Archive pour mai, 2014

Dieu donne la Loi et les alliances à son peuple

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GIORNATA DEL DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO – 2005

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GIORNATA DEL DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO

da “L’Avvenire” – 2005

In questo momento storico segnato dall’odio, dalla guerra, dal terrorismo e lacerato dalle divisioni, Ebrei e Cristiani trovano nella Parola di Dio una comune fonte di ispirazione. Scrive il Deuteronomio: “Ascolta, Israele. Il Signore Dio nostro è l’unico Signore. Amerai dunque il Signore Dio tuo con tutto il tuo cuore, con tutta la tua anima e con tutta la tua forza”(6, 4-5). E il Levitico aggiunge: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”(19,18). Gesù, allo scriba che lo interroga sul “primo di tutti i comandamenti” risponde intrecciando questi due passi e conclude ricordando che “non c’è altro comandamento più importante”(Mc 12,29-31). La voce di Mosè e quella di Cristo parlano all’unisono riconoscendo che l’amore è l’anima profonda della Legge, è il futuro di Dio per il mondo.
Il Signore si presenta come il Dio del hesed, ossia della fedeltà amorosa, espressa attraverso le sue azioni cosmiche e storiche, cantate dal “grande Hallel”, il Salmo 136(135), scandito appunto dall’antifona: “Eterno è il suo hesed”, il suo amore misericordioso. Egli è un Dio che “ama tutte le realtà che esistono e nulla disprezza di quanto ha creato… Egli risparmia tutte le realtà perché tutte le cose sono sue, egli che è il Signore amante della vita”(Sap 11,24-26). Non per nulla nelle pagine sacre il suo volto rivela tutti i lineamenti dell’amore, da quello nuziale a quello paterno e materno fino al profilo amicale.
La sua è un’epifania d’amore. Egli si china su Israele suo popolo dicendogli: “Ti ho amato di amore eterno, per questo ti conservo il mio hesed”, il mio amore fedele (Ger 31,3). Egli, però, si rivolge anche al singolo fedele per offrirgli la sua bontà, il suo sostegno e il suo perdono: “Tu sei buono, Signore, e perdoni, sei pieno di amore (hesed) per chi ti invoca”(Sal 86/85,5). La sua attenzione speciale è rivolta agli ultimi della terra dei quali egli è per eccellenza il difensore e il tutore amoroso: “Padre degli orfani e difensore delle vedove è Dio”(Sal 68/67,6). Il manto luminoso del suo amore si stende su tutta l’umanità: “Ti benedirà il Signore delle schiere celesti. Benedetto sia l’Egiziano mio popolo, l’Assiro opera delle mie mani e Israele mia eredità”(Is 19,25). E tutte le generazioni, che pure conoscono la sua giustizia, sono avvolte dal suo generoso e infinito amore: “Egli conserva il suo favore per mille generazioni, perdonando la colpa, la trasgressione e il peccato” (Es 34,7).
Il cristianesimo raccoglie questo messaggio della Prima Alleanza e ne fa quasi il suo vessillo coniando quella straordinaria definizione: “Dio è amore” (1Gv 4,8-16) e chiamandolo il “Dio dell’amore” (2Cor 13,11). La stessa figura di Gesù, che “Passò beneficando e risanando tutti coloro che stavano sotto il potere del diavolo” (At 10,38) e che è “l’amato” per eccellenza (Mc 1,11;5,7), ha come sua missione primaria quella di rivelare l’amore del Padre: “Dio ha tanto amato il mondo da donare il suo figlio unigenito”(Gv 3,16). Sant’Ambrogio in modo folgorante dichiarerà che “caritas Dei Verbum est”, il Verbo è l’amore di Dio (Expositio in Psalmum CXVIII, 15,39).
A questo amore divino celebrato dalla Bibbia, amore che non ignora la giustizia come segno della verità dell’amore, deve corrispondere la risposta umana, lapidariamente espressa in quel “primo e più importante comandamento”. “Se Dio ci ha amati, anche noi dobbiamo amarci… Se ci amiamo, Dio dimora in noi e il suo amore è perfetto in noi”(1Gv 4,11-12). Ecco, allora, le due dimensioni del comandamento principe che Gesù ha desunto dalla Torah. C’è innanzitutto l’impegno di amare Dio “con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze” (Dt 6,5), espressione di un’adesione non meramente devozionale ma esistenziale, scegliendo le vie del Signore, “i sentieri della giustizia, le strade degli amici del Signore” (Pr 2,8). “Ti amo, Signore, mia forza” è, quindi, la comune professione d’amore dell’ebreo e del cristiano ed è nella rilettura mistica del Cantico dei Cantici che essi trovano la parabola ideale della loro relazione di intimità col Signore.
L’amore poi si deve orientare verso i fratelli: “Questo è il comandamento che abbiamo da lui: chi ama Dio ama anche il suo fratello”(1Gv 4,21). Le celebri “antitesi” del Discorso della Montagna (Mt 5,21-48), pur indicando l’originalità del messaggio cristiano, non vogliono mettere in opposizione la Torah e il Vangelo; anzi, vogliono riscoprire l’anima radicale e profonda della Torah, la potenzialità che essa contiene, l’assolutezza dell’amore che ad essa è sottesa. Si ha, così, per Ebrei e Cristiani l’esercizio dell’amore fraterno in tutte le sue sfumature di giustizia, misericordia, benevolenza, generosità, amicizia, solidarietà, rispetto della dignità umana. Significativi sono gli esempi di Giuseppe generoso con i suoi fratelli, di David verso il figlio ribelle Assalonne (2Sam 19,1.7), delle premure per l’asino del nemico (Es 23,4-5), del rispetto dei diritti dello straniero: “Il forestiero dimorante tra di voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso” (Lv 19,34).
Una generosità che privilegia i diversi e i miseri, come ammonisce la Legge: “Non molesterai il forestiero né lo opprimerai, perché voi siete stati forestieri nel paese d’Egitto. Non maltratterai la vedova e l’orfano. Se tu li maltratti, quando invocherà da me l’aiuto, io ascolterò il suo grido” (Es 22,20-22). Una generosità che Gesù tratteggerà in modo intenso nella sua rappresentazione del giudizio divino che verterà appunto sull’amore per gli affamati, gli assetati, i forestieri, i nudi, i malati, i carcerati” (Mt 25,31-46). Nella tradizione giudaica c’è questo mirabile detto dei Padri di Israele: “Simone il Giusto era solito dire: Il mondo si fonda su tre cose: la Torah, il culto e gli atti di misericordia” (Abôt 1,2).
Sulla scia della dichiarazione congiunta del Comitato Internazionale di Collegamento Cattolico-Ebraico, emessa al termine della sua XVIII sessione plenaria a Buenos Aires l’8 luglio 2004 e intitolata Tzedeq e Tzedaqah – Giustizia e Carità, anche la Chiesa Italiana nella Giornata di riflessione sui rapporti tra ebraismo e cristianesimo riafferma che “Ebrei e Cristiani hanno un uguale obbligo nell’impegnarsi per la giustizia e la carità che, in ultima analisi, guiderà alla pace-shalom per l’intera umanità. Fedeli alle nostre distinte tradizioni religiose, noi vediamo questo comune impegno per la giustizia e la carità come la collaborazione dell’uomo al piano divino per la costruzione di un mondo migliore”.

 

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IL DISCORSO DELLA MONTAGNA E IL DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO – Bruno Forte

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IL DISCORSO DELLA MONTAGNA E IL DIALOGO EBRAICO-CRISTIANO

Bruno Forte

Discorso a un dialogo pubblico con il biblista ebreo americano Jacob Neusner – Auditorium di Roma, 18 gennaio 2010

L’insegnamento di un Maestro ebreo?

Il Mahatma Gandhi, padre dell’India moderna e apostolo della non-violenza, ricordando il suo primo incontro con il « discorso della montagna », diceva che gli era andato dritto al cuore: « The Sermon on the Mount went straight to my heart… ». E aggiungeva: « È stato grazie a questo discorso che ho imparato ad amare Gesù ». Questa testimonianza mostra in maniera eloquente come la lettura dei capitoli 5-7 del Vangelo di Matteo possa essere decisiva per l’incontro col Profeta galileo e il suo messaggio. Si può perfino dire che la storia delle interpretazioni del discorso della montagna è la storia delle diverse auto-comprensioni del cristianesimo.
L’esegeta protestante Joachim Jeremias riconduce a tre modelli fondamentali queste interpretazioni[1]. Il primo riflette una concezione perfezionistica: « Gesù dichiara ai suoi discepoli ciò ch’egli esige da loro » (67). Il discorso sarebbe « legge, non evangelo » (68). Gesù si presenterebbe né più né meno che come un maestro della Torah. Questa interpretazione non è però condivisibile, perché contrasta col fatto che nello stesso sermone « Gesù osa opporsi alla Torah » (70). Una seconda lettura è quella ispirata alla teoria dell’inattuabilità: è l’interpretazione dell’ortodossia luterana. Gesù « vuole rendere consci i suoi ascoltatori della loro inettitudine a compiere con le loro forze quanto Dio esige… (e così) indurli a disperare di sé » (72) per confidare in Dio solo. Il Nazareno, però, « s’attende che i suoi discepoli attuino ciò ch’egli chiede » (73), come è evidente nella parte finale del discorso stesso: « Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che vi entrano » (Mt 7,13: cf. tutto il brano da 13 a 27). Anche questa interpretazione, allora, non può essere accolta. Infine, l’interpretazione dell’etica temporanea, propria degli « escatologisti conseguenti » di fine Ottocento (quali Johannes Weiss e Albert Schweitzer), legge nel discorso un insieme « di leggi d’eccezione, valide in epoca di crisi », nella forma di un « incitamento alla tensione estrema delle forze prima della catastrofe » (74). Il discorso della montagna, però, non sembra aver nulla di un’ »etica dell’ultima ora »: al contrario, « in Gesù l’accento essenziale non cade sull’affaticarsi degli uomini, ma sulla certezza che la salvezza di Dio è presente » (75s).
Caratteristica comune alle tre interpretazioni è quella di considerare il discorso come una sorta di legge, ponendo così « Gesù nell’ambito del tardo giudaismo » (76). Che questa operazione sia legittima e in parte feconda lo mostra la possibilità di rintracciare nelle parole del Profeta galileo numerose eco della tradizione ebraica: Paul Billerbeck – nel Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash[2]- ha potuto raccogliere in corrispondenza alle scarse cinque pagine del discorso della montagna ben trecento e nove pagine di analogie e paralleli rabbinici! Il rapporto con l’insegnamento dei maestri ebrei è dunque decisivo per comprendere e valutare l’insegnamento di Gesù sul monte: e tuttavia non è sufficiente. Perché? In che senso Gesù non è un Rabbi come gli altri? E in che senso, invece, si pone in continuità con la Torah di Mosè?

Gesù rompe con la Torah
A queste domande prova a dare risposta Jacob Neusner nel suo libro Un Rabbino parla con Gesù[3]: l’originalità di questo lavoro sta nel fatto che l’Autore si immagina contemporaneo del Maestro galileo e intavola con lui una discussione serrata. Nella prospettiva rabbinica questo è un atto di profondo rispetto e di forte tensione spirituale: « Una buona, argomentata discussione è considerata dalla Torah il mezzo più giusto di rivolgersi a Dio, ossia un atto di grandissima devozione » (34). Peraltro, la fiducia nell’intelligenza è un tratto comune a ebraismo e cristianesimo: « Come i cristiani noi diamo importanza alla ragione e alla fede razionale… noi diamo valore all’uso dell’intelligenza, allo scambio di pensieri, di affermazioni, di ragioni, di prove, di analisi; noi consideriamo la discussione un esercizio nell’uso di ciò che ci fa simili a Dio, cioè la nostra intelligenza » (41).
La tesi di Neusner è che « Gesù insegna la Torah al pari di altri maestri, ma pretende di porsene al di sopra » (29). Intento dichiarato del Rabbino è perciò quello di « riaffermare semplicemente la Torah del Sinai sopra e contro il Gesù di Matteo » (43). E questo in nome del principio espresso all’inizio del trattato della Mishnah (200 d.C.) chiamato Avot (detti dei Padri dell’ebraismo): « Fate una siepe intorno alla legge » (1,1). Secondo Neusner Gesù ha distrutto questa siepe, disponendo della Torah in maniera inaudita e perfino insegnando a violare alcuni dei Comandamenti: il terzo, che impone la santificazione del sabato, il quarto, quello dell’amore verso i genitori, e infine la prescrizione della santità. Gesù pretende di prendere il posto del sabato (cf. Mt 12,8: « Il Figlio dell’uomo è signore del sabato ») e dei genitori (cf. Mt 10,37: « Chi ama padre o madre più di me, non è degno di me’ ») e fa consistere la santità nella sequela di sé: in tal modo egli dissolve ciò che tiene unito Israele in quanto Israele, mettendo in pericolo l’essenziale della fede del popolo dell’alleanza.
A proposito, poi, di Matteo 5,38-39 (« Avete inteso che fu detto: Occhio per occhio e dente per dente. Ma io vi dico di non opporvi al malvagio; anzi, se uno ti dà uno schiaffo sulla guancia destra, tu porgigli anche l’altra ») e 43-44. 48 (« Avete inteso che fu detto: Amerai il tuo prossimo e odierai il tuo nemico. Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano » e « Voi, dunque, siate perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste »), Neusner afferma che un tale insegnamento non concorda con la Torah perché « è un dovere religioso resistere al male, combattere per il bene, amare Dio e combattere quelli che diventeranno nemici di Dio… La Torah richiede sempre dall’Eterno Israele di combattere per la causa di Dio; la Torah ammette la guerra, riconosce l’uso legittimo della forza » (57). Più in generale, le antitesi del discorso della montagna appaiono intollerabili al Rabbino: « La frase di Gesù ‘voi avete inteso che fu detto… ma io vi dico’ si pone in aperto contrasto con la frase di Mosè sul monte Sinai » (61). Gesù parla « attraverso un ‘io’, ma la Torah parla soltanto a ‘noi’, a noi che formiamo Israele » (63). « Solo Dio può esigere da me quello cha sta chiedendo Gesù » (86). « L’alternativa è tra ‘Ricordati di santificare il sabato’ e ‘Il Figlio dell’uomo è il signore del sabato’. Non possiamo scegliere entrambi » (105). « In discussione è la rivendicazione di autorità da parte di Gesù » (107). Il nocciolo della questione è dunque questo: « Cristo prende il posto della Torah » (109). La conclusione del Rabbino Neusner è tranciante: « Un grande maestro non è colui che dice qualcosa di nuovo, ma colui che dice quello che è vero » (112s). Perciò Gesù non è per lui un maestro credibile e la differenza con la fede del popolo eletto è radicale: « Il messaggio della Torah riguarda sempre l’Eterno Israele, mentre il messaggio di Gesù riguarda quelli che lo seguono » (126).

Gesù radicalizza la Torah
Non così vede le cose un altro pensatore ebreo, Pinchas Lapide, che nel suo libro Il Discorso della Montagna. Utopia o Programma?[4] mette parimenti a confronto l’insegnamento di Gesù con la tradizione rabbinica: diversamente da Neusner, egli sottolinea che Gesù si colloca totalmente all’interno del pensiero ebraico, portandolo solo alle estreme conseguenze. Dunque, non la Torah, ma l’interpretazione che Neusner ne dà sarebbe in contrasto con quello che Gesù dice nel discorso della montagna. Per Lapide il Maestro galileo non chiede altro che « un’esistenza ebraica di fede… È un ideale realizzabile, un’utopia realistica che non deve rimanere sulla carta se l’ebreo credente trova il coraggio di superare se stesso… nell’instancabile imitazione di Dio che nell’ebraismo è considerata il più santo dei comandamenti. In questa grande spinta messianica verso l’incarnazione voluta da Dio di tutti i figli di Adamo e verso l’umanizzazione di questa terra… Gesù di Nazaret è stato ‘l’ebreo centrale’, come lo definisce Martin Buber, colui che ci invita tutti a imitarlo » (15). La tesi di Lapide è pertanto che « il discorso della montagna non è altro che la spiegazione della Torah fatta da Gesù di Nazaret, che prendendo spunto dal duplice comandamento dell’amore ha come obiettivo la sua concretizzazione, allo scopo di favorire la manifestazione del regno di Dio sulla terra » (24). Nell’insegnamento sul monte siamo di fronte alla semplice « riscrittura escatologica di tutti i comandamenti dell’amore… che dalle tavole di pietra del Sinai verranno impressi nel cuore degli uomini » (36).
Se Neusner contrappone troppo, Lapide concilia altrettanto: la radicalità di Gesù rispetto alla Torah non è un semplice sviluppo nella continuità, ma implica un elemento di assoluta novità. È Joachim Jeremias a sottolineare come la differenza fra Gesù e il giudaismo non stia nei singoli precetti, ma nel presupposto fondamentale che sta dietro ad essi e che nella testimonianza del Profeta galileo è l’avvento del Regno di Dio nella sua persona[5]: « A ogni detto del discorso della montagna… è sottintesa la predicazione del regno di Dio… la testimonianza che Gesù diede di sé con la parola e coi fatti » (89). « Al kerygma fa seguito la didaché » (90): e il kerygma « apre il discorso della montagna sotto la forma delle beatitudini e delle frasi relative alla splendida sorte di chi è discepolo di Cristo » (90). « Solo per la grandezza del dono divino diviene comprensibile la gravità della richiesta di Gesù » (91). La differenza fondamentale fra l’insegnamento di Gesù e la Torah di Mosè sta allora nel fatto che « il discorso della montagna non è legge, ma evangelo… La legge affida l’uomo alle sue proprie forze e lo incita a impegnarsi fino all’estremo. L’evangelo invece pone l’uomo di fronte al dono di Dio e lo incita a fare, di tale inesprimibile dono, il fondamento della vita. Sono due mondi… Dalla riconoscenza del figlio di Dio redento ha inizio una nuova vita. Ecco il significato del discorso della montagna » (93). La Torah dice: « Fa’ quanto insegno, e vivrai ». Gesù dice: « Vivi la vita che ti dono, e farai quello che ti chiedo ». Gesù non abolisce la Torah, non abbatte la siepe intorno alla Legge, come vorrebbe Neusner. E neppure radicalizza la Torah innalzando di qualche gradino le sue esigenze. Gesù dona la vita nuova che viene da Dio per realizzare e superare la Torah.

