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LA LECTIO DIVINA NELLA TRADIZIONE DELLA SPIRITUALITÀ CRISTIANA

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LA LECTIO DIVINA NELLA TRADIZIONE DELLA SPIRITUALITÀ CRISTIANA

…la sua legge medita giorno e notte…

Chi dice lettura dice libro. Chi dice libro dice, per un credente, Bibbia. Chi dice Bibbia dice Parola di Dio. Chi dice Parola di Dio annuncia il Dio vivente, il solo che parli, e la fede in questo Dio vivente. Chi dice fede nel Dio vivente dice inizio dell’amicizia tra Dio e l’uomo, e questo è tutto il cristianesimo, che è fede nella Parola di Dio incarnata, e il quale ammette la lectio divina come pezzo forte della sua spiritualità. Poiché se è vero che la fede nasce innanzitutto non da un libro letto ma da una parola ascoltata, non da una lectio ma da una praedicatio (Rm 10,17), non da una parola scritta, ma da una parola pronunciata con la forza di un evento sempre nuovo, è anche vero che il popolo di Dio ha fissato per iscritto la Parola ardente, ha riunito in libri gli oracoli profetici e che il Libro delle Scritture conserva nella chiesa, come il vaso conservava nell’Arca la manna incorruttibile, la Parola incorruttibile sempre viva di Dio. Sarà necessario saper usare di questo libro per la propria salvezza e non per la propria rovina, per trovare il cammino verso Dio e non per perdersi, ma il fatto che ci si debba servire di esso, che si debba aprire e scrutare, questo non può essere messo in dubbio da un credente. Egli non prova forse, nel moto spontaneo e nell’ardore della sua stessa fede, la strana attrattiva di questo libro in cui si può ritrovare il Signore che un giorno si è incontrato nel cammino della vita e al quale ci si è interamente donati? Origene diceva: Che cos’è la conversione? Se noi voltiamo le spalle a tutte le cose del mondo e, attraverso lo studio, i nostri atti, il nostro spirito, il nostro sforzo, ci consacriamo alla Parola di Dio, se meditiamo la sua Legge giorno e notte, se, dimenticando tutto il resto, siano disponibili per Dio e prendiamo a cuore le sue testimonianze, è proprio tutto questo che significa: essere convertiti al Signore(Origene in Ex., hom. 12). La spiritualità cristiana non è cosa diversa dalla spiritualità del battesimo vissuta nella logica pasquale, che costituisce il suo nucleo essenziale. Il movimento della conversione che fa che ci distogliamo dal peccato, dalla menzogna, dalle futilità, ci fa necessariamente aderire al Dio santo e vero, ed è in particolare proprio nella sua Parola che noi lo incontriamo. Convertirsi, volgersi verso il Signore significa dunque in ultima istanza fidanzarsi con la sua parola: «Quando le tue parole si presentavano, io le divoravo; la tua parola era la mia estasi e la gioia del mio cuore» (Ger 15,16). L’inizio del Salmo 1 appare allora come l’ideale mistico di ogni credente e ritornerà come un motivo conduttore nella penna di ogni scrittore cristiano: «Beato l’uomo che non segue il consiglio degli empi, non indugia nella via dei peccatori e non siede in compagnia degli stolti; ma si compiace della legge del Signore, la sua legge medita giorno e notte!». La nostalgia del credente, dal momento in cui ha conosciuto Dio e ascoltato la sua Parola, sarà, come diceva Origene, «dimenticando tutto il resto, essere disponibili per Dio» (omissis omnibus, Deo vacare); il profeta Osea esprime questa nostalgia di Israele in termini indimenticabili: «Per questo io la sedurrò, la condurrò al deserto e parlerò al suo cuore» (Os 2,16). La fede tende segretamente, di per se stessa, verso questo ascolto eterno del Verbo che è la Parola sostanziale e beatificante del Dio vivente. È chiaro che questo movimento spontaneo della fede deve venire a patti con la condizione terrena che lo obbliga a una lunga deviazione e a un’infinita pazienza. La maggior parte dei cristiani, nel mondo, apriranno il Libro unico solo in rari momenti, quando potranno dimenticare per un istante le preoccupazioni della vita terrena, e a loro volta, omissis omnibus, Deo vacare. Quando avverrà questo se non ogni settimana in quel giorno regolare che per eccellenza è giorno del Signore? Vacare Deo: lasciare del tempo libero per Dio, consacrare del tempo a Dio è esattamente il ruolo e il significato della domenica nel ritmo della vita cristiana. Ci sono sei giorni della settimana dedicati al lavoro umano e alle parole umane; il settimo giorno è dedicato al Signore e all’incontro con lui, sia nella sua Parola che nell’Eucaristia. Quando, secondo san Gerolamo (Ep. 22,35), la Regola di Pacomio prescriveva ai monaci «di dedicarsi, ogni domenica, esclusivamente alla preghiera e alle letture», non faceva che applicare in modo più intenso alla vita monastica quello che doveva essere un ideale di ogni cristiano. Ma più precisamente, che cosa caratterizza e differenzia i primi monaci? Il fatto che per loro ogni giorno sarà domenica! Non nel senso che la domenica è astensione dal lavoro; su questo punto anche i monaci obbediranno alla legge universale del lavoro dei sei giorni, ma nel senso che la domenica è innanzitutto il tempo consacrato alla lettura della Parola di Dio. I monaci sono coloro che non possono sopportare di non nutrirsi continuamente di questa Parola, coloro che cercano di vivere alla lettera, fin da quaggiù, quello che la loro conversione misticamente significa: un oblio delle cose del mondo per abbracciare soltanto la Parola di Dio. La lectio divina diventa così, fin dall’inizio, la parte più importante dell’organizzazione monastica. Spigoliamo qualche testimonianza dall’opera di Denys Gorce, La lectio divina des origines du cénobitisme à Saint Benoit et Cassiodore I, Paris 1925.

Sant’ Antonio, il padre del monachesimo, domandava ai discepoli che venivano per mettersi alla sua scuola di « pregare con assiduità, di recitare i salmi prima di addormentarsi e dopo il risveglio, di ruminare nel loro spirito i comandi della Scrittura e di custodire il ricordo degli esempi dei santi in modo che, venendo l’anima stimolata dai precetti divini, essi potessero imitare il loro zelo ».(idem p.66)

La Regola di san Pacomio: « La meditazione delle Scritture … è la linfa del grande albero monastico, la chiave di volta dell’edificio pacomiano, e anche il garante della sua solidità. Essa è il mezzo ascetico per eccellenza per non perdere di vista Cristo neppure un solo istante del giorno, e per custodire la sua presenza lungo le notti. II cenobita pacomiano è la realizzazione della figura del giusto, «che ripone la sua gioia nella legge del Signore e che la medita giorno e notte» » (idem p.79) Sottolineiamo come la regola di san Pacomio subordini alla preghiera e alla lettura ogni altro esercizio fisico di ascesi: « È secondo il canone della chiesa che noi digiuniamo solo per due giomi, per poter avere le forze e non venir meno nel compiere quel che ci viene ordinato, cioè la preghiera continua, le veglie, la meditazione della legge di Dio. » (idem p.71-72)

San Gerolamo, in un modo del tutto personale, ma sull’esempio di questi Anziani, ha ripreso l’ideale di una vita tutta centrata sulla Parola di Dio: il suo insediamento a Betlemme, i suoi lavori esegetici non hanno avuto altro scopo se non quello di penetrare meglio la verità di questa Parola. Questo il suo augurio: «Il sonno vi sorprenda con i libri in mano e, se la vostra testa si piega per la fatica, ricada sulla pagina santa» (idem pg.55). Non vi sono soltanto i monaci che si consacrano alla lectio divina: vescovi come sant’Ambrogio, sant’Agostino e tanti altri, non hanno una spiritualità differente.

Il celebre monaco Cassiano, nel IV secolo, ci esprime la gioia che si irradia da una tale spiritualità. « Raccolte premurosamente (le parole sacre), depositate con cura ed etichettate negli antri dell’anima, munite del sigillo del silenzio, avverrà di esse come di vini dal soave profumo che rallegrano il cuore dell’uomo. Invecchiate da lunghe riflessioni e nelle lentezze della pazienza, le verserete dal ricettacolo del vostro cuore in fiotti di fragrante balsamo; come una fontana che zampilla senza sosta, esse strariperanno dalle vene dell’esperienza e dai canali che spandono virtù; sgorgheranno in fiumi inesauribili dal vostro cuore come da un abisso. » (Jean Cassien, Conférences H, ed. E.Pichery, SC 54, Paris 1958, p. 201)

Infine la regola di san Benedetto fa entrare la lectio divina nella struttura monastica e, con ciò, nella spiritualità di tutto l’Occidente cristiano: lettura collettiva all’ufficio, in particolare a compieta, e al refettorio; lettura personale che durava circa tre ore ogni giorno.

(tratto da «La lectio divina nella chiesa», in Pregare la Bibbia nella vita religiosa, Bose 1983 p. 7-10 oggi disponibile nella collana fascicoli Qiqajon n° 51 pg.1-5)

Publié dans:LECTIO |on 14 janvier, 2016 |Pas de commentaires »

QUALE RUOLO DELLA FEDE IN DIO NELLO SPAZIO PUBBLICO?

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QUALE RUOLO DELLA FEDE IN DIO NELLO SPAZIO PUBBLICO?

« Lectio magistralis » alla Lettura annuale di Magna Carta, Roma, 6 maggio 2013

di Camillo Ruini

Parleremo non del ruolo di Dio ma del ruolo della fede in Dio, nello spazio pubblico: è una precisazione necessaria perché quando si parla di Dio la questione è inevitabilmente filosofica e teologica (di questa ho parlato nel mio libro intervista con Andrea Galli). Quando invece si parla della fede in Dio la questione può essere anche storica, culturale, sociologica, politica.
La domanda su Dio però si ripropone, nel senso che occorre precisare a quale Dio si rivolga la fede: la differenza tra gli dei del politeismo, il Dio del monoteismo, o il Dio del panteismo è infatti assai grande ed ha conseguenze decisive anche per il ruolo della fede nello spazio pubblico.
Dirò dunque che mi riferisco al Dio di Gesù Cristo, cioè al Dio della nostra tradizione italiana, europea e non solo europea. Il riferimento a questo Dio ha plasmato la nostra cultura e la nostra civiltà. A mio parere, e secondo la dottrina della Chiesa cattolica, questo Dio può essere conosciuto, per alcuni aspetti, anche dalla nostra ragione e in questa misura è accessibile ai non credenti in Cristo. La piena conoscenza di lui si ha però solo accogliendo nella fede il suo manifestarsi a noi nella storia di Israele e soprattutto in Gesù di Nazaret.
Nella storia delle religioni e delle culture il ruolo di Dio nello spazio pubblico è qualcosa di ovvio e di originario, anche se viene concepito in modi molto differenziati. Le religioni, tradizionalmente, hanno svolto, e tuttora svolgono assai spesso, un ruolo centrale nella genesi e articolazione delle culture, delle società e della vita pubblica. Proprio con il cristianesimo è accaduto però qualcosa di nuovo. Per comprendere questa novità è importante inquadrarla un poco storicamente.

