Archive pour mai, 2014

SAN MATTIA APOSTOLO – 14 MAGGIO

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SAN MATTIA APOSTOLO

14 MAGGIO

SEC. I

Di Mattia si parla nel primo capitolo degli Atti degli apostoli, quando viene chiamato a ricomporre il numero di dodici, sostituendo Giuda Iscariota. Viene scelto con un sorteggio, attraverso il quale la preferenze divina cade su di lui e non sull’altro candidato – tra quelli che erano stati discepoli di Cristo sin dal Battesimo sul Giordano -, Giuseppe, detto Barsabba. Dopo Pentecoste, Mattia inizia a predicare, ma non si hanno più notizie su di lui. La tradizione ha tramandato l’immagine di un uomo anziano con in mano un’alabarda, simbolo del suo martirio. Ma non c’è evidenza storica di morte violenta. Così come non è certo che sia morto a Gerusalemme e che le reliquie siano state poi portate da sant’Elena, madre dell’imperatore Costantino, a Treviri, dove sono venerate. (Avvenire)

Etimologia: Mattia = uomo di Dio, dall’ebraico

Martirologio Romano: Festa di san Mattia, apostolo, che seguì il Signore Gesù dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui Cristo fu assunto in cielo; per questo, dopo l’Ascensione del Signore, fu chiamato dagli Apostoli al posto di Giuda il traditore, perché, associato fra i Dodici, divenisse anche lui testimone della resurrezione.
Mattia, abbreviazione del nome ebraico Mattatia, che significa dono di Jahvè, fu eletto al posto di Giuda, il traditore, per completare il numero simbolico dei dodici apostoli, raffigurante i dodici figli di Giacobbe e quindi le dodici tribù d’Israele. Secondo gli Atti apocrifi, egli sarebbe nato a Betlemme, da una illustre famiglia della tribù di Giuda. Una cosa è certa, perché affermata da S. Pietro (Atti, 1,21), che Mattia fu uno di quegli uomini che accompagnarono gli apostoli per tutti il tempo che Gesù Cristo visse con loro, a cominciare dal battesimo nel fiume Giordano fino all’Ascensione al cielo. Non è improbabile che facesse parte dei 72 discepoli designati dal Signore e da lui mandati, come agnelli fra i lupi, a due a due davanti a sé, in ogni città e luogo dov’egli stava per andare. S. Mattia conosceva certamente il più antipatico degli apostoli, Giuda, nativo di Kariot, quello che nella lista dei Dodici è sempre messo all’ultimo posto e designato con l’espressione « colui che tradì il Signore ». Durante le peregrinazioni apostoliche, Gesù e i discepoli ricevevano doni e offerte dalle folle entusiaste e riconoscenti per i malati che guarivano. S’impose perciò la necessità di affidare a qualcuno di loro l’incombenza di economo. Fu scelto Giuda, ma ci dice San Giovanni che non fu onesto nel suo ufficio.
Sei giorni prima della Pasqua, Gesù fu invitato a Betania, con gli apostoli e l’amico Lazzaro risuscitato dai morti, ad un banchetto in casa di Simone, il lebbroso. Mentre Marta serviva, Maria, sua sorella, prese una libbra d’unguento di nardo genuino, di molto valore, unse i piedi di Gesù e glieli asciugò con i suoi capelli.
Allora Giuda Iscariota protestò: « Perché quest’unguento non è stato venduto per più di 300 denari e non è stato dato ai poveri? ». Ma, commenta ironicamente S. Giovanni l’evangelista, « disse questo non perché si preoccupasse dei poveri, ma perché era ladro, e avendo la borsa portava via quello che vi si metteva » (Giov 12,1-11). Aveva paura di morire di fame? Temeva forse, avaro com’era, una vecchiaia triste e solitaria? Quando seppe che i capi del Sinedrio cercavano il modo di catturare Gesù per condannarlo a morte, ingordo di denaro, andò dai sommi sacerdoti e promise loro di tradirlo per trenta monete d’argento, il compenso fissato dalla legge per l’uccisione accidentale di uno schiavo (Es. 21,32).