In Gesù il compimento della Torah
Siamo così giunti al punto decisivo: « Non crediate che io sia venuto ad abolire la Legge o i Profeti; non sono venuto ad abolire, ma a dare pieno compimento » (Mt 5,17). È il punto che si sforza di chiarire Joseph Ratzinger – Benedetto XVI nel suo Gesù di Nazaret[6]: fra la semplice contrapposizione e la concordanza, la relazione fra l’insegnamento di Gesù sul monte e quello di Mosè al Sinai va intesa come novità non nella rottura, ma nel compimento. « La ‘Torah del Messia è del tutto nuova, diversa – ma proprio così ‘porta a compimento’ la Torah di Mosè » (126). « Non è più la ‘carne’ – la discendenza fisica da Abramo – a decidere, ma lo ‘spirito’: l’appartenenza all’eredità di fede e di vita di Israele attraverso la comunione con Gesù Cristo, il quale ha ‘spiritualizzato’ la Legge trasformandola così in un cammino di vita aperto a tutti. Nel Discorso della montagna Gesù parla al suo popolo, a Israele, in quanto primo portatore della promessa. Ma nel consegnargli la nuova Torah, lo apre in modo che ora da Israele e dagli altri popoli possa nascere una nuova grande famiglia di Dio » (127).
La continuità implicita nell’idea di compimento sta nel fatto che proprio in base alla Torah si può dire che « Israele non esiste semplicemente solo per se stesso, per vivere delle ‘eterne’ disposizioni della legge – ma per diventare luce dei popoli » (143). Gesù « ha portato il Dio di Israele ai popoli così che tutti i popoli ora lo pregano e nelle Scritture di Israele riconoscono la sua parola, la parola del Dio vivente. Ha donato l’universalità, che è la grande e qualificante promessa per Israele e per il mondo… È questo che lo qualifica come il ‘Messia’ e dà alla promessa messianica una spiegazione, che ha il suo fondamento in Mosè e nei Profeti, ma che dona a essi anche un’apertura completamente nuova » (144). La comunione con Gesù è comunione filiale col Padre e come tale « è un sì al quarto comandamento su una base nuova e a un livello più elevato. È l’ingresso nella famiglia di coloro che a Dio dicono Padre e possono dirlo nel ‘noi’ di coloro che con Gesù e mediante l’ascolto a Lui prestato sono uniti alla volontà del Padre e così stanno nel nucleo di quella obbedienza a cui la Torah mira » (145). Insomma, sono le stesse promesse contenute nella Legge che implicano il suo compimento: « Nella struttura intrinseca della Torah, nella sua evoluzione mediante la critica profetica e nel messaggio di Gesù che riprende entrambe, si trova insieme l’ampiezza per i necessari sviluppi storici e la base stabile che garantisce la dignità dell’uomo a partire dalla dignità di Dio » (156).
Perciò, Matteo ci presenta Gesù come il nuovo Mosè. E, perciò, la fedeltà alla Torah non può fermarsi all’applicazione legalistica di essa, ma deve aprirsi al compimento della promessa fatta a Israele dal suo Dio per bocca dello stesso Mosè: « Il Signore, tuo Dio, susciterà per te, in mezzo a te, tra i tuoi fratelli, un profeta pari a me. A lui darete ascolto » (Dt 18,15). L’ebraicità di Gesù è dunque fuori discussione, e si deve essere grati a chi – come Neusner o Lapide – la rivendica con onestà e rispetto. Parimenti, però, è innegabile la novità del suo insegnamento e della sua opera: non si tratta né di una semplice radicalizzazione di quanto già detto a Israele, né di una blasfema violazione dei comandamenti dati sul Sinai. La novità è la persona stessa di Gesù e l’avvento del tempo messianico che in Lui si offre, come tempo della grazia e della misericordia del Dio dell’alleanza: è la novità dell’amore effuso dall’alto attraverso di Lui nei cuori di chi crede. È quel possibile, impossibile amore – impossibile agli uomini, reso possibile dal dono divino – che il discorso della montagna descrive come frutto dell’accoglienza della buona novella che Gesù annuncia, che Gesù è. Gesù di Nazaret, Ebreo per sempre, è il Figlio di Dio dall’eternità, fattosi uomo per aprire a chiunque creda la porta del cielo. La differenza – accettata o rifiutata – sta tutta qui: come sta qui l’esigenza imprescindibile per un discepolo del Maestro galileo di amare Israele e la sua fede per sempre.

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1) Il discorso della montagna, in Id., Gesù e il suo annuncio, Paideia, Brescia 1993, 65-93.
2) H.L. Strack – P. Billerbeck, Kommentar zum Neuen Testament aus Talmud und Midrash, Beck, München 1922, 1. Bd. Das Evangeluium nach Matthäus.
3) San Paolo, Cinisello Balsamo 2007 (originale inglese: A Rabbi talks with Jesus, McGill-Queen’s University Press 2000).
4) Paideia, Brescia 2003.
5) Il discorso della montagna, in Id., Gesù e il suo annuncio, Paideia, Brescia 1993, 65-93.
6) Rizzoli, Milano 2007.

Guardian Angels

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« IN TE È LA SORGENTE DELLA VITA » (SAL 36, 10) – OMELIA DEL CARD. WALTER KASPER

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/chrstuni/documents/rc_pc_chrstuni_doc_20020125_kasper-san-paolo_it.html

CONCLUSIONE DELLA SETTIMANA DI PREGHIERA PER L’UNITÀ DEI CRISTIANI

OMELIA DEL CARD. WALTER KASPER

Basilica di san Paolo fuori le Mura

Venerdì, 25 gennaio 2002

Cari fratelli e sorelle, cari amici!

« IN TE È LA SORGENTE DELLA VITA » (SAL 36, 10):

queste sono le parole del salmista scelte come il tema della Settimana della Preghiera di quest’anno. Sono parole di fede e di fiducia, parole di speranza e di coraggio, parole che ci uniscono e ci impegnano.
1. Saluto voi tutti che siete venuti per la celebrazione della conclusione di questa Settimana di Preghiera, nella quale imploriamo Dio affinché invii su di noi il suo Spirito di vita e sia veramente la sorgente di vita nuova, di nuovo slancio per l’unità dei cristiani e per l’unità di tutta l’umanità. Saluto innanzitutto le chiese e le comunità ecclesiali che sono presenti qui Roma, e che si radunano ogni anno con noi per questa occasione in questa Basilica di san Paolo fuori le Mura, luogo davvero significativo ed importante per i molti avvenimenti ecumenici degli ultimi decenni e soprattutto dell’anno giubilare 2000. La vostra presenza e la vostra partecipazione attiva insieme con noi, la nostra preghiera comune è per me il segno di una comunione che è cresciuta e continua a crescere, di un’amicizia promettente, un’occasione di gratitudine, di gioia e di speranza.
Cari fratelli e sorelle, noi tutti siamo ancora presi dalla profonda emozione suscitata dalla Giornata di Preghiera per la Pace di ieri ad Assisi. Un’esperienza veramente commovente, un evento che rimarrà impresso nei nostri cuori. Ringraziamo il Signore per averci donato questa esperienza, attraverso la quale Egli ci ha mostrato la sua presenza nel nostro mondo, nel nostro tempo malgrado e nonostante tutte le inquietudini, le preoccupazioni e le paure e ci ha riempito ancora una volta di speranza, ma allo stesso tempo ci ha impegnati nuovamente ad essere operatori di pace ed essere operatori di pace insieme.
2. Le parole del salmista risuonano come un’eco delle testimonianze e delle preghiere di Assisi. Veramente, Dio è la sorgente della vita! È necessario ricordare questa verità fondamentale, soprattutto dopo i tristi e tragici eventi dell’11 settembre, frutto ed espressione dei poteri della morte, della morte di migliaia di persone innocenti e una minaccia alla vita, ai valori e alla cultura della vita di tutta l’umanità, una minaccia alla pace e alla convivenza civile degli uomini, dei popoli, delle etnie, delle religioni e delle culture. Gli abissi dei poteri della morte e del male si sono dunque aperti.
Questi avvenimenti hanno mostrato la fragilità della nostra civilizzazione, hanno compromesso la certezza della nostra sicurezza. Abbiamo compreso ancora una volta il significato profondo del messaggio del profeta Geremia nell’Antico Testamento: « Dicono: « shalom!, shalom! », « pace! pace! », ma non c’è shalom, non c’è pace » (Ger 8, 14). « Aspettavamo (shalom) la pace, ma non c’è alcun bene » (Ger 8, 15). Nel corso della nostra vita, anche della nostra vita moderna con tutti i sui mezzi sofisticati, scientifici e tecnologici, siamo minacciati dalla morte.
Dov’è dunque la sorgente della vita? È questo il quesito che si pone l’uomo dei nostri giorni; è persino il desiderio, una fame ed una sete espressi da molti contemporanei. Il desiderio della vita, della vita vera, della pienezza della vita abita e vive in ogni cuore umano e molti, soprattutto molti giovani, sperimentano che una civilizzazione dell’avere e del piacere non basta, non sazia, non riempie il cuore, non dà la pace interiore, anzi, conduce ad una sfrenata, e allo stesso tempo frustrante, ricerca ad avere di più e sempre di più.
3. Ad Assisi abbiamo ascoltato un altro messaggio, il messaggio delle religioni, di tutte le religioni. Benché siano molte e così diverse fra loro, esse comunicano un messaggio comune: il mondo e la vita hanno un valore molto più grande di quello che si può vedere, di più di quello che si può toccare con mano, calcolare, fare, ottenere e manipolare, sono espressioni più alte, più profonde, più ricche.
« Gli uomini delle varie religioni – come dice il Concilio Vaticano II – attendono la risposta ai reconditi enigmi della condizione umana che ieri come oggi turbano profondamente il cuore dell’uomo: la natura dell’uomo, il senso e il fine della nostra vita, il bene e il peccato, l’origine e il fine del dolore, la via per raggiungere la vera felicità, la morte… infine l’ultimo e ineffabile mistero che circonda la nostra esistenza, donde noi traiamo la nostra origine e verso cui tendiamo » (Nostra aetate, 1). « Dai tempi più antichi fino ad oggi presso i vari popoli si trova una certa sensibilità di quella forza arcana che è presente al corso delle cose e agli avvenimenti della vita umana, ed anzi talvolta si riconosce la Divinità Suprema o anche il Padre » (ibidem, 2). Le religioni vogliono essere e mostrare vie alla vita, compenetrare la vita di un intimo senso religioso. La convinzione della santità della vita è un patrimonio comune delle religioni. Uccidere nel nome della religione è una bestemmia, un uso improprio ed una comprensione errata della religione. Per le religioni il divino o la divinità è sorgente di vita.
4. La Bibbia degli ebrei e dei cristiani con la sua fede nella creazione conferma, purifica e arricchisce questa convinzione religiosa. Dio ha creato, « il cielo e la terra e tutte le loro schiere » (Gen 2, 1). Dio, e Dio solo, è la sorgente della vita, una sorgente viva, zampillante, abbondante e traboccante. Lui ha creato tutto, compenetra tutto con il suo soffio di vita, Lui conserva tutto nella vita e Lui alla fine conduce tutto alla pienezza della vita. « In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo » (Atti 17, 28). Lui è – come la Bibbia ci dice – un « amante della vita » (Sap 11, 16).
Nell’Utimo libro della Bibbia è scritto: « Io sono l’Alfa e l’Omega, il Principio e la Fine. A colui che ha sete darò gratuitamente acqua della fonte della vita » (Ap 21, 6). Perciò alla fine « non ci sarà più lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate » (Ap 21, 4).
Cari fratelli e sorelle! Ciò di cui abbiamo bisogno oggi è di lottare per la vita e per la santità della vita. La nostra cultura moderna e postmoderna è una cultura secolarizzata che ha perduto la consapevolezza di Dio quale sorgente della vita. L’uomo stesso si è fatto maestro della vita e vuole oggettivare, analizzare, calcolare e manipolare tutto, e così riduce ogni cosa a oggetti morti, anche la vita umana diventa oggetto di calcolo economico.
Proprio perché Dio è la sorgente della vita e perché Dio vuole la pace, noi cristiani dobbiamo essere promotori, ed essere amanti della vita e divenire operatori della pace. Noi cristiani dobbiamo essere protagonisti di una nuova cultura della vita, del dono della vita, del rispetto per la santità della vita, dei valori e della priorità della vita in opposizione alle cose morte. Di fronte all’attuale situazione, alle attuali minacce e agli attuali problemi, i nostri conflitti confessionali sono una doppia vergogna. Noi, tutti i cristiani insieme con gli ebrei, dovremmo riscoprire la comune eredità della verità sulla creazione. Dovremmo stare insieme e dare una testimonianza comune di Dio, sorgente, custode e amante della vita, insieme dobbiamo cooperare per una nuova cultura della vita.
5. Cari fratelli e sorelle! Se riflettiamo sul verso del salmista « In te è la sorgente della vita » scopriamo ancora un’altra dimensione, un elemento distintivo che il Nuovo Testamento ci indica, la dimensione della nuova vita. Nel passaggio del Vangelo di san Giovanni che ci ha accompagnato durante questa settimana, l’incontro notturno di Gesù con un capo dei Giudei, Nicodemo (Gv 3, 1-17), alla sorpresa di Nicodemo, Gesù parla della necessità della nuova nascita da acqua e Spirito, della nascita alla vita nuova e alla vita eterna.
Dietro queste parole c’è la stessa esperienza a cui abbiamo già accennato, l’esperienza della fragilità e l’esperienza delle ferite profonde e delle deformazioni della vita umana, della debolezza e della nostra impotenza nel dare sicurezza e senso alla nostra vita. Dio ha creato il mondo e l’uomo « buoni », persino li ha creati molto buoni; ma l’uomo per il peccato si è distaccato, si è allontanato dalla sorgente della vita.
Nonostante ciò Dio è rimasto fedele alla sua creatura; Dio – come Gesù disse a Nicodemo – ama il mondo. Per questo ha manato il suo Figlio nel mondo. « In lui era la vita » (Gv 1, 4). Lui venne affinché noi avessimo la vita e l’avessimo in abbondanza (Gv 10, 10). Lui è « la via, la verità e la vita » (Gv 14, 5). È questa la spiegazione che Gesù offre a Nicodemo: Dopo che l’accesso al primo albero della vita nel paradiso è stato negato, nell’albero della croce è stato innalzato il nuovo albero della vita, « perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna » (Gv 3, 15). Perché chiunque beve dell’acqua che Gesù dà non avrà mai sete, anzi quest’acqua diventerà « sorgente di acqua che zampilla per la vita eterna » (Gv 4, 14). Tramite l’acqua del battesimo Dio è di nuovo sorgente della vita nuova; tramite il battesimo siamo partecipi della nuova vita, siamo fatti uomini (e donne) nuovi, nuova creatura, siamo rigenerati « per una speranza viva » (1 Pt 1, 3).
6. Ecco, cari fratelli e sorelle, questo è l’elemento fondante della fratellanza fra tutti i battezzati, fra tutti i cristiani. Ci sono differenze fra di noi; apparteniamo a Chiese e comunità ecclesiali diverse. Ma quello che ci unisce è più profondo e più forte di quello che ci divide. Nessuna differenza è tanto profonda e nessuna screpolatura tanto ampia e profonda da togliere o distruggere la nostra comunione più sincera e più piena.
Ecco spiegata la comunione reale e profonda di tutti i cristiani nonostante essi vivano in Chiese e comunità ecclesiali diverse. Ecco anche la differenza fra battezzati e non battezzati, fra il dialogo ecumenico, che si fa fra cristiani, e il dialogo interreligioso coi membri di religioni non cristiane. È una differenza qualitativa nel fondamento e anche una differenza qualitativa nello scopo. Mentre il dialogo interreligioso mira alla convivenza pacifica e rispettosa e all’amicizia, il dialogo ecumenico mira alla piena comunione e all’unità della Chiesa.
La lettera agli Efesini ha espresso questa nostra comunione cristiana: « Un solo corpo, un solo spirito, come una sola è la speranza alla quale siete stati chiamati, quella della vostra vocazione; un solo Signore, una sola fede, un solo battesimo. Un solo Dio Padre di tutti, che è al di sopra di tutti, agisce per mezzo di tutti ed è presente in tutti » (Ef 4, 4-6).
7. Ma correremmo il rischio di un gravissimo malinteso nella comprensione di questo alto inno alla nostra comunione, se dicessimo: « Siamo « okay »; siamo contenti; non c’è nulla da cambiare, possiamo rimanere come siamo ». No, assolutamente no! Se pensassimo così dimenticheremmo che Gesù e il Nuovo Testamento hanno parlato della vita nuova, dell’uomo nuovo, della creatura nuova.
Ogni giorno abbiamo bisogno di essere rinnovati, abbiamo bisogno di un rinnovamento personale e di un rinnovamento comunitario della Chiesa. Spesso noi tutti viviamo più in conformità alle leggi di questo mondo vecchio invece che in conformità alla legge nuova della nuova vita, il nuovo comandamento della carità.
Noi non siamo perfetti, e anche la Chiesa, benché santa, è una Chiesa di peccatori. Ciò diventa evidente se guardiamo alle nostre divisioni. Esse sono contro la volontà di Gesù; sono peccato.
Sono una contraddizione all’amore e alla fratellanza cristiana tutti i pensieri negativi, le parole cattive, i pregiudizi, le opere inique e le ingiustizie che avvenivano durante i secoli e che spesso sussistono anche oggi. « Ecclesia semper reformanda » è uno slogan protestante; « Ecclesia purificanda » asserisce il Concilio Vaticano II (Lumen gentium, 8). Le due affermazioni fanno da eco al concetto fondante e al fulcro della buona novella di Gesù sulla venuta del regno di Dio: « Convertitevi e credete al Vangelo » (Mc 1, 5).
La conversione è essenziale per l’esistenza cristiana e non c’è un ecumenismo autentico senza conversione, senza il desiderio di lasciarsi immergere nella novità del regno di Dio. Così ci insegna il Concilio Vaticano II (Unitatis redintegratio, 5-8) e così ribadisce il Papa nella sua enciclica ecumenica « Ut unum sint » (15-16; 33-35). Il movimento ecumenico è dapprima e soprattutto un movimento di conversione alla vita nuova. Ci vuole una purificazione della memoria, un modo di pensare nuovo, un cuore nuovo, una vera spiritualità ecumenica.
8. Sì, una rinnovata spiritualità ecumenica che è il cuore dell’ecumenismo ed è la chiave per un nuovo slancio ecumenico che ci permette di uscire dall’imbarazzo in cui ci troviamo e di fare un balzo in avanti. Occorre attingere continuamente alle sorgenti spirituali della vita: l’ascolto della parola di Dio, i sacramenti, la preghiera. Più ci avviciniamo a Cristo e al suo Vangelo della vita nuova, più ci avviciniamo gli uni agli altri. Soltanto se noi ci rinnoviamo, soltanto se diventiamo uomini (e donne) nuovi possiamo essere testimoni autentici della vita nuova in una cultura nuova della vita. Soltanto se viviamo la novità del Vangelo siamo in grado di essere testimoni della speranza e incoraggiare gli altri ad accompagnarci sul cammino lungo e faticoso, ma gioioso verso l’unità, affinché il mondo creda e trovi la via verso la pace e la fratellanza.
« In te è la sorgente della vita ». Questa frase, cari fratelli e sorelle, vale anche per il movimento ecumenico. Non noi, non il nostro sforzo, neanche il nostro entusiasmo, Dio solo è la sorgente di un ecumenismo nuovo, di una Chiesa rinnovata per essere testimoni di una cultura nuova e per essere operatori di pace. « Vieni Santo Spirito e rinnova i cuori dei tuoi fedeli ». Amen.

