Archive pour le 21 mai, 2014

Guardian Angels

Guardian Angels dans immagini sacre guardian-angel-2

http://orthodoxchurchquotes.com/tag/intercession-of-the-saints/

Publié dans:immagini sacre |on 21 mai, 2014 |Pas de commentaires »

« IN TE È LA SORGENTE DELLA VITA » (SAL 36, 10) – OMELIA DEL CARD. WALTER KASPER

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/chrstuni/documents/rc_pc_chrstuni_doc_20020125_kasper-san-paolo_it.html

CONCLUSIONE DELLA SETTIMANA DI PREGHIERA PER L’UNITÀ DEI CRISTIANI

OMELIA DEL CARD. WALTER KASPER

Basilica di san Paolo fuori le Mura

Venerdì, 25 gennaio 2002

Cari fratelli e sorelle, cari amici!

« IN TE È LA SORGENTE DELLA VITA » (SAL 36, 10):

queste sono le parole del salmista scelte come il tema della Settimana della Preghiera di quest’anno. Sono parole di fede e di fiducia, parole di speranza e di coraggio, parole che ci uniscono e ci impegnano.
1. Saluto voi tutti che siete venuti per la celebrazione della conclusione di questa Settimana di Preghiera, nella quale imploriamo Dio affinché invii su di noi il suo Spirito di vita e sia veramente la sorgente di vita nuova, di nuovo slancio per l’unità dei cristiani e per l’unità di tutta l’umanità. Saluto innanzitutto le chiese e le comunità ecclesiali che sono presenti qui Roma, e che si radunano ogni anno con noi per questa occasione in questa Basilica di san Paolo fuori le Mura, luogo davvero significativo ed importante per i molti avvenimenti ecumenici degli ultimi decenni e soprattutto dell’anno giubilare 2000. La vostra presenza e la vostra partecipazione attiva insieme con noi, la nostra preghiera comune è per me il segno di una comunione che è cresciuta e continua a crescere, di un’amicizia promettente, un’occasione di gratitudine, di gioia e di speranza.
Cari fratelli e sorelle, noi tutti siamo ancora presi dalla profonda emozione suscitata dalla Giornata di Preghiera per la Pace di ieri ad Assisi. Un’esperienza veramente commovente, un evento che rimarrà impresso nei nostri cuori. Ringraziamo il Signore per averci donato questa esperienza, attraverso la quale Egli ci ha mostrato la sua presenza nel nostro mondo, nel nostro tempo malgrado e nonostante tutte le inquietudini, le preoccupazioni e le paure e ci ha riempito ancora una volta di speranza, ma allo stesso tempo ci ha impegnati nuovamente ad essere operatori di pace ed essere operatori di pace insieme.
2. Le parole del salmista risuonano come un’eco delle testimonianze e delle preghiere di Assisi. Veramente, Dio è la sorgente della vita! È necessario ricordare questa verità fondamentale, soprattutto dopo i tristi e tragici eventi dell’11 settembre, frutto ed espressione dei poteri della morte, della morte di migliaia di persone innocenti e una minaccia alla vita, ai valori e alla cultura della vita di tutta l’umanità, una minaccia alla pace e alla convivenza civile degli uomini, dei popoli, delle etnie, delle religioni e delle culture. Gli abissi dei poteri della morte e del male si sono dunque aperti.
Questi avvenimenti hanno mostrato la fragilità della nostra civilizzazione, hanno compromesso la certezza della nostra sicurezza. Abbiamo compreso ancora una volta il significato profondo del messaggio del profeta Geremia nell’Antico Testamento: « Dicono: « shalom!, shalom! », « pace! pace! », ma non c’è shalom, non c’è pace » (Ger 8, 14). « Aspettavamo (shalom) la pace, ma non c’è alcun bene » (Ger 8, 15). Nel corso della nostra vita, anche della nostra vita moderna con tutti i sui mezzi sofisticati, scientifici e tecnologici, siamo minacciati dalla morte.
Dov’è dunque la sorgente della vita? È questo il quesito che si pone l’uomo dei nostri giorni; è persino il desiderio, una fame ed una sete espressi da molti contemporanei. Il desiderio della vita, della vita vera, della pienezza della vita abita e vive in ogni cuore umano e molti, soprattutto molti giovani, sperimentano che una civilizzazione dell’avere e del piacere non basta, non sazia, non riempie il cuore, non dà la pace interiore, anzi, conduce ad una sfrenata, e allo stesso tempo frustrante, ricerca ad avere di più e sempre di più.
3. Ad Assisi abbiamo ascoltato un altro messaggio, il messaggio delle religioni, di tutte le religioni. Benché siano molte e così diverse fra loro, esse comunicano un messaggio comune: il mondo e la vita hanno un valore molto più grande di quello che si può vedere, di più di quello che si può toccare con mano, calcolare, fare, ottenere e manipolare, sono espressioni più alte, più profonde, più ricche.
« Gli uomini delle varie religioni – come dice il Concilio Vaticano II – attendono la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte… infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo » (Nostra aetate, 1). « Dai tempi più antichi fino ad oggi presso i vari popoli si trova una certa sensibilità di quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana, ed anzi talvolta si riconosce la Divinità Suprema o anche il Padre » (ibidem, 2). Le religioni vogliono essere e mostrare vie alla vita, compenetrare la vita di un intimo senso religioso. La convinzione della santità della vita è un patrimonio comune delle religioni. Uccidere nel nome della religione è una bestemmia, un uso improprio ed una comprensione errata della religione. Per le religioni il divino o la divinità è sorgente di vita.
4. La Bibbia degli ebrei e dei cristiani con la sua fede nella creazione conferma, purifica e arricchisce questa convinzione religiosa. Dio ha creato, « il cielo e la terra e tutte le loro schiere » (Gen 2, 1). Dio, e Dio solo, è la sorgente della vita, una sorgente viva, zampillante, abbondante e traboccante. Lui ha creato tutto, compenetra tutto con il suo soffio di vita, Lui conserva tutto nella vita e Lui alla fine conduce tutto alla pienezza della vita. « In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo » (Atti 17, 28). Lui è – come la Bibbia ci dice – un « amante della vita » (Sap 11, 16).
Nell’Utimo libro della Bibbia è scritto: « Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine. A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita » (Ap 21, 6). Perciò alla fine « non ci sarà più lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate » (Ap 21, 4).
Cari fratelli e sorelle! Ciò di cui abbiamo bisogno oggi è di lottare per la vita e per la santità della vita. La nostra cultura moderna e postmoderna è una cultura secolarizzata che ha perduto la consapevolezza di Dio quale sorgente della vita. L’uomo stesso si è fatto maestro della vita e vuole oggettivare, analizzare, calcolare e manipolare tutto, e così riduce ogni cosa a oggetti morti, anche la vita umana diventa oggetto di calcolo economico.
Proprio perché Dio è la sorgente della vita e perché Dio vuole la pace, noi cristiani dobbiamo essere promotori, ed essere amanti della vita e divenire operatori della pace. Noi cristiani dobbiamo essere protagonisti di una nuova cultura della vita, del dono della vita, del rispetto per la santità della vita, dei valori e della priorità della vita in opposizione alle cose morte. Di fronte all’attuale situazione, alle attuali minacce e agli attuali problemi, i nostri conflitti confessionali sono una doppia vergogna. Noi, tutti i cristiani insieme con gli ebrei, dovremmo riscoprire la comune eredità della verità sulla creazione. Dovremmo stare insieme e dare una testimonianza comune di Dio, sorgente, custode e amante della vita, insieme dobbiamo cooperare per una nuova cultura della vita.
5. Cari fratelli e sorelle! Se riflettiamo sul verso del salmista « In te è la sorgente della vita » scopriamo ancora un’altra dimensione, un elemento distintivo che il Nuovo Testamento ci indica, la dimensione della nuova vita. Nel passaggio del Vangelo di san Giovanni che ci ha accompagnato durante questa settimana, l’incontro notturno di Gesù con un capo dei Giudei, Nicodemo (Gv 3, 1-17), alla sorpresa di Nicodemo, Gesù parla della necessità della nuova nascita da acqua e Spirito, della nascita alla vita nuova e alla vita eterna.
Dietro queste parole c’è la stessa esperienza a cui abbiamo già accennato, l’esperienza della fragilità e l’esperienza delle ferite profonde e delle deformazioni della vita umana, della debolezza e della nostra impotenza nel dare sicurezza e senso alla nostra vita. Dio ha creato il mondo e l’uomo « buoni », persino li ha creati molto buoni; ma l’uomo per il peccato si è distaccato, si è allontanato dalla sorgente della vita.
Nonostante ciò Dio è rimasto fedele alla sua creatura; Dio – come Gesù disse a Nicodemo – ama il mondo. Per questo ha manato il suo Figlio nel mondo. « In lui era la vita » (Gv 1, 4). Lui venne affinché noi avessimo la vita e l’avessimo in abbondanza (Gv 10, 10). Lui è « la via, la verità e la vita » (Gv 14, 5). È questa la spiegazione che Gesù offre a Nicodemo: Dopo che l’accesso al primo albero della vita nel paradiso è stato negato, nell’albero della croce è stato innalzato il nuovo albero della vita, « perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna » (Gv 3, 15). Perché chiunque beve dell’acqua che Gesù dà non avrà mai sete, anzi quest’acqua diventerà « sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna » (Gv 4, 14). Tramite l’acqua del battesimo Dio è di nuovo sorgente della vita nuova; tramite il battesimo siamo partecipi della nuova vita, siamo fatti uomini (e donne) nuovi, nuova creatura, siamo rigenerati « per una speranza viva » (1 Pt 1, 3).
6. Ecco, cari fratelli e sorelle, questo è l’elemento fondante della fratellanza fra tutti i battezzati, fra tutti i cristiani. Ci sono differenze fra di noi; apparteniamo a Chiese e comunità ecclesiali diverse. Ma quello che ci unisce è più profondo e più forte di quello che ci divide. Nessuna differenza è tanto profonda e nessuna screpolatura tanto ampia e profonda da togliere o distruggere la nostra comunione più sincera e più piena.
Ecco spiegata la comunione reale e profonda di tutti i cristiani nonostante essi vivano in Chiese e comunità ecclesiali diverse. Ecco anche la differenza fra battezzati e non battezzati, fra il dialogo ecumenico, che si fa fra cristiani, e il dialogo interreligioso coi membri di religioni non cristiane. È una differenza qualitativa nel fondamento e anche una differenza qualitativa nello scopo. Mentre il dialogo interreligioso mira alla convivenza pacifica e rispettosa e all’amicizia, il dialogo ecumenico mira alla piena comunione e all’unità della Chiesa.
La lettera agli Efesini ha espresso questa nostra comunione cristiana: « Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti » (Ef 4, 4-6).
7. Ma correremmo il rischio di un gravissimo malinteso nella comprensione di questo alto inno alla nostra comunione, se dicessimo: « Siamo « okay »; siamo contenti; non c’è nulla da cambiare, possiamo rimanere come siamo ». No, assolutamente no! Se pensassimo così dimenticheremmo che Gesù e il Nuovo Testamento hanno parlato della vita nuova, dell’uomo nuovo, della creatura nuova.
Ogni giorno abbiamo bisogno di essere rinnovati, abbiamo bisogno di un rinnovamento personale e di un rinnovamento comunitario della Chiesa. Spesso noi tutti viviamo più in conformità alle leggi di questo mondo vecchio invece che in conformità alla legge nuova della nuova vita, il nuovo comandamento della carità.
Noi non siamo perfetti, e anche la Chiesa, benché santa, è una Chiesa di peccatori. Ciò diventa evidente se guardiamo alle nostre divisioni. Esse sono contro la volontà di Gesù; sono peccato.
Sono una contraddizione all’amore e alla fratellanza cristiana tutti i pensieri negativi, le parole cattive, i pregiudizi, le opere inique e le ingiustizie che avvenivano durante i secoli e che spesso sussistono anche oggi. « Ecclesia semper reformanda » è uno slogan protestante; « Ecclesia purificanda » asserisce il Concilio Vaticano II (Lumen gentium, 8). Le due affermazioni fanno da eco al concetto fondante e al fulcro della buona novella di Gesù sulla venuta del regno di Dio: « Convertitevi e credete al Vangelo » (Mc 1, 5).
La conversione è essenziale per l’esistenza cristiana e non c’è un ecumenismo autentico senza conversione, senza il desiderio di lasciarsi immergere nella novità del regno di Dio. Così ci insegna il Concilio Vaticano II (Unitatis redintegratio, 5-8) e così ribadisce il Papa nella sua enciclica ecumenica « Ut unum sint » (15-16; 33-35). Il movimento ecumenico è dapprima e soprattutto un movimento di conversione alla vita nuova. Ci vuole una purificazione della memoria, un modo di pensare nuovo, un cuore nuovo, una vera spiritualità ecumenica.
8. Sì, una rinnovata spiritualità ecumenica che è il cuore dell’ecumenismo ed è la chiave per un nuovo slancio ecumenico che ci permette di uscire dall’imbarazzo in cui ci troviamo e di fare un balzo in avanti. Occorre attingere continuamente alle sorgenti spirituali della vita: l’ascolto della parola di Dio, i sacramenti, la preghiera. Più ci avviciniamo a Cristo e al suo Vangelo della vita nuova, più ci avviciniamo gli uni agli altri. Soltanto se noi ci rinnoviamo, soltanto se diventiamo uomini (e donne) nuovi possiamo essere testimoni autentici della vita nuova in una cultura nuova della vita. Soltanto se viviamo la novità del Vangelo siamo in grado di essere testimoni della speranza e incoraggiare gli altri ad accompagnarci sul cammino lungo e faticoso, ma gioioso verso l’unità, affinché il mondo creda e trovi la via verso la pace e la fratellanza.
« In te è la sorgente della vita ». Questa frase, cari fratelli e sorelle, vale anche per il movimento ecumenico. Non noi, non il nostro sforzo, neanche il nostro entusiasmo, Dio solo è la sorgente di un ecumenismo nuovo, di una Chiesa rinnovata per essere testimoni di una cultura nuova e per essere operatori di pace. « Vieni Santo Spirito e rinnova i cuori dei tuoi fedeli ». Amen.