Nel VI secolo a.C., in un periodo nel quale sono avvenuti grandi rivolgimenti culturali in aeree geografiche anche molto distanti e disparate, in Grecia le divinità mitiche dell’Olimpo hanno cominciato ad essere soppiantate dal Dio dei filosofi, o meglio dall’Essere assoluto, unico ed eterno, con il quale però, per la sua trascendenza rispetto a noi e al mondo, non si potrebbe interloquire e non avrebbe senso rivolgersi nella preghiera. Così si apre una frattura tra la conoscenza razionale di Dio e il senso religioso.
Nello stesso periodo in Israele, proprio al tempo della catastrofe politica dell’esilio in Babilonia e della fine dell’indipendenza, giunge a compimento (ad esempio ad opera di un profeta che ha scritto la seconda parte del libro di Isaia) la convinzione che il Dio di Israele, Jahweh, non è solo l’unico Dio che Israele deve adorare, ma anche l’unico Dio esistente, creatore e salvatore universale, l’unico vero Dio di tutti i popoli.
Si ha quindi uno sviluppo analogo a quello avvenuto in Grecia, ma con una differenza essenziale: questo unico Dio è assoluto ed eterno ma è anche a noi sommamente vicino, è il Dio che si interessa di noi e ha preso l’iniziativa di rivelarsi al popolo di Israele. Di più, è il Dio sommamente libero e personale, che ha creato il mondo liberamente e per amore.
Questo è anche il Dio di Gesù Cristo: in Cristo anzi la vicinanza e l’amore di Dio giungono al vertice umanamente inconcepibile della morte del Figlio per noi. Non solo, ma anche da parte nostra il rapporto con Dio non è più legato ad aspetti etnici e giuridici, come l’appartenenza a un popolo e l’osservanza della legge mosaica, bensì è aperto a ogni persona, sulla base della libera scelta personale della fede e della conversione.
Così la libertà diventa fattore centrale nel rapporto tra Dio e noi, per così dire da entrambe le parti, dalla parte di Dio e dalla parte dell’uomo. Il cristianesimo può quindi ben dirsi la religione della libertà, oltre che la religione del Logos, della ragione, e – soprattutto – dell’amore.
Possiamo aggiungere che il concetto stesso di persona, fondamentale nella nostra civiltà, ha origini teologiche: viene sviluppato infatti nel tentativo di comprendere l’unità di Dio Padre e del Figlio, e dello Spirito Santo, nella relazione e donazione reciproca. Perciò, fin dall’origine, persona è un concetto relazionale, dice rapporto all’altro e non chiusura in se stessi.
In questo quadro assumono tutto il loro rilievo le celebri parole di Gesù “Date a Cesare quello che è di Cesare e date a Dio quello che è di Dio” (Matteo 22, 21 e paralleli). La rilevanza pubblica della fede in Dio non viene affatto negata ma passa attraverso la libertà delle persone. Che questa rilevanza pubblica sussista nel cristianesimo fin dalle origini appare nel modo più chiaro dal carattere pubblico del processo a Gesù e dal significato che i primi discepoli attribuivano alla sua risurrezione, come adempimento della promessa di Dio a Israele, che era promessa di liberazione e salvezza del popolo, e in concreto come venuta del regno di Dio annunciato da Gesù, che significava la signoria salvifica di Dio su ogni aspetto della nostra vita e della realtà.
Di fatto per i primi tre secoli della sua storia il cristianesimo ha effettivamente mantenuto e testimoniato, soprattutto attraverso il martirio affrontato per non rendere culto divino all’imperatore romano, l’affermazione sia della libertà della fede sia del suo carattere pubblico.
La svolta, come sappiamo, è avvenuta nel secolo IV, non tanto con Costantino, che si è limitato a riconoscere la libertà e liceità del culto cristiano, quanto con Teodosio, che nel suo editto del 380 impose a tutti i sudditi dell’impero il credo cristiano, nella forma del Credo del Concilio di Nicea, anche (anzi soprattutto) allo scopo di reprimere le eresie all’interno del cristianesimo e preservare l’unità dell’Impero.
Così il cristianesimo è divenuto, contro la sua origine e la sua natura più profonda, religione di Stato, sebbene, almeno in Occidente, mai in forma pacifica e piena: è stata mantenuta infatti la distinzione dei due poteri, ecclesiastico e civile (allora in concreto del papa e dell’imperatore), teorizzata un secolo dopo l’editto di Teodosio dal papa Gelasio I.
Inoltre, la teologia cattolica non ha mai ammesso che qualcuno venga obbligato con la forza a credere, ma solo – in modo in verità assai poco coerente – che venga usata la forza per impedire a chi aveva già creduto di abbandonare la fede (in concreto, per procedere contro gli eretici). Possiamo dire che alla base di questa posizione sta “l’oggettivismo” medioevale, cioè il primato unilaterale dell’istanza della verità su quella della libertà.
Solo con la fine dell’unità religiosa dell’Occidente a seguito della riforma protestante questa situazione entra in crisi. Senza ripercorrere le varie tappe di una storia nota, possiamo dire che il primato unilaterale della verità ha condotto alle guerre di religione dei secoli XVI e XVII e che si è usciti da questa situazione insostenibile attraverso la secolarizzazione della politica, cioè la fine del ruolo pubblico vincolante della fede religiosa.
Questo però non equivale ancora alla fine di ogni ruolo pubblico delle religioni, in particolare di un ruolo che passi attraverso le libere scelte dei cittadini. Uno sviluppo di questo genere si è verificato più tardi, soprattutto in Francia, con l’illuminismo francese e la rivoluzione francese, ed è tuttora tipico dei paesi latini di matrice cattolica: qui la rivendicazione della ragione e della libertà assumono un volto decisamente ostile alla Chiesa e talvolta chiuso ad ogni trascendenza, mentre la Chiesa a sua volta fatica e tarda a lungo a distinguere tra le istanze anticristiane, a cui evidentemente non poteva non opporsi, e la rivendicazione della libertà sociale e politica, che invece avrebbe potuto e dovuto essere accolta positivamente, sulla base del messaggio cristiano stesso. La “laicità” alla francese implica proprio la chiusura ad ogni ruolo pubblico delle religioni.
Che sviluppi di questo genere non fossero un portato necessario della modernità appare soprattutto dalla vicenda storica degli Stati Uniti d’America. La loro stessa nascita infatti è dovuta, in larga misura, a quei gruppi di cristiani protestanti che erano fuggiti dal sistema delle Chiese di stato, vigente anche nell’Europa protestante, e che formavano libere comunità di credenti. Il fondamento della società americana è costituito pertanto dalle Chiese libere, per le quali è essenziale non essere Chiese dello Stato ma fondarsi sulla libera unione dei credenti.
In questo senso si può dire che alla base della società americana c’è una separazione tra Chiesa e Stato determinata, anzi reclamata dalla religione e rivolta anzitutto a proteggere la religione stessa e il suo spazio vitale, che lo Stato deve lasciare libero. Per conseguenza, tutto il complesso dei rapporti tra sfera statale e non statale in America si è sviluppato diversamente che in Europa, attribuendo anche alla sfera non statale un concreto carattere pubblico, favorito dal sistema giuridico e fiscale.
In questa America, con la sua specifica identità, i cattolici si sono integrati bene, riconoscendo ben presto il carattere positivo della separazione tra Stato e Chiesa legata a motivazioni religiose e l’importanza della libertà religiosa così garantita.
Fino al Concilio Vaticano II però rimaneva una difficoltà, o una riserva di principio, che non riguardava i cattolici americani come tali, ma la Chiesa cattolica nel suo complesso. Questa difficoltà si riferiva al riconoscimento della libertà religiosa, non semplicemente come accettazione di un dato di fatto (questa accettazione c’era già prima del Concilio), ma come affermazione di un diritto.
Il Vaticano II ha superato questa difficoltà con la dichiarazione sulla libertà religiosa, documento decisivo per il rapporto tra Chiesa e modernità, come ha sottolineato Benedetto XVI in uno dei suoi ultimi discorsi, quello al clero romano del 14 febbraio scorso. Non per caso la dichiarazione sulla libertà religiosa è stata redatta con il forte contributo dei vescovi e dei teologi nordamericani.
La libertà religiosa vi è affermata chiaramente come diritto universale, fondato sulla dignità che appartiene per natura alla persona umana; non quindi, come spesso si faceva e si continua a fare, su un approccio relativistico che escluda il valore di verità di ogni religione e in particolare del cristianesimo.
Con il Concilio è stata ricuperata dunque, e concretizzata nell’attuale situazione storica, la concezione cristiana originaria della libertà del nostro rapporto con Dio.
Più in generale, il Vaticano II ha rappresentato il superamento, almeno in linea di principio, di quel ritardo storico del cattolicesimo nell’epoca moderna a cui ho accennato.
Il Concilio ha fatto propria infatti la centralità del soggetto umano, che è la rivendicazione di fondo dell’età moderna, mostrandone la radice cristiana e l’infondatezza della contrapposizione tra centralità dell’uomo e centralità di Dio.
Ha inoltre affermato la legittima autonomia delle realtà terrene (che a sua volta non significa negazione del rapporto con il Creatore). Il filosofo Giovanni Fornero, decisamente laico, scrive, alla voce “Laicismo” nel Dizionario di filosofia dell’Abbagnano, che per laicismo si intende “il principio dell’autonomia delle attività umane, cioè l’esigenza che esse si svolgano secondo regole proprie, che non siano imposte dall’esterno, per fini o interessi diversi da quelli a cui tali attività si ispirano”. Ma queste sono, quasi alla lettera, le parole con cui il Vaticano II (Gaudium et spes, 36) definisce la legittima autonomia delle realtà terrene.
Quindi anche sulla laicità, come sulla libertà religiosa e sulla centralità del soggetto umano, si poteva sperare che dopo il Concilio il contenzioso tra “cattolici” e “laici” (per usare una terminologia che non mi convince) fosse ormai alle nostre spalle. In particolare per l’Italia anche l’ostacolo del Concordato sembrava sostanzialmente rimosso, dopo che l’accordo di revisione del 1984 aveva espressamente riconosciuto che “si considera non più in vigore il principio, originariamente richiamato nei Patti lateranensi, della religione cattolica come sola religione dello Stato italiano”.
Le vicende degli ultimi decenni sembrano però smentire crudamente una tale speranza: ci troviamo infatti in una fase nuova, e acuta, della contesa intorno alla laicità, o forse più propriamente al ruolo della fede nello spazio pubblico. Ma in realtà l’oggetto del contendere si è profondamente modificato.
Non si tratta più, almeno in linea principale, dei rapporti tra Chiesa e Stato come istituzioni: a questo riguardo infatti la loro distinzione e l’autonomia reciproca sono sostanzialmente accettate e condivise sia dai cattolici sia dai laici, e con esse l’apertura pluralista degli ordinamenti dello Stato democratico e liberale alle posizioni più diverse, che di per sé hanno tutte, davanti allo Stato, uguali diritti e uguale dignità. Le polemiche che vengono sollevate su queste tematiche sembrano dunque piuttosto pretestuose e sono probabilmente il riflesso dell’altro e ben più consistente contenzioso di cui ora dobbiamo occuparci.
Oggetto di quest’ultimo sono principalmente le grandi problematiche etiche ed antropologiche che sono emerse negli ultimi decenni, a seguito sia dei profondi cambiamenti intervenuti nei costumi e nei comportamenti sia delle nuove applicazioni al soggetto umano delle biotecnologie, che hanno aperto orizzonti fino ad un recente passato imprevedibili.
Queste problematiche hanno infatti chiaramente una dimensione non soltanto personale e privata ma anche pubblica e non possono trovare risposta se non sulla base della concezione dell’uomo a cui si fa riferimento: in particolare della domanda di fondo se l’uomo sia soltanto un essere della natura, frutto dell’evoluzione cosmica e biologica, o invece abbia anche una dimensione trascendente, irriducibile all’universo fisico.
Sarebbe strano, dunque, che le grandi religioni non intervenissero al riguardo e non facessero udire la loro voce sulla scena pubblica. Come è naturale, di questo si fanno carico anzitutto, nelle diverse aree geografiche e culturali, le religioni in esse prevalenti: in Occidente quindi il cristianesimo e in particolare, specialmente in Italia, la Chiesa cattolica.
In concreto la loro voce risuona con una forza che pochi avrebbero previsto quando una secolarizzazione sempre più radicale era ritenuta il destino inevitabile del mondo contemporaneo, o almeno dell’Occidente: quando cioè sembrava fuori dall’orizzonte quel risveglio, su scala mondiale, delle religioni e del loro ruolo pubblico che è una delle grandi novità degli ultimi decenni. Vorrei ricordare, a questo proposito, la sorpresa e lo sconcerto che provocarono, anche in ambito cattolico, le affermazioni fatte da Giovanni Paolo II al convegno di Loreto, nell’ormai lontano aprile 1985, quando invitò a riscoprire “il ruolo anche pubblico che il cristianesimo può svolgere per la promozione dell’uomo e per il bene dell’Italia, nel pieno rispetto anzi nella convinta promozione della libertà religiosa e civile di tutti e di ciascuno, e senza confondere in alcun modo la Chiesa con la comunità politica”.
La vera alternativa alle grandi religioni a proposito delle questioni antropologiche ed etiche ha, per così dire, due facce, tra loro certamente collegate ma alla fine reciprocamente incompatibili.
Da una parte essa è costituita – come si è detto – dal “naturalismo”, cioè dalla convinzione che l’uomo sia integralmente riconducibile alla natura, all’universo fisico: viene meno così quel primato del soggetto umano, da considerarsi sempre come fine e mai semplicemente come mezzo, che aveva costituito l’istanza fondamentale della modernità. Questa concezione naturalistica è presentata per lo più come il risultato delle scienze empiriche, dimenticando l’autentica natura della conoscenza scientifica, che per i suoi stessi metodi è limitata a ciò che è empiricamente verificabile e non può pretendere, senza contraddirsi, di costituire una visione globale della realtà: di una simile pretesa, infatti, nessuna verifica sperimentale è possibile o anche solo ipotizzabile.
L’altra faccia dell’alternativa alle grandi religioni è la rivendicazione della libertà individuale, in rapporto alla quale andrebbe evitata ogni discriminazione. Questa libertà, per la quale in ultima analisi tutto è relativo al soggetto, viene eretta a supremo criterio etico e giuridico: ogni altra posizione può essere quindi lecita soltanto finché non contrasta ma rimane subordinata rispetto a questo criterio relativistico. In tal modo vengono sistematicamente censurate, quanto meno nella loro valenza pubblica, le norme morali del cristianesimo. Si è sviluppata così in Occidente quella che Benedetto XVI ha ripetutamente denominato “la dittatura del relativismo”, una forma di cultura che taglia deliberatamente le proprie radici storiche e costituisce una contraddizione radicale non solo del cristianesimo ma più ampiamente delle tradizioni religiose e morali dell’umanità.
Vediamo ora perché relativismo e naturalismo siano in realtà tra loro incompatibili. Già sul piano logico, il naturalismo pretende di rappresentare l’interpretazione scientifica del mondo, e dell’uomo in esso. Non è pertanto compatibile con il relativismo, per il quale ogni interpretazione è semplicemente soggettiva e destituita di validità universale.
Ma è soprattutto sul piano esistenziale, a livello del vissuto di ciascuno di noi, che la contraddizione esplode. Il relativismo, infatti, ha il suo nucleo nell’esaltazione e potremmo dire nell’assolutizzazione della libertà individuale, quindi nel valore e nella centralità del singolo soggetto. Ma è proprio questo ciò che viene radicalmente escluso dalla riconduzione del soggetto umano alla natura, a una natura che non sa niente di lui e non si cura affatto di lui. Questa contraddizione è alla base dello spaesamento e dell’inquietudine che affliggono oggi soprattutto i giovani, ma certo non soltanto essi. È qui la radice profonda di un certo affievolirsi della fiducia nella vita, anzi della voglia di vivere.
Il taglio delle proprie radici prende spesso la forma dell’odio verso la propria civiltà: si tratta di un fenomeno diffuso nell’Europa occidentale e ripetutamente denunciato da Benedetto XVI. Questo odio si rivolge particolarmente verso il cristianesimo, considerato il principale ostacolo al naturalismo e al relativismo, e a volte si insinua anche tra i credenti, svuotando dall’interno la fede cristiana e l’appartenenza alla Chiesa del loro vigore e del loro fascino.
Simili posizioni sono però lontane dall’essere da tutti condivise, anche nel cosiddetto “mondo laico”. Molti laici, infatti, ritengono di doverle rifiutare, per rimanere fedeli alle origini e alle motivazioni autentiche del liberalismo, che giudicano incompatibili con la dittatura del relativismo perché, come ha sottolineato Marcello Pera, al centro del liberalismo sta la dottrina dei diritti fondamentali dell’uomo in quanto uomo, che precedono ogni decisione sia degli individui sia degli Stati e si fondano su una concezione etica ritenuta vera e transculturale.
Joseph Ratzinger, prima e dopo la sua elezione al Pontificato, ha motivato sul piano sia storico sia teologico questa nuova sintonia tra cattolici e laici, arrivando a sostenere che la distinzione tra gli uni e gli altri “deve essere relativizzata”. Ritengo anch’io che il loro rapporto non debba necessariamente esaurirsi in un semplice dialogo, pur rispettoso e amichevole, ma possa e debba dar luogo a vere forme di collaborazione, richieste dalla presente situazione storica.
È doveroso aggiungere però che non tutti i cattolici condividono l’apertura cordiale a quei laici che sostengono queste posizioni: non mancano infatti coloro che li vedono con sospetto, temendo – secondo me a torto – che strumentalizzino la fede cristiana a fini ideologici e politici.
Il motivo principale di tale diffidenza è che non pochi, sebbene cattolici, non appaiono realmente convinti della necessità di un impegno forte nel campo dell’etica pubblica. In concreto questi cattolici rimangono piuttosto legati, in materia di laicità, al quadro classico della divisione di competenze tra istituzioni civili ed istituzioni ecclesiastiche e mi sembrano non cogliere pienamente la portata della novità costituita dall’emergere delle attuali problematiche antropologiche ed etiche.
Alcuni di loro sono anzi portati a rivendicare per sé l’autentica laicità, intesa come richiamo alla propria coscienza e come autonomia e indipendenza dal magistero della Chiesa nell’ambito dell’assunzione di responsabilità pubbliche e di scelte legislative. Sul piano politico e giuridico essi hanno certamente il diritto di agire così, ma non possono pretendere che questi comportamenti siano, per un cattolico, anche teologicamente ed ecclesialmente legittimi. Infatti, mentre per chi non è cattolico gli insegnamenti della Chiesa possono avere valore solo nella misura in cui appaiano razionalmente convincenti, per i cattolici essi hanno valore anche e anzitutto in quanto sono espressione del messaggio cristiano nelle concrete circostanze storiche.
Spingendo l’analisi più in profondità, rimane attuale la celebre tesi del grande giurista tedesco Ernst-Wolfgang Böckenförde secondo la quale lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che esso stesso non può garantire e tra questi svolgono un ruolo peculiare gli impulsi e i vincoli morali di cui la religione è la sorgente.
Molto recentemente Rémi Brague ha proposto un importante aggiornamento della tesi di Böckenförde: anzitutto estendendola dallo Stato all’uomo di oggi, che in larga misura ha smesso di credere nel proprio valore, a causa della sua tendenziale riduzione alla natura e del predominare del relativismo. È l’uomo dunque, e non solo lo Stato, ad aver bisogno oggi di un sostegno che non è in grado di garantirsi da se stesso.
In secondo luogo la religione non è soltanto, e nemmeno primariamente, fonte di impulsi e vincoli etici, come sembra pensare Böckenförde. Oggi, prima che di assicurare dei limiti e degli argini, si tratta di trovare delle ragioni di vita e questa è, fin dall’inizio, la funzione, o meglio la missione più propria del cristianesimo: esso infatti ci dice anzitutto non “come” vivere, ma “perché” vivere, perché scegliere la vita, perché gioirne e perché trasmetterla.
In una prospettiva di questo genere sembra da capovolgere l’idea assai diffusa secondo la quale il progresso e il futuro dell’Italia consisterebbero nell’omologarsi a quelle altre nazioni europee nelle quali si è andati e si sta andando sempre più avanti nel mettere tra parentesi l’eredità del cristianesimo.
Al contrario, “l’eccezione italiana” – nei limiti in cui realmente esiste – può rappresentare un’indicazione positiva perché la società europea possa superare quella sua strana tendenza per la quale essa sembra compiacersi di prosciugare le energie vitali e morali di cui si nutrono le persone, le famiglie, i popoli. Proprio la percezione del valore decisivo di queste riserve di energie è ciò che accomuna oggi molti cattolici e laici e che indica un grande compito comune che ci attende.
Prendiamo ora in esame l’obiezione che viene continuamente riproposta, secondo la quale ogni riferimento a contenuti e valori oggettivi e non relativistici costituirebbe una inaccettabile limitazione della libertà e in concreto l’imposizione di una visione particolare, quella cristiana, anche a chi non la condivide.
Un’obiezione di questo genere può anzitutto essere facilmente ritorta: proprio il relativismo, infatti, tende facilmente ad assolutizzarsi, cioè a negare la liceità di posizioni diverse dalle sue, perché le ritiene incompatibili con la libertà. In questi anni ne abbiamo avuto varie conferme pratiche, come nel caso delle agenzie per l’adozione dei bambini costrette a chiudere in Inghilterra se non erano disponibili a patrocinare l’adozione da parte di coppie dello stesso sesso.
In realtà nessuna società o consorzio umano può sussistere senza dotarsi di alcune norme che valgano per tutti i suoi membri. Perché una società sia libera ciò che conta è che queste norme vengano stabilite attraverso il libero gioco democratico e che attraverso il medesimo gioco possano essere modificate o anche cambiate integralmente. È questa la condizione comune in cui si trovano sia coloro che vogliono introdurre cambiamenti sostanziali nelle concezioni antropologiche ed etiche che erano condivise praticamente da tutti fino a un secolo fa, sia coloro che vogliono invece conservarle nella loro sostanza. Gli uni e gli altri possono ugualmente concorrere a stabilire le norme che valgono per tutti: prevarrà chi saprà ottenere la maggioranza dei consensi.
Ciò naturalmente non significa che competa a una maggioranza stabilire cosa sia vero o falso, e nemmeno cosa sia in se stesso giusto o ingiusto. Il gioco democratico non riguarda la verità delle cose, ma solo le regole comuni di comportamento. Coloro che, per motivi di coscienza, ritengono di non potersi adeguare a tali norme, è giusto che abbiano la possibilità dell’obiezione di coscienza. Se le leggi, in quel caso, non consentono tale obiezione, si potrà dare testimonianza delle proprie convinzioni in una forma più costosa ma anche più forte, affrontando le pene previste dalla legge. In effetti i più eroici ed efficaci obiettori di coscienza furono e sono i martiri cristiani delle diverse epoche storiche.
Vorrei infine cancellare l’impressione per la quale le posizioni che si rifanno a una matrice cristiana, sia perché animate dalla fede sia per motivi non di fede ma di cultura, sarebbero inevitabilmente prigioniere del passato e incapaci di aprirsi agli sviluppi e ai cambiamenti che ci attendono e sono anzi già in corso.
Ho sottolineato infatti che il cristianesimo è la religione sia del Logos, sia della libertà, sia dell’amore e della persona come essere in relazione. Sono questi i contenuti essenziali da salvaguardare e proprio essi aprono al futuro, che è appunto il frutto della nostra ragione e della nostra liberà e che può essere costruito in maniera utile e non distruttiva solo attraverso la capacità di relazionarsi all’altro e di collaborare con lui, come mostra tutta l’esperienza storica.
Perciò non si tratta affatto di negare la storicità dell’uomo e il variare delle forme storiche in cui la convivenza umana si realizza. Si tratta solo di mantenere, in questo continuo variare, quei fattori essenziali che rendono possibile uno sviluppo autentico, perché conforme alla specificità e dignità irriducibile del nostro essere.
Per riassumere tutto si potrebbe dire che, come nel medioevo si ebbe una prevalenza unilaterale della verità sulla libertà, così la tentazione del nostro tempo è un’altrettanto unilaterale prevalenza della libertà sulla verità del nostro essere.
Tenere distinti questi due piani, della libertà e della verità, ma anche cercare sempre di nuovo una loro possibile sintesi è la difficile impresa che il tempo in cui viviamo ha davanti a sé.