 

IMPERO E PACE NEL PENSIERO DEI CRISTIANI DEI PRIMI SECOLI

http://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Siniscalco-Impero-romano-pace-cristiani.htm

PAOLO SINISCALCO
Università di Roma “La Sapienza”

IMPERO E PACE NEL PENSIERO DEI CRISTIANI DEI PRIMI SECOLI

SOMMARIO: 1. La pace per i cristiani. – 2. La linea negativa. – 2.1. Il Tardo Giudaismo. – 2.2. L’Apocalisse canonica. – 2.3. Le espressioni della più antica letteratura. – 3. La linea positiva. – 3.1. I Vangeli, gli Atti degli Apostoli, Paolo. – 3.2. Gli scrittori del II secolo. – 3.3. Il servizio nell’esercito. – 4. La pace costantiniana. – 4.1. L’interpretazione di Eusebio di Cesarea. – 4.2. Il rapporto Impero-Chiesa.

1. – La pace per i cristiani
La pace per i primi cristiani è intesa prevalentemente non in senso giuridico-politico, ma in senso spirituale, ha una dimensione di interiorità, scaturisce dal cuore dell’uomo riconciliato con Dio, è dono di Dio e presuppone la certezza di essere stati redenti e salvati da Cristo che ha adempiuto le rivelazioni di pace espresse dai profeti nell’Antico Testamento. Dalla pace interiore nasce la pace esteriore che bisogna innanzitutto regni nella Chiesa, comunità dei credenti; una tale pace, occorre dire, spesso tradita e non sufficientemente ricercata e realizzata nel corso del tempo, consente e promuove l’unità di culto e di fede. Ma la pace per i cristiani è anche quella che si spera di godere dopo la morte e nel regno eterno di Dio (o già prima, nel regno messianico, per i Millenaristi)[1].
Nondimeno per i cristiani dei primi secoli, nel vasto campo semantico ricoperto dal termine, è inclusa anche e necessariamente la pace e la concordia entro il corpo della civitas.
Proprio a questo ambito ci si vuole rivolgere in questa occasione, precisamente per interrogarsi sul modo con cui essi guardano all’Impero romano in rapporto alla pace.

2. – La linea negativa
2.1. – Il Tardo Giudaismo
Per iniziare è utile, se non necessario, considerare la storia e la letteratura (con particolare riferimento al genere profetico e apocalittico) del Tardo Giudaismo. In questo ambito si manifesta una linea negativa verso Roma e il suo Impero
Fin dal I secolo a.C. Israele si accorge che l’Impero romano, con l’esercizio del suo potere, sta minacciando da vicino la religione giudaica. Accanto ad atti di insubordinazione e di ribellione cominciano a diffondersi scritti significativi. Nel 63 a.C. l’invasione della Palestina compiuta dai romani sotto la guida di Pompeo si conclude con l’occupazione di Gerusalemme e la profanazione del Tempio. L’episodio lascia una traccia profonda nell’animo dei giudei. Da quel momento l’impero occidentale è tenuto alla stregua di una potenza antagonista. Si fanno eco di questa idea i Salmi di Salomone, composti intorno alla metà del I secolo a.C., riprendendo un motivo della tradizione profetica: i prìncipi pagani sono destinati a subire una punizione divina, giacché nel tempo opportuno verrà un discendente di David che li sconfiggerà, giudicherà tutti i popoli nella saggezza della sua giustizia e instaurerà un regno messianico ed eterno (cf. Ps 17.26 ss.). È il primo passo, legato a circostanze storiche precise, che prepara e giustifica gli sviluppi successivi dell’apocalittica giudaica.
Si pensi all’Apocalisse siriaca di Baruch, composta dopo il 70 d.C., centrata sugli avvenimenti relativi alla presa di Gerusalemme da parte dell’esercito romano, in cui appare l’immagine dei quattro regni, a cui già Daniele era ricorso, per sottolineare che il quarto regno è il più duro e spietato, destinato ad avere una lunga egemonia fino alla fine del tempo e quindi alla venuta del Messia liberatore. Il nome del quarto regno è taciuto, ma non si è lontani dal vero se lo si identifica con l’Impero dei romani.
Analoga visione è manifestata nel IV libro di Esdra, altro scritto apocalittico giudaico composto verso la fine del I secolo d.C. L’immagine dei quattro regni ricorre del resto non solo nell’apocalittica, ma anche nella letteratura rabbinica[2], ove l’avversario è più specificamente individuato in una potenza insediata in Palestina.
Si possono menzionare ancora gli Oracoli sibillini nei quali il tema della caduta di Roma ha un posto privilegiato. Essi hanno origine per la gran parte nel I-II secolo d.C. e raccolgono materiali pagani, giudaici e cristiani di natura storica, politica e religiosa. Essi fanno di nuovo presente lo schema dei quattro imperi e, parlando del quarto, mettono in evidenza sia le cause che gli effetti della sua rovina[3]. La fine di Roma è dunque data per certa per il prevalere delle leggi che regolano la storia e per l’intervento stesso di Dio la cui azione, a tempo opportuno, vince i nemici dei giusti e realizza per questi ultimi il regno di eterna beatitudine.
Non sfugga d’altra parte il costituirsi nel I secolo d.C. nell’ambito del giudaismo palestinese di gruppi religiosi radicali, specialmente di galilei che danno vita a un movimento di resistenza contro Roma (cf. Atti degli apostoli 21.38; 5.36-37): animati da una concezione messianica dalle tinte politiche, si propongono la liberazione dal dominio romano, anche ricorrendo alla violenza armata sono i Sicari (per i quali rimane aperto il problema di sapere se debbano essere identificati con gli zeloti).

2.2. – L’Apocalisse canonica
Fin qui si è parlato dell’Impero percepito negativamente da una parte delle società e della letteratura giudaica tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., e non si è parlato della pace. Ma il breve excursus ora fatto serve a meglio inquadrare le posizioni dei cristiani a riguardo dei nostri temi. Si delineano infatti nell’ambito delle comunità dei fedeli a Cristo due linee divergenti. La prima prosegue in certo modo le tracce ora messe in luce. In proposito è qui necessario fare un cenno all’Apocalisse di Giovanni, non senza notare subito che le figure e le immagini proposte da questo scritto sono state fin dall’antichità interpretate in modo molteplice e vario. È un fatto però che la maggior parte dei commentatori dall’antichità ad oggi hanno visto nella quarta bestia che sale dal mare (cf. Apoc. 13.1 ss.) l’Impero romano; ancora meglio, secondo alcuni studiosi, essa si riferirebbe alla struttura politica, militare e amministrativa dell’Impero, mentre la bestia che sale dalla terra (cf. Apoc. 13.11, ma vd. pure Dan. 7.1 ss.) si riferirebbe all’organizzazione del culto imperiale che avrebbe avuto nell’Asia Minore uno dei centri di più intensa espansione. Ma non tutti i commentatori sono d’accordo con le interpretazioni dei particolari. Un’altra figura è stata da numerosi commentatori assimilata al potere imperiale romano e alla città di Roma, quella della prostituta che siede sopra una fiera scarlatta (cf. Apoc. 17.1 ss.). Giovanni avrebbe atteso in tempi brevi il crollo della potenza occidentale che avrebbe coinciso con la fine del mondo. All’Urbs ha fatto pensare anche la donna ubriaca del sangue dei santi e del sangue di quelli che sono morti per la fede in Gesù (cf. Apoc. 17.6) in cui parecchi critici hanno scorto il riferimento alle persecuzioni di Nerone e di Domiziano contro i cristiani. E si potrebbe continuare. I versetti 17.9-10 («Le sette teste sono i sette colli (o i sette monti) sui quali la donna è seduta. Sono anche sette re») sono stati considerati come allusione alla città di Roma. Pertanto cui si può dire che secondo l’opinione di interpreti antichi e moderni generalmente Giovanni è stato visto come rappresentante di una posizione critica e negativa verso Roma.

2.3. – Le espressioni della più antica letteratura
I segni così incisivamente tracciati dall’apocalittica di ritrovano, a cominciare dal II secolo d.C., nella letteratura cristiana. Nell’Epistola dello Pseudo-Barnaba (4.1 ss.) la citazione delle parole del profeta Daniele sulla quarta bestia che sale dal mare manifesta l’intenzione di richiamare la figura e l’opera negativa di imperatori romani del I secolo o dell’inizio del II. Interpretazioni che sono riprese da Ippolito nel Commento a Daniele ove si giunge a indicare la data esatta in cui avrà fine la potenza romana, assimilata ancora e sempre alla quarta bestia di cui parla il profeta: 500 anni dopo la nascita di Cristo. Alla fine del III secolo Vittorino di Poetovium nel Commento all’Apocalisse senza incertezze individua nella città di Roma la figura della donna dell’Apocalisse (cf. 17.9) e spiega il senso delle parole che seguono (cf. Apoc. 17.10 ss.): i cinque imperatori romani ormai caduti sono Tito, Vespasiano, Ottone, Vitellio e Galba; il sesto, che detiene il potere nel periodo in cui è composto l’ultimo libro neotestamentario, è Domiziano; il settimo ,infine, del quale si dice che durerà per breve tempo (come in realtà avviene, non prolungandosi la sua egemonia oltre un biennio), è Nerva. Nelle prime decadi del IV secolo Lattanzio nelle Divinae Institutiones torna a insistere sul motivo della fine dell’Impero romano in un quadro tracciato a linee cupe.
Così prende forma la tradizione negativa su Roma che ha la propria origine diretta o indiretta nella tradizione profetica e apocalittica tardo-giudaica e cristiana.

3. – La linea positiva
3.1. – I Vangeli, gli Atti degli Apostoli, Paolo
Accanto a questa si fa luce un’altra linea destinata a prevalere. Occorre intanto osservare che nei Vangeli canonici non si manifestano atteggiamenti contro l’Impero romano. Stando al Vangelo di Luca (cf. 3.14), quando a Giovanni Battista si rivolgono alcuni agenti delle tasse per chiedere che cosa debbano fare, egli risponde che non devono prendere niente più di quanto è stabilito dalla legge e ad alcuni soldati che chiedono la medesima cosa egli dice di non impossessarsi di beni altrui con la violenza o con false accuse, ma di accontentarsi delle loro paghe. E si sa che pubblicani e militari – evidentemente romani – erano categorie mal giudicate dai giudei del tempo. Anche Gesù non condanna mai il servizio nell’esercito. Dai Vangeli siamo a conoscenza di due episodi significativi in proposito: quello del centurione che in Cafarnao chiede l’aiuto del Signore per il suo servo paralizzato (cf. Matteo 8.5 ss.; vd. pure Luca 7.2 ss.) e quello del centurione che ai piedi della croce fa la guardia a Gesù morente (cf. Matteo 27.54; Marco 15.39; Luca 23.47. Proprio questi due centurioni rendono palese il “segreto messianico” di Gesù, il mistero della sua persona e lo annunciano al mondo pagano: «Signore, io non sono degno che tu entri a casa mia, (…), ma di’ anche solo una parola e il mio servo certamente guarirà» (Luca 7.6 s.), esclama l‘ufficiale romano di Cafarnao; e l’ufficiale sul Golgota, accortosi del terremoto e di tutto quanto accadeva, pieno di spavento dice: «Quest’uomo era veramente il Figlio di Dio» ( Matteo 27.54).
Gli Atti degli Apostoli (cf. 10.1 ss.) a loro volta riferiscono di Cornelio, centurione della coorte Italica, “uomo pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia”, il quale un giorno vede apparirgli un angelo che gli dice essere state esaudite le sue preghiere e gli suggerisce di mandare uomini a Giaffa per fare venire presso di lui Simone Pietro. Cornelio ubbidisce. Pietro viene, non prima di avere avuto pure lui una visione; annuncia al centurione e ai suoi la ”buona novella della pace”, assiste alla discesa dello Spirito santo su tutti coloro che avevano ascoltato il suo discorso, circoncisi o pagani che fossero, ed ordina che tutti siano battezzati nel nome di Gesù. Dunque, nell’ottica di Luca, che scrive gli Atti, di nuovo un ufficiale romano segna un momento decisivo della storia della salvezza. L’apertura della missione al mondo dei pagani e quindi l’entrata dei non giudei nel nuovo popolo che si stava componendo: si tratta della “pentecoste dei pagani”, come è stata definita[4].
Una chiara affermazione di lealismo dei cristiani nei confronti delle autorità costituite si trova poi in una delle lettere sicuramente autentiche di Paolo, la lettera ai Romani, scritta probabilmente da Corinto nel 54 o nel 56-57, che risulta perciò essere uno dei più antichi documenti della letteratura cristiana. Scrive l’apostolo: «Ognuno sia sottomesso a chi ha ricevuto autorità, perché non c’è autorità che non venga da Dio (…). Fa’ il bene e le autorità ti loderanno, perché sono al servizio di Dio per il tuo bene (…). Ecco bisogna stare sottomessi all’autorità, non soltanto per paura delle punizioni, ma anche per una ragione di coscienza. È la stessa ragione per cui pagate le tasse: difatti mentre assolvono il loro incarico sono al servizio di Dio. Date a ciascuno ciò che gli è dovuto: l’imposta, le tasse, il timore, il rispetto, a ciascuno quel che gli dovete dare» (Rom. 13.1 ss.).
L’attitudine positiva espressa ripetutamente e con chiarezza verso le autorità politiche civili in scritti dapprima altamente considerati e poi, con il formarsi del primo canone scritturale, ritenuti pieni di autorevolezza, anzi di autorità, perché ispirati da Dio, ha indotto le comunità cristiane a mutare quella posizione presente, in una parte dei suoi membri, di insubordinazione o almeno di contestazione e di insofferenza verso quello che impropriamente oggi diremmo lo ‘stato’ romano.