Durante l’ultima cena, Gesù fece più volte allusione al suo traditore, anzi lo designò apertamente (Mt 26,25), Dopo la cena, quando il Signore si ritirò a pregare al di là del torrente Cedron, il perfido Giuda giunse a capo di sgherri armati di spade e bastoni e, secondo il segnale loro dato, glielo consegnò nelle mani baciandolo. Il rimorso però non tardò ad attanagliargli l’animo. L’apostolo, infedele alla sua missione, quando seppe che il sinedrio aveva condannato il suo Maestro, che lo aveva sempre trattato con bontà anche nell’ora buia del tradimento, riportò i trenta denari, che gli scottavano in mano, ai sommi sacerdoti e agli anziani, gemendo; « Ho peccato, tradendo sangue innocente! ». Ed egli, gettati i denari d’argento nel tempio, fuggì e, in preda alla disperazione alla quale non seppe reagire, andò ad impiccarsi (Mt 27,3-5).
Gesù nell’ultima cena, dopo lo smascheramento di chi lo tradiva, aveva esclamato: « Guai a quell’uomo per opera del quale il Figlio dell’uomo è tradito: era meglio per lui che non fosse mai nato! » (Mt 26,24). Dopo l’Ascensione di Gesù al cielo, gli apostoli ritornarono a Gerusalemme, nel cenacolo. Di comune accordo essi erano perseveranti nell’orazione con alcune donne, con Maria, la Madre di Gesù, e con i cugini di lui. Mentre attendevano « la promessa del Padre », cioè lo Spirito Santo, Pietro, alzatesi in mezzo ai fratelli (c’era una folla di circa 120 persone), prese a dire: « Era necessario che si adempisse la Scrittura che lo Spirito Santo, per bocca di David, aveva predetto nei riguardi di Giuda, il quale si fece guida a coloro che catturarono Gesù; poiché egli era annoverato tra noi ed ebbe la sorte di partecipare a questo ministero. Costui, inoltre, con la mercede del suo delitto, acquistò un campo; caduto a capofitto, gli scoppiò il ventre e si sparsero tutte le sue viscere. Il fatto divenne noto a tutti gli abitanti di Gerusalemme, tanto che quel campo, nel loro idioma, fu chiamato Aceldama, cioè campo del sangue. Infatti nel libro dei Salmi sta scritto: « Divenga deserta la sua dimora, e non vi sia chi l’abiti! ». E ancora: « Prenda un altro il suo ufficio ». E’ dunque necessario che uno degli uomini che ci furono compagni per tutto il tempo che il Signore Gesù trascorse tra noi, a partire dal battesimo di Giovanni fino al giorno in cui fu assunto di mezzo a noi, divenga, insieme con noi, testimone della sua risurrezione » (Atti 1, 16-22).
Ne presentarono due: Giuseppe, di cognome Barsabba, il quale era soprannominato Giusto, e Mattia. Poi pregarono dicendo: « O Signore, tu che conosci i cuori di tutti, indicaci quale di questi due hai scelto per assumere l’ufficio di questo ministero e di questo apostolato, dal quale Giuda perfidamente si partì per andarsene al proprio luogo ». Poi tirarono la sorte, e la sorte cadde su Mattia, e venne annoverato con gli undici apostoli.
