, l’intraprendenza di una scelta. Colui che custodisce non è solo colui che interviene da fuori o ti riempie di sé: è colui che suscita in te l’energia di una imprevedibile libertà, motivo di stupore per te stesso. Avanzi e riposi, esci ed entri e sei mosso sempre da una libertà che scaturisce nell’intimo del tuo cuore e dispiega energie nuove. In ogni momento della vita è così.
In ogni momento, per tutti
Questi ultimi versetti sono segnati da espressioni complementari: «il sole… la luna», «la notte… il giorno», !’ingresso… l’uscita, «da ora… per sempre». La presenza di questi binomi conferisce al Salmo un ritmo ondulatorio, oscillatorio: è il dondolio della vita. n viaggio ha un custode nelle salite e nelle discese. I singoli momenti sono sempre occasione preziosa per riconoscere la presenza di lui. Egli è il Dio della vita.
Il ritmo così conferito da un sapiente poeta a questi versi richiama il movimento naturale quando si culla un bambino. Dio culla il suo fedele. Con sapienza e discrezione, con la disinvoltura di chi lo sa fare: gesto naturale e pur così capace di esprimere il segreto della vita.
Sono solo otto versetti, ma densissimi.
La nostra storia coinvolge uno scenario più ampio e drammatico. L’orizzonte si amplia: per la prima volta, nel v. 4, si parla di «Israele». Si dice al pellegrino che il suo custode è «il custode di Israele». Colui che è custode del singolo è custode di un popolo.
Il pellegrino riscopre la sua appartenenza al popolo, alla sua storia. E anche l’universo intero è sacramento della pastorale provvidenza del Signore: tutte le creature ed ogni tempo sono coinvolti nell’amore di Dio. Così riscopre di appartenere a Lui, creatore dell’universo e del popolo. Il viandante può già adorare e benedire: il Signore verso il quale gridava nell’angoscia è chinato su di lui. Ora impara a riconoscerlo ed amarlo: impara davvero a camminare.

Publié dans:BIBBIA. A.T. SALMI |on 21 mars, 2019 |Pas de commentaires »
12345...34

PUERI CANTORES SACRE' ... |
FIER D'ÊTRE CHRETIEN EN 2010 |
Annonce des évènements à ve... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | Vie et Bible
| Free Life
| elmuslima31