3.2. – Gli scrittori del II secolo
Gli scrittori cristiani nel II secolo, coloro che di consueto sono denominati Apologeti, quando si accingono a rappresentare le idee e le norme morali scaturite dall’euaggelion di fronte al mondo pagano, avvertono che l’Impero romano, con la sua organizzazione civile e politica facilita la diffusione del cristianesimo; essa infatti ha realizzato l’unità dell’oikoumene e vi ha fatto regnare la pace.
Così intorno al 150 Giustino, indirizzando la sua Apologia a Antonino Pio (138-161), Marco Aurelio (161-180) e Lucio Vero (161-169) dopo essersi difeso dalle accuse rivolte ai fedeli di Cristo da parte della società pagana, aggiunge: «Siamo vostri collaboratori e alleati per la pace più di tutti gli altri uomini (…). Riteniamo che ciascuno si incammini verso la condanna eterna oppure verso la salvezza per il merito delle azioni. Se tutti gli uomini conoscessero queste cose, nessuno, neppure per poco tempo, sceglierebbe ciò che è male, sapendo di andare alla pena eterna nel fuoco»[5]. Pochi anni dopo Atenagora loda gli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero ed osserva che per la loro saggezza l’Impero gode di una pace profonda; egli li dice pacificatori delle terre abitate, ma in pari tempo chiede che non perseguitino i cristiani, ma li includano nel quadro del loro governo[6]. Melitone di Sardi, rivolgendosi ancora a Marco Aurelio intorno al 170, nota che la ‘filosofia’ cristiana, avendo cominciato a diffondersi in mezzo ai popoli sotto il regno di Augusto, era nata e si era sviluppata con l’Impero[7]: un’affermazione notevole perché mette in luce la coincidenza temporale tra il regnare della Pax Augusta e la contemporanea diffusione del messaggio di Cristo[8]. Del resto già prima di lui altri apologeti avevano evitato di marcare una frattura tra la tradizione pagana e l’annuncio cristiano; il fatto stesso che Melitone e Giustino assumano il termine ‘filosofia’ per indicare la religione da loro professata è un segno di un tale atteggiamento. Verso la fine del II secolo Ireneo, vescovo di Lione, scrive che grazie ai Romani il mondo gode della pace e non manca di mettere in evidenza che per questo, senza timore, ci si sposta e si naviga dovunque si voglia, lui originario dell’Asia Minore che diviene vescovo di una città della Gallia meridionale[9]. Origene, entro il quadro di un discorso più complesso e sfumato, riprende e rende più esplicita quell’idea: egli confronta la pace di Cristo con la pace recata al mondo da Roma e afferma che questa è diventata la condizione necessaria perché il Vangelo possa essere annunciato a tutte le genti[10].
Non stupisce dunque di riscontrare nei medesimi autori menzionati dichiarazioni di lealismo e di ubbidienza alle leggi. Fin dalla fine del I secolo Clemente di Roma prega perché il Signore doni salute, pace, stabilità a chi governa perché sia in grado di esercitare in modo irreprensibile l’ufficio datogli dal Signore stesso. E come Clemente, altri da Teofilo di Antiochia a Tertulliano, ad Origene, raccomandano di pregare per l’imperatore, purché questi, come si vedrà più oltre, non pretenda il culto e l’adorazione. D’altronde già l’apostolo Paolo aveva aperto la strada, raccomandando perché fossero fatte simili preghiere[11].

3.3. – Il servizio nell’esercito
Riconoscere la funzione pacificatrice svolta dall’Impero comportava la necessità di servire nei ranghi di quel medesimo Impero, anche come soldati. Ma l’essere soldato esigeva anche l’eventualità di combattere e di uccidere il nemico contro cui si combatteva. Taluni critici moderni hanno sottolineato l’incoerenza di una tale posizione denunciata d’altronde dai pagani: si è detto che i cristiani avrebbero voluto godere dei benefici derivanti dall’ordinamento politico senza d’altra parte contribuire al suo mantenimento[12]. Negli ultimi decenni gli studi hanno meglio precisato i molti problemi connessi a questo aspetto che si rivela complesso. Intanto si deve osservare che i cristiani, secondo una documentazione fondata erano certamente presenti nell’esercito romano nelle ultime decadi del II secolo. Tertulliano[13] nel 197-198 menziona una lettera di Marco Aurelio nella quale si attesta che la grande sete, pericolosamente sofferta dall’esercito romano in Germania[14], fu placata dalle preghiere di soldati cristiani. Questa almeno è la versione di Tertulliano, che non ha visto la lettera dell’imperatore, (egli però afferma che tale lettera la si può cercare negli archivi del Senato a cui sarebbe stata indirizzata); si sa che il fatto è riferito anche da altre fonti cristiane e pagane[15] (le quali ultime danno il merito del prodigio alle divinità pagane). Anche alcune iscrizioni risalenti agli stessi anni (180-190) confermano la presenza di cristiani tra i soldati dell’esercito romano.
Certamente la questione del servire nell’esercito doveva porre problemi non facilmente risolvibili tanto che, per quanto possiamo saperne, si vennero a delineare sia a livello del pensiero sia a quello della prassi molteplici posizioni che non sembrano avere avuto dimensioni omogenee, essendo legate – in epoca precostantiniana – ad aree geografiche ed a Chiese determinate. Intanto occorre osservare che si proponevano casi diversi: il primo era quello di chi, già inquadrato nella vita militare, si convertiva; il secondo era quello di chi appartenente alla comunità ecclesiale, intraprendeva la carriera militare; il terzo di chi obbligatoriamente era arruolato. Le difficoltà gravi che per un cristiano si ponevano erano da una parte la necessità di combattere e quindi essere messo nella condizione di uccidere; dall’altra, nel quadro della vita militare, di dovere prestare atti idolatrici. Ma non è il caso di seguire le vicende dei singoli, quelle almeno delle quali si siano conservate le testimonianze. È un fatto che certi ambienti dell’Africa settentrionale tengono verso la violenza una linea rigorosamente negativa. Ne sono testimoni Tertulliano e più ancora, Arnobio e Lattanzio, i quali a più riprese esprimono idee intransigenti contro il servizio militare, la violenza e la guerra[16], forse sotto la spinta di influssi montanistici[17]. Ed è pure un fatto che ogni atto idolatrico connesso alla vita militare – come a quella politica e civile – è condannato. Già si vedeva come le comunità cristiane non abbiano avuto difficoltà a pregare anche pubblicamente per gli imperatori perché questi avessero vita lunga, eserciti forti, un senato fedele, un popolo onesto, un mondo in pace[18]. Mentre netto è il loro rifiuto per ogni pretesa sacralizzante dei ‘Cesari’ e per ogni atto di culto verso le divinità pubbliche. «Certamente – scrive un autore già ricordato, Tertulliano[19] – riconoscerò all’imperatore il titolo di ‘signore’ (dominus) (…); se però non mi si costringa a chiamarlo così al posto di Dio. Per il resto io sono libero di fronte all’imperatore: infatti il mio Signore è uno solo, Dio onnipotente ed eterno, che è il medesimo Dio dell’imperatore».

4. – La pace costantiniana
4.1. – L’interpretazione di Eusebio di Cesarea
La svolta costantiniana, preceduta e preparata dall’editto di Galerio, non si può dire, a mio avviso, che abbia mutato la posizione dei cristiani rispetto allo ‘stato’ ed alla questione della pace[20]. Certamente ha fatto cadere quella parte della polemica fino allora sostenuta contro l’idolatria, mentre ha permesso di sviluppare grandemente la linea positiva, presente fin dalla metà del I secolo d.C. La giustificazione ideologica e teologica della nuova situazione storica la fornisce Eusebio di Cesarea, nell’interpretazione che egli dà appunto dell’Impero romano e della figura di Costantino.
Come abbiamo visto, fino dal II-III secolo molti cristiani avevano rilevato che il diffondersi del cristianesimo era dovuto anche al diffondersi tra i popoli di quella concordia che l’Impero di Roma aveva saputo instaurare e mantenere per lungo tempo. Ora dopo che l’imperatore ha dato a loro libertà di esistere, Eusebio allarga enormemente la prospettiva, portandola su un piano di teologia politica. Il vescovo di Cesarea asserisce che nel tempo stesso in cui Cristo insegnava che c’è la ‘monarchia’ di un solo Dio, il genere umano era liberato dall’azione dei demoni e dalla molteplicità dei governi nazionali. Secondo le sue parole, «la divisione del potere presso i Romani era scomparsa di fatto quando Augusto aveva stabilito una monarchia, nel momento stesso dell’apparizione del (…) Salvatore. Da allora fino ai giorni nostri non si sono più viste più città in guerra con città e popoli in lotta con popoli (…). Con la predicazione (…) del Salvatore si è attuata la distruzione dell’errore politeista e i dissidi tra le nazioni, con i loro antichi flagelli, sono cessati»[21].
È stato osservato[22] che lo scrittore antico non stabilisce solo un rapporto tra Impero romano e pace, ma tra Impero romano, pace e cristianesimo e che la pax romana in questo quadro assume un significato religioso più che un significato politico, è una missione divina della pace.
Altrettanto interessante è la connessione tra monoteismo e monarchia e tra politeismo e poliarchia, posto che la pace è segno e effetto della monarchia, la guerra e la divisione segno e effetto della poliarchia, un’idea che già aveva trovato qualche espressione in precedenti scrittori cristiani.

4.2. – Il rapporto Impero-Chiesa
Ciò che muta interamente è la posizione dell’Impero, o meglio, dell’imperatore verso la Chiesa. Le prime decadi del IV secolo rappresentano un momento epocale del costituirsi della civiltà cristiana. Per Costantino Impero e Chiesa si fanno come coincidenti e coestesi. Egli ritiene l’unità delle Chiese nella fede universale e la loro unità un’esigenza di ordine pubblico cui l’imperatore provvede indicendo concilii e intervenendo con la legislazione per condannare chi attenta a quell’unità a tutela dell’ortodossia. Non a caso egli dà a se stesso il titolo di episkopos tôn ektos, ossia ‘vescovo di coloro che sono fuori’ (della Chiesa). Appare dunque la ragion di stato nell’intreccio tra potere imperiale e cristianesimo. La metafora del Regno di Dio che nella predicazione di Gesù non ha alcuna implicazione politica diviene una metafora politica attiva. L’attesa escatologica delle prime generazioni cristiane è ormai lontana[23]. Il «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio», vale a dire la distinzione – più che la separazione – indicata da Gesù tra due sfere diverse (ma complementari) rimane offuscata, se non cancellata.
E qui concludo questa mia breve panoramica che ha voluto proporre qualche testo e indicare qualche riflessione sul modo con cui i primi cristiani hanno guardato al rapporto tra l’Impero romano e la pace e fino a Costantino e al modo ‘rivoluzionario’ con cui questi (assecondato certo dall’interpretazione eusebiana), ha impostato il suo rapporto con la Chiesa cristiana. Sono le prime fasi di una storia che attraverso i tempi, fino ad oggi, ha visto il proporsi di differenti concezioni e di molteplici sviluppi che hanno segnato da vicino il processo costitutivo della nostra civiltà.

 

PAOLO SINISCALCO
Università di Roma “La Sapienza”

IMPERO E PACE NEL PENSIERO DEI CRISTIANI DEI PRIMI SECOLI

SOMMARIO: 1. La pace per i cristiani. – 2. La linea negativa. – 2.1. Il Tardo Giudaismo. – 2.2. L’Apocalisse canonica. – 2.3. Le espressioni della più antica letteratura. – 3. La linea positiva. – 3.1. I Vangeli, gli Atti degli Apostoli, Paolo. – 3.2. Gli scrittori del II secolo. – 3.3. Il servizio nell’esercito. – 4. La pace costantiniana. – 4.1. L’interpretazione di Eusebio di Cesarea. – 4.2. Il rapporto Impero-Chiesa.

1. – La pace per i cristiani
La pace per i primi cristiani è intesa prevalentemente non in senso giuridico-politico, ma in senso spirituale, ha una dimensione di interiorità, scaturisce dal cuore dell’uomo riconciliato con Dio, è dono di Dio e presuppone la certezza di essere stati redenti e salvati da Cristo che ha adempiuto le rivelazioni di pace espresse dai profeti nell’Antico Testamento. Dalla pace interiore nasce la pace esteriore che bisogna innanzitutto regni nella Chiesa, comunità dei credenti; una tale pace, occorre dire, spesso tradita e non sufficientemente ricercata e realizzata nel corso del tempo, consente e promuove l’unità di culto e di fede. Ma la pace per i cristiani è anche quella che si spera di godere dopo la morte e nel regno eterno di Dio (o già prima, nel regno messianico, per i Millenaristi)[1].
Nondimeno per i cristiani dei primi secoli, nel vasto campo semantico ricoperto dal termine, è inclusa anche e necessariamente la pace e la concordia entro il corpo della civitas.
Proprio a questo ambito ci si vuole rivolgere in questa occasione, precisamente per interrogarsi sul modo con cui essi guardano all’Impero romano in rapporto alla pace.

2. – La linea negativa
2.1. – Il Tardo Giudaismo
Per iniziare è utile, se non necessario, considerare la storia e la letteratura (con particolare riferimento al genere profetico e apocalittico) del Tardo Giudaismo. In questo ambito si manifesta una linea negativa verso Roma e il suo Impero
Fin dal I secolo a.C. Israele si accorge che l’Impero romano, con l’esercizio del suo potere, sta minacciando da vicino la religione giudaica. Accanto ad atti di insubordinazione e di ribellione cominciano a diffondersi scritti significativi. Nel 63 a.C. l’invasione della Palestina compiuta dai romani sotto la guida di Pompeo si conclude con l’occupazione di Gerusalemme e la profanazione del Tempio. L’episodio lascia una traccia profonda nell’animo dei giudei. Da quel momento l’impero occidentale è tenuto alla stregua di una potenza antagonista. Si fanno eco di questa idea i Salmi di Salomone, composti intorno alla metà del I secolo a.C., riprendendo un motivo della tradizione profetica: i prìncipi pagani sono destinati a subire una punizione divina, giacché nel tempo opportuno verrà un discendente di David che li sconfiggerà, giudicherà tutti i popoli nella saggezza della sua giustizia e instaurerà un regno messianico ed eterno (cf. Ps 17.26 ss.). È il primo passo, legato a circostanze storiche precise, che prepara e giustifica gli sviluppi successivi dell’apocalittica giudaica.
Si pensi all’Apocalisse siriaca di Baruch, composta dopo il 70 d.C., centrata sugli avvenimenti relativi alla presa di Gerusalemme da parte dell’esercito romano, in cui appare l’immagine dei quattro regni, a cui già Daniele era ricorso, per sottolineare che il quarto regno è il più duro e spietato, destinato ad avere una lunga egemonia fino alla fine del tempo e quindi alla venuta del Messia liberatore. Il nome del quarto regno è taciuto, ma non si è lontani dal vero se lo si identifica con l’Impero dei romani.
Analoga visione è manifestata nel IV libro di Esdra, altro scritto apocalittico giudaico composto verso la fine del I secolo d.C. L’immagine dei quattro regni ricorre del resto non solo nell’apocalittica, ma anche nella letteratura rabbinica[2], ove l’avversario è più specificamente individuato in una potenza insediata in Palestina.
Si possono menzionare ancora gli Oracoli sibillini nei quali il tema della caduta di Roma ha un posto privilegiato. Essi hanno origine per la gran parte nel I-II secolo d.C. e raccolgono materiali pagani, giudaici e cristiani di natura storica, politica e religiosa. Essi fanno di nuovo presente lo schema dei quattro imperi e, parlando del quarto, mettono in evidenza sia le cause che gli effetti della sua rovina[3]. La fine di Roma è dunque data per certa per il prevalere delle leggi che regolano la storia e per l’intervento stesso di Dio la cui azione, a tempo opportuno, vince i nemici dei giusti e realizza per questi ultimi il regno di eterna beatitudine.
Non sfugga d’altra parte il costituirsi nel I secolo d.C. nell’ambito del giudaismo palestinese di gruppi religiosi radicali, specialmente di galilei che danno vita a un movimento di resistenza contro Roma (cf. Atti degli apostoli 21.38; 5.36-37): animati da una concezione messianica dalle tinte politiche, si propongono la liberazione dal dominio romano, anche ricorrendo alla violenza armata sono i Sicari (per i quali rimane aperto il problema di sapere se debbano essere identificati con gli zeloti).