Quando giunse il giorno della Pentecoste, stavano tutti insieme nello stesso luogo. A un tratto, ci fu dal ciclo un fragore, come di vento impetuoso, e pervase tutta la casa dove essi si trovavano. E videro delle lingue che sembravano come di fuoco, dividersi e posarsi sopra ciascuno di loro. Tutti furono ripieni di Spirito Santo e cominciarono a parlare in altre lingue, secondo il modo in cui lo Spirito concedeva loro di esprimersi. Ora in Gerusalemme dimoravano pii Giudei di ogni nazione che è sotto il cielo. Udito quel fragore, si radunò una gran folla che rimase sbalordita, perché ciascuno li sentiva parlare nella propria lingua » (Atti c. 1).
Allora Pietro, insieme con gli undici, si fece avanti, alzò la voce e spiegò che quell’evento era stato predetto dal profeta Gioele e che Gesù, risuscitato dai morti, era stato costituito da Dio « Signore e Messia ». Molti presenti, sentendosi il cuore compunto, chiesero a Pietro e agli altri apostoli: « Fratelli, che cosa dobbiamo fare? ». E Pietro disse loro; « Convertitevi e ognuno di voi si faccia battezzare nel nome di Gesù Cristo per la remissione dei vostri peccati, e riceverete il dono dello Spirito Santo ».
Quelli dunque che accettarono la sua esortazione si fecero battezzare, e, in quel luogo, circa tremila persone si associarono alla Chiesa. Ed erano sempre assidui alle istruzioni degli apostoli, alle riunioni comuni, allo spezzamento del pane e alle orazioni. Il timore si era impadronito di ogni anima, poiché per mezzo degli apostoli avvenivano molti segni e prodigi. E tutti i credenti stavano insieme e avevano ogni cosa in comune. Anzi vendevano le proprietà e i beni, e ne distribuivano fra tutti il ricavato, in proporzione al bisogno di ciascuno. E frequentavano insieme e assiduamente il tempio ogni giorno; spezzavano il pane di casa in casa; mangiavano insieme con giocondità e semplicità di cuore, lodando Iddio e godendo il favore di tutto il popolo. Il Signore, poi, associava alla Chiesa quelli che di giorno in giorno venivano salvati. (Ivi, c. 2).
La moltitudine dei credenti era di un sol cuore e di un’anima sola. Infatti tra loro non c’era alcun indigente, poiché tutti i padroni di campi o di case, man mano che li vendevano, portavano il ricavato delle cose vendute e lo mettevano a disposizione degli apostoli: poi veniva distribuito a ciascuno secondo la necessità che uno ne aveva.
E gli apostoli, frattanto, con grande energia rendevano testimonianza della risurrezione del Signore Gesù e, verso tutti loro, c’era una gran simpatia. Sicché la moltitudine di uomini e donne credenti nel Signore andava aumentando sempre più. (Ivi, cc. 4 e 5).
Si mosse allora il sommo sacerdote con tutti i suoi seguaci. Al colmo della gelosia afferrarono gli apostoli e li misero nella prigione popolare. Un angelo li mette in libertà? Essi li fanno arrestare dal prefetto del tempio, dove stanno imperterriti a istruire il popolo, intimano loro, dopo averli fatti fustigare, di non parlare affatto nel nome di Gesù. Essi se ne vanno via dal sinedrio giulivi per essere stati ritenuti degni di subire oltraggi a causa di quel nome. E ogni giorno, nel tempio e per le case, continuano a insegnare e ad annunziare senza posa la buona novella del Messia Gesù, (Ivi, cap. 5) fino a tanto che il martirio di S. Stefano prima, e l’imprigionamento di S. Pietro poi, li costringe provvidenzialmente a disperdersi per il mondo allora conosciuto per fare discepole del Martire del Golgota tutte le nazioni.
Le notizie posteriori riguardanti S. Mattia sono contraddittorie. Tutte però concordano nel dirlo martire. Le sue reliquie, vere o presunte, sono venerate a Roma nella basilica di S. Maria Maggiore.