 

IMPERO E PACE NEL PENSIERO DEI CRISTIANI DEI PRIMI SECOLI

http://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Siniscalco-Impero-romano-pace-cristiani.htm

PAOLO SINISCALCO
Università di Roma “La Sapienza”

IMPERO E PACE NEL PENSIERO DEI CRISTIANI DEI PRIMI SECOLI

SOMMARIO: 1. La pace per i cristiani. – 2. La linea negativa. – 2.1. Il Tardo Giudaismo. – 2.2. L’Apocalisse canonica. – 2.3. Le espressioni della più antica letteratura. – 3. La linea positiva. – 3.1. I Vangeli, gli Atti degli Apostoli, Paolo. – 3.2. Gli scrittori del II secolo. – 3.3. Il servizio nell’esercito. – 4. La pace costantiniana. – 4.1. L’interpretazione di Eusebio di Cesarea. – 4.2. Il rapporto Impero-Chiesa.

1. – La pace per i cristiani
La pace per i primi cristiani è intesa prevalentemente non in senso giuridico-politico, ma in senso spirituale, ha una dimensione di interiorità, scaturisce dal cuore dell’uomo riconciliato con Dio, è dono di Dio e presuppone la certezza di essere stati redenti e salvati da Cristo che ha adempiuto le rivelazioni di pace espresse dai profeti nell’Antico Testamento. Dalla pace interiore nasce la pace esteriore che bisogna innanzitutto regni nella Chiesa, comunità dei credenti; una tale pace, occorre dire, spesso tradita e non sufficientemente ricercata e realizzata nel corso del tempo, consente e promuove l’unità di culto e di fede. Ma la pace per i cristiani è anche quella che si spera di godere dopo la morte e nel regno eterno di Dio (o già prima, nel regno messianico, per i Millenaristi)[1].
Nondimeno per i cristiani dei primi secoli, nel vasto campo semantico ricoperto dal termine, è inclusa anche e necessariamente la pace e la concordia entro il corpo della civitas.
Proprio a questo ambito ci si vuole rivolgere in questa occasione, precisamente per interrogarsi sul modo con cui essi guardano all’Impero romano in rapporto alla pace.