2.2. – L’Apocalisse canonica
Fin qui si è parlato dell’Impero percepito negativamente da una parte delle società e della letteratura giudaica tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., e non si è parlato della pace. Ma il breve excursus ora fatto serve a meglio inquadrare le posizioni dei cristiani a riguardo dei nostri temi. Si delineano infatti nell’ambito delle comunità dei fedeli a Cristo due linee divergenti. La prima prosegue in certo modo le tracce ora messe in luce. In proposito è qui necessario fare un cenno all’Apocalisse di Giovanni, non senza notare subito che le figure e le immagini proposte da questo scritto sono state fin dall’antichità interpretate in modo molteplice e vario. È un fatto però che la maggior parte dei commentatori dall’antichità ad oggi hanno visto nella quarta bestia che sale dal mare (cf. Apoc. 13.1 ss.) l’Impero romano; ancora meglio, secondo alcuni studiosi, essa si riferirebbe alla struttura politica, militare e amministrativa dell’Impero, mentre la bestia che sale dalla terra (cf. Apoc. 13.11, ma vd. pure Dan. 7.1 ss.) si riferirebbe all’organizzazione del culto imperiale che avrebbe avuto nell’Asia Minore uno dei centri di più intensa espansione. Ma non tutti i commentatori sono d’accordo con le interpretazioni dei particolari. Un’altra figura è stata da numerosi commentatori assimilata al potere imperiale romano e alla città di Roma, quella della prostituta che siede sopra una fiera scarlatta (cf. Apoc. 17.1 ss.). Giovanni avrebbe atteso in tempi brevi il crollo della potenza occidentale che avrebbe coinciso con la fine del mondo. All’Urbs ha fatto pensare anche la donna ubriaca del sangue dei santi e del sangue di quelli che sono morti per la fede in Gesù (cf. Apoc. 17.6) in cui parecchi critici hanno scorto il riferimento alle persecuzioni di Nerone e di Domiziano contro i cristiani. E si potrebbe continuare. I versetti 17.9-10 («Le sette teste sono i sette colli (o i sette monti) sui quali la donna è seduta. Sono anche sette re») sono stati considerati come allusione alla città di Roma. Pertanto cui si può dire che secondo l’opinione di interpreti antichi e moderni generalmente Giovanni è stato visto come rappresentante di una posizione critica e negativa verso Roma.

2.3. – Le espressioni della più antica letteratura
I segni così incisivamente tracciati dall’apocalittica di ritrovano, a cominciare dal II secolo d.C., nella letteratura cristiana. Nell’Epistola dello Pseudo-Barnaba (4.1 ss.) la citazione delle parole del profeta Daniele sulla quarta bestia che sale dal mare manifesta l’intenzione di richiamare la figura e l’opera negativa di imperatori romani del I secolo o dell’inizio del II. Interpretazioni che sono riprese da Ippolito nel Commento a Daniele ove si giunge a indicare la data esatta in cui avrà fine la potenza romana, assimilata ancora e sempre alla quarta bestia di cui parla il profeta: 500 anni dopo la nascita di Cristo. Alla fine del III secolo Vittorino di Poetovium nel Commento all’Apocalisse senza incertezze individua nella città di Roma la figura della donna dell’Apocalisse (cf. 17.9) e spiega il senso delle parole che seguono (cf. Apoc. 17.10 ss.): i cinque imperatori romani ormai caduti sono Tito, Vespasiano, Ottone, Vitellio e Galba; il sesto, che detiene il potere nel periodo in cui è composto l’ultimo libro neotestamentario, è Domiziano; il settimo ,infine, del quale si dice che durerà per breve tempo (come in realtà avviene, non prolungandosi la sua egemonia oltre un biennio), è Nerva. Nelle prime decadi del IV secolo Lattanzio nelle Divinae Institutiones torna a insistere sul motivo della fine dell’Impero romano in un quadro tracciato a linee cupe.
Così prende forma la tradizione negativa su Roma che ha la propria origine diretta o indiretta nella tradizione profetica e apocalittica tardo-giudaica e cristiana.

3. – La linea positiva
3.1. – I Vangeli, gli Atti degli Apostoli, Paolo
Accanto a questa si fa luce un’altra linea destinata a prevalere. Occorre intanto osservare che nei Vangeli canonici non si manifestano atteggiamenti contro l’Impero romano. Stando al Vangelo di Luca (cf. 3.14), quando a Giovanni Battista si rivolgono alcuni agenti delle tasse per chiedere che cosa debbano fare, egli risponde che non devono prendere niente più di quanto è stabilito dalla legge e ad alcuni soldati che chiedono la medesima cosa egli dice di non impossessarsi di beni altrui con la violenza o con false accuse, ma di accontentarsi delle loro paghe. E si sa che pubblicani e militari – evidentemente romani – erano categorie mal giudicate dai giudei del tempo. Anche Gesù non condanna mai il servizio nell’esercito. Dai Vangeli siamo a conoscenza di due episodi significativi in proposito: quello del centurione che in Cafarnao chiede l’aiuto del Signore per il suo servo paralizzato (cf. Matteo 8.5 ss.; vd. pure Luca 7.2 ss.) e quello del centurione che ai piedi della croce fa la guardia a Gesù morente (cf. Matteo 27.54; Marco 15.39; Luca 23.47. Proprio questi due centurioni rendono palese il “segreto messianico” di Gesù, il mistero della sua persona e lo annunciano al mondo pagano: «Signore, io non sono degno che tu entri a casa mia, (…), ma di’ anche solo una parola e il mio servo certamente guarirà» (Luca 7.6 s.), esclama l‘ufficiale romano di Cafarnao; e l’ufficiale sul Golgota, accortosi del terremoto e di tutto quanto accadeva, pieno di spavento dice: «Quest’uomo era veramente il Figlio di Dio» ( Matteo 27.54).
Gli Atti degli Apostoli (cf. 10.1 ss.) a loro volta riferiscono di Cornelio, centurione della coorte Italica, “uomo pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia”, il quale un giorno vede apparirgli un angelo che gli dice essere state esaudite le sue preghiere e gli suggerisce di mandare uomini a Giaffa per fare venire presso di lui Simone Pietro. Cornelio ubbidisce. Pietro viene, non prima di avere avuto pure lui una visione; annuncia al centurione e ai suoi la ”buona novella della pace”, assiste alla discesa dello Spirito santo su tutti coloro che avevano ascoltato il suo discorso, circoncisi o pagani che fossero, ed ordina che tutti siano battezzati nel nome di Gesù. Dunque, nell’ottica di Luca, che scrive gli Atti, di nuovo un ufficiale romano segna un momento decisivo della storia della salvezza. L’apertura della missione al mondo dei pagani e quindi l’entrata dei non giudei nel nuovo popolo che si stava componendo: si tratta della “pentecoste dei pagani”, come è stata definita[4].
Una chiara affermazione di lealismo dei cristiani nei confronti delle autorità costituite si trova poi in una delle lettere sicuramente autentiche di Paolo, la lettera ai Romani, scritta probabilmente da Corinto nel 54 o nel 56-57, che risulta perciò essere uno dei più antichi documenti della letteratura cristiana. Scrive l’apostolo: «Ognuno sia sottomesso a chi ha ricevuto autorità, perché non c’è autorità che non venga da Dio (…). Fa’ il bene e le autorità ti loderanno, perché sono al servizio di Dio per il tuo bene (…). Ecco bisogna stare sottomessi all’autorità, non soltanto per paura delle punizioni, ma anche per una ragione di coscienza. È la stessa ragione per cui pagate le tasse: difatti mentre assolvono il loro incarico sono al servizio di Dio. Date a ciascuno ciò che gli è dovuto: l’imposta, le tasse, il timore, il rispetto, a ciascuno quel che gli dovete dare» (Rom. 13.1 ss.).
L’attitudine positiva espressa ripetutamente e con chiarezza verso le autorità politiche civili in scritti dapprima altamente considerati e poi, con il formarsi del primo canone scritturale, ritenuti pieni di autorevolezza, anzi di autorità, perché ispirati da Dio, ha indotto le comunità cristiane a mutare quella posizione presente, in una parte dei suoi membri, di insubordinazione o almeno di contestazione e di insofferenza verso quello che impropriamente oggi diremmo lo ‘stato’ romano.

3.2. – Gli scrittori del II secolo
Gli scrittori cristiani nel II secolo, coloro che di consueto sono denominati Apologeti, quando si accingono a rappresentare le idee e le norme morali scaturite dall’euaggelion di fronte al mondo pagano, avvertono che l’Impero romano, con la sua organizzazione civile e politica facilita la diffusione del cristianesimo; essa infatti ha realizzato l’unità dell’oikoumene e vi ha fatto regnare la pace.
Così intorno al 150 Giustino, indirizzando la sua Apologia a Antonino Pio (138-161), Marco Aurelio (161-180) e Lucio Vero (161-169) dopo essersi difeso dalle accuse rivolte ai fedeli di Cristo da parte della società pagana, aggiunge: «Siamo vostri collaboratori e alleati per la pace più di tutti gli altri uomini (…). Riteniamo che ciascuno si incammini verso la condanna eterna oppure verso la salvezza per il merito delle azioni. Se tutti gli uomini conoscessero queste cose, nessuno, neppure per poco tempo, sceglierebbe ciò che è male, sapendo di andare alla pena eterna nel fuoco»[5]. Pochi anni dopo Atenagora loda gli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero ed osserva che per la loro saggezza l’Impero gode di una pace profonda; egli li dice pacificatori delle terre abitate, ma in pari tempo chiede che non perseguitino i cristiani, ma li includano nel quadro del loro governo[6]. Melitone di Sardi, rivolgendosi ancora a Marco Aurelio intorno al 170, nota che la ‘filosofia’ cristiana, avendo cominciato a diffondersi in mezzo ai popoli sotto il regno di Augusto, era nata e si era sviluppata con l’Impero[7]: un’affermazione notevole perché mette in luce la coincidenza temporale tra il regnare della Pax Augusta e la contemporanea diffusione del messaggio di Cristo[8]. Del resto già prima di lui altri apologeti avevano evitato di marcare una frattura tra la tradizione pagana e l’annuncio cristiano; il fatto stesso che Melitone e Giustino assumano il termine ‘filosofia’ per indicare la religione da loro professata è un segno di un tale atteggiamento. Verso la fine del II secolo Ireneo, vescovo di Lione, scrive che grazie ai Romani il mondo gode della pace e non manca di mettere in evidenza che per questo, senza timore, ci si sposta e si naviga dovunque si voglia, lui originario dell’Asia Minore che diviene vescovo di una città della Gallia meridionale[9]. Origene, entro il quadro di un discorso più complesso e sfumato, riprende e rende più esplicita quell’idea: egli confronta la pace di Cristo con la pace recata al mondo da Roma e afferma che questa è diventata la condizione necessaria perché il Vangelo possa essere annunciato a tutte le genti[10].
Non stupisce dunque di riscontrare nei medesimi autori menzionati dichiarazioni di lealismo e di ubbidienza alle leggi. Fin dalla fine del I secolo Clemente di Roma prega perché il Signore doni salute, pace, stabilità a chi governa perché sia in grado di esercitare in modo irreprensibile l’ufficio datogli dal Signore stesso. E come Clemente, altri da Teofilo di Antiochia a Tertulliano, ad Origene, raccomandano di pregare per l’imperatore, purché questi, come si vedrà più oltre, non pretenda il culto e l’adorazione. D’altronde già l’apostolo Paolo aveva aperto la strada, raccomandando perché fossero fatte simili preghiere[11].

3.3. – Il servizio nell’esercito
Riconoscere la funzione pacificatrice svolta dall’Impero comportava la necessità di servire nei ranghi di quel medesimo Impero, anche come soldati. Ma l’essere soldato esigeva anche l’eventualità di combattere e di uccidere il nemico contro cui si combatteva. Taluni critici moderni hanno sottolineato l’incoerenza di una tale posizione denunciata d’altronde dai pagani: si è detto che i cristiani avrebbero voluto godere dei benefici derivanti dall’ordinamento politico senza d’altra parte contribuire al suo mantenimento[12]. Negli ultimi decenni gli studi hanno meglio precisato i molti problemi connessi a questo aspetto che si rivela complesso. Intanto si deve osservare che i cristiani, secondo una documentazione fondata erano certamente presenti nell’esercito romano nelle ultime decadi del II secolo. Tertulliano[13] nel 197-198 menziona una lettera di Marco Aurelio nella quale si attesta che la grande sete, pericolosamente sofferta dall’esercito romano in Germania[14], fu placata dalle preghiere di soldati cristiani. Questa almeno è la versione di Tertulliano, che non ha visto la lettera dell’imperatore, (egli però afferma che tale lettera la si può cercare negli archivi del Senato a cui sarebbe stata indirizzata); si sa che il fatto è riferito anche da altre fonti cristiane e pagane[15] (le quali ultime danno il merito del prodigio alle divinità pagane). Anche alcune iscrizioni risalenti agli stessi anni (180-190) confermano la presenza di cristiani tra i soldati dell’esercito romano.
Certamente la questione del servire nell’esercito doveva porre problemi non facilmente risolvibili tanto che, per quanto possiamo saperne, si vennero a delineare sia a livello del pensiero sia a quello della prassi molteplici posizioni che non sembrano avere avuto dimensioni omogenee, essendo legate – in epoca precostantiniana – ad aree geografiche ed a Chiese determinate. Intanto occorre osservare che si proponevano casi diversi: il primo era quello di chi, già inquadrato nella vita militare, si convertiva; il secondo era quello di chi appartenente alla comunità ecclesiale, intraprendeva la carriera militare; il terzo di chi obbligatoriamente era arruolato. Le difficoltà gravi che per un cristiano si ponevano erano da una parte la necessità di combattere e quindi essere messo nella condizione di uccidere; dall’altra, nel quadro della vita militare, di dovere prestare atti idolatrici. Ma non è il caso di seguire le vicende dei singoli, quelle almeno delle quali si siano conservate le testimonianze. È un fatto che certi ambienti dell’Africa settentrionale tengono verso la violenza una linea rigorosamente negativa. Ne sono testimoni Tertulliano e più ancora, Arnobio e Lattanzio, i quali a più riprese esprimono idee intransigenti contro il servizio militare, la violenza e la guerra[16], forse sotto la spinta di influssi montanistici[17]. Ed è pure un fatto che ogni atto idolatrico connesso alla vita militare – come a quella politica e civile – è condannato. Già si vedeva come le comunità cristiane non abbiano avuto difficoltà a pregare anche pubblicamente per gli imperatori perché questi avessero vita lunga, eserciti forti, un senato fedele, un popolo onesto, un mondo in pace[18]. Mentre netto è il loro rifiuto per ogni pretesa sacralizzante dei ‘Cesari’ e per ogni atto di culto verso le divinità pubbliche. «Certamente – scrive un autore già ricordato, Tertulliano[19] – riconoscerò all’imperatore il titolo di ‘signore’ (dominus) (…); se però non mi si costringa a chiamarlo così al posto di Dio. Per il resto io sono libero di fronte all’imperatore: infatti il mio Signore è uno solo, Dio onnipotente ed eterno, che è il medesimo Dio dell’imperatore».

4. – La pace costantiniana
4.1. – L’interpretazione di Eusebio di Cesarea
La svolta costantiniana, preceduta e preparata dall’editto di Galerio, non si può dire, a mio avviso, che abbia mutato la posizione dei cristiani rispetto allo ‘stato’ ed alla questione della pace[20]. Certamente ha fatto cadere quella parte della polemica fino allora sostenuta contro l’idolatria, mentre ha permesso di sviluppare grandemente la linea positiva, presente fin dalla metà del I secolo d.C. La giustificazione ideologica e teologica della nuova situazione storica la fornisce Eusebio di Cesarea, nell’interpretazione che egli dà appunto dell’Impero romano e della figura di Costantino.
Come abbiamo visto, fino dal II-III secolo molti cristiani avevano rilevato che il diffondersi del cristianesimo era dovuto anche al diffondersi tra i popoli di quella concordia che l’Impero di Roma aveva saputo instaurare e mantenere per lungo tempo. Ora dopo che l’imperatore ha dato a loro libertà di esistere, Eusebio allarga enormemente la prospettiva, portandola su un piano di teologia politica. Il vescovo di Cesarea asserisce che nel tempo stesso in cui Cristo insegnava che c’è la ‘monarchia’ di un solo Dio, il genere umano era liberato dall’azione dei demoni e dalla molteplicità dei governi nazionali. Secondo le sue parole, «la divisione del potere presso i Romani era scomparsa di fatto quando Augusto aveva stabilito una monarchia, nel momento stesso dell’apparizione del (…) Salvatore. Da allora fino ai giorni nostri non si sono più viste più città in guerra con città e popoli in lotta con popoli (…). Con la predicazione (…) del Salvatore si è attuata la distruzione dell’errore politeista e i dissidi tra le nazioni, con i loro antichi flagelli, sono cessati»[21].
È stato osservato[22] che lo scrittore antico non stabilisce solo un rapporto tra Impero romano e pace, ma tra Impero romano, pace e cristianesimo e che la pax romana in questo quadro assume un significato religioso più che un significato politico, è una missione divina della pace.
Altrettanto interessante è la connessione tra monoteismo e monarchia e tra politeismo e poliarchia, posto che la pace è segno e effetto della monarchia, la guerra e la divisione segno e effetto della poliarchia, un’idea che già aveva trovato qualche espressione in precedenti scrittori cristiani.