Autore: Guido Pettinati

 

Publié dans:SANTI APOSTOLI |on 13 mai, 2014 |Pas de commentaires »

COME ENTRARE NEL TEMPO E NELLO SPAZIO DI DIO – di Sandro Magister

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350716?ref=hpchie

COME ENTRARE NEL TEMPO E NELLO SPAZIO DI DIO

Papa Francesco rompe a sorpresa il suo silenzio sulla liturgia. « È la nube di Dio che ci avvolge tutti », dice. E invoca un ritorno al vero senso del sacro

di Sandro Magister

ROMA, 14 febbraio 2014 – A cinquant’anni dalla promulgazione del documento del concilio Vaticano II sulla liturgia, in Vaticano solennizzano l’avvenimento con un convegno di tre giorni alla pontificia università del Laterano, promosso dalla congregazione per il culto divino, il 18-20 di questo mese.
La liturgia non è apparsa finora in primo piano nella visione di papa Francesco. Nella lunga intervista-confessione a « La Civiltà Cattolica » della scorsa estate, ridusse la riforma liturgica conciliare a questa sbrigativa definizione: « un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta ».
Non una parola di più, se non per il « preoccupante rischio di ideologizzazione del Vetus Ordo, la sua strumentalizzazione ».
Ma lunedì 10 febbraio, all’improvviso, Jorge Mario Bergoglio ha rotto il silenzio e ha dedicato alla liturgia l’intera omelia della messa mattutina nella cappella di Santa Marta. Dicendo cose che non aveva mai detto in precedenza, da quando è papa.
Quella mattina, nella messa si leggeva il primo libro dei Re, quando durante il regno di Salomone la nube, la gloria divina, riempì il tempio e « il Signore decise di abitare nella nube ».
Prendendo spunto da quella « teofania », papa Jorge Mario Bergoglio ha detto che « nella liturgia eucaristica Dio è presente », in modo ancor « più vicino » che nella nube nel tempio, la sua « è una presenza reale ».
E ha proseguito:
« Quando parlo di liturgia mi riferisco principalmente alla santa messa. La messa non è una rappresentazione, è un’altra cosa. È vivere un’altra volta la passione e la morte redentrice del Signore. È una teofania: il Signore si fa presente sull’altare per essere offerto al Padre per la salvezza del mondo ».

Più avanti il papa ha detto:
« La liturgia è tempo di Dio e spazio di Dio, e noi dobbiamo metterci lì nel tempo di Dio, nello spazio di Dio e non guardare l’orologio. La liturgia è proprio entrare nel mistero di Dio, lasciarsi portare al mistero ed essere nel mistero. È la nube di Dio che ci avvolge tutti ».
E tornando a un suo ricordo d’infanzia:
« Io ricordo che da bambino, quando ci preparavano alla prima comunione, ci facevano cantare: “’O santo altare custodito dagli angeli”, e questo ci faceva capire che l’altare era davvero custodito dagli angeli, ci dava il senso della gloria di Dio, dello spazio di Dio, del tempo di Dio ».
Avviandosi alla conclusione, Francesco ha invitato i presenti a « chiedere oggi al Signore che dia a tutti questo senso del sacro, questo senso che ci faccia capire che una cosa è pregare a casa, pregare il rosario, pregare tante belle preghiere, fare la via crucis, leggere la bibbia, e un’altra cosa è la celebrazione eucaristica. Nella celebrazione entriamo nel mistero di Dio, in quella strada che noi non possiamo controllare. Lui soltanto è l’unico, lui è la gloria, lui è il potere. Chiediamo questa grazia: che il Signore ci insegni a entrare nel mistero di Dio ».
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L’omelia di papa Francesco del 10 febbraio nella sintesi che ne ha dato « L’Osservatore Romano »:
> A messa senza orologio
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LA COSTITUZIONE DEL CONCILIO VATICANO II SULLA LITURGIA, IL PRIMO DEI DOCUMENTI APPROVATI DA QUELL’ASSISE:
> Sacrosanctum Concilium
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Ed ecco come ne parlò Benedetto XVI nel discorso a braccio al clero di Roma del 14 febbraio 2013, esattamente un anno fa, uno degli ultimissimi atti del suo pontificato:
« Dopo la prima guerra mondiale era cresciuto, nell’Europa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia, che era finora quasi chiusa nel messale del sacerdote, mentre la gente pregava con propri libri di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore della gente, così che si cercava di tradurre i contenuti alti, il linguaggio alto, della liturgia classica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo. Ma erano quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la messa secondo il messale, ed i laici, che pregavano, nella messa, con i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava sull’altare.
« Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del messale e la necessità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo chierichetto, dicesse ‘Et cum spiritu tuo’ eccetera, ma che fosse realmente un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell’altare e la liturgia del popolo fosse un’unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia.
« Io trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. ‘Operi Dei nihil praeponatur’: questa parola della Regola di san Benedetto (cfr. 43, 3) appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale: parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del corpo e sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione. Adesso non vorrei entrare nei dettagli della discussione, ma vale sempre la pena tornare, oltre le attuazioni pratiche, al Concilio stesso, alla sua profondità e alle sue idee essenziali.
« Ve n’erano, direi, diverse: soprattutto il mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi della vita cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della risurrezione. Sempre di nuovo cominciamo il nostro tempo con la risurrezione, con l’incontro con il Risorto, e dall’incontro con il Risorto andiamo al mondo. In questo senso, è un peccato che oggi si sia trasformata la domenica in fine settimana, mentre è la prima giornata, è l’inizio; interiormente dobbiamo tenere presente questo: che è l’inizio, l’inizio della creazione, è l’inizio della ri-creazione nella Chiesa, incontro con il Creatore e con Cristo risorto. Anche questo duplice contenuto della domenica è importante: è il primo giorno, cioè festa della creazione, noi stiamo sul fondamento della creazione, crediamo nel Dio creatore; e incontro con il Risorto, che rinnova la creazione; il suo vero scopo è creare un mondo che è risposta all’amore di Dio.
« Poi c’erano dei principi: l’intelligibilità, invece di essere rinchiusi in una lingua non conosciuta, non parlata, ed anche la partecipazione attiva. Purtroppo, questi principi sono stati anche male intesi. Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio, se penso giorno per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla lettura delle epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo ».