2. – La linea negativa
2.1. – Il Tardo Giudaismo
Per iniziare è utile, se non necessario, considerare la storia e la letteratura (con particolare riferimento al genere profetico e apocalittico) del Tardo Giudaismo. In questo ambito si manifesta una linea negativa verso Roma e il suo Impero
Fin dal I secolo a.C. Israele si accorge che l’Impero romano, con l’esercizio del suo potere, sta minacciando da vicino la religione giudaica. Accanto ad atti di insubordinazione e di ribellione cominciano a diffondersi scritti significativi. Nel 63 a.C. l’invasione della Palestina compiuta dai romani sotto la guida di Pompeo si conclude con l’occupazione di Gerusalemme e la profanazione del Tempio. L’episodio lascia una traccia profonda nell’animo dei giudei. Da quel momento l’impero occidentale è tenuto alla stregua di una potenza antagonista. Si fanno eco di questa idea i Salmi di Salomone, composti intorno alla metà del I secolo a.C., riprendendo un motivo della tradizione profetica: i prìncipi pagani sono destinati a subire una punizione divina, giacché nel tempo opportuno verrà un discendente di David che li sconfiggerà, giudicherà tutti i popoli nella saggezza della sua giustizia e instaurerà un regno messianico ed eterno (cf. Ps 17.26 ss.). È il primo passo, legato a circostanze storiche precise, che prepara e giustifica gli sviluppi successivi dell’apocalittica giudaica.
Si pensi all’Apocalisse siriaca di Baruch, composta dopo il 70 d.C., centrata sugli avvenimenti relativi alla presa di Gerusalemme da parte dell’esercito romano, in cui appare l’immagine dei quattro regni, a cui già Daniele era ricorso, per sottolineare che il quarto regno è il più duro e spietato, destinato ad avere una lunga egemonia fino alla fine del tempo e quindi alla venuta del Messia liberatore. Il nome del quarto regno è taciuto, ma non si è lontani dal vero se lo si identifica con l’Impero dei romani.
Analoga visione è manifestata nel IV libro di Esdra, altro scritto apocalittico giudaico composto verso la fine del I secolo d.C. L’immagine dei quattro regni ricorre del resto non solo nell’apocalittica, ma anche nella letteratura rabbinica[2], ove l’avversario è più specificamente individuato in una potenza insediata in Palestina.
Si possono menzionare ancora gli Oracoli sibillini nei quali il tema della caduta di Roma ha un posto privilegiato. Essi hanno origine per la gran parte nel I-II secolo d.C. e raccolgono materiali pagani, giudaici e cristiani di natura storica, politica e religiosa. Essi fanno di nuovo presente lo schema dei quattro imperi e, parlando del quarto, mettono in evidenza sia le cause che gli effetti della sua rovina[3]. La fine di Roma è dunque data per certa per il prevalere delle leggi che regolano la storia e per l’intervento stesso di Dio la cui azione, a tempo opportuno, vince i nemici dei giusti e realizza per questi ultimi il regno di eterna beatitudine.
Non sfugga d’altra parte il costituirsi nel I secolo d.C. nell’ambito del giudaismo palestinese di gruppi religiosi radicali, specialmente di galilei che danno vita a un movimento di resistenza contro Roma (cf. Atti degli apostoli 21.38; 5.36-37): animati da una concezione messianica dalle tinte politiche, si propongono la liberazione dal dominio romano, anche ricorrendo alla violenza armata sono i Sicari (per i quali rimane aperto il problema di sapere se debbano essere identificati con gli zeloti).

2.2. – L’Apocalisse canonica
Fin qui si è parlato dell’Impero percepito negativamente da una parte delle società e della letteratura giudaica tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., e non si è parlato della pace. Ma il breve excursus ora fatto serve a meglio inquadrare le posizioni dei cristiani a riguardo dei nostri temi. Si delineano infatti nell’ambito delle comunità dei fedeli a Cristo due linee divergenti. La prima prosegue in certo modo le tracce ora messe in luce. In proposito è qui necessario fare un cenno all’Apocalisse di Giovanni, non senza notare subito che le figure e le immagini proposte da questo scritto sono state fin dall’antichità interpretate in modo molteplice e vario. È un fatto però che la maggior parte dei commentatori dall’antichità ad oggi hanno visto nella quarta bestia che sale dal mare (cf. Apoc. 13.1 ss.) l’Impero romano; ancora meglio, secondo alcuni studiosi, essa si riferirebbe alla struttura politica, militare e amministrativa dell’Impero, mentre la bestia che sale dalla terra (cf. Apoc. 13.11, ma vd. pure Dan. 7.1 ss.) si riferirebbe all’organizzazione del culto imperiale che avrebbe avuto nell’Asia Minore uno dei centri di più intensa espansione. Ma non tutti i commentatori sono d’accordo con le interpretazioni dei particolari. Un’altra figura è stata da numerosi commentatori assimilata al potere imperiale romano e alla città di Roma, quella della prostituta che siede sopra una fiera scarlatta (cf. Apoc. 17.1 ss.). Giovanni avrebbe atteso in tempi brevi il crollo della potenza occidentale che avrebbe coinciso con la fine del mondo. All’Urbs ha fatto pensare anche la donna ubriaca del sangue dei santi e del sangue di quelli che sono morti per la fede in Gesù (cf. Apoc. 17.6) in cui parecchi critici hanno scorto il riferimento alle persecuzioni di Nerone e di Domiziano contro i cristiani. E si potrebbe continuare. I versetti 17.9-10 («Le sette teste sono i sette colli (o i sette monti) sui quali la donna è seduta. Sono anche sette re») sono stati considerati come allusione alla città di Roma. Pertanto cui si può dire che secondo l’opinione di interpreti antichi e moderni generalmente Giovanni è stato visto come rappresentante di una posizione critica e negativa verso Roma.

2.3. – Le espressioni della più antica letteratura
I segni così incisivamente tracciati dall’apocalittica di ritrovano, a cominciare dal II secolo d.C., nella letteratura cristiana. Nell’Epistola dello Pseudo-Barnaba (4.1 ss.) la citazione delle parole del profeta Daniele sulla quarta bestia che sale dal mare manifesta l’intenzione di richiamare la figura e l’opera negativa di imperatori romani del I secolo o dell’inizio del II. Interpretazioni che sono riprese da Ippolito nel Commento a Daniele ove si giunge a indicare la data esatta in cui avrà fine la potenza romana, assimilata ancora e sempre alla quarta bestia di cui parla il profeta: 500 anni dopo la nascita di Cristo. Alla fine del III secolo Vittorino di Poetovium nel Commento all’Apocalisse senza incertezze individua nella città di Roma la figura della donna dell’Apocalisse (cf. 17.9) e spiega il senso delle parole che seguono (cf. Apoc. 17.10 ss.): i cinque imperatori romani ormai caduti sono Tito, Vespasiano, Ottone, Vitellio e Galba; il sesto, che detiene il potere nel periodo in cui è composto l’ultimo libro neotestamentario, è Domiziano; il settimo ,infine, del quale si dice che durerà per breve tempo (come in realtà avviene, non prolungandosi la sua egemonia oltre un biennio), è Nerva. Nelle prime decadi del IV secolo Lattanzio nelle Divinae Institutiones torna a insistere sul motivo della fine dell’Impero romano in un quadro tracciato a linee cupe.
Così prende forma la tradizione negativa su Roma che ha la propria origine diretta o indiretta nella tradizione profetica e apocalittica tardo-giudaica e cristiana.