Roma, 6 maggio 2013

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21 SETTEMBRE 2014 | 25A DOMENICA A – LECTIO DIVINA : MT 20,1-16

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21 SETTEMBRE 2014 | 25A DOMENICA A – T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : MT 20,1-16

Ordinariamente coloro che non credono in Dio, atei o agnostici, non trovano molta difficoltà a relazionarsi con Lui: semplicemente non lo fanno. È a noi che crediamo – curioso – ci risulta più penoso affermare l’esistenza di Dio e la sua bontà, non potendo negare la realtà del male ed il trionfo dell’ingiustizia. Credere in Dio non risulta facile al credente. Ma la cosa peggiore è che le difficoltà più comuni ce li creiamo noi stessi, o perché ci immaginiamo che Dio è come lo vogliamo o perché non ci impegniamo a non accettarlo come Lui è. Sarebbe più logico smettere di credere in Dio che continuare a crearci un Dio a nostra immagine e misura: più facile sarebbe che pensassimo che Dio non esista piuttosto di immaginarcelo come deve essere. L’avvertenza ce l’ha fatta Gesù nel vangelo; converrebbe prenderla sul serio.
1″ Il regno dei cieli somiglia ad un proprietario che all’alba uscì ad assumere braccianti per la sua vigna. 2Dopo essersi accordato con essi per un denaro a giornata, li mandò nella vigna.
3 Uscì un’altra volta verso le nove del mattino, ne vide ad altri che stavano nella piazza senza lavoro, 4e disse loro: « Andate anche voi nella mia vigna, e vi pagherò il dovuto. »
5 Essi andarono.
Uscì di nuovo verso mezzogiorno ed a metà pomeriggio e fece la stessa cosa. 6Uscì verso sera e ne trovò altri, oziosi, e disse loro: « Come è che state qui tutto il giorno senza lavorare? »
7 Gli risposero:
« Nessuno ci ha contrattati. » Egli disse loro: « Andate anche voi nella mia vigna. »
8 Quando fu sera, il padrone della vigna disse al suo fattore:
« Chiama i braccianti e paga loro la giornata, incominciando dagli ultimi e finendo coi primi. »
9 Vennero quelli dall’imbrunire e ricevettero ciascuno un denaro.
10 Quando arrivarono i primi, pensavano che avrebbero ricevuto di più, ma anche essi ricevettero un denaro per ognuno. 11Allora si misero a protestare contro il padrone:
12″Questi ultimi hanno lavorato solo un’ora, e li hai trattati come noi che abbiamo sopportato il peso del giorno e l’afa. »
13 Egli replicò ad uno di essi:
« Amico, non ti faccio nessuna ingiustizia. Non ci siamo accordati per un denaro? 14Prendi il tuo e vattene. Io voglio dare a quest’ultimo come a te.
15 Non sono libero di fare quello che voglio delle mie cose? 0 tu hai invidia perché io sono buono? »
16 Così, gli ultimi saranno i primi ed i primi gli ultimi. »
1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Con questa parabola che ha i suoi discepoli come unici destinatari, Gesù chiude un’istruzione sulla sequela e la sua ricompensa (Mt 19,16-30). Pietro aveva domandato che cosa dovevano sperare coloro che avevano lasciato tutto per seguirlo (Mt 19,27). Dopo avere promesso loro il centuplo di quello che avevano abbandonato e la vita eterna, Gesù concluse con una frase enigmatica, la stessa con la quale chiuderà dopo la parabola: i primi saranno ultimi, e gli ultimi i primi. Questa sorprendente affermazione è la chiave per trovare il senso della parabola.
Nell’immagine della vigna gli uditori di Gesù poterono riconoscere facilmente un’allusione al popolo di Dio (Is 5,1-7). Ma la parabola non tratta di una vigna, bensì del suo proprietario; egli è il protagonista assoluto del racconto. Al narratore non gli interessano le attenzioni che riceve la vigna, bensì l’impegno del suo padrone nel lavorarla: la vigna è il posto dove invia i suoi salariati. In realtà, la narrazione è un dialogo tra il padrone della vigna e gli operai che sono inviati da lui, nella cornice di una giornata di lavoro. Il comportamento del proprietario sembra, ma non è, logico: esce a tutte le ore cercando operai; finché ha la sua vigna da lavorare, non può permettere pigri seduti nelle piazze. Bisogna notare che solo coi primi operai, quelli che lavorarono dall’alba, il padrone strinse un accordo per la giornata. Che incominci a pagare gli ultimi e conceda loro lo stipendio dei primi potrebbe essere una rarità; si trasforma in evidente ‘ingiustizia’, quando tutti ricevono la stessa paga. Il padrone è ‘giusto’ coi primi e ‘buono’ con gli ultimi. Chi non lo capisce e non gli mancano buone ragioni per non comprenderlo è invidioso della generosità del padrone. La disuguaglianza nel trattamento dei suoi braccianti scopre che il signore della vigna paga non secondo lo sforzo ma bensì perché tutti hanno lavorato, poco o molto, nella sua vigna. Il Dio di Gesù non soddisfa chi spera di più perché ha lavorato di più. La sua libertà e la sua bontà si manifestano quando paga allo stesso modo chiunque sia stato inviato da lui a lavorare nella sua vigna. Non è il lavoro, dunque, bensì l’obbedienza alla missione quello che conta per lui. Per questo motivo, non c’è preferenza coi primi: gli ultimi operai avranno identico salario.
2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
Parlando ai suoi discepoli del regno di Dio, Gesù propose loro il sorprendente comportamento del proprietario di una vigna che invitò a lavorarla per un giorno chiunque trovò ozioso, e che pagò a tutti i braccianti di quel giorno lo stesso salario, senza considerare che non tutti avevano lavorato lo stesso tempo. La parabola dei braccianti spiega una delle leggi, tanto insolita come ‘ingiusta’, del comportamento di Dio. Come il proprietario che passa il giorno assumendo braccianti, Dio non smette di invitare perché si lavori nel suo regno finché dura il giorno. Non contratta nessuno promettendo il salario dovuto, perché è ovvio che lo pagherà. Ma è provocante che non tenga in conto la durezza del lavoro dei primi e la scarsità di sforzi degli ultimi: stima di più che abbiano risposto al suo invito che il lavo. Oltre ad ingiusta, la sua decisione è di cattivo gusto; e la protesta dei primi è più che logica.
Nell’atteggiamento inusuale del proprietario sta il messaggio della parabola: se Dio vuole essere buono con tutti, non valgono né privilegi né meriti alla sua presenza; che dia a tutti allo stesso modo non può essere giusto, ma è buono, precisamente perché glielo dà a chi meno lo merita. Davanti al Dio di Gesù chi si crede con dei diritti, si vedrà confuso, ‘picchiato.’ Dio non è giusto per essere buono con pochi: è buono con tutti, perché concede i suoi doni senza fare attenzione allo sforzo. Fare obiezioni al suo comportamento implicherebbe circoscrivere la sua bontà. Bisognerà accettare Dio come Egli vuole essere.
Potrebbe sembrarci bene che un atteggiamento tanto insolito sia solo un racconto, un’altra parabola di Gesù: nessuno di noi smette di vedere la tremenda ingiustizia che sarebbe il trattare allo stesso modo tutti i lavoratori. E, tuttavia, Gesù arrivò a paragonare l’estraneo comportamento del vignaiolo col regno di Dio, con la sovrana forma di regnare di Dio, col modo inappellabile di agire del Dio di Gesù. E, oggi, il vangelo ci fa notare che possiamo perdere Dio ed i doni della sua bontà se, come i braccianti della prima ora, facciamo obiezioni alla sua forma di esserlo con noi.
Nel proprietario che passa tutto il giorno assumendo operai per la sua vigna, dovremmo scoprire l’impegno del nostro Dio affinché nessuno rimanga pigro nel suo regno. Preoccupato affinché non ci siano disoccupati, esce continuamente, mentre dura il sole, a cercare nuovi operai. Ha tanto interesse perché si lavori nella sua proprietà che non si ferma finché il giorno continua a trascorrere ed il tempo per lavorare diminuisce: il non essere stato contrattato non è una scusa per non essere invitato a lavorare. Tutti coloro che incontrano il padrone della vigna trovano un posto di lavoro: se Dio ed il suo regno non occupano il nostro cuore, e le mani, se i suoi interessi non ci rendono operosi né ci preoccupano, non sarà perché ancora, e nonostante tanti anni di vita cristiana, Dio non è padrone del nostro cuore? Perché non si potrà dire che serve Dio colui il quale non si occupa delle cose di Dio né lascia che gli occupino il cuore: chi rimane pigro tutto il giorno non sarà mai operaio di Dio. Chi non fa niente per Dio, non può sognare di essere ricompensato. Solamente lavorando per Dio, e nel suo regno, potremo essere riconosciuti da lui come i suoi servi.
Se Dio e le sue cose non ci danno nessun lavoro, non sarà perché non abbiamo seguito ancora il suo invito a lavorare nella sua vigna? Perché, benché fuori, dovremmo pensare che al nostro Dio non gli importa tanto che abbiamo ritardato la nostra incorporazione al lavoro, quanto che continuiamo a rimanere molto pigri con il molto lavoro che c’è da fare. Nel regno di Dio l’importante non è avere incominciato a lavorare dall’inizio, bensì riuscire ad essere inviato al lavoro; e, come nella parabola, Dio invita a lavorare tutti quelli che vede pigri.
Le attenzioni di Dio li ottiene, come il lavoro ed il salario, chi è stato lì dove lo volle il suo signore e dal momento in cui fu invitato. Finché Dio ci trova oziosi e spensierati, non riusciremo ad accettare le sue attenzioni. E non perché Egli non ci vuole, o non abbia maggiore interesse per noi, bensì perché non stiamo lì dove egli ci vuole vedere, né facciamo quello che spera da noi: lavorare nella sua vigna, seguendo il suo invito, trasformerebbe ognuno di noi in oggetto delle sue preoccupazioni. Difficilmente potremo sentire che Dio si preoccupa di noi, se ci disinteressiamo di quello che gli preoccupa.
Ma non basta lavorare per Dio per ottenere un salario dovuto. Bisognerà accettare che Dio lo dia come Lui vuole, senza imporgli condizioni né immaginare comportamenti dovuti. Nella parabola è provocante che il signore paghi tutti i suoi operai un identico salario, quello che aveva stabilito coi primi, senza tenere conto del maggiore sforzo e della fatica maggiore di questi; stima di più che tutti abbiano risposto al suo invito che il tempo trascorso a lavorare. La sua decisione può sembrarci di cattivo gusto, oltre ad essere un’evidente ingiustizia. Sicuro che se fossimo stati tra i primi, anche noi avremmo protestato!.
Questo comportamento del Dio di Gesù non risulta facile da accettare: non è bene, almeno ci sembra, che chi lavorò meno riceva lo stesso salario di colui che lavorò di più. E, tuttavia, come il padrone della vigna, Dio non fa torto a chi lavorò tutto il sacro giorno dandogli il salario stipulato, ma preferisce essere buono anche con chi lavorò di meno. Per premiare chiunque lavori per Lui, nel suo regno, può non sembrare giusto, poiché non tutti lavorarono sopportando le stesse fatiche; ma, dando a tutti lo stesso salario, anche a coloro che arrivarono ultimi, si mostra incomparabilmente buono, molto di più di quello che noi avremmo potuto pensare e, certamente, migliore di quanto, gli uni e gli altri, ci meritiamo.
Per incredibile che ci sembri, una delle maggiori difficoltà che troviamo noi veri credenti per credere in Dio, è quello della sua bontà inaspettata. Precisamente perché è migliore di quello che pensiamo, smettiamo di pensare a Dio e non lavoriamo nel suo regno. Può sembrare impossibile, ma è così. Se non stima lo sforzo, per quale motivo tanta fatica? Se dà a tutti lo stesso salario, perché essere primi nel suo servizio? Davanti al Dio di Gesù chi si crede con dei diritti chi si appoggia sui propri meriti, ipotetici o reali, si vedrà confuso, e perfino ‘trattato male’. Dio che come il padrone della vigna dà il salario di una giornata intera a chi non ha lavorato tutta la giornata, non è buono perché è giusto con i pochi, quelli che lavorarono di più. Piuttosto, passa per ingiusto con alcuni per potere essere buono con tutti. Chi facesse obiezioni al comportamento di un Dio tanto buono starebbe rischiando di perderlo. I buoni credenti, sfortunatamente, siamo quelli che meno crediamo nella bontà senza misura, l’amore senza ragione, del nostro Dio. Per non sopportare che sia tanto buono con quelli che non lo sono stato con noi, corriamo il rischio di perdere Dio e la sua bontà per sempre.
Certo, ha i suoi vantaggi, evidentemente, avere un Dio così. Non sarà necessario essere della prima ora, sforzarsi di più, avere lavorato sempre, per il suo regno, per ricevere lo stesso salario di quanti lo fecero prima. Così Dio consola quanti, come noi, non ci siamo messi a lavorare sul serio ancora per Lui o ci mettemmo a farlo con ritardo. Decisivo non è quello che facciamo noi per Lui, quanto quello che Egli vuole fare per noi: incominciamo quanto prima a lavorare nel suo regno, e speriamo di ricevere quella ricompensa che non meriteremo mai del tutto.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb

20 LUGLIO 2014 | 16A DOMENICA – LECTIO DIVINA : MT 13,24-43

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20 LUGLIO 2014 | 16A DOMENICA A – T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : MT 13,24-43

Il male non ci risulta tanto ovvio, la sua esperienza c’è tanto quotidiana che sarebbe da ignoranti osare negare la sua realtà o credersi liberi del suo potere. E non sbagliamo, lo sappiamo bene!, come gli altri ci imbattiamo con il male; per arrivare a scoprire il viso della malvagità e la sua efficacia basta guardare noi stessi, fissarci, senza andare lontano, nel nostro cuore e nelle nostre mani per vederlo faccia a faccia. Senza dubbio, ciò che mettiamo in discussione del male è chi potremmo rendere responsabile; e siamo tanto inclinati a discolparci noi stessi che normalmente gettiamo la colpa su qualunque altro, incominciando sempre da quelli che ci sono più prossimi. Gesù ci insegna oggi a convivere col male senza lasciare che cresca in noi.