4.2. – Il rapporto Impero-Chiesa
Ciò che muta interamente è la posizione dell’Impero, o meglio, dell’imperatore verso la Chiesa. Le prime decadi del IV secolo rappresentano un momento epocale del costituirsi della civiltà cristiana. Per Costantino Impero e Chiesa si fanno come coincidenti e coestesi. Egli ritiene l’unità delle Chiese nella fede universale e la loro unità un’esigenza di ordine pubblico cui l’imperatore provvede indicendo concilii e intervenendo con la legislazione per condannare chi attenta a quell’unità a tutela dell’ortodossia. Non a caso egli dà a se stesso il titolo di episkopos tôn ektos, ossia ‘vescovo di coloro che sono fuori’ (della Chiesa). Appare dunque la ragion di stato nell’intreccio tra potere imperiale e cristianesimo. La metafora del Regno di Dio che nella predicazione di Gesù non ha alcuna implicazione politica diviene una metafora politica attiva. L’attesa escatologica delle prime generazioni cristiane è ormai lontana[23]. Il «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio», vale a dire la distinzione – più che la separazione – indicata da Gesù tra due sfere diverse (ma complementari) rimane offuscata, se non cancellata.
E qui concludo questa mia breve panoramica che ha voluto proporre qualche testo e indicare qualche riflessione sul modo con cui i primi cristiani hanno guardato al rapporto tra l’Impero romano e la pace e fino a Costantino e al modo ‘rivoluzionario’ con cui questi (assecondato certo dall’interpretazione eusebiana), ha impostato il suo rapporto con la Chiesa cristiana. Sono le prime fasi di una storia che attraverso i tempi, fino ad oggi, ha visto il proporsi di differenti concezioni e di molteplici sviluppi che hanno segnato da vicino il processo costitutivo della nostra civiltà.

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Publié dans:immagini sacre |on 19 mai, 2014 |Pas de commentaires »

« GESU’ CRISTO DISCESE AGLI INFERI, RISUSCITO’ DAI MORTI IL TERZO GIORNO »

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« GESU’ CRISTO DISCESE AGLI INFERI, RISUSCITO’ DAI MORTI IL TERZO GIORNO »

631 Gesù era disceso nelle regioni inferiori della terra: « Colui che discese è lo stesso che anche ascese »( Ef 4,10 ). Il Simbolo degli Apostoli professa in uno stesso articolo di fede la discesa di Cristo agli inferi e la sua Risurrezione dai morti il terzo giorno, perché nella sua Pasqua egli dall’abisso della morte ha fatto scaturire la vita:

Cristo, tuo Figlio,
che, risuscitato dai morti,
fa risplendere sugli uomini la sua luce serena,
e vive e regna nei secoli dei secoli. Amen [Messale Romano, Veglia Pasquale, Exultet].

Paragrafo 1
CRISTO DISCESE AGLI INFERI
632 Le frequenti affermazioni del Nuovo Testamento secondo le quali Gesù « è risuscitato dai morti » ( At 3,15; Rm 8,11; 1Cor 15,20 ) presuppongono che, preliminarmente alla Risurrezione, egli abbia dimorato nel soggiorno dei morti [Cf Eb 13,20 ]. E’ il senso primo che la predicazione apostolica ha dato alla discesa di Gesù agli inferi: Gesù ha conosciuto la morte come tutti gli uomini e li ha raggiunti con la sua anima nella dimora dei morti. Ma egli vi è disceso come Salvatore, proclamando la Buona Novella agli spiriti che vi si trovavano prigionieri [Cf 1Pt 3,18-19 ].
633 La Scrittura chiama inferi, shéol o ade [Cf Fil 2,10; At 2,24; Ap 1,18; Ef 4,9 ] il soggiorno dei morti dove Cristo morto è disceso, perché quelli che vi si trovano sono privati della visione di Dio [Cf Sal 6,6; Sal 88,11-13 ]. Tale infatti è, nell’attesa del Redentore, la sorte di tutti i morti, cattivi o giusti; [Cf Sal 89,49; 633 1Sam 28,19; Ez 32,17-32 ] il che non vuol dire che la loro sorte sia identica, come dimostra Gesù nella parabola del povero Lazzaro accolto nel « seno di Abramo » [Cf Lc 16,22-26 ]. « Furono appunto le anime di questi giusti in attesa del Cristo a essere liberate da Gesù disceso all’inferno » [Catechismo Romano, 1, 6, 3]. Gesù non è disceso agli inferi per liberare i dannati [Cf Concilio di Roma (745): Denz. -Schönm., 587] né per distruggere l’inferno della dannazione, [Cf Benedetto XII, Opuscolo Cum dudum: Denz. -Schönm., 1011; Clemente VI, Lettera Super quibusdam: ibid., 1077] ma per liberare i giusti che l’avevano preceduto [Cf Concilio di Toledo IV (625): Denz. -Schönm., 485; cf anche Mt 27,52-53 ].
634 « La Buona Novella è stata annunciata anche ai morti. . .  » ( 1Pt 4,6 ). La discesa agli inferi è il pieno compimento dell’annunzio evangelico della salvezza. E’ la fase ultima della missione messianica di Gesù, fase condensata nel tempo ma immensamente ampia nel suo reale significato di estensione dell’opera redentrice a tutti gli uomini di tutti i tempi e di tutti i luoghi, perché tutti coloro i quali sono salvati sono stati resi partecipi della Redenzione.
635 Cristo, dunque, è disceso nella profondità della morte [Cf Mt 12,40; Rm 10,7; Ef 4,9 ] affinché i morti udissero la voce del Figlio di Dio e, ascoltandola, vivessero [Cf Gv 5,25 ]. Gesù « l’Autore della vita » ( At 3,15 ) ha ridotto « all’impotenza, mediante la morte, colui che della morte ha il potere, cioè il diavolo » liberando « così tutti quelli che per timore della morte erano soggetti a schiavitù per tutta la vita » ( Eb 2,14-15 ). Ormai Cristo risuscitato ha « potere sopra la morte e sopra gli inferi » ( Ap 1,18 ) e « nel nome di Gesù ogni ginocchio » si piega « nei cieli, sulla terra e sotto terra » ( Fil 2,10 ).
Oggi sulla terra c’è grande silenzio, grande silenzio e solitudine. Grande silenzio perché il Re dorme: la terra è rimasta sbigottita e tace perché il Dio fatto carne si è addormentato ed ha svegliato coloro che da secoli dormivano. . . Egli va a cercare il primo padre, come la pecora smarrita. Egli vuole scendere a visitare quelli che siedono nelle tenebre e nell’ombra di morte. Dio e il Figlio suo vanno a liberare dalle sofferenze Adamo ed Eva, che si trovano in prigione. . . « Io sono il tuo Dio, che per te sono diventato tuo figlio. Svegliati, tu che dormi! Infatti non ti ho creato perché rimanessi prigioniero nell’inferno. Risorgi dai morti. Io sono la Vita dei morti » [Da un'antica "Omelia sul Sabato Santo": PG 43, 440A. 452C, cf Liturgia delle Ore, II, Ufficio delle letture del Sabato Santo].
In sintesi
636 Con l’espressione « Gesù discese agli inferi », il Simbolo professa che Gesù è morto realmente e che, mediante la sua morte per noi, egli ha vinto la morte e il diavolo « che della morte ha il potere » ( Eb 2,14 ).
637 Cristo morto, con l’anima unita alla sua Persona divina è disceso alla dimora dei morti. Egli ha aperto le porte del cielo ai giusti che l’avevano preceduto.

Paragrafo 2
IL TERZO GIORNO RISUSCITO’ DAI MORTI
638 « Noi vi annunziamo la Buona Novella che la promessa fatta ai padri si è compiuta, poiché Dio l’ha attuata per noi, loro figli, risuscitando Gesù » ( At 13,32-33 ). La Risurrezione di Gesù è la verità culminante della nostra fede in Cristo, creduta e vissuta come verità centrale dalla prima comunità cristiana, trasmessa come fondamentale dalla Tradizione, stabilita dai documenti del Nuovo Testamento, predicata come parte essenziale del Mistero pasquale insieme con la croce:

Cristo è risuscitato dai morti.
Con la sua morte ha vinto la morte,
Ai morti ha dato la vita [Liturgia bizantina, Tropario di Pasqua].

I. L’avvenimento storico e trascendente
639 Il mistero della Risurrezione di Cristo è un avvenimento reale che ha avuto manifestazioni storicamente constatate, come attesta il Nuovo Testamento. Già verso l’anno 56 san Paolo può scrivere ai cristiani di Corinto: « Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici » ( 1Cor 15,3-4 ). L’Apostolo parla qui della tradizione viva della Risurrezione che egli aveva appreso dopo la sua conversione alle porte di Damasco [Cf At 9,3-18 ].
Il sepolcro vuoto
640 « Perché cercate tra i morti colui che è vivo? Non è qui, è risuscitato » ( Lc 24,5-6 ). Nel quadro degli avvenimenti di Pasqua, il primo elemento che si incontra è il sepolcro vuoto. Non è in sé una prova diretta. L’assenza del corpo di Cristo nella tomba potrebbe spiegarsi altrimenti [Cf Gv 20,13; 640 Mt 28,11-15 ]. Malgrado ciò, il sepolcro vuoto ha costituito per tutti un segno essenziale. La sua scoperta da parte dei discepoli è stato il primo passo verso il riconoscimento dell’evento della Risurrezione. Dapprima è il caso delle pie donne, [Cf Lc 24,3; Lc 24,22-23 ] poi di Pietro [Cf Lc 24,12 ]. « Il discepolo. . . che Gesù amava » ( Gv 20,2 ) afferma che, entrando nella tomba vuota e scorgendo « le bende per terra » ( Gv 20,6 ), « vide e credette » ( Gv 20,8 ). Ciò suppone che egli abbia constatato, dallo stato in cui si trovava il sepolcro vuoto, [Cf Gv 20,5-7 ] che l’assenza del corpo di Gesù non poteva essere opera umana e che Gesù non era semplicemente ritornato ad una vita terrena come era avvenuto per Lazzaro [Cf Gv 11,44 ].
Le apparizioni del Risorto
641 Maria di Magdala e le pie donne che andavano a completare l’imbalsamazione del Corpo di Gesù, [Cf Mc 16,1; Lc 24,1 ] sepolto in fretta la sera del Venerdì Santo a causa del sopraggiungere del Sabato, [Cf Gv 19,31; Gv 19,42 ] sono state le prime ad incontrare il Risorto [Cf Mt 28,9-10; 641 Gv 20,11-18 ]. Le donne furono così le prime messaggere della Risurrezione di Cristo per gli stessi Apostoli [Cf Lc 24,9-10 ]. A loro Gesù appare in seguito: prima a Pietro, poi ai Dodici [Cf 1Cor 15,5 ]. Pietro, chiamato a confermare la fede dei suoi fratelli, [Cf Lc 22,31-32 ] vede dunque il Risorto prima di loro ed è sulla sua testimonianza che la comunità esclama: « Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone » ( Lc 24,34 ).
642 Tutto ciò che è accaduto in quelle giornate pasquali impegna ciascuno degli Apostoli – e Pietro in modo del tutto particolare – nella costruzione dell’era nuova che ha inizio con il mattino di Pasqua. Come testimoni del Risorto essi rimangono le pietre di fondazione della sua Chiesa. La fede della prima comunità dei credenti è fondata sulla testimonianza di uomini concreti, conosciuti dai cristiani e, nella maggior parte, ancora vivi in mezzo a loro. Questi testimoni della Risurrezione di Cristo [Cf At 1,22 ] sono prima di tutto Pietro e i Dodici, ma non solamente loro: Paolo parla chiaramente di più di cinquecento persone alle quali Gesù è apparso in una sola volta, oltre che a Giacomo e a tutti gli Apostoli [Cf 1Cor 15,4-8 ].
643 Davanti a queste testimonianze è impossibile interpretare la Risurrezione di Cristo al di fuori dell’ordine fisico e non riconoscerla come un avvenimento storico. Risulta dai fatti che la fede dei discepoli è stata sottoposta alla prova radicale della passione e della morte in croce del loro Maestro da lui stesso preannunziata [Cf Lc 22,31-32 ]. Lo sbigottimento provocato dalla passione fu così grande che i discepoli (almeno alcuni di loro) non credettero subito alla notizia della Risurrezione. Lungi dal presentarci una comunità presa da una esaltazione mistica, i Vangeli ci presentano i discepoli smarriti [Avevano il "volto triste": Lc 24,17 ] e spaventati, [Cf Gv 20,19 ] perché non hanno creduto alle pie donne che tornavano dal sepolcro e « quelle parole parvero loro come un vaneggiamento » ( Lc 24,11 ) [ Cf Mc 16,11; Mc 16,13 ]. Quando Gesù si manifesta agli Undici la sera di Pasqua, li rimprovera « per la loro incredulità e durezza di cuore, perché non avevano creduto a quelli che lo avevano visto risuscitato » ( Mc 16,14 ).
644 Anche messi davanti alla realtà di Gesù risuscitato, i discepoli dubitano ancora, [Cf Lc 24,38 ] tanto la cosa appare loro impossibile: credono di vedere un fantasma [Cf Lc 24,39 ]. « Per la grande gioia ancora non credevano ed erano stupefatti » ( Lc 24,41 ). Tommaso conobbe la medesima prova del dubbio [Cf Gv 20,24-27 ] e, quando vi fu l’ultima apparizione in Galilea riferita da Matteo, « alcuni. . . dubitavano » ( Mt 28,17 ). Per questo l’ipotesi secondo cui la Risurrezione sarebbe stata un « prodotto » della fede (o della credulità) degli Apostoli, non ha fondamento. Al contrario, la loro fede nella Risurrezione è nata – sotto l’azione della grazia divina – dall’esperienza diretta della realtà di Gesù Risorto.
Lo stato dell’umanità di Cristo risuscitata
645 Gesù risorto stabilisce con i suoi discepoli rapporti diretti, attraverso il contatto [Cf Lc 24,39; 645 Gv 20,27 ] e la condivisione del pasto [Cf Lc 24,30; 645 Lc 24,41-43; Gv 21,9; Gv 21,13-15 ]. Li invita a riconoscere da ciò che egli non è un fantasma, [Cf Lc 24,39 ] ma soprattutto a constatare che il corpo risuscitato con il quale si presenta a loro è il medesimo che è stato martoriato e crocifisso, poiché porta ancora i segni della passione [Cf Lc 24,40; 645 Gv 20,20; Gv 20,27 ]. Questo corpo autentico e reale possiede però al tempo stesso le proprietà nuove di un corpo glorioso; esso non è più situato nello spazio e nel tempo, ma può rendersi presente a suo modo dove e quando vuole, [Cf Mt 28,9; Mt 28,16-17; Lc 24,15; 645 Lc 24,36; Gv 20,14; Gv 20,19; Gv 20,26; Gv 21,4 ] poiché la sua umanità non può più essere trattenuta sulla terra e ormai non appartiene che al dominio divino del Padre [Cf Gv 20,17 ]. Anche per questa ragione Gesù risorto è sovranamente libero di apparire come vuole: sotto l’aspetto di un giardiniere [Cf Gv 20,14-15 ] o sotto altre sembianze, [Cf Mc 16,12 ] che erano familiari ai discepoli, e ciò per suscitare la loro fede [Cf Gv 20,14; Gv 20,16; 645 Gv 21,4; Gv 20,7 ].
646 La Risurrezione di Cristo non fu un ritorno alla vita terrena, come lo fu per le risurrezioni che egli aveva compiute prime della Pasqua: quelle della figlia di Giairo, del giovane di Naim, di Lazzaro. Questi fatti erano avvenimenti miracolosi, ma le persone miracolate ritrovavano, per il potere di Gesù, una vita terrena « ordinaria ». Ad un certo momento esse sarebbero morte di nuovo. La Risurrezione di Cristo è essenzialmente diversa. Nel suo Corpo risuscitato egli passa dallo stato di morte ad un’altra vita al di là del tempo e dello spazio. Il Corpo di Gesù è, nella Risurrezione, colmato della potenza dello Spirito Santo; partecipa alla vita divina nello stato della sua gloria, sì che san Paolo può dire di Cristo che egli è « l’uomo celeste » [Cf 1Cor 15,35-50 ].
La Risurrezione come evento trascendente
647 « O notte – canta l’ »Exultet » di Pasqua – tu solo hai meritato di conoscere il tempo e l’ora in cui Cristo è risorto dagli inferi ». Infatti, nessuno è stato testimone oculare dell’avvenimento stesso della Risurrezione e nessun evangelista lo descrive. Nessuno ha potuto dire come essa sia avvenuta fisicamente. Ancor meno fu percettibile ai sensi la sua essenza più intima, il passaggio ad un’altra vita. Avvenimento storico constatabile attraverso il segno del sepolcro vuoto e la realtà degli incontri degli Apostoli con Cristo risorto, la Risurrezione resta non di meno, in ciò in cui trascende e supera la storia, al cuore del Mistero della fede. Per questo motivo Cristo risorto non si manifesta al mondo, ma ai suoi discepoli, [Cf Gv 14,22 ] « a quelli che erano saliti con lui dalla Galilea a Gerusalemme », i quali « ora sono i suoi testimoni davanti al popolo » ( At 13,31 ).