3. – La linea positiva
3.1. – I Vangeli, gli Atti degli Apostoli, Paolo
Accanto a questa si fa luce un’altra linea destinata a prevalere. Occorre intanto osservare che nei Vangeli canonici non si manifestano atteggiamenti contro l’Impero romano. Stando al Vangelo di Luca (cf. 3.14), quando a Giovanni Battista si rivolgono alcuni agenti delle tasse per chiedere che cosa debbano fare, egli risponde che non devono prendere niente più di quanto è stabilito dalla legge e ad alcuni soldati che chiedono la medesima cosa egli dice di non impossessarsi di beni altrui con la violenza o con false accuse, ma di accontentarsi delle loro paghe. E si sa che pubblicani e militari – evidentemente romani – erano categorie mal giudicate dai giudei del tempo. Anche Gesù non condanna mai il servizio nell’esercito. Dai Vangeli siamo a conoscenza di due episodi significativi in proposito: quello del centurione che in Cafarnao chiede l’aiuto del Signore per il suo servo paralizzato (cf. Matteo 8.5 ss.; vd. pure Luca 7.2 ss.) e quello del centurione che ai piedi della croce fa la guardia a Gesù morente (cf. Matteo 27.54; Marco 15.39; Luca 23.47. Proprio questi due centurioni rendono palese il “segreto messianico” di Gesù, il mistero della sua persona e lo annunciano al mondo pagano: «Signore, io non sono degno che tu entri a casa mia, (…), ma di’ anche solo una parola e il mio servo certamente guarirà» (Luca 7.6 s.), esclama l‘ufficiale romano di Cafarnao; e l’ufficiale sul Golgota, accortosi del terremoto e di tutto quanto accadeva, pieno di spavento dice: «Quest’uomo era veramente il Figlio di Dio» ( Matteo 27.54).
Gli Atti degli Apostoli (cf. 10.1 ss.) a loro volta riferiscono di Cornelio, centurione della coorte Italica, “uomo pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia”, il quale un giorno vede apparirgli un angelo che gli dice essere state esaudite le sue preghiere e gli suggerisce di mandare uomini a Giaffa per fare venire presso di lui Simone Pietro. Cornelio ubbidisce. Pietro viene, non prima di avere avuto pure lui una visione; annuncia al centurione e ai suoi la ”buona novella della pace”, assiste alla discesa dello Spirito santo su tutti coloro che avevano ascoltato il suo discorso, circoncisi o pagani che fossero, ed ordina che tutti siano battezzati nel nome di Gesù. Dunque, nell’ottica di Luca, che scrive gli Atti, di nuovo un ufficiale romano segna un momento decisivo della storia della salvezza. L’apertura della missione al mondo dei pagani e quindi l’entrata dei non giudei nel nuovo popolo che si stava componendo: si tratta della “pentecoste dei pagani”, come è stata definita[4].
Una chiara affermazione di lealismo dei cristiani nei confronti delle autorità costituite si trova poi in una delle lettere sicuramente autentiche di Paolo, la lettera ai Romani, scritta probabilmente da Corinto nel 54 o nel 56-57, che risulta perciò essere uno dei più antichi documenti della letteratura cristiana. Scrive l’apostolo: «Ognuno sia sottomesso a chi ha ricevuto autorità, perché non c’è autorità che non venga da Dio (…). Fa’ il bene e le autorità ti loderanno, perché sono al servizio di Dio per il tuo bene (…). Ecco bisogna stare sottomessi all’autorità, non soltanto per paura delle punizioni, ma anche per una ragione di coscienza. È la stessa ragione per cui pagate le tasse: difatti mentre assolvono il loro incarico sono al servizio di Dio. Date a ciascuno ciò che gli è dovuto: l’imposta, le tasse, il timore, il rispetto, a ciascuno quel che gli dovete dare» (Rom. 13.1 ss.).
L’attitudine positiva espressa ripetutamente e con chiarezza verso le autorità politiche civili in scritti dapprima altamente considerati e poi, con il formarsi del primo canone scritturale, ritenuti pieni di autorevolezza, anzi di autorità, perché ispirati da Dio, ha indotto le comunità cristiane a mutare quella posizione presente, in una parte dei suoi membri, di insubordinazione o almeno di contestazione e di insofferenza verso quello che impropriamente oggi diremmo lo ‘stato’ romano.

3.2. – Gli scrittori del II secolo
Gli scrittori cristiani nel II secolo, coloro che di consueto sono denominati Apologeti, quando si accingono a rappresentare le idee e le norme morali scaturite dall’euaggelion di fronte al mondo pagano, avvertono che l’Impero romano, con la sua organizzazione civile e politica facilita la diffusione del cristianesimo; essa infatti ha realizzato l’unità dell’oikoumene e vi ha fatto regnare la pace.
Così intorno al 150 Giustino, indirizzando la sua Apologia a Antonino Pio (138-161), Marco Aurelio (161-180) e Lucio Vero (161-169) dopo essersi difeso dalle accuse rivolte ai fedeli di Cristo da parte della società pagana, aggiunge: «Siamo vostri collaboratori e alleati per la pace più di tutti gli altri uomini (…). Riteniamo che ciascuno si incammini verso la condanna eterna oppure verso la salvezza per il merito delle azioni. Se tutti gli uomini conoscessero queste cose, nessuno, neppure per poco tempo, sceglierebbe ciò che è male, sapendo di andare alla pena eterna nel fuoco»[5]. Pochi anni dopo Atenagora loda gli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero ed osserva che per la loro saggezza l’Impero gode di una pace profonda; egli li dice pacificatori delle terre abitate, ma in pari tempo chiede che non perseguitino i cristiani, ma li includano nel quadro del loro governo[6]. Melitone di Sardi, rivolgendosi ancora a Marco Aurelio intorno al 170, nota che la ‘filosofia’ cristiana, avendo cominciato a diffondersi in mezzo ai popoli sotto il regno di Augusto, era nata e si era sviluppata con l’Impero[7]: un’affermazione notevole perché mette in luce la coincidenza temporale tra il regnare della Pax Augusta e la contemporanea diffusione del messaggio di Cristo[8]. Del resto già prima di lui altri apologeti avevano evitato di marcare una frattura tra la tradizione pagana e l’annuncio cristiano; il fatto stesso che Melitone e Giustino assumano il termine ‘filosofia’ per indicare la religione da loro professata è un segno di un tale atteggiamento. Verso la fine del II secolo Ireneo, vescovo di Lione, scrive che grazie ai Romani il mondo gode della pace e non manca di mettere in evidenza che per questo, senza timore, ci si sposta e si naviga dovunque si voglia, lui originario dell’Asia Minore che diviene vescovo di una città della Gallia meridionale[9]. Origene, entro il quadro di un discorso più complesso e sfumato, riprende e rende più esplicita quell’idea: egli confronta la pace di Cristo con la pace recata al mondo da Roma e afferma che questa è diventata la condizione necessaria perché il Vangelo possa essere annunciato a tutte le genti[10].
Non stupisce dunque di riscontrare nei medesimi autori menzionati dichiarazioni di lealismo e di ubbidienza alle leggi. Fin dalla fine del I secolo Clemente di Roma prega perché il Signore doni salute, pace, stabilità a chi governa perché sia in grado di esercitare in modo irreprensibile l’ufficio datogli dal Signore stesso. E come Clemente, altri da Teofilo di Antiochia a Tertulliano, ad Origene, raccomandano di pregare per l’imperatore, purché questi, come si vedrà più oltre, non pretenda il culto e l’adorazione. D’altronde già l’apostolo Paolo aveva aperto la strada, raccomandando perché fossero fatte simili preghiere[11].