24 In quel tempo, Gesù espose alla folla un’altra parabola, dicendo:
 » Il regno dei cieli è simile a un uomo che ha seminato del buon seme nel suo campo. 25Ma, mentre tutti dormivano, venne il suo nemico, seminò della zizzania in mezzo al grano e se ne andò. 26Quando poi lo stelo crebbe e fece frutto, spuntò anche la zizzania. 27Allora i servi andarono dal padrone di casa e gli dissero: ‘Signore, non hai seminato del buon seme nel tuo campo? Da dove viene la zizzania? 28Ed egli rispose loro: Un nemico ha fatto questo.’ E i servi gli dissero: ‘Vuoi che andiamo a raccoglierla?’ 29No, rispose, perché non succeda che, raccogliendo la zizzania, con essa sradichiate anche il grano. 30Lasciate che l’una e l’altro crescano insieme fino alla mietitura e al momento della mietitura dirò ai mietitori: Raccogliete prima la zizzania e legatela in fasci per bruciarla; il grano invece riponetelo nel mio granaio. »
31 Espose loro un’altra parabola, dicendo:
« Il regno dei cieli è come un granello di senape, che un uomo prese e seminò nel suo campo. 32Esso è il più piccolo di tutti i semi ma, una volta cresciuto, è più grande delle altre piante dell’orto e diventa un albero, tanto che gli uccelli del cielo vengono a fare il nido fra i suoi rami ».
33 Disse loro un’altra parabola:
« Il regno dei cieli è simile al lievito, che una donna prese e mescolò in tre misure di farina, finché non fu tutta lievitata ».
34 Tutte queste cose Gesù disse alle folle con parabole e non parlava ad esse se non con parabole,
35 perché si compisse ciò che era stato detto per mezzo del profeta:
« Aprirò la mia bocca con parabole, proclamerò cose nascoste fin dalla fondazione del mondo »
36 Poi congedò la folla ed entrò in casa; i suoi discepoli gli si avvicinarono per dirgli:
« Spiegaci la parabola della zizzania nel campo »
37 Gesù disse loro:
« Colui che semina il buono seme è il Figlio dell’uomo. 38Il campo è il mondo; il buon seme sono i figli del regno; e la zizzania, i figli del maligno. 39Il nemico che la semina è il diavolo; la mietitura è il fine del mondo, ed i mietitori, gli angeli. 40Come si raccoglie la zizzania e la si brucia nel fuoco, così pure succederà alla fine del mondo.
41 Il Figlio dell’uomo invierà i suoi angeli che raccoglieranno dal suo regno tutti quelli che furono causa di inciampo ed i malvagi, 42 li getteranno nella fornace ardente. Là piangeranno e strideranno i denti.
43 Allora i giusti brilleranno come il sole nel regno del Padre loro. Chi ha orecchi ascolti. »
1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Gesù continua a parlare del regno in parabole. Alla similitudine della semina ed al suo commento, aggiunge ora tre nuove parabole che, benché diverse in forma e contenuto, illustrano due modi di agire, sovrani ma non del tutto comprensibili, di Dio: quando regna, Dio permette che male e bene convivano e crescano insieme; quando regna, la presenza di Dio è tanto impercettibile come onnipotente è la sua efficacia salvatrice.
Con la prima parabola, quella del grano e la zizzania Gesù volle proclamare una legge fondamentale del regno di Dio: non tutto quello che cresce, dopo la sua predicazione, è grano pulito; il male che egli non piantò, non lo estirpa prima del tempo; il buon seme deve crescere vicino al cattivo, e maturare. Il giorno della giustizia arriverà; nel frattempo, a tutto quello che è germinato gli concede un’opportunità. Il discepolo deve sapere convivere col male senza connivenze né scandalo: Dio, come il seminatore, ha pazienza col suo campo, affinché la semina possa dare il suo frutto. Nel racconto può sentirsi la preoccupazione di Matteo di rispondere, con la parabola di Gesù, ad una situazione nuova nella sua comunità: il male è evidente tra i cristiani, il Regno di Dio non si identifica con la chiesa sorta dalla risurrezione. Bisognerà abituarsi a rispondere a Dio vicino a colui che lo ignora e cercare di fare la sua volontà tra coloro che non la vivono. L’impazienza non legittima il discepolo come tale, tanto meno l’intolleranza!, solo le sue buone opere. Crescere vicino al male, senza diventare cattivo, è la fortuna del discepolo.
La doppia parabola della senape e del lievito allude, per accentuare l’esortazione alla speranza, alla forza germinale di un regno che, oggi appena percettibile, finirà per imporsi. Un insignificante seme, quello di senape, una scarsa quantità di lievito, producono la cosa impensabile: essere casa per gli uccelli o fare pane abbondante. Inizi poco promettenti si convertono gradualmente ma inesorabilmente in grandi beni. Non bisogna lasciarsi convincere dall’apparenza; quando Dio, il suo regno, sta già in azione, il bene sta per venire.
La decisione di Gesù di parlare alla gente in parabole trova di nuovo una ragione, ora, ben distinta dalla ragione di prima (cf. 13,10-17): la parabola più che descrivere insinua, svela velando, il modo di rendere pubblico quello che è rimasto nascosto fino al giorno in cui è scoperto da Gesù.
E se, rispondendo ai suoi discepoli, spiega puntualmente la parabola della zizzania, è per fissare la sua attenzione al futuro: non si tenta già di convivere col male, crescendo nella bontà, bensì che la bontà non sarà definitiva fino a che non lo determini il Figlio dell’uomo a suo tempo. Finché non arriva il giorno del raccolto, il buono può smettere di esserlo ed il cattivo anche: la comunità che deve aspettare la decisione ultima di Dio, non è una comunità salvata, benché possa vivere già nella speranza di esserlo, se vive fedele in mezzo all’infedeltà.
2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
Con la parabola della zizzania e del grano Gesù volle alludere, senza chiarirla del tutto, a quella misteriosa presenza del male nel nostro mondo e volle, soprattutto, dare risposta alla nostra angoscia davanti al suo minacciante potere. Più che insegnarci qualcosa sul mistero del male, Gesù pretendeva di convincerci della bontà di Dio, della sua pazienza e la sua misura coi cattivi; non voleva che ci rassegnassimo con l’esistenza del male intorno a noi, desiderava che non ci sentissimo soli di fronte a lui. Non negava la realtà né rimpiccioliva il suo potere, ma non voleva vederci paurosi né preoccupati in eccesso. Cercava di farci amare Dio più che temere il male e la sua assenza.
Con la parabola Gesù volle trasmetterci due sue convinzioni: il male è reale, come il mondo e come l’uomo. Bisogna contare, dunque, con lui in un mondo creato da Dio e dell’uomo fatto ad immagine di Dio. La creazione, come il campo, è rimasta seminata da lui. Serve poco discutere la sua origine, quando la cosa decisiva è esulare dal suo potere.
Ma ciò non è tutto. Gesù insegna che bisogna contare, specialmente, con un Dio al quale preoccupa questa presenza del male nel suo mondo e nell’uomo, un Dio che, per rispetto al bene che coesiste vicino al male, pospone il suo intervento. Come il signore del campo, Dio non pensa di seminare il male; se lo sopporta, è per non danneggiare il bene ancora nascente, ancora debole che lotta per crescere; vuole che il bene, come il grano, maturi fino al giorno del raccolto. Nel frattempo, il destino del bene è convivere col male, senza trasformarsi in lui; la fortuna del bene sta nel coesistere con la malvagità senza disperare delle sue forze, sicuro del suo potere.
Il Dio che Gesù ci annuncia è un Dio che permette che bene e male coesistano e si sviluppino insieme. Non risulta facile comprendere questa decisione divina. A volte è tanto scandalosa, provocante, la presenza del male, che può rendere inaccettabile l’esistenza di Dio, intollerabile il suo disinteresse per la vittoria dei cattivi sui buoni. Raccontando la parabola del grano e della zizzania, Gesù non volle contraddire questa nostra esperienza, né banalizzò il dolore che produce sentire il male nella propria carne: egli sapeva bene che non tutto quello che cresce, dietro la sua predicazione, è grano pulito. Ma era certo che arriverà un giorno in cui si farà giustizia, quando, finalmente, vincerà il bene; nel frattempo, a tutto quello che sia cresciuto gli è concesso una opportunità; quella del buono è continuare ad essere tale; quella del cattivo, potere smettere di esserlo.
Il discepolo deve sapere convivere col male senza connivenze, né patti: dovrà abituarsi a rispondere a Dio vicino a chi l’ignora e cercare di fare la sua volontà tra coloro che non la fanno. Spazientirsi coi cattivi non rende buono il discepolo; disperare di Dio solo perché ancora esiste il male, è diffidare nel suo impegno di vincerlo un giorno per sempre.
Dovremo imparare qualcosa da questa pazienza di Dio. In primo luogo, dovrebbe sorprenderci la forma di reagire di Dio davanti al male. Come l’agricoltore non desidera che sia falciato appena il grano ha attecchito, Dio si permette di sperare, perché non vuole danneggiare il bene che lotta per sopravvivere. La pazienza di Dio non è debolezza, bensì forza e, soprattutto, fiducia in sé stesso e nel potere del bene: perché sa che il male non sopravvivrà, può lasciarlo vivere per un tempo. Finché non arriva il giorno del raccolto, il buono può smettere di esserlo ed il cattivo anche: il cristiano deve sapere che Dio ha preso già la decisione di vincere il male esistente nel suo cuore e nel suo ambiente; ma deve sapere anche che spera che quelli che vivono ancora del male, o in mezzo a lui, lo riconoscano e si salvino.
Sapere che il male non sopravvivrà a Dio, suppone riconoscere il suo potere e confessare, contemporaneamente, che non saremo preda di lui per sempre, purché Dio sia il nostro Bene desiderato o già posseduto. Chi può perdere Dio, non è ancora salvato; ma, può vivere rassicurato di esserlo: avere sotto gli occhi il male, vederlo vivo nel cuore, può essere una maniera, imperfetta sì ma efficace, di avere Dio presente nella nostra vita anche se ancora non siamo riusciti a renderla del tutto buona, e desidera mantenerlo presente nel nostro cuore.
E precisamente perché ci rendiamo conto che, essendo ancora campo che ospita il male, Dio ha pazienza, dovremmo sforzarci per essere più comprensivi, meno esigenti, con quanti, intorno a noi, non riescono ad essere tanto buoni come vogliono o come noi siamo già. È vero che la pazienza di Dio col male imperante mette alla prova la nostra comprensione e la fedeltà che gli dobbiamo: quanto gradevole ci sarebbe – e quante volte non glielo abbiamo chiesto! – che Dio distruggesse quelli che ci fanno del male. Che non lo faccia, ci fa sentire defraudati da Lui. E tuttavia, ha le sue ragioni: come ha fatto tante volte con noi, vuole dare al malvagio un’opportunità affinché cambi; ritarda il suo intervento, perché desidera che il cattivo migliori e il male sparisca.
Chi desidera essere migliore, e non solamente buono, ha pazienza con sé stesso, col male che scopre nel suo cuore; e, specialmente, sa di avere pazienza col male che impera attorno a sé. Come l’agricoltore della parabola, come Gesù durante la sua vita, il cristiano sa aspettare la vittoria del bene: non lo defrauda il predominio apparente del male. E’ sicuro che Dio un giorno, che arriverà come deve arrivare il giorno del raccolto, sopprimerà definitivamente il male: sapere che il male è già condannato da Dio obbliga il cristiano a mettersi a lottare, sforzandosi per migliorare ed impegnandosi a lasciare agli altri un mondo migliore, senza mai disperarsi; perché chi diffida che non soccomberà sotto il male, non si fida di Dio né nel potere della sua bontà.
E questo sì che è male: perché Dio non può fare niente con chi non si fida della sua bontà o non sopporta che abbia pazienza coi malvagi. Avere un Dio paziente col male ha le sue conseguenze: bisogna accettarle ed accettarlo come è. Ha, con tutti, di buono che se crediamo in Lui possiamo accettare noi stessi, benché non siamo buoni del tutto, ed accettare il nostro mondo, come è. Non c’è dubbio che è un grande vantaggio.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb

22 GIUGNO 2014 | 12A DOM.: CORPUS DOMINI A – LECTIO DIVINA : GV 6,51-58

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22 GIUGNO 2014 | 12A DOM.: CORPUS DOMINI A – T. ORDINARIO | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : GV 6,51-58

Come ben capirono i suoi uditori ebrei, Gesù, dopo aver esigito la fede nella sua parola, si presenta come vero alimento: assicura la vita al suo commensale. Il realismo del linguaggio di Gesù si scontra, anche oggi, con l’incomprensione; continua ad essere attuale l’obiezione degli ebrei. E tuttavia, ripete Gesù, non c’è un’altra possibilità di vivere oltre la morte che quella di alimentarsi di lui. Come la manna, la sua origine è Dio: ma a differenza della manna, non alimenta per la morte. Gesù sta parlando a persone che hanno sofferto la fame e che si sono visti miracolosamente alimentate da lui; più che del miracolo che come la fame può ripetersi sempre, vuole legare a sé l’uditorio. La cosa importante non è sostentarsi di un prodigio isolato bensì di chi è capace di realizzarlo di nuovo. Ma quello che esige, prenderlo come alimento, è troppo per essere credibile; il problema è che chi creda possibile poter salvarsi senza alimentarsi di Cristo rimane condannato a morire per sempre. L’avvertimento è fatto, lo stesso come la promessa. Chi obietta la logica di Gesù, si espone a soccombere: la morte definitiva è il suo futuro.

In quel tempo, Gesù disse alla folla:
51- »Io sono il pane vivo, disceso dal cielo. Se uno mangia di questo pane vivrà in eterno e il pane che io darò è la mia carne per la vita del mondo ».
52 Allora i Giudei si misero a discutere aspramente fra loro:
« Come può costui darci la sua carne da mangiare? ».
53 Gesù disse loro:
« In verità, in verità io vi dico: se non mangiate la carne del Figlio dell’uomo e non bevete il suo sangue, non avete in voi la vita. 54Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue ha la vita eterna e io lo risusciterò nell’ultimo giorno.
55 Perché la mia carne è vero cibo e il mio sangue vera bevanda.
56 Chi mangia la mia carne e beve il mio sangue rimane in me e io in lui.
57 Come il Padre, che ha la vita, ha mandato me e io vivo per il Padre, così anche colui che mangia me vivrà per me.
58 Questo è il pane disceso dal cielo; non è come quello che mangiarono i padri e morirono. Chi mangia questo pane vivrà in eterno. »
1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Dopo aver soddisfatto la fame della moltitudine (6,1-16), Gesù si occupa, in un lungo discorso (6,25-71), di saziare l’anima dei suoi uditori; offre, in primo luogo, la sua parola, poi, la sua persona, a chi prima aveva dato solo pane. Il segno fu realizzato nel monte, vicino al lago (6,1.3); il discorso, a Cafarnao, nella sinagoga (6,24.59); due scenari diversi, con gli stessi protagonisti: Gesù, la moltitudine, i discepoli.
Il breve passaggio che appartiene alla seconda parte del discorso (6,48-58) e ha gli ebrei come destinatari, è ben incorniciato (6,51.58): colui che mangia questo pane vivrà per sempre. Inteso ovviare qualunque malinteso che potesse sorgere dall’essersi presentato non come colui che dà alimento bensì come chi lo è, Gesù ripete che bisogna mangiarlo e berlo. Come è abituale in Gv, Gesù non risolve, neanche chiarisce, la questione; reitera la sua affermazione e la ingrandisce, portando lo scandalo al parossismo: mangiare e bere hanno come funzione il mantenersi in vita. È il cibo e la bevanda ciò che mette difficoltà, perché bisognerà mangiare la carne e bere il sangue del figlio dell’uomo per avere la vita; questa è la forma concreta di accogliere il Gesù che si dà. Compie la funzione di dare vita perché sazia la fame e la sete di vita in forma autentica: è vero cibo e vera bevanda (6,52-55). E lo sazia in quanto essere umano, fragile e mortale; carne e sangue può alludere, precisamente, all’umanità di Gesù. Emerge, così, un nuovo – inaudito – dato nel dialogo di rivelazione: dal credere in lui, nella sua parola, bisogna passare ad alimentarsi di lui, della sua carne (6,51c). Il modo di relazionarsi con Cristo è ora tanto concreto come insolito: non basta credere in Lui, bisognerà alimentarsi di Lui.
La vita che il corpo mangiato di Gesù propone non è transitoria, come fu il caso degli israeliti nel deserto (6,58). Chi mangia, rimane in Gesù, nella sua vita (6,56; cf. 8,31; 15,4-9.10); invece di assimilarlo come alimento chi lo mangia abita in Lui; la separazione tra cibo e commensale sparisce. La permanenza reciproca tra il Padre ed il Figlio è il modello, e la possibilità stessa, della relazione tra il Figlio ed il credente. La vita è il nesso che unisce i tre: il Padre, fonte di vita, il suo Apostolo vivente, ed il credente che, alimentato di lui, vivrà. Non si esige, dunque, una semplice adesione spirituale: la fede che si chiede al credente non è assenso mentale né inclinazione sentimentale; è unione intima, assunzione corporale, associazione per appropriazione, adesione permanente. Il cristiano non è un mero credente, è un commensale di Cristo. L’Israele che, alimentato nel deserto con il pane del cielo morì, non è la comunità dei commensali di Cristo.

2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita

Corpus Christi ricorda la decisione di Dio che, incarnandosi in Gesù, ci fu fatto alimento, permanente sostentamento e forza vitale. Davanti a tale ed inspiegabile opzione, che cosa fare se non ammirare e tacere, sentirsi grato e farsi commensale? Il testo evangelico viene in nostro aiuto per dare contenuto alla nostra adorazione comune del Dio eucaristico, pane per la nostra fame e bevanda per la nostra sete.
Davanti alle nostre necessità vitali, gli uomini normalmente ci preoccupiamo, ci mettiamo a lavorare. E nonostante i nostri migliori sforzi, non è alla nostra portata il procurarci tutto quello che assicura un giorno, un momento in più alla nostra vita. Abbiamo più necessità di ciò che riusciamo a soddisfare: le nostre fami sono più numerose e costanti degli alimenti; il nostro cuore desidera più di quanto le nostre mani riescono a darci; le nostre necessità, spirituali o materiali, sono sempre maggiori che la nostra capacità per colmarli. Continuiamo a sentire fame, benché possiamo alimentarci tutti i giorni; non smettiamo di bere, né smettiamo di sentire sete. Questa ‘curiosa’ forma di essere noi ha ‘obbligato’ Dio a farsi nostro alimento.
Nel vangelo Gesù ci è presentato come pane vivo che assicura non solo a mantenerci in vita, allontanando la morte, ma anche ad ottenerci una vita senza morte. La nostra nostalgia di pienezza, il desiderio profondo di vederci finalmente un giorno soddisfatti, la necessità di calmare fame e sete per sempre, trovano risposta nell’impegno di Dio di darsi come soluzione ai nostri bisogni più vitali: Egli è oggi il nostro alimento e domani sarà la nostra vita. Questa è la nostra speranza, perché tale è la sua promessa. Chi non trova in ciò ragione per il godimento e la pace, la celebrazione e la festa, anche tra molte sofferenza?
Abbiamo, dunque, un Dio sensibile alle nostre carenze che si lascia impressionare dalle nostre deficienze. Credere in lui significa essere sicuri che le nostre fami non ci divoreranno che non affogheremo nelle nostre debolezze che neanche la morte vincerà la vita in noi. Dovremmo imparare, come gli israeliti nel deserto, a scoprire Dio là dove sono presenti le nostre necessità; dove più opprime la fame, si ricorda meglio l’alimento; dove c’è più sete, si desidera di più l’acqua; dove più ci manca la vita, o l’abbiamo meno assicurata, lì può aspettarci Dio. Dio può lasciarci insoddisfatti finché ci decidiamo, una volta per tutte, a seguirlo. Non ci fa pensare che, ora che non soffriamo la fame, crediamo che possiamo vivere anche senza Dio? Questo è il dramma della nostra società, una società che non è oramai cristiana, e del nostro cuore che può vivere anche senza esserlo: credersi liberi di Dio perché si è liberati della sua necessità; stufi di pane, siamo stufi di Dio; soddisfatti di noi stessi, non sentiamo la necessità di alimentare e di soddisfare la nostra fame di Dio.
Perché, se Gesù non è pane per la nostra fame e bevanda per la nostra sete, è evidente che non può proporsi di colmare la nostra fame di pane né spegnere la sete di acqua. Come nel deserto un giorno, l’alimento che Dio dà ai suoi non è un pane da portare alla bocca, bensì ogni parola che voglia dirci: ‘non di solo pane vive l’uomo, bensì di tutto quello che esce dalla bocca di Dio.’ Vivere per fare il volere di Dio significherebbe vivere soddisfatti, saziati nei nostri migliori e maggiori desideri; alimentare invece la nostra fame coi nostri propri progetti ci porterà disgraziatamente a non sentire la necessità di Dio.
E’ bene, non aver paura di soffrire del necessario, se questa è la strada per recuperare Dio; volgiamoci a Cristo spinti dalle nostre carenze, evidenti o invisibili, materiali o spirituali. Non abbiamo niente da temere di un Dio che si è fatto sostentamento per la nostra debolezza ed appoggio della nostra stanchezza; né dobbiamo temere la nostra fame, se ci obbliga a mettere la fiducia nel nostro Dio, vero alimento. Non essere autosufficienti, non poterci assicurare alimento e vita per sempre, non è una tragedia: abbiamo un Dio ostinato a soddisfare la nostra ansia di Lui e le nostre necessità più profonde. Se realmente soffriamo la fame di Dio, perché non lo trasformiamo nel nostro sostentamento? Fuggendo dall’Eucaristia, alimentiamo la nostra fame di Dio e la nostra insoddisfazione. Mentre abbiamo l’occasione che Egli alimenti la nostra vita per sempre, alimentiamoci di Lui, facendo della sua Parola e del suo Corpo il nostro alimento.
Siamo molti quelli che compartiamo il pane, e sono molto di più i nostri desideri e le nostre necessità, ma l’alimento del quale sostentarci è uno solo. Comunicare con un solo Dio dovrebbe renderci possibile e più facile la comunicazione con chi è vicino a noi e si sazia di Dio: saziare la nostra necessità di Dio non può lasciarci indifferenti davanti al prossimo insoddisfatto, bisognoso di Dio e di noi. Rimanere soli, assorti, dopo essersi riuniti per mangiare dello stesso pane e bere dello stesso sangue, ci farebbe indegni del corpo di Cristo: lasciare insoddisfatto il prossimo che condivide con noi fede ed Eucaristia ci condannerebbe a rimanere insoddisfatti con Dio, anche se con molta fede celebriamo l’eucaristia.
Dovremmo domandarci se non è questa la ragione che, nonostante tanta eucaristia celebrata, nonostante tanto corpo di Cristo ricevuto, non ci sentiamo soddisfatti di Dio né di noi stessi: chi trascura il prossimo e si disinteressa delle sue necessità, non può sentire l’interesse di Dio né sarà oggetto delle sue attenzioni. Avvicinarsi a Cristo suppone avvicinarsi al cristiano. Solo così adoriamo il mistero che celebriamo: perché solo così incominciamo a fare realtà quello in cui crediamo.
Dio sarà alimento della nostra fame, se alimentiamo il fratello affamato. Né più né meno. Chissà se Dio non starà aumentando la nostra fame ed ingrandendo la nostra insoddisfazione, quanto più accumuliamo beni e cose con che alimentarci, perché stiamo lasciando il prossimo senza alimento! La partecipazione all’Eucaristia non deve essere solo frequente, affinché Dio badi alle nostre necessità più vitali; deve essere, soprattutto, tanto efficace che ci trasformi in pane che soddisfa la necessità del prossimo. Solo così è degna la nostra celebrazione del mistero che è il Corpo di Cristo: riceve Cristo come alimento efficace solo chi si converte in alimento del suo fratello.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