Descente de crois, Rubens

Descente de crois, Rubens dans immagini sacre 403px-Descente_de_croix_rubens
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Publié dans:immagini sacre |on 12 mai, 2014 |Pas de commentaires »

NOI, VASI DI CRETA, ALLA SCUOLA DEL BEATO LUIGI NOVARESE

http://www.sodcvs.org/cvsitalia/?p=2696

NOI, VASI DI CRETA, ALLA SCUOLA DEL BEATO LUIGI NOVARESE

Pubblicato il 10 agosto 2013 da Giovanni

“Chi più del malato possiede un tesoro in vasi di creta?”. Si è ispirato alla Lettera di San Paolo Apostolo ai Corinzi mons. Tommaso Valentinetti, Arcivescovo della Diocesi di Pescara Penne, in occasione della Messa di ringraziamento per la beatificazione di mons. Luigi Novarese, tenutasi lo scorso 25 luglio. Erano in tanti, oltre al CVS, ad ascoltarlo nella parrocchia dello Spirito Santo di Pescara: l’Unitalsi, la Pastorale ospedaliera, la Consulta delle Aggregazioni Laicali, il Rinnovamento nello Spirito, la Pastorale familiare “Lui e Lei” e un gruppo di amici dell’associazione.
Nella sua omelia mons. Valentinetti, affiancato da don Luciano Volpe, don Giancarlo Mandelli e don Tommaso Fallica, ha ricordato così il Beato Luigi Novarese, apostolo dei malati:”Andò a cercare gli ammalati ovunque essi si trovavano, per ricomunicare ad essi la gioia di vivere e la serenità dentro un cammino di Fede che essi avevano il diritto di fare e di compiere in pienezza e in verità.” Guidato dalle parole di San Paolo ha proseguito: “Noi abbiamo un tesoro in vasi di creta. Chi più del malato possiede un tesoro in vasi di creta? I malati sono richiamati da questa Parola a sentirsi investiti dalla grazia del Signore. Tribolati ma non schiacciati, sconvolti ma non disperati […] portando nel proprio corpo, la morte di Gesù, perché anche la vita di Gesù si manifesti nel nostro corpo.”
Con il linguaggio chiaro, immediato e coinvolgente che lo contraddistingue, Valentinetti ha raccontato di come il corpo e l’anima lacerata degli ammalati siano stati dentro il cuore di mons. Luigi Novarese e di come egli abbia creato stupende realtà associative per potersi inserire dentro la storia di ogni situazione umana, dentro la storia di coloro che portavano più da vicino la croce di nostro Signore.Al termine dell’omelia, l’Arcivescovo ha invitato l’assemblea a imitare il Beato, animati dallo stesso spirito di Fede che la pagina di S. Paolo suggerisce: “Ho creduto perciò ho parlato”. “Anche noi crediamo e perciò parliamo!”, ha concluso, “convinti che Colui che ha risuscitato il Signore Gesù, risusciterà anche noi. Sia questa la speranza nostra e la speranza di tutti i malati, che attraverso la figura e l’Opera di mons. Luigi Novarese si accostano al Signore, alla Parola di Dio e ai Sacramenti. Che siano sempre più pronti a donare tutto e senza riserve. A donare per amore e solo per amore. Il Signore ci illumini e ci faccia comprendere l’abbondanza di questo insegnamento e la vita di quest’uomo che ha donato tutto sé stesso per il bene delle anime, per il bene degli ammalati”.
Un grazie di cuore all’Arcivescovo, ai Presbiteri, ai Diaconi Giancarlo Cirillo e Laurino Circeo, agli Accoliti, al coro parrocchiale che ha animato la liturgia e a quanti sono intervenuti per lodare insieme il Signore per le meraviglie che ha operato nel Beato Luigi Novarese!