3.3. – Il servizio nell’esercito
Riconoscere la funzione pacificatrice svolta dall’Impero comportava la necessità di servire nei ranghi di quel medesimo Impero, anche come soldati. Ma l’essere soldato esigeva anche l’eventualità di combattere e di uccidere il nemico contro cui si combatteva. Taluni critici moderni hanno sottolineato l’incoerenza di una tale posizione denunciata d’altronde dai pagani: si è detto che i cristiani avrebbero voluto godere dei benefici derivanti dall’ordinamento politico senza d’altra parte contribuire al suo mantenimento[12]. Negli ultimi decenni gli studi hanno meglio precisato i molti problemi connessi a questo aspetto che si rivela complesso. Intanto si deve osservare che i cristiani, secondo una documentazione fondata erano certamente presenti nell’esercito romano nelle ultime decadi del II secolo. Tertulliano[13] nel 197-198 menziona una lettera di Marco Aurelio nella quale si attesta che la grande sete, pericolosamente sofferta dall’esercito romano in Germania[14], fu placata dalle preghiere di soldati cristiani. Questa almeno è la versione di Tertulliano, che non ha visto la lettera dell’imperatore, (egli però afferma che tale lettera la si può cercare negli archivi del Senato a cui sarebbe stata indirizzata); si sa che il fatto è riferito anche da altre fonti cristiane e pagane[15] (le quali ultime danno il merito del prodigio alle divinità pagane). Anche alcune iscrizioni risalenti agli stessi anni (180-190) confermano la presenza di cristiani tra i soldati dell’esercito romano.
Certamente la questione del servire nell’esercito doveva porre problemi non facilmente risolvibili tanto che, per quanto possiamo saperne, si vennero a delineare sia a livello del pensiero sia a quello della prassi molteplici posizioni che non sembrano avere avuto dimensioni omogenee, essendo legate – in epoca precostantiniana – ad aree geografiche ed a Chiese determinate. Intanto occorre osservare che si proponevano casi diversi: il primo era quello di chi, già inquadrato nella vita militare, si convertiva; il secondo era quello di chi appartenente alla comunità ecclesiale, intraprendeva la carriera militare; il terzo di chi obbligatoriamente era arruolato. Le difficoltà gravi che per un cristiano si ponevano erano da una parte la necessità di combattere e quindi essere messo nella condizione di uccidere; dall’altra, nel quadro della vita militare, di dovere prestare atti idolatrici. Ma non è il caso di seguire le vicende dei singoli, quelle almeno delle quali si siano conservate le testimonianze. È un fatto che certi ambienti dell’Africa settentrionale tengono verso la violenza una linea rigorosamente negativa. Ne sono testimoni Tertulliano e più ancora, Arnobio e Lattanzio, i quali a più riprese esprimono idee intransigenti contro il servizio militare, la violenza e la guerra[16], forse sotto la spinta di influssi montanistici[17]. Ed è pure un fatto che ogni atto idolatrico connesso alla vita militare – come a quella politica e civile – è condannato. Già si vedeva come le comunità cristiane non abbiano avuto difficoltà a pregare anche pubblicamente per gli imperatori perché questi avessero vita lunga, eserciti forti, un senato fedele, un popolo onesto, un mondo in pace[18]. Mentre netto è il loro rifiuto per ogni pretesa sacralizzante dei ‘Cesari’ e per ogni atto di culto verso le divinità pubbliche. «Certamente – scrive un autore già ricordato, Tertulliano[19] – riconoscerò all’imperatore il titolo di ‘signore’ (dominus) (…); se però non mi si costringa a chiamarlo così al posto di Dio. Per il resto io sono libero di fronte all’imperatore: infatti il mio Signore è uno solo, Dio onnipotente ed eterno, che è il medesimo Dio dell’imperatore».

4. – La pace costantiniana
4.1. – L’interpretazione di Eusebio di Cesarea
La svolta costantiniana, preceduta e preparata dall’editto di Galerio, non si può dire, a mio avviso, che abbia mutato la posizione dei cristiani rispetto allo ‘stato’ ed alla questione della pace[20]. Certamente ha fatto cadere quella parte della polemica fino allora sostenuta contro l’idolatria, mentre ha permesso di sviluppare grandemente la linea positiva, presente fin dalla metà del I secolo d.C. La giustificazione ideologica e teologica della nuova situazione storica la fornisce Eusebio di Cesarea, nell’interpretazione che egli dà appunto dell’Impero romano e della figura di Costantino.
Come abbiamo visto, fino dal II-III secolo molti cristiani avevano rilevato che il diffondersi del cristianesimo era dovuto anche al diffondersi tra i popoli di quella concordia che l’Impero di Roma aveva saputo instaurare e mantenere per lungo tempo. Ora dopo che l’imperatore ha dato a loro libertà di esistere, Eusebio allarga enormemente la prospettiva, portandola su un piano di teologia politica. Il vescovo di Cesarea asserisce che nel tempo stesso in cui Cristo insegnava che c’è la ‘monarchia’ di un solo Dio, il genere umano era liberato dall’azione dei demoni e dalla molteplicità dei governi nazionali. Secondo le sue parole, «la divisione del potere presso i Romani era scomparsa di fatto quando Augusto aveva stabilito una monarchia, nel momento stesso dell’apparizione del (…) Salvatore. Da allora fino ai giorni nostri non si sono più viste più città in guerra con città e popoli in lotta con popoli (…). Con la predicazione (…) del Salvatore si è attuata la distruzione dell’errore politeista e i dissidi tra le nazioni, con i loro antichi flagelli, sono cessati»[21].
È stato osservato[22] che lo scrittore antico non stabilisce solo un rapporto tra Impero romano e pace, ma tra Impero romano, pace e cristianesimo e che la pax romana in questo quadro assume un significato religioso più che un significato politico, è una missione divina della pace.
Altrettanto interessante è la connessione tra monoteismo e monarchia e tra politeismo e poliarchia, posto che la pace è segno e effetto della monarchia, la guerra e la divisione segno e effetto della poliarchia, un’idea che già aveva trovato qualche espressione in precedenti scrittori cristiani.

4.2. – Il rapporto Impero-Chiesa
Ciò che muta interamente è la posizione dell’Impero, o meglio, dell’imperatore verso la Chiesa. Le prime decadi del IV secolo rappresentano un momento epocale del costituirsi della civiltà cristiana. Per Costantino Impero e Chiesa si fanno come coincidenti e coestesi. Egli ritiene l’unità delle Chiese nella fede universale e la loro unità un’esigenza di ordine pubblico cui l’imperatore provvede indicendo concilii e intervenendo con la legislazione per condannare chi attenta a quell’unità a tutela dell’ortodossia. Non a caso egli dà a se stesso il titolo di episkopos tôn ektos, ossia ‘vescovo di coloro che sono fuori’ (della Chiesa). Appare dunque la ragion di stato nell’intreccio tra potere imperiale e cristianesimo. La metafora del Regno di Dio che nella predicazione di Gesù non ha alcuna implicazione politica diviene una metafora politica attiva. L’attesa escatologica delle prime generazioni cristiane è ormai lontana[23]. Il «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio», vale a dire la distinzione – più che la separazione – indicata da Gesù tra due sfere diverse (ma complementari) rimane offuscata, se non cancellata.
E qui concludo questa mia breve panoramica che ha voluto proporre qualche testo e indicare qualche riflessione sul modo con cui i primi cristiani hanno guardato al rapporto tra l’Impero romano e la pace e fino a Costantino e al modo ‘rivoluzionario’ con cui questi (assecondato certo dall’interpretazione eusebiana), ha impostato il suo rapporto con la Chiesa cristiana. Sono le prime fasi di una storia che attraverso i tempi, fino ad oggi, ha visto il proporsi di differenti concezioni e di molteplici sviluppi che hanno segnato da vicino il processo costitutivo della nostra civiltà.

 

PAOLO SINISCALCO
Università di Roma “La Sapienza”

IMPERO E PACE NEL PENSIERO DEI CRISTIANI DEI PRIMI SECOLI

SOMMARIO: 1. La pace per i cristiani. – 2. La linea negativa. – 2.1. Il Tardo Giudaismo. – 2.2. L’Apocalisse canonica. – 2.3. Le espressioni della più antica letteratura. – 3. La linea positiva. – 3.1. I Vangeli, gli Atti degli Apostoli, Paolo. – 3.2. Gli scrittori del II secolo. – 3.3. Il servizio nell’esercito. – 4. La pace costantiniana. – 4.1. L’interpretazione di Eusebio di Cesarea. – 4.2. Il rapporto Impero-Chiesa.