8 GIIUGNO : PENTECOSTE – OMELIA/LECTIO DIVINA : GV 20, 19-23

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8 GIUGNO 2014 | 8A DOMENICA DI PASQUA: PENTECOSTE A | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : GV 20, 19-23

A differenza di Luca (Atti 2,1-41), Giovanni situa la venuta dello Spirito lo stesso giorno della risurrezione di Gesù: l’uomo nuovo, restituito alla vita senza fine e senza peccato, dà la missione e la possibilità ai suoi discepoli di essere uomini nuovi e fare nuova l’umanità, dando loro il suo Spirito. I discepoli ricevono l’alito del Risuscitato ed il mandato di perdonare nel suo nome e col suo potere. Come in quel primo giorno, sapere che Gesù è risuscitato significa sapersi capaci di perdonare, perché si conta sullo Spirito di Gesù. Chi crede nella risurrezione, ha il perdono da offrire e lo Spirito di Gesù come compagno: vivere per il perdono è vivere della resurrezione di Gesù, è vivere ubbidendo al suo mandato e col suo stesso Spirito.

19 La sera di quel giorno, il primo della settimana, mentre erano chiuse le porte del luogo dove si trovavano i discepoli per timore dei Giudei, venne Gesù, stette in mezzo e disse loro:
« Pace a voi ».
20 Detto questo, mostrò loro le mani e il fianco. E i discepoli gioirono al vedere il Signore. 21Gesù disse loro di nuovo: « Pace a voi! Come il Padre ha mandato me, anche io mando voi ».
20 Detto questo, soffiò e disse loro:
« Ricevete lo Spirito Santo,
a coloro a cui perdonerete i peccati, saranno perdonati;
a coloro a cui non perdonerete, non saranno perdonati ».
1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Il racconto, parco in dettagli, è una cronaca della nascita della chiesa. Segue lo schema narrativo tipico dei racconti delle apparizioni: presenza inaspettata di Gesù risuscitato, riconoscimento da parte dei discepoli, missione al mondo
Il fatto, data la sua importanza, è notoriamente datato (20,19: essendo sera, quel giorno, primo della settimana) e localizzato (in una casa) a Gerusalemme.
Non si nomina nessun discepolo né si dice quanti erano. Si menzionano solo la paura che li attanagliava e la loro reclusione. Volendosi trovare coi suoi, il Risuscitato è capace di superare gli ostacoli: la casa sbarrata ed alcuni discepoli rinchiusi per la paura; si fa presente ai suoi ogni volta che vuole, superando limiti di spazio. L’assenza di Gesù ha riempito di angoscia l’esistenza dei suoi seguaci; la comunità si sente minacciata. Così è meglio ricalcata che l’iniziativa dell’apparizione è tutta del Risuscitato (20,19) che, mettendosi in mezzo ad essi, incoraggia quelli che non osavano uscire per strada e dichiararsi pubblicamente credenti. Può percepirsi, inoltre, una lieve intenzione apologetica: alcuni uomini atterriti non sarebbero usciti coraggiosi predicatori se non avessero avuto un incontro reale con il Signore Gesù.
La presenza inaspettata di Gesù in mezzo ad essi fa loro sperimentare il godimento promesso (16,20-22; 17,13). Mostra mani e fianco (19,34), identificandosi come il crocifisso; il riconoscimento è immediato (Lc 24,41-47). Identificato, concede loro, due volte, la pace: il saluto (20,19.21) non è mero desiderio di sicurezza ma dono reale e viatico per una missione (17,18; 4,38; 13,20). Primo frutto dell’incontro è la pace recuperata ed un’allegria sconosciuta. Il secondo, la missione. L’Inviato di Dio, restituito alla vita e rivolto al Padre, incarica i suoi della sua propria missione e fa di loro i suoi inviati (20,21: come a me…, anche io). Niente dice sul destino, né sul contenuto, dell’apostolato cristiano, si afferma solo che il Padre è il fondamento e Cristo la sua mediazione. Dio è l’origine della missione apostolica, Cristo ed i suoi inviati, gli anelli di congiunzione.
L’incarico è un atto di investitura ed una prova di fiducia. Questo passaggio di compiti da Cristo ai cristiani fa di questi, uomini nuovi: la missione li ricrea. Gli inviati ricevono lo stesso alito vitale di Gesù (20,22). La concessione dello Spirito è, dunque, legata all’imposizione della missione (20,23). Ed il racconto ricorda la creazione del primo uomo, quando Dio ispirò il suo alito al fango (Gn 2,7; Sap 15,11). Questa concessione dello Spirito è conseguente alla glorificazione di Gesù (7,39), al suo ritorno al Padre (15,26; 16,7): Gesù stesso inaugura il tempo dello Spirito; e lo vincola al perdono universale ed incondizionato dei peccati (20,23). Secondo Giovanni è la comunità cristiana l’unico posto nel mondo dove non ha oramai futuro il peccato dell’uomo, perché la sua missione, il suo compito esclusivo ed escludente, è il perdono senza restrizioni: perdonare/ritenere suppone una potestà senza eccezione: chi viene perdonato dalla comunità, è perdonato da Dio.
Nelle mani dei credenti che hanno visto il loro Signore rimane ora la sua missione: aprire gli uomini all’amore ed abilitarli per la missione; più che autorità e potere, questo è un nuovo servizio, una responsabilità, quello che li trasforma in uomini nuovi. Finché è assente il loro Signore, la comunità continua quella missione.
2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
L’irruzione dello Spirito di Gesù sui suoi discepoli segna la nascita al mondo della chiesa. Quando Gesù lasciò i suoi discepoli sulla terra, promise loro il suo Spirito; giorni dopo, quando glielo inviò, i suoi discepoli si sentirono inviati al mondo; in quel giorno nacque la chiesa, con lo Spirito di Gesù come patrimonio e col mondo da evangelizzare come compito. Da quel giorno lo Spirito ha accompagnato ed assistito, guidato e fortificato la vita dei seguaci di Gesù: appartenere alla comunità cristiana implica essere eredi della missione di Gesù ed avere in eredità il suo Spirito. Sapersi di Cristo si è sapersi inviati per Cristo al mondo come suoi testimoni e sapere che egli ci ha lasciato in possesso il suo Spirito.
È nostro lo stesso Spirito che incoraggiò Gesù durante la sua vita, che lo portò a predicare il vangelo per la Galilea, che lo fece forte davanti la tentazione e lo faceva sentire figlio di Dio. Questa è l’eredità di Gesù che possiamo possedere già oggi, tutto quanto abbiamo di lui è oggi alla nostra portata e a nostra disposizione. E tuttavia, continua ad esserci deficit di Dio nel nostro mondo; continuiamo a seguirlo ma sentiamo più l’assenza che la sua presenza.
I discepoli di Gesù viviamo come deficitarii del suo Spirito dimenticando che abbiamo tutto un mondo, ed il nostro cuore, da cristianizzare. Ce l’ha ricordato il vangelo: imbruniva già quando Gesù Resuscitato si presenta ai discepoli morti di paura; il vederlo li solleva dalla loro tristezza e li riempie di pace, ma l’allegria di averlo dura poco. Infonde loro un alito nuovo ed impone una nuova missione: « ricevete lo Spirito Santo; a chi perdonerete i peccati, saranno perdonati. » Avranno con sé lo Spirito di Gesù, se hanno il mondo come luogo di fraternità.
Chi è nato il giorno di Pentecoste non si accontenta di non fare male, neanche di restituirlo, benché ciò sia abbastanza. Né gli basta fare il bene che può, purché non gli costi molto: il testimone di Gesù deve dare al mondo il suo Spirito ed il suo perdono. Dargli meno supporrebbe rubargli quello che ha ricevuto. A chi non si sa inviato ad offrire pace e perdono, non gli è stato inviato lo Spirito. Chi non crede che il perdono delle offese sia possibile, neanche crede nello Spirito di Gesù che lo fa possibile. Se non assumiamo il mandato di Gesù perché è un ordine dare il perdono a chi abbia bisogno di lui, non abbiamo ricevuto il suo Spirito né siamo i suoi inviati in questo mondo. Chi non perdona non ha lo Spirito di Cristo, non può essere un buon cristiano, benché sia un uomo buono. E’ per mancanza di uomini con lo Spirito di Gesù, impegnati per la pace tra gli uomini, è per scarsità di credenti che perdonino, che oggi il mondo è privo di Dio e scarso di pace vera.
Ci lamentiamo della pace che ci danno gli altri, perché è scarsa o troppo fragile; diamo loro il perdono che Dio ci concede e la nostra pace rimarrà al sicuro. Il cristiano sta oggi perdendo la sua vocazione di pacificatore, lasciando il compito che Cristo gli comandò di portare a chi non condivide la sua fede né ha la capacità, lo Spirito di Gesù; e così perde il suo Dio e perde il suo mondo. Altri avranno il potere, la tecnica, le risorse; noi abbiamo la forza di Dio ed anche il suo mandato. Cosa sperare di più?
Ritorniamo alla nostra comunità, al posto di lavoro, a noi stessi, coll’impegno di favorire la pace e di seminare perdono, di irrobustire la concordia ed iniziare la fraternità là dove stiamo. Avvicinare la pace ed il perdono agli altri significa avvicinare a Dio. È la migliore testimonianza che possiamo dar loro; e possiamo dargliela noi, non perché siamo migliori, ma bensì perché possediamo lo Spirito di Gesù ed il suo mandato.
Come cristiani, non lo dimentichiamo, nasceremo il giorno in cui, come discepoli di Gesù, supereremo le nostre paure, vediamo il Risuscitato e recuperiamo l’allegria di vivere ed il mondo come missione. In un solo giorno, e senza Gesù al loro fianco ma pieni del suo Spirito, i discepoli fecero più che durante gli anni di convivenza con Gesù per le strade della Palestina. Quelle sono le nostre origini; se vogliamo rinascere oggi come cristiani, sappiamoci inviati al mondo e viviamo dello Spirito che ci è stato inviato. Sarà lo Spirito di Gesù quello che, come nella prima pentecoste, ci invierà a parlare agli uomini nella loro propria lingua, direttamente al cuore; cominciamo da quelli che ci sono più vicino, cominciamo – perché no? – da noi stessi, facendo la pace con noi, coi nostri desideri intimi e con le nostre intime miserie. Vivere in pace con noi stessi è il modo più efficace di rendere possibile la pace a quanti convivono con noi.
Riconciliati nel nostro intimo, facciamo la pace nel seno delle nostre famiglie. Dove andare, se non lì dove sono i nostri per offrir loro la pace ed il perdono che abbiamo sperimentato? A chi dobbiamo più perdono se non a quelli che condividono vita e sogni, allegrie e fallimenti con noi? Come possiamo pensare di pacificare gli sconosciuti, se non siamo riusciti a farlo con gli intimi? Lì dove arriva il nostro perdono, lì arriverà anche lo Spirito di Gesù e diventerà presente la chiesa. Trasformiamo le nostre famiglie ed i nostri amici nella prima meta del nostro sforzo pacificatore: porteremo lì lo Spirito di Gesù e ci faremo suoi discepoli, nello stesso tempo che umanizziamo la nostra vita familiare.
I discepoli di Gesù, se sanno che vive, vivono per portare il suo Spirito ed il perdono agli uomini; credere, invece, che perdonare è impossibile, pensare perfino che nessuno può esigerlo, significherebbe pensare che Gesù non è risuscitato o ancora peggio, cercare di seppellirlo di nuovo. Per perdonarci morì ed affinché perdonassimo è risuscitato. Tutto quello che facciamo per creare pace intorno a noi e fare possibile il perdono ci trasformerà nei discepoli che il Risuscitato vuole: chi osa perdonare il suo prossimo, vede il suo Signore e possiede il suo Spirito; non c’è un’altra spiegazione possibile.
Offrire il perdono a chi ha bisogno di lui è stato sempre una forma di essere cristiano; farlo, oggi di nuovo, ci restituirebbe la certezza di essere chiesa di Cristo. Non lasciamo che nessuno ci tolga la missione che Cristo raccomandò ai suoi. Non permettiamo che ci rubino lo Spirito che ci diede per portarla a termine: recuperiamo il compito per il quale nascemmo al mondo come comunità, torneremo a sentire la sua presenza vicino a noi. Avremo il suo Spirito nei nostri cuori, se il perdono del prossimo occupa le nostre mani. Cosa sperare di più? O non crediamo che Cristo è resuscitato e ci ha concesso già il suo Spirito dandoci l’ordine di perdonare il mondo?