Lucia Maiolino

IL BENE DEL MATRIMONIO

http://www.madonnadellasalutevr.it/index.php?option=com_content&view=article&id=17&Itemid=19

IL BENE DEL MATRIMONIO

« Abbiamo questo tesoro in vasi di creta », ha scritto S. Paolo parlando del ministero apostolico. Penso che si possa dire lo stesso anche del matrimonio: un vero e proprio tesoro, anche se depositato in vasi di creta. Vorrei aiutarvi colla seguente riflessione a prendere coscienza della bontà, della preziosità insita nel matrimonio. Il mio quindi non sarà un discorso esortativo-morale; né sarà una diagnosi della condizione in cui versa oggi il matrimonio nella società civile. Più semplicemente: sarà una riflessione sulla verità del matrimonio dalla quale possa venire a voi, lo spero, gioia grande nello spirito. Ci farà da guida l’insegnamento del Concilio Vaticano II [cfr. Cost. Past. Gaudium et spes 48] che distingue la bontà, il valore intrinseco del matrimonio in quanto istituito da Dio creatore, e l’abbondanza delle benedizioni effuse da Cristo redentore elevandolo alla dignità di sacramento.

La bontà naturale del matrimonio
La persona umana è uomo e donna. Possiamo chiederei: c’è una ragione intrinseca a questo fatto? Perché l’ humanum si realizza in due modi o forme, il modo della mascolinità ed il modo della femminilità? Qualcuno potrebbe rispondere che è una costante biologica. Da un certo grado in poi nella scala dei viventi la modalità con cui si assicura una migliore continuità della specie, è il dimorfismo sessuale. La risposta è solo parzialmente vera, e soprattutto ha un approccio al problema quanto meno rischioso. Che sia parzialmente vera non compete a me dimostrarlo: è un fatto verificabile nei modi propri della verifica scientifica. Mi preme maggiormente fermarmi sull’altro punto. È rischioso avere un approccio alla problematica antropologica « partendo dal basso », facendo cioè un ragionamento più o meno di questo tipo: « come in tutte le specie viventi da un certo livello in poi .. così anche nell’uomo … ». Il rischio è che questa metodologia impedisce di capire l’originalità della persona, la sua incomparabile unicità, riducendola ad un « caso » di legge generale. Ritorniamo dunque alla nostra domanda per cercare una risposta più adeguata. Essa ci è suggerita dalle prime pagine della S. Scrittura. Nel secondo capitolo della Genesi la creazione della persona umana-donna è spiegata colla esigenza della persona umana-uomo di uscire dalla sua originaria solitudine. Non date a questa parola « solitudine » il significato indebolito psicologico che ha nel nostro linguaggio comune, una sorta di malessere psichico. Ha un significato ontologico: non riguarda il sentire ma l’essere della persona. Solitudine significa impossibilità di comunicare con un altro da sé; significa incompletezza quanto all’essere: è meno persona dal momento che è « sola » ["non è bene... "]. La creazione della persona umana-donna rende possibile l’uscita da sé da parte della persona umana-uomo: rende possibile la comunione con un altro e quindi la comunicazione. Non a caso le prime parole che l’uomo dice, le dice alla donna: diventa capace di parlare perché diventa capace di comunicare; diventa capace di comunicare perché diventa capace di comunione. La sequenza è: linguaggio ? comunicazione ? comunione. Fate bene attenzione. La persona che rende possibile la comunione è la persona-donna. È un modo di essere persona diverso, espresso