1. – La pace per i cristiani
La pace per i primi cristiani è intesa prevalentemente non in senso giuridico-politico, ma in senso spirituale, ha una dimensione di interiorità, scaturisce dal cuore dell’uomo riconciliato con Dio, è dono di Dio e presuppone la certezza di essere stati redenti e salvati da Cristo che ha adempiuto le rivelazioni di pace espresse dai profeti nell’Antico Testamento. Dalla pace interiore nasce la pace esteriore che bisogna innanzitutto regni nella Chiesa, comunità dei credenti; una tale pace, occorre dire, spesso tradita e non sufficientemente ricercata e realizzata nel corso del tempo, consente e promuove l’unità di culto e di fede. Ma la pace per i cristiani è anche quella che si spera di godere dopo la morte e nel regno eterno di Dio (o già prima, nel regno messianico, per i Millenaristi)[1].
Nondimeno per i cristiani dei primi secoli, nel vasto campo semantico ricoperto dal termine, è inclusa anche e necessariamente la pace e la concordia entro il corpo della civitas.
Proprio a questo ambito ci si vuole rivolgere in questa occasione, precisamente per interrogarsi sul modo con cui essi guardano all’Impero romano in rapporto alla pace.

2. – La linea negativa
2.1. – Il Tardo Giudaismo
Per iniziare è utile, se non necessario, considerare la storia e la letteratura (con particolare riferimento al genere profetico e apocalittico) del Tardo Giudaismo. In questo ambito si manifesta una linea negativa verso Roma e il suo Impero
Fin dal I secolo a.C. Israele si accorge che l’Impero romano, con l’esercizio del suo potere, sta minacciando da vicino la religione giudaica. Accanto ad atti di insubordinazione e di ribellione cominciano a diffondersi scritti significativi. Nel 63 a.C. l’invasione della Palestina compiuta dai romani sotto la guida di Pompeo si conclude con l’occupazione di Gerusalemme e la profanazione del Tempio. L’episodio lascia una traccia profonda nell’animo dei giudei. Da quel momento l’impero occidentale è tenuto alla stregua di una potenza antagonista. Si fanno eco di questa idea i Salmi di Salomone, composti intorno alla metà del I secolo a.C., riprendendo un motivo della tradizione profetica: i prìncipi pagani sono destinati a subire una punizione divina, giacché nel tempo opportuno verrà un discendente di David che li sconfiggerà, giudicherà tutti i popoli nella saggezza della sua giustizia e instaurerà un regno messianico ed eterno (cf. Ps 17.26 ss.). È il primo passo, legato a circostanze storiche precise, che prepara e giustifica gli sviluppi successivi dell’apocalittica giudaica.
Si pensi all’Apocalisse siriaca di Baruch, composta dopo il 70 d.C., centrata sugli avvenimenti relativi alla presa di Gerusalemme da parte dell’esercito romano, in cui appare l’immagine dei quattro regni, a cui già Daniele era ricorso, per sottolineare che il quarto regno è il più duro e spietato, destinato ad avere una lunga egemonia fino alla fine del tempo e quindi alla venuta del Messia liberatore. Il nome del quarto regno è taciuto, ma non si è lontani dal vero se lo si identifica con l’Impero dei romani.
Analoga visione è manifestata nel IV libro di Esdra, altro scritto apocalittico giudaico composto verso la fine del I secolo d.C. L’immagine dei quattro regni ricorre del resto non solo nell’apocalittica, ma anche nella letteratura rabbinica[2], ove l’avversario è più specificamente individuato in una potenza insediata in Palestina.
Si possono menzionare ancora gli Oracoli sibillini nei quali il tema della caduta di Roma ha un posto privilegiato. Essi hanno origine per la gran parte nel I-II secolo d.C. e raccolgono materiali pagani, giudaici e cristiani di natura storica, politica e religiosa. Essi fanno di nuovo presente lo schema dei quattro imperi e, parlando del quarto, mettono in evidenza sia le cause che gli effetti della sua rovina[3]. La fine di Roma è dunque data per certa per il prevalere delle leggi che regolano la storia e per l’intervento stesso di Dio la cui azione, a tempo opportuno, vince i nemici dei giusti e realizza per questi ultimi il regno di eterna beatitudine.
Non sfugga d’altra parte il costituirsi nel I secolo d.C. nell’ambito del giudaismo palestinese di gruppi religiosi radicali, specialmente di galilei che danno vita a un movimento di resistenza contro Roma (cf. Atti degli apostoli 21.38; 5.36-37): animati da una concezione messianica dalle tinte politiche, si propongono la liberazione dal dominio romano, anche ricorrendo alla violenza armata sono i Sicari (per i quali rimane aperto il problema di sapere se debbano essere identificati con gli zeloti).

2.2. – L’Apocalisse canonica
Fin qui si è parlato dell’Impero percepito negativamente da una parte delle società e della letteratura giudaica tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., e non si è parlato della pace. Ma il breve excursus ora fatto serve a meglio inquadrare le posizioni dei cristiani a riguardo dei nostri temi. Si delineano infatti nell’ambito delle comunità dei fedeli a Cristo due linee divergenti. La prima prosegue in certo modo le tracce ora messe in luce. In proposito è qui necessario fare un cenno all’Apocalisse di Giovanni, non senza notare subito che le figure e le immagini proposte da questo scritto sono state fin dall’antichità interpretate in modo molteplice e vario. È un fatto però che la maggior parte dei commentatori dall’antichità ad oggi hanno visto nella quarta bestia che sale dal mare (cf. Apoc. 13.1 ss.) l’Impero romano; ancora meglio, secondo alcuni studiosi, essa si riferirebbe alla struttura politica, militare e amministrativa dell’Impero, mentre la bestia che sale dalla terra (cf. Apoc. 13.11, ma vd. pure Dan. 7.1 ss.) si riferirebbe all’organizzazione del culto imperiale che avrebbe avuto nell’Asia Minore uno dei centri di più intensa espansione. Ma non tutti i commentatori sono d’accordo con le interpretazioni dei particolari. Un’altra figura è stata da numerosi commentatori assimilata al potere imperiale romano e alla città di Roma, quella della prostituta che siede sopra una fiera scarlatta (cf. Apoc. 17.1 ss.). Giovanni avrebbe atteso in tempi brevi il crollo della potenza occidentale che avrebbe coinciso con la fine del mondo. All’Urbs ha fatto pensare anche la donna ubriaca del sangue dei santi e del sangue di quelli che sono morti per la fede in Gesù (cf. Apoc. 17.6) in cui parecchi critici hanno scorto il riferimento alle persecuzioni di Nerone e di Domiziano contro i cristiani. E si potrebbe continuare. I versetti 17.9-10 («Le sette teste sono i sette colli (o i sette monti) sui quali la donna è seduta. Sono anche sette re») sono stati considerati come allusione alla città di Roma. Pertanto cui si può dire che secondo l’opinione di interpreti antichi e moderni generalmente Giovanni è stato visto come rappresentante di una posizione critica e negativa verso Roma.

2.3. – Le espressioni della più antica letteratura
I segni così incisivamente tracciati dall’apocalittica di ritrovano, a cominciare dal II secolo d.C., nella letteratura cristiana. Nell’Epistola dello Pseudo-Barnaba (4.1 ss.) la citazione delle parole del profeta Daniele sulla quarta bestia che sale dal mare manifesta l’intenzione di richiamare la figura e l’opera negativa di imperatori romani del I secolo o dell’inizio del II. Interpretazioni che sono riprese da Ippolito nel Commento a Daniele ove si giunge a indicare la data esatta in cui avrà fine la potenza romana, assimilata ancora e sempre alla quarta bestia di cui parla il profeta: 500 anni dopo la nascita di Cristo. Alla fine del III secolo Vittorino di Poetovium nel Commento all’Apocalisse senza incertezze individua nella città di Roma la figura della donna dell’Apocalisse (cf. 17.9) e spiega il senso delle parole che seguono (cf. Apoc. 17.10 ss.): i cinque imperatori romani ormai caduti sono Tito, Vespasiano, Ottone, Vitellio e Galba; il sesto, che detiene il potere nel periodo in cui è composto l’ultimo libro neotestamentario, è Domiziano; il settimo ,infine, del quale si dice che durerà per breve tempo (come in realtà avviene, non prolungandosi la sua egemonia oltre un biennio), è Nerva. Nelle prime decadi del IV secolo Lattanzio nelle Divinae Institutiones torna a insistere sul motivo della fine dell’Impero romano in un quadro tracciato a linee cupe.
Così prende forma la tradizione negativa su Roma che ha la propria origine diretta o indiretta nella tradizione profetica e apocalittica tardo-giudaica e cristiana.