3 – PREGARE : Prega il testo e desidera la volontà di Dio: cosa dico a Dio?
Non so bene perché, ma mi sento molto simile ai primi tuoi discepoli che ti sapevano vivo ed erano morti di paura. Rinchiuso nelle mie paure, non riesco a proclamarti risuscitato.
Vieni, Signore, a tirarmi fuori dalla mia reclusione e dammi la tua pace e la sicurezza che hai vinto il mondo.
Dammi il tuo Spirito, riempimi di Lui, prima di darmi la missione di perdonare il mondo che temo tanto. Senza il tuo Spirito, non riuscirò ad essere l’uomo della pace, il tuo inviato per il perdono universale. Voglio dare testimonianza della tua nuova vita, vivendo la mia perdonando.
Ma ho bisogno di te, ho bisogno del tuo alito, ho bisogno del tuo Spirito. Se continui a pensare a me per perdonare, inviami quanto prima il tuo Spirito.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb

PORTE APERTE TRA IL TEMPIO E LA PIAZZA – O.R. Gianfranco Ravasi

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2011/013q04a1.html

PORTE APERTE TRA IL TEMPIO E LA PIAZZA – O.R. Gianfranco Ravasi

Pubblichiamo il testo della « lectio magistralis » che il cardinale presidente del Pontificio Consiglio della Cultura tiene il 17 gennaio a Roma presso la facoltà di Architettura dell’università La Sapienza.

di Gianfranco Ravasi

« Il mondo è come l’occhio: il mare è il bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme è la pupilla e l’immagine in essa riflessa è il tempio ». Questo antico aforisma rabbinico illustra in modo nitido e simbolico la funzione nel tempio secondo un’intuizione che è primordiale e universale. Due sono le idee che sottendono all’immagine. La prima è quella di « centro » cosmico che il luogo sacro deve rappresentare, un tema sul quale il grande studioso delle religioni Mircea Eliade (1907-1986) ha offerto un vasto dossier documentario. L’orizzonte esteriore, con la sua frammentazione e con le sue tensioni, converge e si placa in un’area che per la sua purezza deve incarnare il senso, il cuore, l’ordine dell’essere intero.
Nel tempio, dunque, si « con-centra » la molteplicità del reale che trova in esso pace e armonia: si pensi solo alla planimetria di certe città a radiali connesse al « sole » ideale rappresentato dalla cattedrale posta nel cardine centrale urbano (Milano, per esempio, « centrata » sul Duomo ne è un esempio evidente, come New York è la testimonianza di una diversa visione, più dispersa e babelica). Dal tempio, poi, si « de-centra » un respiro di vita, di santità, di illuminazione che trasfigura il quotidiano e la trama ordinaria dello spazio. Ed è a questo punto che entra in scena il secondo tema sotteso al detto giudaico sopra evocato.
Il tempio è l’immagine che la pupilla riflette e rivela. Esso è, quindi, segno di luce e di bellezza. Detto in altri termini, potremmo affermare che lo spazio sacro è epifania dell’armonia cosmica ed è teofania dello splendore divino. In questo senso un’architettura sacra che non sappia parlare correttamente – anzi, « splendidamente » – il linguaggio della luce e non sia portatrice di bellezza e di armonia decade automaticamente dalla sua funzione, diventa « profana » e « profanata ». È dall’incrocio dei due elementi, la centralità e la bellezza, che sboccia quello che Le Corbusier definiva in modo folgorante « lo spazio indicibile », lo spazio autenticamente santo e spirituale, sacro e mistico.
Certo, questi due assi portanti trascinano con sé tanti corollari: pensiamo alla « sordità », all’inospitalità, alla dispersione, all’opacità di tante chiese tirate su senza badare alla voce e al silenzio, alla liturgia e all’assemblea, alla visione e all’ascolto, all’ineffabilità e alla comunione. Chiese nelle quali ci si trova sperduti come in una sala per congressi, distratti come in un palazzetto dello sport, schiacciati come in uno sferisterio, abbrutiti come in una casa pretenziosa e volgare.
A questo punto vorremmo proporre una riflessione di indole più specifica che abbia come codice di riferimento proprio quelle Sacre Scritture bibliche che sono state indubbiamente « il grande codice » della stessa civiltà artistica occidentale. È indiscutibile il rilievo che in esse ha una « teologia » dello spazio, anche se – come si vedrà – essa è inverata in una teologia superiore, quella del tempo e della storia (l’Incarnazione riassume in sé queste due dimensioni ricollocandole nella loro gerarchia).
« Ai tuoi servi sono care le pietre di Sion » (Salmo, 102, 15). Questa professione d’amore dell’antico salmista potrebbe essere il motto stesso della tradizione cristiana che allo spazio sacro ha riservato sempre un rilievo straordinario, a partire dalla « pietra » del Santo Sepolcro, segno della risurrezione di Cristo, attorno alla quale è sorto uno dei templi emblematici dell’intera cristianità. Tra l’altro, è curioso che simbolicamente le tre religioni monoteistiche si ancorino a Gerusalemme attorno a tre pietre sacre, il Muro Occidentale (detto popolarmente « del Pianto »), segno del tempio salomonico per gli ebrei, la roccia dell’ascensione al cielo di Maometto nella moschea di Omar per l’islam e, appunto, la pietra ribaltata del Santo Sepolcro per il cristianesimo.
Certo è che, senza la spiritualità e la liturgia cristiana, la storia dell’architettura sarebbe stata ben più misera: pensiamo solo al nitore delle basiliche paleocristiane, alla raffinatezza di quelle bizantine, alla monumentalità del romanico, alla mistica del gotico, alla solarità delle chiese rinascimentali, alla sontuosità di quelle barocche, all’armonia degli edifici sacri settecenteschi, alla neoclassicità dell’Ottocento, per giungere alla sobria purezza di alcune realizzazioni contemporanee (un esempio per tutte: l’affascinante chiesa del citato Le Corbusier a Ronchamp).
C’è, dunque, nel cristianesimo una celebrazione costante dello spazio come sede aperta al divino, partendo proprio da quel tempio supremo che è il cosmo.
Un grande storico della teologia Marie-Dominique Chenu (1895-1990), al termine della sua vita si rammaricava di aver riservato troppo poco spazio alle arti sia letterarie sia figurative sia architettoniche nella sua storia del pensiero religioso, perché « esse non sono soltanto illustrazioni estetiche ma veri soggetti teologici ». Dall’anonimato in cui si relegavano i grandi costruttori di cattedrali basterebbe solo fare emergere, a titolo esemplificativo, un genio architettonico e artistico come l’abate Sugero di Saint-Denis (xiii secolo).
Detto questo c’è però nella concezione cristiana una componente molto pesante che – come si diceva – sposta il baricentro teologico dallo spazio al tempo. Ed è su questo aspetto che ora vorremmo fissare la nostra attenzione. Nell’ultima pagina neotestamentaria, quando Giovanni il Veggente si affaccia sulla planimetria della nuova Gerusalemme della perfezione e della pienezza, si trova di fronte a un dato a prima vista sconcertante: « Non vidi in essa alcun tempio perché il Signore Dio Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio » (Apocalisse, 21, 22). Tra Dio e uomo non è più necessaria nessuna mediazione spaziale; l’incontro è ormai tra persone, si incrocia la vita divina con quella umana in modo diretto. Da questa scoperta potremmo risalire a ritroso attraverso una sequenza di scene altrettanto inattese.
Immaginiamo di rincorrere questo filo rosso afferrandolo al capo estremo opposto. Davide decide di erigere un tempio nella capitale appena costituita, Gerusalemme, così da avere anche Dio come cittadino nel suo regno. Ma ecco la sorprendente risposta oracolare negativa emessa dal profeta Nathan: il re non costruirà nessuna « casa » a Dio ma sarà il Signore a dare una « casa » a Davide: « Te il Signore farà grande, poiché una casa farà a te il Signore » (ii Samuele, 7, 11). In ebraico si gioca sulla ambivalenza del termine bayit, « casa » e « casato ». Dio, quindi, allo spazio sacro di una casa-tempio preferisce la presenza in una casa-casato, ossia nella storia di un popolo, nella dinastia davidica che si colorerà di tonalità messianiche.
Certo, lo spazio non è dissacrato. Il figlio di Davide, Salomone, innalzerà un tempio che la Bibbia descrive con ammirata enfasi. Eppure quando egli sta pronunziando la sua preghiera di consacrazione, dovrà necessariamente interrogarsi così: « Ma è proprio vero che Dio può abitare sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito! » (1 Libro dei Re, 8, 27). Il tempio, allora, è solo l’ambito di un incontro personale e vitale (non per nulla si parla nella Bibbia di « tenda dell’incontro ») che vede Dio chinarsi « dal luogo della sua dimora, dal cielo » della sua trascendenza verso il popolo che accorre nel santuario di Sion con la realtà della sua storia sofferta della quale si elencano i vari drammi.
I profeti giungeranno al punto di minare le fondamenta religiose del tempio e del suo culto qualora esso si riduca a essere solo uno spazio magico-sacrale, dissociato dalla vita della piazza civica, ossia dall’impegno etico-esistenziale, e affidato solo a una presenza meramente e ipocritamente rituale.
Basti solo, tra i tanti passi profetici di analogo tenore, leggere questo paragrafo del profeta Amos (viii secolo prima dell’era cristiana): « Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni. Anche se voi mi offrite olocausti io non accetto i vostri doni. Le vittime grasse di pacificazione neppure le guardo. Lontano da me il frastuono dei vostri canti, il suono delle vostre arpe non riesco a sopportarlo! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne! » (5, 21-24).
Ma entriamo nel cristianesimo in modo diretto. Cristo, come ogni buon ebreo, ama il tempio gerosolimitano. Non esita a impugnare una sferza e a menare fendenti contro i mercanti che lo profanano con i loro commerci, ne frequenta le liturgie durante le varie solennità, come faranno anche i suoi discepoli che si riserveranno persino un loro spazio nell’area del cosiddetto « Portico di Salomone ». Eppure lo stesso Cristo in quel meriggio assolato al pozzo di Giacobbe, davanti al monte Garizim, luogo sacro della comunità dei samaritani, non teme di dire alla donna che sta attingendo acqua: « Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre… È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità » (Giovanni, 4, 21-24).
Ci sarà un’ulteriore svolta che insedierà la presenza divina nella stessa « carne » dell’umanità attraverso la persona di Cristo, come dichiara il celebre prologo del Vangelo di Giovanni: « Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi » (1, 14), con evidente rimando alla « tenda » del tempio di Sion. Tra l’altro, il verbo greco eskénosen, « pose la tenda » ricalca le radicali s-k-n del vocabolo ebraico con cui si definiva la « Presenza » divina nel tempio di Sion, Shekinah. Gesù sarà anche più esplicito: « Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere ».
E l’evangelista Giovanni annota: « Egli parlava del tempio del suo corpo » (2, 19-21). Paolo andrà oltre e, scrivendo ai cristiani di Corinto, affermerà: « Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi… Glorificate dunque Dio nel vostro corpo! » (i, 6, 19-20).
« Un tempio di pietre vive », quindi, come scriverà san Pietro, « impiegate per la costruzione di un edificio spirituale » (i, 2, 5) un santuario non estrinseco, materiale e spaziale, bensì esistenziale, un tempio nel tempo. Il tempio architettonico sarà, quindi, sempre necessario, ma dovrà avere in sé una funzione di simbolo: non sarà più un elemento sacrale intangibile e magico, ma solo il segno necessario di una presenza divina nella storia e nella vita dell’umanità. Il tempio, quindi, non esclude o esorcizza la piazza della vita civile ma ne feconda, trasfigura, purifica l’esistenza, attribuendole un senso ulteriore e trascendente. Per questo, una volta raggiunta la pienezza della comunione tra divino e umano, il tempio nella Gerusalemme celeste, la città della speranza, si dissolverà e « Dio sarà tutto in tutti » (1 Corinzi, 15, 28).
Terminiamo la nostra riflessione con tre testimonianze. La prima riassume i gradi del discorso finora fatto. È una cantilena ebraica cabbalistica medievale che ricorda i vari passaggi per trovare il luogo dove s’incontra veramente Dio. Ecco il ritornello in ebraico, ritornello assonante che si ripete a ogni strofa: hu’ hammaqôm shel- maqôm / we’en hammaqôm meqomô. Con un gioco di parole e un’intuizione folgorante si dice: « Egli, Dio, è il Luogo di ogni luogo, / eppure questo Luogo non ha luogo ».
La seconda testimonianza è legata alla figura di san Francesco ed è desunta dal capitolo 37 della Vita seconda di Tommaso da Celano, francescano abruzzese. Un frate dice a Francesco: « Non abbiamo più soldi per i poveri ». Francesco risponde: « Spoglia l’altare della Vergine e vendine gli arredi, se non potrai soddisfare diversamente le esigenze di chi ha bisogno ».
E subito dopo aggiunge: « Credimi, alla Vergine sarà più caro che sia osservato il vangelo di suo Figlio e nudo il proprio altare, piuttosto che vedere l’altare ornato e disprezzato il Figlio nel figlio dell’uomo ». Ci dobbiamo, dunque, soltanto spogliare del tempio e della sua bellezza? No, perché Francesco è convinto che Dio ci offrirà di nuovo il tempio, con tutti gli ornamenti: « Il Signore manderà chi possa restituire alla Madre quanto ci ha dato in prestito per la Chiesa ».
La terza e ultima considerazione ci è offerta dalla spiritualità ortodossa. Un noto teologo laico russo del Novecento vissuto a Parigi, Pavel Evdokimov, dichiarava che tra la piazza e il tempio non ci deve essere la porta sbarrata, ma una soglia aperta per cui le volute dell’incenso, i canti, le preghiere dei fedeli e il baluginare delle lampade si riflettano anche nella piazza dove risuonano il riso e la lacrima, e persino la bestemmia e il grido di disperazione dell’infelice. Infatti, il vento dello Spirito di Dio deve correre tra l’aula sacra e la piazza ove si svolge l’attività umana. Si ritrova, così, l’anima autentica e profonda dell’Incarnazione che intreccia in sé spazio e infinito, storia ed eterno, contingente e assoluto.

(L’Osservatore Romano 17-18 gennaio 2011)

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI, LECTIO |on 15 mai, 2014 |Pas de commentaires »

PORTE APERTE TRA IL TEMPIO E LA PIAZZA (Gianfranco Ravasi O.R.)

http://www.santommasoapostolo.com/?p=189

(Gianfranco Ravasi – L’Osservatore Romano)

SPAZIO SACRO E SPAZIO CIVILE

PORTE APERTE TRA IL TEMPIO E LA PIAZZA

Pubblichiamo il testo della “lectio magistralis” che il cardinale presidente del Pontificio Consiglio della Cultura tiene il 17 gennaio a Roma presso la facoltà di Architettura dell’università La Sapienza.

“Il mondo è come l’occhio: il mare è il bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme è la pupilla e l’immagine in essa riflessa è il tempio”. Questo antico aforisma rabbinico illustra in modo nitido e simbolico la funzione nel tempio secondo un’intuizione che è primordiale e universale. Due sono le idee che sottendono all’immagine. La prima è quella di “centro” cosmico che il luogo sacro deve rappresentare, un tema sul quale il grande studioso delle religioni Mircea Eliade (1907-1986) ha offerto un vasto dossier documentario. L’orizzonte esteriore, con la sua frammentazione e con le sue tensioni, converge e si placa in un’area che per la sua purezza deve incarnare il senso, il cuore, l’ordine dell’essere intero.
Nel tempio, dunque, si “con-centra” la molteplicità del reale che trova in esso pace e armonia: si pensi solo alla planimetria di certe città a radiali connesse al “sole” ideale rappresentato dalla cattedrale posta nel cardine centrale urbano (Milano, per esempio, “centrata” sul Duomo ne è un esempio evidente, come New York è la testimonianza di una diversa visione, più dispersa e babelica). Dal tempio, poi, si “de-centra” un respiro di vita, di santità, di illuminazione che trasfigura il quotidiano e la trama ordinaria dello spazio. Ed è a questo punto che entra in scena il secondo tema sotteso al detto giudaico sopra evocato.
Il tempio è l’immagine che la pupilla riflette e rivela. Esso è, quindi, segno di luce e di bellezza. Detto in altri termini, potremmo affermare che lo spazio sacro è epifania dell’armonia cosmica ed è teofania dello splendore divino. In questo senso un’architettura sacra che non sappia parlare correttamente – anzi, “splendidamente” – il linguaggio della luce e non sia portatrice di bellezza e di armonia decade automaticamente dalla sua funzione, diventa “profana” e “profanata”. È dall’incrocio dei due elementi, la centralità e la bellezza, che sboccia quello che Le Corbusier definiva in modo folgorante “lo spazio indicibile”, lo spazio autenticamente santo e spirituale, sacro e mistico.