nella corporeità sessuale femminilmente configurata. Detto in un modo un poco rozzo. Non è creando un secondo uomo che l’uomo sarebbe uscito dalla sua solitudine: si sarebbe trovato di fronte un altro se stesso, e non un … « altro altro ». La comunione interpersonale è possibile se esiste un altro in senso vero e proprio, ma che nello stesso tempo abbia la stessa dignità ontologica di persona. Questa breve riflessione ci dà tutti gli elementi necessari per costruire la risposta alla nostra domanda. La mascolinità e la femminilità sono il « simbolo reale » dell’originaria relazionalità della persona umana. Spiego analiticamente questa fondamentale affermazione. Per capire che cosa è un « simbolo reale » dobbiamo tener presente che esiste non solo il linguaggio informativo ma anche performativo. Faccio un esempio. Se dico ad una persona: « ti ringrazio », uso un linguaggio informativo. Esprimo a quella persona che ho nei suoi confronti un attitudine di gratitudine. Ma non solo. Nello stesso tempo in cui dico « ti ringrazio », compio anche di fatto un atto di ringraziamento. Non è sempre così il nostro linguaggio. Il « simbolo reale » è un segno, è un linguaggio e informativo e performativo. La costituzione sessuale della persona esprime » dice, « informa » che essa [la persona] è originariamente in relazione: è costituita dentro la relazione. Ma nello stesso tempo la costituzione sessuale rende possibile, è in grado di realizzare una vera e propria comunione interpersonale. Ho usato spesso la parola « originario/a ». Che cosa significa? Due cose. Primo, che la natura della persona umana è fatta in questo modo; secondo che la libertà non è sradicata da questa costituzione ma ne è responsabile; le è data come compito. « In tal modo, il corpo umano, contrassegnato dal sigillo della mascolinità o della femminilità, racchiude fin dal principio l’attributo sponsale, cioè la capacità di esprimere l’amore: quell’amore appunto nel quale l’uomo-persona diventa dono e – mediante questo dono – attua il senso stesso del suo essere e del suo esistere » [Congregazione per la Dottrina della Fede, Dich. Esperta in umanità (31.5.2004) 6,3; EV 22/2796]. Non si dimentichi che come ogni linguaggio, anche il linguaggio della sessualità ha la sua propria « grammatica ». Se non viene rispettata, il linguaggio o diventa incomprensibile o veicola significati falsi. Da quanto abbiamo detto finora la grammatica del linguaggio sessuale è la grammatica del dono di sé. Riprendiamo ora l’inizio della nostra riflessione. La riflessione fatta finora ci ha fatto scoprire che il matrimonio è un « tesoro ». Esso è la prima e in un certo senso la fondamentale espressione e realizzazione della costituzione relazionale della persona umana, e della chiamata della medesima alla comunione. E il simbolo reale che il matrimonio è questo, è che solo in esso si pongono le condizioni perché venga all’esistenza una nuova persona in modo adeguato alla sua dignità. La verità del matrimonio libera la persona dal rischio che essa si inabissi in un confronto sterile e alla fine mortale solo con se stessa [cfr. doc. cit.; 2794]. E la paternità-maternità è la perfetta uscita da sé, l’autodonazione che realizza nella pienezza la comunione fra l’uomo e la donna. Il matrimonio è un grande bene che vi è stato donato perché è la possibilità di realizzare in pienezza voi stessi nell’unico modo vero: nel dono di sé sponsale e genitoriale.