3. – La linea positiva
3.1. – I Vangeli, gli Atti degli Apostoli, Paolo
Accanto a questa si fa luce un’altra linea destinata a prevalere. Occorre intanto osservare che nei Vangeli canonici non si manifestano atteggiamenti contro l’Impero romano. Stando al Vangelo di Luca (cf. 3.14), quando a Giovanni Battista si rivolgono alcuni agenti delle tasse per chiedere che cosa debbano fare, egli risponde che non devono prendere niente più di quanto è stabilito dalla legge e ad alcuni soldati che chiedono la medesima cosa egli dice di non impossessarsi di beni altrui con la violenza o con false accuse, ma di accontentarsi delle loro paghe. E si sa che pubblicani e militari – evidentemente romani – erano categorie mal giudicate dai giudei del tempo. Anche Gesù non condanna mai il servizio nell’esercito. Dai Vangeli siamo a conoscenza di due episodi significativi in proposito: quello del centurione che in Cafarnao chiede l’aiuto del Signore per il suo servo paralizzato (cf. Matteo 8.5 ss.; vd. pure Luca 7.2 ss.) e quello del centurione che ai piedi della croce fa la guardia a Gesù morente (cf. Matteo 27.54; Marco 15.39; Luca 23.47. Proprio questi due centurioni rendono palese il “segreto messianico” di Gesù, il mistero della sua persona e lo annunciano al mondo pagano: «Signore, io non sono degno che tu entri a casa mia, (…), ma di’ anche solo una parola e il mio servo certamente guarirà» (Luca 7.6 s.), esclama l‘ufficiale romano di Cafarnao; e l’ufficiale sul Golgota, accortosi del terremoto e di tutto quanto accadeva, pieno di spavento dice: «Quest’uomo era veramente il Figlio di Dio» ( Matteo 27.54).
Gli Atti degli Apostoli (cf. 10.1 ss.) a loro volta riferiscono di Cornelio, centurione della coorte Italica, “uomo pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia”, il quale un giorno vede apparirgli un angelo che gli dice essere state esaudite le sue preghiere e gli suggerisce di mandare uomini a Giaffa per fare venire presso di lui Simone Pietro. Cornelio ubbidisce. Pietro viene, non prima di avere avuto pure lui una visione; annuncia al centurione e ai suoi la ”buona novella della pace”, assiste alla discesa dello Spirito santo su tutti coloro che avevano ascoltato il suo discorso, circoncisi o pagani che fossero, ed ordina che tutti siano battezzati nel nome di Gesù. Dunque, nell’ottica di Luca, che scrive gli Atti, di nuovo un ufficiale romano segna un momento decisivo della storia della salvezza. L’apertura della missione al mondo dei pagani e quindi l’entrata dei non giudei nel nuovo popolo che si stava componendo: si tratta della “pentecoste dei pagani”, come è stata definita[4].
Una chiara affermazione di lealismo dei cristiani nei confronti delle autorità costituite si trova poi in una delle lettere sicuramente autentiche di Paolo, la lettera ai Romani, scritta probabilmente da Corinto nel 54 o nel 56-57, che risulta perciò essere uno dei più antichi documenti della letteratura cristiana. Scrive l’apostolo: «Ognuno sia sottomesso a chi ha ricevuto autorità, perché non c’è autorità che non venga da Dio (…). Fa’ il bene e le autorità ti loderanno, perché sono al servizio di Dio per il tuo bene (…). Ecco bisogna stare sottomessi all’autorità, non soltanto per paura delle punizioni, ma anche per una ragione di coscienza. È la stessa ragione per cui pagate le tasse: difatti mentre assolvono il loro incarico sono al servizio di Dio. Date a ciascuno ciò che gli è dovuto: l’imposta, le tasse, il timore, il rispetto, a ciascuno quel che gli dovete dare» (Rom. 13.1 ss.).
L’attitudine positiva espressa ripetutamente e con chiarezza verso le autorità politiche civili in scritti dapprima altamente considerati e poi, con il formarsi del primo canone scritturale, ritenuti pieni di autorevolezza, anzi di autorità, perché ispirati da Dio, ha indotto le comunità cristiane a mutare quella posizione presente, in una parte dei suoi membri, di insubordinazione o almeno di contestazione e di insofferenza verso quello che impropriamente oggi diremmo lo ‘stato’ romano.

3.2. – Gli scrittori del II secolo
Gli scrittori cristiani nel II secolo, coloro che di consueto sono denominati Apologeti, quando si accingono a rappresentare le idee e le norme morali scaturite dall’euaggelion di fronte al mondo pagano, avvertono che l’Impero romano, con la sua organizzazione civile e politica facilita la diffusione del cristianesimo; essa infatti ha realizzato l’unità dell’oikoumene e vi ha fatto regnare la pace.
Così intorno al 150 Giustino, indirizzando la sua Apologia a Antonino Pio (138-161), Marco Aurelio (161-180) e Lucio Vero (161-169) dopo essersi difeso dalle accuse rivolte ai fedeli di Cristo da parte della società pagana, aggiunge: «Siamo vostri collaboratori e alleati per la pace più di tutti gli altri uomini (…). Riteniamo che ciascuno si incammini verso la condanna eterna oppure verso la salvezza per il merito delle azioni. Se tutti gli uomini conoscessero queste cose, nessuno, neppure per poco tempo, sceglierebbe ciò che è male, sapendo di andare alla pena eterna nel fuoco»[5]. Pochi anni dopo Atenagora loda gli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero ed osserva che per la loro saggezza l’Impero gode di una pace profonda; egli li dice pacificatori delle terre abitate, ma in pari tempo chiede che non perseguitino i cristiani, ma li includano nel quadro del loro governo[6]. Melitone di Sardi, rivolgendosi ancora a Marco Aurelio intorno al 170, nota che la ‘filosofia’ cristiana, avendo cominciato a diffondersi in mezzo ai popoli sotto il regno di Augusto, era nata e si era sviluppata con l’Impero[7]: un’affermazione notevole perché mette in luce la coincidenza temporale tra il regnare della Pax Augusta e la contemporanea diffusione del messaggio di Cristo[8]. Del resto già prima di lui altri apologeti avevano evitato di marcare una frattura tra la tradizione pagana e l’annuncio cristiano; il fatto stesso che Melitone e Giustino assumano il termine ‘filosofia’ per indicare la religione da loro professata è un segno di un tale atteggiamento. Verso la fine del II secolo Ireneo, vescovo di Lione, scrive che grazie ai Romani il mondo gode della pace e non manca di mettere in evidenza che per questo, senza timore, ci si sposta e si naviga dovunque si voglia, lui originario dell’Asia Minore che diviene vescovo di una città della Gallia meridionale[9]. Origene, entro il quadro di un discorso più complesso e sfumato, riprende e rende più esplicita quell’idea: egli confronta la pace di Cristo con la pace recata al mondo da Roma e afferma che questa è diventata la condizione necessaria perché il Vangelo possa essere annunciato a tutte le genti[10].
Non stupisce dunque di riscontrare nei medesimi autori menzionati dichiarazioni di lealismo e di ubbidienza alle leggi. Fin dalla fine del I secolo Clemente di Roma prega perché il Signore doni salute, pace, stabilità a chi governa perché sia in grado di esercitare in modo irreprensibile l’ufficio datogli dal Signore stesso. E come Clemente, altri da Teofilo di Antiochia a Tertulliano, ad Origene, raccomandano di pregare per l’imperatore, purché questi, come si vedrà più oltre, non pretenda il culto e l’adorazione. D’altronde già l’apostolo Paolo aveva aperto la strada, raccomandando perché fossero fatte simili preghiere[11].