Certo, questi due assi portanti trascinano con sé tanti corollari: pensiamo alla “sordità”, all’inospitalità, alla dispersione, all’opacità di tante chiese tirate su senza badare alla voce e al silenzio, alla liturgia e all’assemblea, alla visione e all’ascolto, all’ineffabilità e alla comunione. Chiese nelle quali ci si trova sperduti come in una sala per congressi, distratti come in un palazzetto dello sport, schiacciati come in uno sferisterio, abbrutiti come in una casa pretenziosa e volgare.
A questo punto vorremmo proporre una riflessione di indole più specifica che abbia come codice di riferimento proprio quelle Sacre Scritture bibliche che sono state indubbiamente “il grande codice” della stessa civiltà artistica occidentale. È indiscutibile il rilievo che in esse ha una “teologia” dello spazio, anche se – come si vedrà – essa è inverata in una teologia superiore, quella del tempo e della storia (l’Incarnazione riassume in sé queste due dimensioni ricollocandole nella loro gerarchia).
“Ai tuoi servi sono care le pietre di Sion” (Salmo, 102, 15). Questa professione d’amore dell’antico salmista potrebbe essere il motto stesso della tradizione cristiana che allo spazio sacro ha riservato sempre un rilievo straordinario, a partire dalla “pietra” del Santo Sepolcro, segno della risurrezione di Cristo, attorno alla quale è sorto uno dei templi emblematici dell’intera cristianità. Tra l’altro, è curioso che simbolicamente le tre religioni monoteistiche si ancorino a Gerusalemme attorno a tre pietre sacre, il Muro Occidentale (detto popolarmente “del Pianto”), segno del tempio salomonico per gli ebrei, la roccia dell’ascensione al cielo di Maometto nella moschea di Omar per l’islam e, appunto, la pietra ribaltata del Santo Sepolcro per il cristianesimo.
Certo è che, senza la spiritualità e la liturgia cristiana, la storia dell’architettura sarebbe stata ben più misera: pensiamo solo al nitore delle basiliche paleocristiane, alla raffinatezza di quelle bizantine, alla monumentalità del romanico, alla mistica del gotico, alla solarità delle chiese rinascimentali, alla sontuosità di quelle barocche, all’armonia degli edifici sacri settecenteschi, alla neoclassicità dell’Ottocento, per giungere alla sobria purezza di alcune realizzazioni contemporanee (un esempio per tutte: l’affascinante chiesa del citato Le Corbusier a Ronchamp).
C’è, dunque, nel cristianesimo una celebrazione costante dello spazio come sede aperta al divino, partendo proprio da quel tempio supremo che è il cosmo.
Un grande storico della teologia Marie-Dominique Chenu (1895-1990), al termine della sua vita si rammaricava di aver riservato troppo poco spazio alle arti sia letterarie sia figurative sia architettoniche nella sua storia del pensiero religioso, perché “esse non sono soltanto illustrazioni estetiche ma veri soggetti teologici”. Dall’anonimato in cui si relegavano i grandi costruttori di cattedrali basterebbe solo fare emergere, a titolo esemplificativo, un genio architettonico e artistico come l’abate Sugero di Saint-Denis (xiii secolo).
Detto questo c’è però nella concezione cristiana una componente molto pesante che – come si diceva – sposta il baricentro teologico dallo spazio al tempo. Ed è su questo aspetto che ora vorremmo fissare la nostra attenzione. Nell’ultima pagina neotestamentaria, quando Giovanni il Veggente si affaccia sulla planimetria della nuova Gerusalemme della perfezione e della pienezza, si trova di fronte a un dato a prima vista sconcertante: “Non vidi in essa alcun tempio perché il Signore Dio Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio” (Apocalisse, 21, 22). Tra Dio e uomo non è più necessaria nessuna mediazione spaziale; l’incontro è ormai tra persone, si incrocia la vita divina con quella umana in modo diretto. Da questa scoperta potremmo risalire a ritroso attraverso una sequenza di scene altrettanto inattese.
Immaginiamo di rincorrere questo filo rosso afferrandolo al capo estremo opposto. Davide decide di erigere un tempio nella capitale appena costituita, Gerusalemme, così da avere anche Dio come cittadino nel suo regno. Ma ecco la sorprendente risposta oracolare negativa emessa dal profeta Nathan: il re non costruirà nessuna “casa” a Dio ma sarà il Signore a dare una “casa” a Davide: “Te il Signore farà grande, poiché una casa farà a te il Signore” (ii Samuele, 7, 11). In ebraico si gioca sulla ambivalenza del termine bayit, “casa” e “casato”. Dio, quindi, allo spazio sacro di una casa-tempio preferisce la presenza in una casa-casato, ossia nella storia di un popolo, nella dinastia davidica che si colorerà di tonalità messianiche.
Certo, lo spazio non è dissacrato. Il figlio di Davide, Salomone, innalzerà un tempio che la Bibbia descrive con ammirata enfasi. Eppure quando egli sta pronunziando la sua preghiera di consacrazione, dovrà necessariamente interrogarsi così: “Ma è proprio vero che Dio può abitare sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito!” (1 Libro dei Re, 8, 27). Il tempio, allora, è solo l’ambito di un incontro personale e vitale (non per nulla si parla nella Bibbia di “tenda dell’incontro”) che vede Dio chinarsi “dal luogo della sua dimora, dal cielo” della sua trascendenza verso il popolo che accorre nel santuario di Sion con la realtà della sua storia sofferta della quale si elencano i vari drammi.
I profeti giungeranno al punto di minare le fondamenta religiose del tempio e del suo culto qualora esso si riduca a essere solo uno spazio magico-sacrale, dissociato dalla vita della piazza civica, ossia dall’impegno etico-esistenziale, e affidato solo a una presenza meramente e ipocritamente rituale.
Basti solo, tra i tanti passi profetici di analogo tenore, leggere questo paragrafo del profeta Amos (viii secolo prima dell’era cristiana): “Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni. Anche se voi mi offrite olocausti io non accetto i vostri doni. Le vittime grasse di pacificazione neppure le guardo. Lontano da me il frastuono dei vostri canti, il suono delle vostre arpe non riesco a sopportarlo! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne!” (5, 21-24).
Ma entriamo nel cristianesimo in modo diretto. Cristo, come ogni buon ebreo, ama il tempio gerosolimitano. Non esita a impugnare una sferza e a menare fendenti contro i mercanti che lo profanano con i loro commerci, ne frequenta le liturgie durante le varie solennità, come faranno anche i suoi discepoli che si riserveranno persino un loro spazio nell’area del cosiddetto “Portico di Salomone”. Eppure lo stesso Cristo in quel meriggio assolato al pozzo di Giacobbe, davanti al monte Garizim, luogo sacro della comunità dei samaritani, non teme di dire alla donna che sta attingendo acqua: “Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre… È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità” (Giovanni, 4, 21-24).
Ci sarà un’ulteriore svolta che insedierà la presenza divina nella stessa “carne” dell’umanità attraverso la persona di Cristo, come dichiara il celebre prologo del Vangelo di Giovanni: “Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi” (1, 14), con evidente rimando alla “tenda” del tempio di Sion. Tra l’altro, il verbo greco eskénosen, “pose la tenda” ricalca le radicali s-k-n del vocabolo ebraico con cui si definiva la “Presenza” divina nel tempio di Sion, Shekinah. Gesù sarà anche più esplicito: “Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere”.
E l’evangelista Giovanni annota: “Egli parlava del tempio del suo corpo” (2, 19-21). Paolo andrà oltre e, scrivendo ai cristiani di Corinto, affermerà: “Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi… Glorificate dunque Dio nel vostro corpo!” (i, 6, 19-20).
“Un tempio di pietre vive”, quindi, come scriverà san Pietro, “impiegate per la costruzione di un edificio spirituale” (i, 2, 5) un santuario non estrinseco, materiale e spaziale, bensì esistenziale, un tempio nel tempo. Il tempio architettonico sarà, quindi, sempre necessario, ma dovrà avere in sé una funzione di simbolo: non sarà più un elemento sacrale intangibile e magico, ma solo il segno necessario di una presenza divina nella storia e nella vita dell’umanità. Il tempio, quindi, non esclude o esorcizza la piazza della vita civile ma ne feconda, trasfigura, purifica l’esistenza, attribuendole un senso ulteriore e trascendente. Per questo, una volta raggiunta la pienezza della comunione tra divino e umano, il tempio nella Gerusalemme celeste, la città della speranza, si dissolverà e “Dio sarà tutto in tutti” (1 Corinzi, 15, 28).
Terminiamo la nostra riflessione con tre testimonianze. La prima riassume i gradi del discorso finora fatto. È una cantilena ebraica cabbalistica medievale che ricorda i vari passaggi per trovare il luogo dove s’incontra veramente Dio. Ecco il ritornello in ebraico, ritornello assonante che si ripete a ogni strofa: hu’ hammaqôm shel- maqôm / we’en hammaqôm meqomô. Con un gioco di parole e un’intuizione folgorante si dice: “Egli, Dio, è il Luogo di ogni luogo, / eppure questo Luogo non ha luogo”.
La seconda testimonianza è legata alla figura di san Francesco ed è desunta dal capitolo 37 della Vita seconda di Tommaso da Celano, francescano abruzzese. Un frate dice a Francesco: “Non abbiamo più soldi per i poveri”. Francesco risponde: “Spoglia l’altare della Vergine e vendine gli arredi, se non potrai soddisfare diversamente le esigenze di chi ha bisogno”.
E subito dopo aggiunge: “Credimi, alla Vergine sarà più caro che sia osservato il vangelo di suo Figlio e nudo il proprio altare, piuttosto che vedere l’altare ornato e disprezzato il Figlio nel figlio dell’uomo”. Ci dobbiamo, dunque, soltanto spogliare del tempio e della sua bellezza? No, perché Francesco è convinto che Dio ci offrirà di nuovo il tempio, con tutti gli ornamenti: “Il Signore manderà chi possa restituire alla Madre quanto ci ha dato in prestito per la Chiesa”.
La terza e ultima considerazione ci è offerta dalla spiritualità ortodossa. Un noto teologo laico russo del Novecento vissuto a Parigi, Pavel Evdokimov, dichiarava che tra la piazza e il tempio non ci deve essere la porta sbarrata, ma una soglia aperta per cui le volute dell’incenso, i canti, le preghiere dei fedeli e il baluginare delle lampade si riflettano anche nella piazza dove risuonano il riso e la lacrima, e persino la bestemmia e il grido di disperazione dell’infelice. Infatti, il vento dello Spirito di Dio deve correre tra l’aula sacra e la piazza ove si svolge l’attività umana. Si ritrova, così, l’anima autentica e profonda dell’Incarnazione che intreccia in sé spazio e infinito, storia ed eterno, contingente e assoluto.

(©L’Osservatore Romano – 17-18 gennaio 2011)

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI, LECTIO |on 7 avril, 2014 |Pas de commentaires »

30 MARZO 2014 – 4A DOMENICA A – QUARESIMA – OMELIA

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30 MARZO 2014 | 4A DOMENICA A – QUARESIMA | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : GV 9,1-41

Gv 9 è un racconto magistrale che non ha paralleli nella tradizione sinottica (anche se vi sono parecchi guarigioni di ciechi: Mc 8,22-26; Mt 9,27-31; Mc 10,46-52; Mt 20,29-34; Lc 18,35-43!). L’incontro di Gesù, luce del mondo (9,5), con un cieco di nascita descrive un preciso cammino di fede (9,11.17.33.38) e anche un percorso inarrestabile verso l’incredulità (9,2.34.41). Infatti, l’episodio si apre con una domanda dei discepoli: la cecità è peccato?; finirà mostrando che il peccato di cecità non sta nel non vedere la realtà, ma nel non credere in Gesù, luce del mondo.
Al racconto del miracolo (9,6-7) segue un dialogo continuato ad opera di diversi interlocutori – sempre presente o Gesù o il cieco – che si converte di fatto in un autentico processo sull’identità del guaritore: il centro d’interesse slitta dal cieco di nascita a Gesù luce del mondo. Il cieco, noto mendicante, attesta la propria guarigione davanti alla gente che lo conosce (9,8-12) e viene interrogato dai farisei (9,13-17.24-34), come pure i suoi genitori (9,18-23). Ad alcuni, quanto accaduto pone degli interrogativi, altri si costruiscono delle ragioni per negare l’evidenza (9,16). Il cieco, che è giunto prima alla luce (9,7) che alla fede (9,35-38), finirà per essere espulso dalla comunità (9,34); in realtà, nel processo che le autorità fanno al nuovo vedente (9,13-34), la sentenza non la emanano i giudici ma l’accusato in absentia, Gesù (9,40-41).

In quel tempo, 1Gesù pasando vide un uomo cieco dalla nascita 2e i suoi discepoli lo interrogarono:
« Rabbì, chi ha peccato, lui o i suoi genitori, perché sia nato cieco? ».
3Rispose Gesù;
« Né lui ha peccato né i suoi genitori, ma è perché in lui siano manifeste le opere di Dio. 4Bisogna che noi compiano le opere di colui che mi ha mandato finchè è giorno; poi viene la notte, quando nessuno può agire. 5Finché io sono nel mondo sono la luce del mondo. »
6Detto questo, sputò per terra, fece del fango con la saliva, spalmò il fango sugli occhi del cieco 7e gli disse:
« Va’ a lavarti nella piscina di Sìloe’, [che significa 'Inviato'].
Quegli andò, si lavò e tornò che ci vedeva.
8Allora i vicini e quelli che lo avevano visto prima, perché era un mendicante, dicevano:
« Non è lui quello che stava seduto a chiedere l’elemosina? ».
9Alcuni dicevano:
« È lui » Altri dicevano:
« No, ma è uno che gli assomiglia »
Ed egli diveva: « Sono io!’
10Allora gli domandarono:
« In che modo ti sono stati aperti gli occhi?’
11 Egli rispose:
« L’uomo che si chiama Gesú ha fatto del fango, me lo ha spalmato sugli occhi e mi ha detto: ‘Va’ a Sìloe e làvati’. Io sono andato, mi sono lavato e ho acquistato la vista ».
12Gli dissero: « Dov’è costui? »
Rispose: « Non lo so »

13Condussero dai farisei quello che era stato cieco: 14era un sabato, il giorno in cui Gesù aveva fatto del fango e gli aveva aperto gli occhi. 15Anche i farisei dunque gli chiesero di nuovo come aveva acquistato la vista. Ed egli disse loro:
« Mi ha messo el fango sugli occhi, mi sono lavato e ci vedo ».
16Allora alcuni dei farisei dicevano:
« Quest’uomo non viene da Dio, perché non osserva il sabato ».
Altri invece dicevano:
« Come può un peccatore compiere segni di questo genere? ».
E c’era dissenso tra loro. 17Allora dissero di nuovo al cieco
« Tu, che cosa dici di lui, dal momento che ti ha aperto gli occhi? ».
Egli rispose: « È un profeta!.
18Ma i Giudei non credettero di lui che fossse stato cieco e che avesse acquistato la vista, finché non chiamarono i genitori di colui che aveva ricuperato la vista. 19E li interrogarono:
« È questo il vostro figlio, che voi dite essere nato cieco? Como mai ora ci vede? »
20I genitori di lui risposero:
« Sappiamo che questo è nostro figlio e che è nato cieco; 21ma como ora ci veda non lo sappiamo, e chi gli abbia aperto gli occhi, noi non lo sappiamo. Chiedetelo a lui; ha l’età: chiedetelo a lui! ».
22Questo dissero i suoi genitori, perché avevano paura dei Giudei; infatti, i Giudei avevano già stabilito che, se uno lo avesse riconosciuto como il Cristo, venisse espulso dalla sinagoga. 23Per questo i suoi genitori dissero:
« Ha l’età: chiedetelo a lui! ».
24 Allora chiamarono di nuovo l’uomo che era stato cieco e gli dissero:
« Da gloria a Dio!. Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore ».
Quello rispose: « Se sia un peccatore, non lo so. Una cosa io so: era cieco e ora ci vedo ».
Allora gli dissero:
« Che cosa ti ha fatto? Come ti ha aperto gli occhi? ».
Rispose loro: « Ve l’ho già detto e non avete ascoltato; perchè volete udirlo di nuovo? Volete forse diventare anche voi suoi discepoli? ».
Lo insultarono e dissero:
« Suo discepolo sei tu!. Noi siamo discepoli di Mosè! Noi sappiamo che a Mosè ha parlato Dio; ma costui non sappiamo di dove sia »
Rispose loro quell’uomo:
« Proprio questo stupisce: che voi non sapete di dove sia, eppure mi ha aperto gli occhi. Sappiamo che Dio non ascolta i peccatori, ma che, se uno onora Do e fa la sua volontà, egli lo ascolta. Da che mondo è mondo, non si è mai sentito dire che uno abbia aperto gli occhi a un cieco nato. Se costui non venisse da Dio, non averbbe potuto far nulla ». Gli replicarono:
« Sei nato tutto nei peccati e insegni a noi? » E lo cacciarono fuori.

Gesù seppe che l’avevano cacciato fuori; quando lo trovò, gli disse:
« Tu, credi nel Figlio dell’uomo? » Egli rispose:
« E chi è, Signore, perchè io creda in lui? ». Gli disse Gesù:
« Lo hai visto: è colui che parla con te »
Ed egli disse: « Credo, Signore! ».
E si prostrò dinanzi a lui. Gesù allora disse:
« È per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedano, vedano e quelli che vedono,, diventino ciechi ».
Alcuni dei farisei che erano con lui udirono queste parolo e gli dissero:
« Siamo ciechi anche noi? »
Gesù rispose loro:
« Se foste ciechi, non avreste alcun peccato; ma siccome dite: ‘Noi vediamo’, il vostro peccato rimane ».