II. La Risurrezione – opera della Santissima Trinità
648 La Risurrezione di Cristo è oggetto di fede in quanto è un intervento trascendente di Dio stesso nella creazione e nella storia. In essa, le tre Persone divine agiscono insieme e al tempo stesso manifestano la loro propria originalità. Essa si è compiuta per la potenza del Padre che « ha risuscitato » ( At 2,24 ) Cristo, suo Figlio, e in questo modo ha introdotto in maniera perfetta la sua umanità con il suo Corpo nella Trinità. Gesù viene definitivamente « costituito Figlio di Dio con potenza secondo lo Spirito di santificazione mediante la Risurrezione dai morti » ( Rm 1,3-4 ). San Paolo insiste sulla manifestazione della potenza di Dio [Cf Rm 6,4; 2Cor 13,4; Fil 3,10; Ef 1,19-22; 648 Eb 7,16 ] per l’opera dello Spirito che ha vivificato l’umanità morta di Gesù e l’ha chiamata allo stato glorioso di Signore.
649 Quanto al Figlio, egli opera la sua propria Risurrezione in virtù della sua potenza divina. Gesù annunzia che il Figlio dell’uomo dovrà molto soffrire, morire ed in seguito risuscitare (senso attivo della parola) [Cf Mc 8,31; Mc 9,9-31; 649 Mc 10,34 ]. Altrove afferma esplicitamente: « Io offro la mia vita, per poi riprenderla. . . ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla » ( Gv 10,17-18 ). « Noi crediamo. . . che Gesù è morto e risuscitato » ( 1Ts 4,14 ).
650 I Padri contemplano la Risurrezione a partire dalla Persona divina di Cristo che è rimasta unita alla sua anima e al suo corpo separati tra loro dalla morte: « Per l’unità della natura divina che permane presente in ciascuna delle due parti dell’uomo, queste si riuniscono di nuovo. Così la morte si è prodotta per la separazione del composto umano e la Risurrezione per l’unione delle due parti separate » [San Gregorio di Nissa, In Christi resurrectionem, 1: PG 46, 617B; cf anche "Statuta Ecclesiae Antiqua": Denz. -Schönm., 325; Anastasio II, Lettera In prolixitate epistolae: ibid. , 359; Ormisda, Lettera Inter ea quae: ibid. , 369; Concilio di Toledo XI: ibid., 539].

III. Senso e portata salvifica della Risurrezione
651 « Se Cristo non è risuscitato, allora è vana la nostra predicazione e vana anche la vostra fede » ( 1Cor 15,14 ). La Risurrezione costituisce anzitutto la conferma di tutto ciò che Cristo stesso ha fatto e insegnato. Tutte le verità, anche le più inaccessibili allo spirito umano, trovano la loro giustificazione se, risorgendo, Cristo ha dato la prova definitiva, che aveva promesso, della sua autorità divina.
652 La Risurrezione di Cristo è compimento delle promesse dell’Antico Testamento [Cf Lc 24,26-27; Lc 24,44-48 ] e di Gesù stesso durante la sua vita terrena [Cf Mt 28,6; Mc 16,7; Lc 24,6-7 ]. L’espressione « secondo le Scritture » ( 1Cor 15,3-4 e Simbolo di Nicea-Costantinopoli) indica che la Risurrezione di Cristo realizzò queste predizioni.
653 La verità della divinità di Gesù è confermata dalla sua Risurrezione. Egli aveva detto: « Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora saprete che Io Sono » ( Gv 8,28 ). La Risurrezione del Crocifisso dimostrò che egli era veramente « Io Sono », il Figlio di Dio e Dio egli stesso. San Paolo ha potuto dichiarare ai Giudei: « La promessa fatta ai nostri padri si è compiuta, poiché Dio l’ha attuata per noi. . . risuscitando Gesù, come anche sta scritto nel Salmo secondo: « Mio Figlio sei tu, oggi ti ho generato »" ( At 13,32-33 ) [Cf Sal 2,7 ]. La Risurrezione di Cristo è strettamente legata al Mistero dell’Incarnazione del Figlio di Dio. Ne è il compimento secondo il disegno eterno di Dio.
654 Vi è un duplice aspetto nel Mistero pasquale: con la sua morte Cristo ci libera dal peccato, con la sua Risurrezione ci dà accesso ad una nuova vita. Questa è dapprima la giustificazione che ci mette nuovamente nella grazia di Dio [Cf Rm 4,25 ] « perché, come Cristo fu risuscitato dai morti per mezzo della gloria del Padre, così anche noi possiamo camminare in una vita nuova » ( Rm 6,4 ). Essa consiste nella vittoria sulla morte del peccato e nella nuova partecipazione alla grazia [Cf Ef 2,4-5; 1Pt 1,3 ]. Essa compie l’adozione filiale poiché gli uomini diventano fratelli di Cristo, come Gesù stesso chiama i suoi discepoli dopo la sua Risurrezione: « Andate ad annunziare ai miei fratelli » ( Mt 28,10; Gv 20,17 ). Fratelli non per natura, ma per dono della grazia, perché questa filiazione adottiva procura una reale partecipazione alla vita del Figlio unico, la quale si è pienamente rivelata nella sua Risurrezione.
655 Infine, la Risurrezione di Cristo – e lo stesso Cristo risorto – è principio e sorgente della nostra risurrezione futura: « Cristo è risuscitato dai morti, primizia di coloro che sono morti. . . ; e come tutti muoiono in Adamo, così tutti riceveranno la vita in Cristo » ( 1Cor 15,20-22 ). Nell’attesa di questo compimento, Cristo risuscitato vive nel cuore dei suoi fedeli. In lui i cristiani gustano « le meraviglie del mondo futuro » ( Eb 6,5 ) e la loro vita è trasportata da Cristo nel seno della vita divina: [Cf Col 3,1-3 ] « Egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risuscitato per loro » ( 2Cor 5,15 ).
In sintesi
656 La fede nella Risurrezione ha per oggetto un avvenimento storicamente attestato dai discepoli che hanno realmente incontrato il Risorto, ed insieme misteriosamente trascendente in quanto entrata dell’umanità di Cristo nella gloria di Dio.
657 La tomba vuota e le bende per terra significano già per se stesse che il Corpo di Cristo è sfuggito ai legami della morte e della corruzione, per la potenza di Dio. Esse preparano i discepoli all’incontro con il Risorto.
658 Cristo, « il primogenito di coloro che risuscitano dai morti » ( Col 1,18 ), è il principio della nostra Risurrezione, fin d’ora per la giustificazione della nostra anima , [Cf Rm 6,4 ] più tardi per la vivificazione del nostro corpo [Cf Rm 8,11 ].
Articolo 6
« GESU’ SALI’ AL CIELO, SIEDE ALLA DESTRA DI DIO PADRE ONNIPOTENTE »
659 « Il Signore Gesù, dopo aver parlato con loro, fu assunto in cielo e sedette alla destra di Dio » ( Mc 16,19 ). Il Corpo di Cristo è stato glorificato fin dall’istante della sua Risurrezione, come lo provano le proprietà nuove e soprannaturali di cui ormai gode in permanenza [Cf Lc 24,31; Gv 20,19; 659 Gv 20,26 ]. Ma durante i quaranta giorni nei quali egli mangia e beve familiarmente con i suoi discepoli [Cf At 10,41 ] e li istruisce sul Regno, [Cf At 1,3 ] la sua gloria resta ancora velata sotto i tratti di una umanità ordinaria [Cf Mc 16,12; Lc 24,15; Gv 20,14-15; Gv 21,4 ]. L’ultima apparizione di Gesù termina con l’entrata irreversibile della sua umanità nella gloria divina simbolizzata dalla nube [Cf At 1,9; cf anche Lc 9,34-35; Es 13,22 ] e dal cielo [Cf Lc 24,51 ] ove egli siede ormai alla destra di Dio [Cf Mc 16,19; 659 At 2,33; At 7,56; cf anche Sal 110,1 ]. In un modo del tutto eccezionale ed unico egli si mostrerà a Paolo « come a un aborto » ( 1Cor 15,8 ) in un’ultima apparizione che costituirà apostolo Paolo stesso [Cf 1Cor 9,1; Gal 1,16 ].
660 Il carattere velato della gloria del Risorto durante questo tempo traspare nelle sue misteriose parole a Maria Maddalena: « Non sono ancora salito al Padre: ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro » ( Gv 20,17 ). Questo indica una differenza di manifestazione tra la gloria di Cristo risorto e quella di Cristo esaltato alla destra del Padre. L’avvenimento ad un tempo storico e trascendente dell’Ascensione segna il passaggio dall’una all’altra.
661 Quest’ultima tappa rimane strettamente unita alla prima, cioè alla discesa dal cielo realizzata nell’Incarnazione. Solo colui che è « uscito dal Padre » può far ritorno al Padre: Cristo [Cf Gv 16,28 ]. « Nessuno è mai salito al cielo fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dal cielo » ( Gv 3,13 ) [Cf Ef 4,8-10 ]. Lasciata alle sue forze naturali, l’umanità non ha accesso alla « Casa del Padre » ( Gv 14,2 ), alla vita e alla felicità di Dio. Soltanto Cristo ha potuto aprire all’uomo questo accesso « per darci la serena fiducia che dove è lui, Capo e Primogenito, saremo anche noi, sue membra, uniti nella stessa gloria » [Messale Romano, Prefazio dell'Ascensione I].
662 « Io, quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me » ( Gv 12,32 ). L’elevazione sulla croce significa e annunzia l’elevazione dell’Ascensione al cielo. Essa ne è l’inizio. Gesù Cristo, l’unico Sacerdote della nuova ed eterna Alleanza, « non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo. . ., ma nel cielo stesso, per comparire ora al cospetto di Dio in nostro favore » ( Eb 9,24 ). In cielo Cristo esercita il suo sacerdozio in permanenza, « essendo egli sempre vivo per intercedere » a favore di « quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio » ( Eb 7,25 ). Come « sommo sacerdote dei beni futuri » ( Eb 9,11 ) egli è il centro e l’attore principale della Liturgia che onora il Padre nei cieli [Cf Ap 4,6-11 ].
663 Cristo, ormai, siede alla destra del Padre. « Per destra del Padre intendiamo la gloria e l’onore della divinità, ove colui che esisteva come Figlio di Dio prima di tutti i secoli come Dio e consustanziale al Padre, s’è assiso corporalmente dopo che si è incarnato e la sua carne è stata glorificata » [San Giovanni Damasceno, De fide orthodoxa, 4, 2, 2: PG 94, 1104D].
664 L’essere assiso alla destra del Padre significa l’inaugurazione del regno del Messia, compimento della visione del profeta Daniele riguardante il Figlio dell’uomo:  » [Il Vegliardo] gli diede potere, gloria e regno; tutti i popoli, nazioni e lingue lo servivano; il suo potere è un potere eterno, che non tramonta mai, e il suo regno è tale che non sarà mai distrutto » ( Dn 7,14 ). A partire da questo momento, gli Apostoli sono divenuti i testimoni del « Regno che non avrà fine » [Simbolo di Nicea-Costantinopoli].

In sintesi
665 L’Ascensione di Cristo segna l’entrata definitiva dell’umanità di Gesù nel dominio celeste di Dio da dove ritornerà , [Cf At 1,11 ] ma che nel frattempo lo cela agli occhi degli uomini [Cf Col 3,3 ].
666 Gesù Cristo, Capo della Chiesa, ci precede nel Regno glorioso del Padre perché noi, membra del suo Corpo, viviamo nella speranza di essere un giorno eternamente con lui.
667 Gesù Cristo, essendo entrato una volta per tutte nel santuario del cielo, intercede incessantemente per noi come il mediatore che ci assicura la perenne effusione dello Spirito Santo.

Articolo 7
« DI LA’ VERRA’ A GIUDICARE I VIVI E I MORTI »
I. Egli ritornerà nella gloria
Cristo regna già attraverso la Chiesa. . .
668 « Per questo Cristo è morto e ritornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi » ( Rm 14,9 ). L’Ascensione di Cristo al cielo significa la sua partecipazione, nella sua umanità, alla potenza e all’autorità di Dio stesso. Gesù Cristo è Signore: egli detiene tutto il potere nei cieli e sulla terra. Egli è « al di sopra di ogni principato e autorità, di ogni potenza e dominazione » perché il Padre « tutto ha sottomesso ai suoi piedi » ( Ef 1,21-22 ). Cristo è il Signore del cosmo [Cf Ef 4,10; 1Cor 15,24; 668 1Cor 15,27-28 ] e della storia. In lui la storia dell’uomo come pure tutta la creazione trovano la loro « ricapitolazione », [Cf Ef 1,10 ] il loro compimento trascendente.
669 Come Signore, Cristo è anche il Capo della Chiesa che è il suo Corpo [Cf Ef 1,22 ]. Elevato al cielo e glorificato, avendo così compiuto pienamente la sua missione, egli permane sulla terra, nella sua Chiesa. La Redenzione è la sorgente dell’autorità che Cristo, in virtù dello Spirito Santo, esercita sulla Chiesa, [Cf Ef 4,11-13 ] la quale è « il Regno di Cristo già presente in mistero ». La Chiesa « di questo Regno costituisce in terra il germe e l’inizio » [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 3; 5].
670 Dopo l’Ascensione, il disegno di Dio è entrato nel suo compimento. Noi siamo già nell’ »ultima ora » ( 1Gv 2,18 ) [Cf 1Pt 4,7 ]. « Già dunque è arrivata a noi l’ultima fase dei tempi e la rinnovazione del mondo è stata irrevocabilmente fissata e in un certo modo è realmente anticipata in questo mondo; difatti la Chiesa già sulla terra è adornata di una santità vera, anche se imperfetta » [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 48]. Il Regno di Cristo manifesta già la sua presenza attraverso i segni miracolosi [Cf Mc 16,17-18 ] che ne accompagnano l’annunzio da parte della Chiesa [Cf Mc 16,20 ].
… nell’attesa che tutto sia a lui sottomesso
671 Già presente nella sua Chiesa, il Regno di Cristo non è tuttavia ancora compiuto « con potenza e gloria grande » ( Lc 21,27 ) [Cf Mt 25,31 ] mediante la venuta del Re sulla terra. Questo Regno è ancora insidiato dalle potenze inique, [Cf 2Ts 2,7 ] anche se esse sono già state vinte radicalmente dalla Pasqua di Cristo. Fino al momento in cui tutto sarà a lui sottomesso, [Cf 1Cor 15,28 ] « fino a che non vi saranno i nuovi cieli e la terra nuova, nei quali la giustizia ha la sua dimora, la Chiesa pellegrinante, nei suoi sacramenti e nelle sue istituzioni, che appartengono all’età presente, porta la figura fugace di questo mondo, e vive tra le creature, le quali sono in gemito e nel travaglio del parto sino ad ora e attendono la manifestazione dei figli di Dio » [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 48]. Per questa ragione i cristiani pregano, soprattutto nell’Eucaristia [Cf 1Cor 11,26 ] per affrettare il ritorno di Cristo [Cf 2Pt 3,11-12 ] dicendogli: « Vieni, Signore » ( 1Cor 16,22; Ap 22,17; Ap 22,20 ).
672 Prima dell’Ascensione Cristo ha affermato che non era ancora il momento del costituirsi glorioso del Regno messianico atteso da Israele, [Cf At 1,6-7 ] Regno che doveva portare a tutti gli uomini, secondo i profeti, [Cf Is 11,1-9 ] l’ordine definitivo della giustizia, dell’amore e della pace. Il tempo presente è, secondo il Signore, il tempo dello Spirito e della testimonianza, [Cf At 1,8 ] ma anche un tempo ancora segnato dalla « necessità » ( 1Cor 7,26 ) e dalla prova del male, [Cf Ef 5,16 ] che non risparmia la Chiesa [Cf 1Pt 4,17 ] e inaugura i combattimenti degli ultimi tempi [Cf 1Gv 2,18; 1Gv 4,3; 1Tm 4,1 ]. E’ un tempo di attesa e di vigilanza [Cf Mt 25,1-13; 672 Mc 13,33-37 ].
La venuta gloriosa di Cristo, speranza di Israele
673 Dopo l’Ascensione, la venuta di Cristo nella gloria è imminente, [Cf Ap 22,20 ] anche se non spetta a noi « conoscere i tempi e i momenti che il Padre ha riservato alla sua scelta » ( At 1,7 ) [Cf Mc 13,32 ]. Questa venuta escatologica può compiersi in qualsiasi momento [Cf Mt 24,44; 1Ts 5,2 ] anche se essa e la prova finale che la precederà sono « impedite » [Cf 2Ts 2,3-12 ].
674 La venuta del Messia glorioso è sospesa in ogni momento della storia [Cf Rm 11,31 ] al riconoscimento di lui da parte di « tutto Israele » ( Rm 11,26; 674 Mt 23,39 ) a causa dell’ »indurimento di una parte » ( Rm 11,25 ) nell’incredulità [Cf Rm 11,20 ] verso Gesù. San Pietro dice agli Ebrei di Gerusalemme dopo la Pentecoste: « Pentitevi dunque e cambiate vita, perché siano cancellati i vostri peccati e così possano giungere i tempi della consolazione da parte del Signore ed egli mandi quello che vi aveva destinato come Messia, cioè Gesù. Egli dev’esser accolto in cielo fino ai tempi della restaurazione di tutte le cose, come ha detto Dio fin dall’antichità, per bocca dei suoi santi profeti » ( At 3,19-21 ). E san Paolo gli fa eco: « Se infatti il loro rifiuto ha segnato la riconciliazione del mondo, quale potrà mai essere la loro riammissione se non una risurrezione dai morti? » ( Rm 11,15 ). « La partecipazione totale » degli Ebrei ( Rm 11,12 ) alla salvezza messianica a seguito della partecipazione totale dei pagani [Cf Rm 11,25; Lc 21,24 ] permetterà al Popolo di Dio di arrivare « alla piena maturità di Cristo » ( Ef 4,13 ) nella quale « Dio sarà tutto in tutti » ( 1Cor 15,28 ).