3.3. – Il servizio nell’esercito
Riconoscere la funzione pacificatrice svolta dall’Impero comportava la necessità di servire nei ranghi di quel medesimo Impero, anche come soldati. Ma l’essere soldato esigeva anche l’eventualità di combattere e di uccidere il nemico contro cui si combatteva. Taluni critici moderni hanno sottolineato l’incoerenza di una tale posizione denunciata d’altronde dai pagani: si è detto che i cristiani avrebbero voluto godere dei benefici derivanti dall’ordinamento politico senza d’altra parte contribuire al suo mantenimento[12]. Negli ultimi decenni gli studi hanno meglio precisato i molti problemi connessi a questo aspetto che si rivela complesso. Intanto si deve osservare che i cristiani, secondo una documentazione fondata erano certamente presenti nell’esercito romano nelle ultime decadi del II secolo. Tertulliano[13] nel 197-198 menziona una lettera di Marco Aurelio nella quale si attesta che la grande sete, pericolosamente sofferta dall’esercito romano in Germania[14], fu placata dalle preghiere di soldati cristiani. Questa almeno è la versione di Tertulliano, che non ha visto la lettera dell’imperatore, (egli però afferma che tale lettera la si può cercare negli archivi del Senato a cui sarebbe stata indirizzata); si sa che il fatto è riferito anche da altre fonti cristiane e pagane[15] (le quali ultime danno il merito del prodigio alle divinità pagane). Anche alcune iscrizioni risalenti agli stessi anni (180-190) confermano la presenza di cristiani tra i soldati dell’esercito romano.
Certamente la questione del servire nell’esercito doveva porre problemi non facilmente risolvibili tanto che, per quanto possiamo saperne, si vennero a delineare sia a livello del pensiero sia a quello della prassi molteplici posizioni che non sembrano avere avuto dimensioni omogenee, essendo legate – in epoca precostantiniana – ad aree geografiche ed a Chiese determinate. Intanto occorre osservare che si proponevano casi diversi: il primo era quello di chi, già inquadrato nella vita militare, si convertiva; il secondo era quello di chi appartenente alla comunità ecclesiale, intraprendeva la carriera militare; il terzo di chi obbligatoriamente era arruolato. Le difficoltà gravi che per un cristiano si ponevano erano da una parte la necessità di combattere e quindi essere messo nella condizione di uccidere; dall’altra, nel quadro della vita militare, di dovere prestare atti idolatrici. Ma non è il caso di seguire le vicende dei singoli, quelle almeno delle quali si siano conservate le testimonianze. È un fatto che certi ambienti dell’Africa settentrionale tengono verso la violenza una linea rigorosamente negativa. Ne sono testimoni Tertulliano e più ancora, Arnobio e Lattanzio, i quali a più riprese esprimono idee intransigenti contro il servizio militare, la violenza e la guerra[16], forse sotto la spinta di influssi montanistici[17]. Ed è pure un fatto che ogni atto idolatrico connesso alla vita militare – come a quella politica e civile – è condannato. Già si vedeva come le comunità cristiane non abbiano avuto difficoltà a pregare anche pubblicamente per gli imperatori perché questi avessero vita lunga, eserciti forti, un senato fedele, un popolo onesto, un mondo in pace[18]. Mentre netto è il loro rifiuto per ogni pretesa sacralizzante dei ‘Cesari’ e per ogni atto di culto verso le divinità pubbliche. «Certamente – scrive un autore già ricordato, Tertulliano[19] – riconoscerò all’imperatore il titolo di ‘signore’ (dominus) (…); se però non mi si costringa a chiamarlo così al posto di Dio. Per il resto io sono libero di fronte all’imperatore: infatti il mio Signore è uno solo, Dio onnipotente ed eterno, che è il medesimo Dio dell’imperatore».

4. – La pace costantiniana
4.1. – L’interpretazione di Eusebio di Cesarea
La svolta costantiniana, preceduta e preparata dall’editto di Galerio, non si può dire, a mio avviso, che abbia mutato la posizione dei cristiani rispetto allo ‘stato’ ed alla questione della pace[20]. Certamente ha fatto cadere quella parte della polemica fino allora sostenuta contro l’idolatria, mentre ha permesso di sviluppare grandemente la linea positiva, presente fin dalla metà del I secolo d.C. La giustificazione ideologica e teologica della nuova situazione storica la fornisce Eusebio di Cesarea, nell’interpretazione che egli dà appunto dell’Impero romano e della figura di Costantino.
Come abbiamo visto, fino dal II-III secolo molti cristiani avevano rilevato che il diffondersi del cristianesimo era dovuto anche al diffondersi tra i popoli di quella concordia che l’Impero di Roma aveva saputo instaurare e mantenere per lungo tempo. Ora dopo che l’imperatore ha dato a loro libertà di esistere, Eusebio allarga enormemente la prospettiva, portandola su un piano di teologia politica. Il vescovo di Cesarea asserisce che nel tempo stesso in cui Cristo insegnava che c’è la ‘monarchia’ di un solo Dio, il genere umano era liberato dall’azione dei demoni e dalla molteplicità dei governi nazionali. Secondo le sue parole, «la divisione del potere presso i Romani era scomparsa di fatto quando Augusto aveva stabilito una monarchia, nel momento stesso dell’apparizione del (…) Salvatore. Da allora fino ai giorni nostri non si sono più viste più città in guerra con città e popoli in lotta con popoli (…). Con la predicazione (…) del Salvatore si è attuata la distruzione dell’errore politeista e i dissidi tra le nazioni, con i loro antichi flagelli, sono cessati»[21].
È stato osservato[22] che lo scrittore antico non stabilisce solo un rapporto tra Impero romano e pace, ma tra Impero romano, pace e cristianesimo e che la pax romana in questo quadro assume un significato religioso più che un significato politico, è una missione divina della pace.
Altrettanto interessante è la connessione tra monoteismo e monarchia e tra politeismo e poliarchia, posto che la pace è segno e effetto della monarchia, la guerra e la divisione segno e effetto della poliarchia, un’idea che già aveva trovato qualche espressione in precedenti scrittori cristiani.

4.2. – Il rapporto Impero-Chiesa
Ciò che muta interamente è la posizione dell’Impero, o meglio, dell’imperatore verso la Chiesa. Le prime decadi del IV secolo rappresentano un momento epocale del costituirsi della civiltà cristiana. Per Costantino Impero e Chiesa si fanno come coincidenti e coestesi. Egli ritiene l’unità delle Chiese nella fede universale e la loro unità un’esigenza di ordine pubblico cui l’imperatore provvede indicendo concilii e intervenendo con la legislazione per condannare chi attenta a quell’unità a tutela dell’ortodossia. Non a caso egli dà a se stesso il titolo di episkopos tôn ektos, ossia ‘vescovo di coloro che sono fuori’ (della Chiesa). Appare dunque la ragion di stato nell’intreccio tra potere imperiale e cristianesimo. La metafora del Regno di Dio che nella predicazione di Gesù non ha alcuna implicazione politica diviene una metafora politica attiva. L’attesa escatologica delle prime generazioni cristiane è ormai lontana[23]. Il «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio», vale a dire la distinzione – più che la separazione – indicata da Gesù tra due sfere diverse (ma complementari) rimane offuscata, se non cancellata.
E qui concludo questa mia breve panoramica che ha voluto proporre qualche testo e indicare qualche riflessione sul modo con cui i primi cristiani hanno guardato al rapporto tra l’Impero romano e la pace e fino a Costantino e al modo ‘rivoluzionario’ con cui questi (assecondato certo dall’interpretazione eusebiana), ha impostato il suo rapporto con la Chiesa cristiana. Sono le prime fasi di una storia che attraverso i tempi, fino ad oggi, ha visto il proporsi di differenti concezioni e di molteplici sviluppi che hanno segnato da vicino il processo costitutivo della nostra civiltà.

PUERI CANTORES SACRE' ... |
FIER D'ÊTRE CHRETIEN EN 2010 |
Annonce des évènements à ve... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | Vie et Bible
| Free Life
| elmuslima31