1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Cammin facendo, Gesù vede un cieco di nascita, un uomo che non aveva mai visto la luce. Pur essendo fortuito, l’incontro è conseguenza dell’iniziativa di Gesù. E mentre Gesù vede l’uomo, i suoi discepoli si domandano perché è cieco. Dall’incontro con Gesù partirà la guarigione; dalla domanda dei discepoli, la discussione ‘teologica’.
Gesù non dà delle spiegazioni sull’origine della malattia, ma scagiona colui che ne soffre. Lui non è colpevole, ma è l’occasione affinché Dio manifesti la sua salvezza e Gesù, obbediente, la realizzi; il male è luogo e motivo perché Dio attui il bene. Prima di dare luce al cieco Gesù si dice luce del mondo.
Dopo l’autorivelazione, il miracolo, che viene sobriamente narrato: il gesto ‘ricorda’ l’atto creatore di Dio (Gn 2,7): solo chi è la luce dà luce. Lo fa in forma totalmente gratuita: né chiede fede, né spera riconoscenza. Ma prima ancora di cominciare a vedere, comincia ad obbedire, e va a lavarsi nella piscina di Sìloe. È la prima tappa del suo cammino di fede. A Sìloe potrà vedere: l’obbedienza che gli ottiene la guarigione è il suo modo di cominciare a credere.
Primi a reagire meravigliati sono i più vicini al cieco; i suoi conoscenti hanno dubbi sull’identità del cieco, non del fatto che può vedere. L’uomo dovrà provare che è lo stesso cieco di prima, raccontando il miracolo. Aprire gli occhi ai ciechi è compito del messia che verrà (cf. Is 42,6.7; 49,6.9). Il cieco può narrare quello che gli è accaduto, non conosce però chi è l’autore. In questo modo anch’essi, vicini e conoscenti, diventano testimoni del segno, anche se non credenti.
La testimonianza della propria esperienza è la seconda tappa verso la fede. Non importa se c’è da affrontare un lungo ‘processo’ e dei castighi. I farisei, avversari di Gesù, non del cieco, non possono negare il fatto, screditano l’autore: Dio non è con chi viola il sabato. Si basano su Dio e negano le opere di Dio!
Il miracolato non è creduto e rimane solo; pure i genitori l’abbandonano. Ma lui non può immaginarsi che non sia peccatore colui che lo ha guarito. Attorno a lui si crea divisione. Un’altra tappa nel lento processo verso la fede . Il cieco lo chiama profeta. In Gv questo titolo suole apparire quando è in gioco la missione di Gesù (4,19; 9,28). Fatto sta che mentre i giudici non vogliono arrendersi all’evidenza, il guarito va facendo un lento cammino di fede: confessare Cristo può portare a rotture familiari e all’emarginazione sociale.
L’uomo subisce nuovi interrogatori, più duri ed impegnativi: deve dare gloria a Dio…, negando le opere di Dio! Lui non giudica, si afferra ai fatti: era cieco, ora vede. Gli oppositori sanno invece che il taumaturgo è peccatore, ma non sanno da dove viene. A misura che l’interrogatorio si svolge, il cieco si va avvicinando sempre più alla fede (9.11.17) e alla condanna da quelli che vogliono vedere i fatti (9,34). Nella loro cecità risplende il loro peccato (9,41).
Gesù ritorna alla scena (9,35-38) per incontrarsi di nuovo con quest’uomo che è stato emarginato per averlo difeso. In questo secondo incontro – tappa centrale – arriva alla fede vera: prima conosceva il suo benefattore solo di nome (9,11), poi lo considera profeta (9,17) ed uomo accreditato da Dio (9,30-33), per finire confessandolo figlio dell’Uomo (9,35), meta dell’esperienza promessa al discepolo (1,51). Per riuscire a giungere alla fede (9,36) – tratto, questo, tipico di Gv – ha avuto bisogno di ritrovarsi con Gesù, che si lascia vedere da chi ha fede (9,37). La fede fa ‘vedere’ non solo Gesù, ma la sua vera identità e la sua missione.
Finisce così l’itinerario di fede del cieco di nascita, iniziato con l’apertura degli occhi alla luce e completato con una esplicita confessione di fede (9,38) in Gesù, figlio dell’uomo (9,35) e luce del mondo (9,5). Senza la parola del Gesù rincontrato (l’hai già visto, lo vedi), il cieco avrebbe continuato a vedere, ma non sarebbe giunto ad essere credente. La reazione di quest’uomo è di autentico cristiano: vede e crede, crede e adora (9,38), nonostante le avverse conseguenze.
Una frase finale di Gesù chiarisce tutto l’episodio (9,41). Vi è chi è incapace di vedere, come il cieco dalla nascita e vi è chi non vuole vedere, come i farisei: nel primo non vi è responsabilità, in questi il loro peccato rimane; è questa la cecità frutto del peccato, la negazione ostinata a ricevere Lui la luce del mondo (9,41; cf. 9,4-5).
2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
La scena si apre con l’incontro di Gesù e i suoi discepoli con un handicappato; mentre Gesù vede l’uomo bisognoso di salvezza, i discepoli si domandano se è responsabile o meno della sua situazione. Due forme, contrastanti, di vedere il male trionfante nel prossimo: chi vede la sofferenza ed aiuta e chi si intrattiene immaginandone le cause. Con chi mi identifico meglio, con i discepoli o con Gesù? Dove mi porta a guardare il male? Trovarmi con il male mi porta a giudicare come cattivi chi lo soffre o a pensare alla loro salvezza?
Per vedere, il cieco deve obbedire ad uno strano mandato di uno sconosciuto. Gesù non richiede previamente fede in lui, ma ‘cieca’ sottomissione al suo commando. La luce arriverà subito agli occhi del cieco, ma la fede solo alla fine di un percorso fatto di obbedienza e di testimonianza. Non sarà perché mi manca la subordinazione a Dio che non riesco a vedermi libero dai miei mali? Non è l’indocilità con Dio la causa dei miei mali? E non mi dice niente che Gesù prima di dare la fede al cieco lo liberò dalla sua malattia?
Al cieco bastò, per essere sanato, un’obbedienza ‘cieca’: per credere in Gesù dovette testimoniare ripetutamente l’accaduto davanti ad un pubblico sempre più ostile. Credere in Gesù non risulta comodo; chi crede davvero, anche se solo in modo incerto e ‘con poche luci’, non risparmierà incomprensioni e calunnie, l’allontanamento dai familiari e l’esclusione della società. Quale prezzo pago per credere? Quale sono disposto a pagare per avere in Cristo il mio Salvatore?
Il cieco guarito deve ‘pagare’ un altro prezzo per la sua nuova ‘luce’, la sua fede in Gesù. Nella parte centrale, e più lunga, del racconto Gesù sparisce per lasciare al cieco di difendere la veracità del miracolo e l’identità di Gesù. Non solo riesce a far arrabbiare i suoi nemici, si allontana pure dai genitori. Resta solo, con la sua fede, testimoniando l’accaduto. Tutti vogliano vedere, tutti desideriamo vederci liberi dai nostri mali. Ma siano disposti a pagare il prezzo, per ottenere più luce ma perdere la stima persino dei nostri? Credere in Gesù è gratuito, ma ha conseguenze scomode, pericolose.
Nella malattia del cieco di nascita si manifestarono l’opere di Dio: Gesù dimostrò essere ‘la luce del mondo’ perché diede luce al cieco. Il male ha sempre un senso, anche se fa del male a chi lo soffre e fa pensare male a chi lo vede. Dio è nemico del male nell’uomo, come la luce lo è delle tenebre. Dove vince il male, sta per venire Dio, come dopo la notte arriva il giorno. Quale è la mia percezione del male nel mondo, nei prossimi, in me? Guardo il male come Gesù, mi avvicino ai malati come Lui? È per me il male che soffrono gli uomini l’occasione per andare incontro a loro e fare del bene.
3 – PREGARE : Prega il testo e desidera la volontà di Dio: cosa dico a Dio?
Eccoci, Signore Gesù, luce del Padre, ai tuoi piedi come ciechi ignari della loro infermità. Guardaci, figlio di Davide, come hai guardato il cieco che ti incontrò nel cammino. Sveglia in noi la luce del cuore, la fede in te, e saremo raggianti. Curaci, Signore Gesù con un tocco delle tue mani e con la Parola che apre occhi e cuore alla luce. Mandaci, Signore Gesù, alla piscina del lavacro di vita nuova, ma dacci la capacità di obbedire a ciò che ci comandi . Custodiscici, Gesù, nella prova della fede; e se ci lasci da soli, non ci lasciare senza fede capace di rispondere davanti agli increduli e senza il coraggio di perdere i nostri cari ma non perdere la tua luce. Rivelati in noi, Signore Gesù, luce di Dio, mettendo sulle nostre labbra il grido del cieco sanato: « Io credo, Signore! ».

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

QUARESIMA: ESODO DI LIBERTÀ DALLA FAME DI POSSEDERE LA VITA, LE PERSONE E DIO – LECTIO

http://www.zenit.org/it/articles/quaresima-esodo-di-liberta-dalla-fame-di-possedere-la-vita-le-persone-e-dio

QUARESIMA: ESODO DI LIBERTÀ DALLA FAME DI POSSEDERE LA VITA, LE PERSONE E DIO

LECTIO DIVINA PER LA I DOMENICA DI QUARESIMA – ANNO A

Parigi, 08 Marzo 2014 (Zenit.org) Mons. Francesco Follo 

Monsignor Francesco Follo, osservatore permanente della Santa Sede presso l’UNESCO a Parigi, offre oggi la seguente riflessione sulle letture liturgiche per la I Domenica di Quaresima (Anno A).

***
LECTIO DIVINA

Quaresima: esodo di libertà dalla fame di possedere la vita, le persone e Dio
Rito Romano – I Domenica di Quaresima – Anno A – 9 marzo 2014
Gn 2, 7-9; 3, 1-7; Sal 50; Rm 5, 12-19; Mt 4, 1-11

Rito Ambrosiano – I Domenica di Quaresima
Is 58, 4b-12b; Sal 102; 2Cor 5, 18-6,2; Mt 4, 1-11

1) Quaresima: 40 giorni di esodo per andare verso la Terra promessa.

Il modo più sicuro di partecipare alla Quaresima è, come suggerisce la liturgia di oggi, prima Domenica di Quaresima, di ricordare e rivivere quello che furono per lui i 40 giorni di digiuno e preghiera passati nel deserto e che si conclusero con il superamento di tre prove.
Nel racconto che Gesù stesso fece ai suoi discepoli, le tre tentazioni, che ricapitolano questo tempo di prova, lasciano abbastanza chiaramente capire che, in un combattimento che prefigurava la sua agonia, Lui scelse l’amore del Padre e la carità per noi e iniziò a bere il calice della Nuova Alleanza, che sarebbe stata sigillata con la sua offerta sulla Croce.
Questo amore offerto è rifiutato ci è presentato già nella prima lettura, presa dal libro della Genesi, ci mostra che l’uomo è polvere plasmata dalle “mani creative” di Dio e animata dal Suo soffio di vita e di carità. Poche righe dopo, sempre il libro della Genesi illumina il dramma delle scelte sbagliate di fronte al bene e al male, un male che nasce nel cuore dell’uomo, dalle sue scelte, dai suoi rifiuti, dal suo ostinarsi a seguire i propri criteri, anziché i criteri di Dio. Ci viene chiesto di riflettere sulla gravità del rifiuto di inserirsi nel disegno di Dio, pretendendo un’autonomia assoluta nel decidere ciò che è bene e ciò che male. E’ la pretesa di essere alla pari di Dio, di essere Dio a noi stessi e agli altri.
? Poi, nella seconda lettura, ricavata dalla Lettera ai Romani, vediamo che San Paolo si riferisce al racconto della Genesi e mette a confronto il comportamento di Adamo e quello di Cristo e i risultati del loro agire. La ribellione e la disobbedienza del primo hanno causato la separazione da Dio e la morte di tutti gli uomini, l’obbedienza perfetta di Cristo, invece, ha ottenuto a tutti la pienezza della grazia e della vita. Adamo ed Eva sperimentano che la propria presunzione li ha allontanati tra loro, dal creato e da Dio. Gesù, invece, ricuce questo strappo e annulla questa distanza.
Infine, la pagina del Vangelo di Matteo che ci è offerta oggi come terza lettura, ripropone la stessa tentazione di Adamo ed Eva, ma mostra come Gesù ne esce vittorioso e ci indica le vie per realizzare un’esistenza fedele a Dio, una vita libera dal male profondo che ci minaccia.
Il diavolo mette in dubbio la figliolanza divina di Gesù (“Se sei Figlio di Dio …”) che era stata affermata al momento del battesimo sulle rive del fiume Giordano. In effetti, la tentazione non riguarda né il pane, né le cose, perché quelle son quel che sono, ma come vivere la nostra relazione con le cose, con le persone, con Dio. La possiamo vivere da figlio di Dio, come Gesù, oppure rifiutare la paternità amorosa di Dio che offre un rapporto stabile, vivo e vivificante con Lui.
Dio offre un’alleanza tra due libertà: la sua, che è iniziativa d’amore infinito, e la nostra, che è chiamata a fiorire e vivere della e per la libertà amorosa di Dio.
Se con la grazia superiamo la tentazione, Dio dilata il nostro cuore, che può così avere in dono Lui, che è l’Amore, e ci dona di bene operare per rendere tutta la vita una lode a Lui.

2) Fame e deserto.
Un dato non secondario è che il Vangelo di oggi ci dice che Gesù è tentato da Satana dopo quaranta giorni e nottti di digiuno e, quindi, Gesù ha fame.
Ma non si tratta solo di una fame corporale, come ogni essere umano Gesù ha tre fami:
a- di vita, che tenta l’uomo al possesso e l’accumulo spropositato di beni materiali (le pietre da trasformare in pane),
b- di relazioni umane che possono essere d’amicizia o di potere, simboleggiata dall’offerta di potere,
c- di onnipotenza, che spinge a soffocare il desiderio di Dio cioè l’anelito di infinito e di libertà senza limiti, inducendo alla tentazione di progettare la propria esistenza secondo i criteri umani della facilità, del successo, del potere, dell’apparenza, dell’immagine, vale a dire la tentazione di adorare il Menzognero (il diavolo) invece di adorare il Vero Amore provvidente.
Gesù però sceglie un altro criterio, quello della fedeltà al progetto di Dio, a cui aderisce pienamente e di cui è Parola fatta carne per redimerci assumendo la nostra condizione, segnata dalla povertà e dalla sofferenza, scegliendo con coraggio di farsi servo di tutti. ?
Per vincere queste prove, questa fame di vita, di relazioni e di Dio l’uomo dispone di uno strumento infallibile: la Parola di Dio. Riscriviamo allora una frase di Sant’Agostino: Quando sei colto dai morsi della fame – e possiamo aggiungere anche della tentazione – lascia che la Parola di Dio divenga il tuo pane di vita, lascia che Cristo sia il tuo Pane di Vita.
A questo punto, penso sia giusto chiedersi perché per digiunare Gesù andò nel deserto.
Nella tradizione biblica il deserto rappresentava il luogo della preparazione a una missione divina. Così era stato così per Mosè, che conobbe la rivelazione di Jahvè (Esodo 3,1 e ss), per il popolo uscito dalla schiavitù che sperimentò la fatica della libertà. Così fu per Elia, che vi ascoltò la parola divina (1a Re 19,18). Dunque anche Gesù rimase nella solitudine del deserto per quaranta giorni[2], prima di iniziare il suo ministero pubblico.
Gesù l’ha fatt per insegnarci di vivere la vita come esodo nel deserto come è stato per il popolo ebraico e come deve essere la Chiesa, pellegrina verso il Cielo. Questo significa non poter programmare la propria vita, non poterne disporre, doversi abbandonare a una Parola di promessa. Dio dice anche a noi: “Nulla ti mancherà, ma tutto dovrai attendere da me”. È questo il significato della fede: non solamente l’assenso a un corpo di dottrine ma il fidarsi di un amore, il credere all’amore: a quell’amore che ha iniziato senza di tè (l’uscita dall’Egitto come per noi l’uscita dal grembo di nostra madre), ma che potrà continuare soltanto se troverà la nostra adesione.
Ci è chiesto di tradurre il nostro comportamento quotidiano la « cura » di noi stessi in quell’Altro che ci ha liberata.
La quasi totalità di noi è chiamata a esistere domani non nella situazione di emergenza del deserto, ma nella situazione di normalità di una terra da coltivare e da abitare. Tuttavia tutto noi siamo chiamati a portarvi lo stesso atteggiamento di fondo: vivere su quella terra ma con un cuore di deserto.
Questo cuore è chiesto particolarmente alle Vergini Consacrate, che nella solitudine fisica sono chiamate ad un tu per tu con Dio: parlare al cuore.
Il deserto, la solitudine verginale è il luogo privilegiato, il luogo dove si sta a tu per tu con Dio. Lo Sposo non può costringere la sposa ad amarLo. Il Signore però ha un mezzo infallibile, come lo descrisse, ad esempio il profeta Osea. All’inizio, al cap 2, Osea parla di questo adulterio terrificante, il tornare ad adorare gli idoli che i vecchi padri hanno adorato; il Signore addolorato, angosciato, interviene e dice che ha un mezzo e lo metterà in azione, riporterà di nuovo il popolo nel deserto, gli indicherà di nuovo le strade antiche, parlerà di nuovo al suo cuore, nel deserto, appunto quando le categorie malefiche, i diaframmi opachi sono caduti; allora il cuore dell’uomo, cioè la sua intelligenza, ed il cuore di Dio, cioè la divina Sapienza stanno a tu per tu e l’incontro è immediato, possibile e fecondo.
Le Vergini consacrate vivono il “deserto” della loro vocazione come della disponibilità totale. La loro è una spiritualità della disponibilità generosa verso gli altri, della disponibilità totale verso il Signore da cui attendono tutto.
Con la preghiera, l’elemosina ed il digiuno, impariamo tutti questa disponibilità per camminiare uniti nel “deserto” quaresimale, e della vita, così la fame diventerà desiderio santo di Dio e saremo la Tenda dove l’Emmanuele, il Dio sempre con noi, avrà stabile dimora.

NOTE
[1] L’interpretazione cristiana dell’Esodo è guidata da quella lettura che si è soliti chiamare “tipologica”: tutto ciò che riguarda Israele (vicende e personaggi, riti e istituzioni) è la figura – il typos, appunto – di quanto accade in Cristo e nella Chiesa. Riprendiamo brevemente le fasi principali dell’Esodo per vedere in che modo esse vengono riprese e reinterpretate in funzione dell’evento cristiano.
Prima tappa: l’Egitto (e il Faraone) è inteso come figura del peccato. Soprattutto di quella condizione universale di peccato che teneva schiava l’umanità prima di Cristo. Ma Egitto può essere anche colui, che provoca il peccato: Satana; oppure la sua trascrizione storica, l’idolatria pagana. Di conseguenza, la liberazione dall’Egitto attraverso il passaggio del Mar Rosso sarà la figura del battesimo, e l’agnello pasquale immolato assurgerà a simbolo di Cristo nella sua passione.
La tappa del deserto è ripresa come figura della vita del credente in cammino. In essa compaiono, come per Israele, la prova e la tentazione; ma anche la protezione divina vi si dispiega con particolare intensità: i miracoli dell’Esodo diventano il miracolo dell’esistenza sacramentale: la roccia-Cristo da cui zampilla l’acqua battesimale, e la manna diventata eucaristia. Il deserto può essere interiorizzato come cammino individuale dell’anima verso la contemplazione e la perfezione spirituale; o può essere vissuto come itinerario Quaresima preparazione delle celebrazioni pasquali.
Il senso cristiano della Legge è riscontrato, sulla linea paolina, nella condensazione di tutte le leggi etico-sociali nella carità; mentre le leggi rituali trovano la loro verità nel culto cristiano.
Finalmente, la terra promessa ripropone il motivo sacramentale: il passaggio del Giordano, come già quello del Mar Rosso, rimanda al battesimo, mentre nel “paese dove scorre latte e miele” i Padri della Chiesa leggono una suggestiva figura del banchetto eucaristico. Accanto a questa, e ancor più frequente, è l’interpretazione della terra promessa come immagine della vita definitiva con Dio.
Si può riassumere il tutto dicendo che il senso tipologico dell’Esodo è l’itinerario del popolo cristiano dalla schiavitù del peccato attraverso il battesimo e l’esistenza in fede e carità fino alla patria celeste.
[2] Quaranta è un numero simbolico, in questo caso, oltre a collegarsi ai quarant’anni passati dal Popolo di Israele nel deserto, sta a significare tutta una generazione, cioè Gesù, facendosi uomo, è stato tentato per tutta la sua vita.

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