IL SENTIMENTO DELLE COSE, LA CONTEMPLAZIONE DELLA BELLEZZA – JOSEPH RATZINGERm 2002

http://www.ratzinger.us/modules.php?name=News&file=article&sid=229

2002: IL SENTIMENTO DELLE COSE, LA CONTEMPLAZIONE DELLA BELLEZZA|

MESSAGGIO DEL CARDINALE JOSEPH RATZINGER PER IL MEETING 2002.

Ogni anno, nella Liturgia delle Ore del Tempo di Quaresima, torna a colpirmi un paradosso che si trova nei Vespri del lunedì della seconda settimana del Salterio. Qui, l’una accanto all’altra, ci sono due antifone, una per il tempo di Quaresima, l’altra per la Settimana Santa. Entrambe introducono il Salmo 44, ma ne anticipano una chiave interpretativa del tutto contrapposta. E’ il Salmo che descrive le nozze del Re, la sua bellezza, le sue virtù, la sua missione, e poi si trasforma in un’esaltazione della sposa. Nel Tempo di Quaresima il salmo ha per cornice la stessa antifona che viene utilizzata per tutto il restante periodo dell’anno. E’ il terzo verso del salmo che recita: « Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo, sulle tue labbra è diffusa la grazia ». E’ chiaro che la Chiesa legge questo salmo come rappresentazione poetico-profetica del rapporto sponsale di Cristo con la Chiesa. Riconosce Cristo come il più bello tra gli uomini; la grazia diffusa sulle sue labbra indica la bellezza interiore della Sua parola, la gloria del Suo annuncio. Così, non è semplicemente la bellezza esteriore dell’apparizione del Redentore ad essere glorificata: in Lui appare piuttosto la bellezza della Verità, la bellezza di Dio stesso che ci attira a sé e allo stesso tempo ci procura la ferita dell’Amore, la santa passione (eros) che ci fa andare incontro, insieme alla e nella Chiesa Sposa, all’Amore che ci chiama. Ma il mercoledì della Settimana Santa la Chiesa cambia l’antifona e ci invita a leggere il Salmo alla luce di Is. 53,2: « Non ha bellezza né apparenza; l’abbiamo veduto: un volto sfigurato dal dolore ». Come si concilia ciò? Il « più bello tra gli uomini » è misero d’aspetto tanto che non lo si vuol guardare. Pilato lo presenta alla folla dicendo:- « Ecce homo » onde suscitare pietà per l’Uomo sconvolto e percosso al quale non è rimasta alcuna bellezza esteriore. Agostino, che nella sua giovinezza scrisse un libro sul bello e sul conveniente e che apprezzava la bellezza nelle parole, nella musica, nelle arti figurative, percepì assai fortemente questo paradosso e si rese conto che in questo passo la grande filosofia greca del bello non veniva semplicemente rigettata, ma piuttosto messa drammaticamente in discussione: che cosa sia bello, che cosa la bellezza significhi avrebbe dovuto essere nuovamente discusso e sperimentato. Riferendosi al paradosso contenuto in questi testi egli parlava di « due trombe » che suonano in contrapposizione e pur tuttavia ricevono i loro suoni dal medesimo soffio, dallo stesso Spirito. Egli sapeva che il paradosso è una contrapposizione, ma non una contraddizione. Entrambe le citazioni provengono dallo stesso Spirito che ispira tutta la Scrittura, il quale però suona in essa con note differenti e, proprio in questo modo, ci pone di fronte alla totalità della vera bellezza, della verità stessa. Dal testo di Isaia scaturisce innanzitutto la questione, di cui si sono occupati i Padri della Chiesa, se Cristo fosse dunque bello oppure no. Qui si cela la questione più radicale se la bellezza sia vera, oppure se non sia piuttosto la bruttezza a condurci alla profonda verità del reale. Chi crede in Dio, nel Dio che si è manifestato proprio nelle sembianze alterate di Cristo crocifisso come amore « sino alla fine » (Gv 13,1) sa che la bellezza è verità e che la verità è bellezza, ma nel Cristo sofferente egli apprende anche che la bellezza della verità comprende offesa, dolore e, sì, anche l’oscuro mistero della morte, e che essa può essere trovata solo nell’accettazione del dolore, e non nell’ignorarlo.
Una prima consapevolezza del fatto che la bellezza abbia a che fare anche con il dolore è senz’altro presente anche nel mondo greco. Pensiamo, per esempio, al Fedro di Platone. Platone considera l’incontro con la bellezza come quella scossa emotiva salutare che fa uscire l’uomo da se stesso, lo « entusiasma » attirandolo verso altro da sé. L’uomo, così dice Platone, ha perso la per lui concepita perfezione dell’origine. Ora egli è perennemente alla ricerca della forma primigenia risanatrice. Ricordo e nostalgia lo inducono alla ricerca, e la bellezza lo strappa fuori dall’accomodamento del quotidiano. Lo fa soffrire. Noi potremmo dire, in senso platonico, che lo strale della nostalgia colpisce l’uomo, lo ferisce e proprio in tal modo gli mette le ali, lo innalza verso l’alto. Nel discorso di Aristofane del Simposio si afferma che gli amanti non sanno ciò che veramente vogliono l’uno dall’altro. E’ al contrario evidente che le anime di entrambi sono assetate di qualcos’altro che non sia il piacere amoroso. Questo « altro » però l’anima non riesce a esprimerlo, « ha solamente una vaga percezione di ciò che veramente essa vuole e ne parla a se stessa come un enigma ». Nel XIV secolo, nel libro sulla vita di Cristo del teologo bizantino Nicolas Kabasilas si ritrova questa esperienza di Platone, nella quale l’oggetto ultimo della nostalgia continua a rimanere senza nome, trasformato dalla nuova esperienza cristiana. Kabasilas afferma: « Uomini che hanno in sé un desiderio così possente che supera la loro natura, ed essi bramano e desiderano più di quanto all’uomo sia consono aspirare, questi uomini sono stati colpiti dallo Sposo stesso; Egli stesso ha inviato ai loro occhi un raggio ardente della sua bellezza. L’ampiezza della ferita rivela già quale sia lo strale e l’intensità del desiderio lascia intuire Chi sia colui che ha scoccato il dardo ».
La bellezza ferisce, ma proprio così essa richiama l’uomo al suo Destino ultimo. Ciò che afferma Platone e, più di 1500 anni dopo, Kabasilas non ha nulla a che fare con l’estetismo superficiale e con l’irrazionalismo, con la fuga dalla chiarezza e dall’importanza della ragione. Bellezza è conoscenza, certamente, una forma superiore di conoscenza poiché colpisce l’uomo con tutta la grandezza della verità. In ciò Kabasilas è rimasto interamente greco, in quanto egli pone la conoscenza all’inizio. « Origine dell’amore è la conoscenza – egli afferma – la conoscenza genera l’amore ». Occasionalmente –così prosegue – la conoscenza potrebbe essere talmente forte da sortire allo stesso tempo l’effetto di un filtro d’amore ». Egli non lascia questa affermazione in termini generali. Com’è caratteristico del suo pensiero rigoroso, egli distingue due tipi di conoscenza: la conoscenza attraverso l’istruzione che rimane conoscenza, per così dire, « di seconda mano » e non implica alcun contatto diretto con la realtà stessa. Il secondo tipo, al contrario, è conoscenza attraverso la propria esperienza, attraverso il rapporto con le cose. « Quindi, fintanto che noi non abbiamo fatto esperienza di un essere concreto, non amiamo l’oggetto così come esso dovrebbe essere amato ». La vera conoscenza è essere colpiti dal dardo della bellezza che ferisce l’uomo, essere toccati dalla realtà, « dalla personale presenza di Cristo stesso » come egli dice. L’essere colpiti e conquistati attraverso la bellezza di Cristo è conoscenza più reale e più profonda della mera deduzione razionale. Non dobbiamo certo sottovalutare il significato della riflessione teologica, del pensiero teologico esatto e rigoroso: esso rimane assolutamente necessario. Ma da qui, disdegnare o respingere il colpo provocato dalla corrispondenza del cuore nell’incontro con la bellezza come vera forma della conoscenza, ci impoverisce e inaridisce la fede, così come la teologia. Noi dobbiamo ritrovare questa forma di conoscenza, è un’esigenza pressante del nostro tempo.
A partire da questa concezione Hans Urs von Balthasar ha edificato il suo Opus magnum dell’Estetica teologica, della quale molti dettagli sono stati recepiti nel lavoro teologico, mentre la sua impostazione di fondo, che costituisce veramente l’elemento essenziale del tutto, non è stata affatto accolta. Questo non è beninteso semplicemente solo, o meglio, non è principalmente un problema della teologia, ma anche della pastorale che deve nuovamente favorire l’incontro dell’uomo con la bellezza della fede. Gli argomenti cadono così spesso nel vuoto perché nel nostro mondo troppe argomentazioni contrapposte concorrono le une con le altre, tanto che all’uomo viene spontaneo il pensiero che i teologi medievali avevano così formulato: la ragione « ha un naso di cera », ossia la si può indirizzare, se solo si è abbastanza abili, nelle più svariate direzioni. Tutto è così assennato, così convincente, di chi dobbiamo fidarci? L’incontro con la bellezza può diventare il colpo del dardo che ferisce l’anima ed in questo modo le apre gli occhi, tanto che ora l’anima, a partire dall’esperienza, ha dei criteri di giudizio ed è anche in grado di valutare correttamente gli argomenti. Resta per me un’ esperienza indimenticabile il concerto di Bach diretto da Leonard Bernstein a Monaco di Baviera dopo la precoce scomparsa di Karl Richter. Ero seduto accanto al vescovo evangelico Hanselmann. Quando l’ultima nota di una delle grandi Thomas-Kantor-Kantaten si spense trionfalmente, volgemmo lo sguardo spontaneamente l’uno all’altro e altrettanto spontaneamente ci dicemmo:- « Chi ha ascoltato questo, sa che la fede è vera ». In quella musica era percepibile una forza talmente straordinaria di realtà presente da rendersi conto, non più attraverso deduzioni, bensì attraverso l’urto del cuore, che ciò non poteva avere origine dal nulla, ma poteva nascere solo grazie alla forza della verità che si attualizza nell’ispirazione del compositore. E la stessa cosa non è forse evidente quando ci lasciamo commuovere dall’icona della Trinità di Rublëv? Nell’arte delle icone, come pure nelle grandi opere pittoriche occidentali del romanico e del gotico, l’esperienza descritta da Kabasilas, partendo dall’interiorità, si è resa visibile e partecipabile. Pavel Evdokimov ha indicato in maniera così pregnante quale percorso interiore l’icona presupponga. L’icona non è semplicemente la riproduzione di quanto è percepibile con i sensi, ma piuttosto presuppone, come egli afferma, un « digiuno della vista ». La percezione interiore deve liberarsi dalla mera impressione dei sensi ed in preghiera ed ascesi acquisire una nuova, più profonda capacità di vedere, compiere il passaggio da ciò che è meramente esteriore verso la profondità della realtà, in modo che l’artista veda ciò che i sensi in quanto tali non vedono e ciò che tuttavia nel sensibile appare: lo splendore della gloria di Dio, la « gloria di Dio sul volto di Cristo » (2, Cor 4,6). Ammirare le icone, e in generale i grandi quadri dell’arte cristiana, ci conduce per una via interiore, una via del superamento di sé e quindi, in questa purificazione dello sguardo, che è una purificazione del cuore, ci rivela la bellezza, o almeno un raggio di essa. Proprio così essa ci pone in rapporto con la forza della verità. Io ho spesso già affermato essere mia convinzione che la vera apologia della fede cristiana, la dimostrazione più convincente della sua verità, contro ogni negazione, sono da un lato i Santi, dall’altro la bellezza che la fede ha generato. Affinché oggi la fede possa crescere dobbiamo condurre noi stessi e gli uomini in cui ci imbattiamo a incontrare i Santi, a entrare in contatto con il bello.
Ora però dobbiamo rispondere ancora ad un’obiezione. Abbiamo già respinto l’affermazione secondo cui quanto finora sostenuto sarebbe una fuga nell’irrazionale, nel mero estetismo. E’ vero piuttosto l’opposto: proprio così la ragione viene liberata dal suo torpore e resa capace di azione. Maggior peso ha oggi un’altra obiezione: il messaggio della bellezza viene messo completamente in dubbio attraverso il potere della menzogna, della seduzione, della violenza, del male. Può la bellezza essere autentica, oppure, alla fine, non è che un’illusione? La realtà non è forse in fondo malvagia? La paura che, alla fine, non sia lo strale del bello a condurci alla verità, ma che la menzogna, ciò che è brutto e volgare costituiscano la vera « realtà » ha angosciato gli uomini in ogni tempo. Nel presente ha trovato espressione nell’ affermazione secondo cui dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto fare poesia, dopo Auschwitz non si sarebbe più potuto parlare di un Dio buono. Ci si domanda: dov’era finito Dio quando funzionavano i forni crematori? Ora questa obiezione, per la quale esistevano motivi sufficienti ancora prima di Auschwitz, in tutte le atrocità della storia, indica in ogni caso che un concetto puramente armonioso di bellezza non è sufficiente. Non regge il confronto con la gravità della messa in discussione di Dio, della verità, della bellezza. Apollo, che per il Socrate di Platone era « il Dio » e il garante della imperturbata bellezza come « il veramente divino », non basta assolutamente più. In questo modo ritorniamo alle « due trombe » della Bibbia dalle quali eravamo partiti, al paradosso per cui di Cristo si possa dire sia « Tu sei il più bello tra i figli dell’uomo », sia « Non ha apparenza né bellezza…… il suo volto è sfigurato dal dolore ». Nella passione di Cristo l’estetica greca, così degna di ammirazione per il suo presentito contatto con il divino, che pure le resta indicibile, non viene rimossa, bensì superata. L’esperienza del bello ha ricevuto una nuova profondità, un nuovo realismo. Colui che è la Bellezza stessa si è lasciato colpire in volto, sputare addosso, incoronare di spine – la Sacra Sindone di Torino può farci immaginare tutto questo in maniera toccante. Ma proprio in questo Volto così sfigurato appare l’autentica, estrema bellezza: la bellezza dell’amore che arriva « sino alla fine » e che, appunto in questo, si rivela più forte della menzogna e della violenza. Chi ha percepito questa bellezza sa che proprio la verità, e non la menzogna, è l’ultima istanza del mondo. Non la menzogna è « vera », bensì proprio la verità. E’ per così dire un nuovo trucco della menzogna presentarsi come « verità » e dirci: al di là di me non c’e in fondo nulla, smettete di cercare la verità o addirittura di amarla; così facendo siete sulla strada sbagliata. L’icona di Cristo crocifisso ci libera da questo inganno oggi dilagante. Tuttavia essa pone come condizione che noi ci lasciamo ferire insieme a lui e crediamo all’Amore, che può rischiare di deporre la bellezza esteriore per annunciare, proprio in questo modo, la verità della bellezza.
La menzogna conosce comunque anche un altro stratagemma: la bellezza mendace, falsa, una bellezza abbagliante che non fa uscire gli uomini da sé per aprirli nell’estasi dell’innalzarsi verso l’alto, bensì li imprigiona totalmente in se stessi. E’ quella bellezza che non risveglia la nostalgia per l’indicibile, la disponibilità all’offerta, all’abbandono di sé, ma ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di piacere. E’ quel tipo di esperienza della bellezza di cui la Genesi parla nel racconto del peccato originale: Eva vide che il frutto dell’albero era « bello » da mangiare ed era « piacevole all’occhio ». La bellezza, così come ne fa esperienza, risveglia in lei la voglia del possesso, la fa ripiegare per così dire su se stessa. Chi non riconoscerebbe, ad esempio nella pubblicità, quelle immagini che con estrema abilità sono fatte per tentare irresistibilmente l’uomo ad appropriarsi di ogni cosa, a cercare il soddisfacimento del momento anziché l’ aprirsi ad altro da sé? Così l’ arte cristiana si trova oggi ( e forse già da sempre) tra due fuochi: deve opporsi al culto del brutto il quale ci dice che ogni altra cosa, ogni bellezza è inganno e solo la rappresentazione di quanto è crudele, basso, volgare, sarebbe la verità e la vera illuminazione della conoscenza. E deve contrastare la bellezza mendace che rende l’uomo più piccolo, anziché renderlo grande e che, proprio per questo, è menzogna.
Chi non ha conosciuto la molto citata frase di Dostoevskij: « La bellezza ci salverà? » Ci si dimentica però nella maggior parte dei casi di ricordare che Dostoevskij intende qui la bellezza redentrice di Cristo. Dobbiamo imparare a vederLo. Se noi Lo conosciamo non più solo a parole ma veniamo colpiti dallo strale della sua paradossale bellezza, allora facciamo veramente la Sua conoscenza e sappiamo di Lui non solo per averne sentito parlare da altri. Allora abbiamo incontrato la bellezza della verità, della verità redentrice. Nulla ci può portare di più a contatto con la bellezza di Cristo stesso che il mondo del bello creato dalla fede e la luce che risplende sul volto dei Santi, attraverso la quale diventa visibile la Sua propria Luce.

Io sono la via, la verità e la vita

Io sono la via, la verità e la vita dans immagini sacre je-suis
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Publié dans:immagini sacre |on 16 mai, 2014 |Pas de commentaires »
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