2. La bontà soprannaturale del matrimonio
Entriamo ora nell’universo della fede. In esso la preziosità propria del matrimonio è stata elevata a dignità sublime. Cercherò ora di balbettare qualcosa al riguardo, partendo da un’esperienza molto semplice. Sicuramente ci è capitato di dire: « questa persona è più bella di quella », oppure « questa musica, questa chiesa, questa città è più bella di quella… ». Noi cioè siamo capaci di istituire una gradazione all’ interno della stessa perfezione [nell' esempio: la bellezza]. Quest’ operazione spirituale è possibile perché abbiamo una qualche sia pure oscura percezione della perfezione in questione al grado puro, al grado sommo. Altrimenti come potremmo dire « più-meno » se non avessimo una misura con cui misurare il grado di perfezione? Non solo. L’essere « più » o « meno » [e.g. bello/a] non può spiegarsi che in base alla più o meno intensa partecipazione a quella perfezione e al suo stato puro. Lo dice la parola stessa, partecipazione, cioè « prendere-parte ». È nel prendere parte è possibile un più e un meno. Che cosa accade in un uomo ed in una donna che si sposano « in Cristo », che ricevono cioè il sacramento del matrimonio? Sono resi partecipi dello stesso amore di Cristo quale si è realizzato nella sua perfezione pura sulla croce. L’apostolo Giovanni introduce il racconto della passione del Signore scrivendo che in essa l’amore di Gesù giunse alla sua suprema perfezione. Mediante il sacramento del matrimonio, l’uomo e la donna sono resi partecipi e quindi capaci di amarsi collo stesso amore, con cui Cristo ha amato, anche se, ovviamente, non colla stessa misura. L’amore sponsale di due sposi cristiani è della stessa natura, anche se di misura diversa dell’amore di Cristo crocefisso. Fate bene attenzione: non sto parlando di un compito, sto parlando di una grazia; non sto parlando di un impegno, sto parlando di un dono. Per riceverlo non è chiesto di più che la volontà di sposarsi « in Cristo » cioè di celebrare non il matrimonio semplicemente ma il matrimonio-sacramento. Nulla di meno; ma neanche nulla di più. Potete ora capire perché nella fede la preziosità propria del matrimonio è elevata a dignità sublime. Alla fine del punto precedente vi dicevo che il matrimonio è un grande bene perché esso dona all’uomo e alla donna la possibilità di realizzare se stessi nel modo vero, cioè nel dono di sé. Nel sacramento questa possibilità viene inabitata e come investita da una possibilità umano-divina, quella di Cristo crocefisso. C’è un altro aspetto su cui voglio attirare la vostra attenzione. Abbiamo questo tesoro in vasi di creta, ci dice l’Apostolo. Vi ho parlato poc’anzi della « grammatica » del dono che crea comunione fra l’uomo e la donna. Ma il linguaggio sessuale può essere detto seguendo la « grammatica » del possesso che genera conflitto fra l’uomo e la donna. La preziosità è stata deturpata, la correlazione originaria è stata ferita: ha bisogno di essere guarita. Inseriti nel mistero della Croce, l’uomo e la donna sposi sono guariti dalla grazia di Cristo, e sono riportati ad una comunione nella quale la concupiscenza può essere vinta. È certo un cammino difficile e lungo. « Nella forza della risurrezione è possibile la vittoria della fedeltà sulle debolezze, sulle ferite subite e sui peccati della coppia. Nella grazia del Cristo che rinnova il loro cuore, l’uomo e la donna diventano capaci di liberarsi del peccato e di conoscere la gioia del dono reciproco » [Congregazione della Dottrina della Fede, Dich. Esperta].

Conclusione
Mi piace concludere con un testo di K. Woitila. « Creare qualcosa che rispecchi l’Essere e l’Amore assoluto è forse la cosa più straordinaria che esista. Ma si campa senza rendersene conto » [in Tutte le opere letterarie, Bompiani, Milano 2001, pago 869]. È detto tutto. È « il tesoro »: « creare qualcosa », dare cioè origine alla comunione sponsale e famigliare; « che rispecchi l’Essere e l’Amore assoluti »; la costitutiva correlazione della persona umana è ad immagine di Dio. Ma il tesoro « è deposto in vasi di creta », poiché « si campa anche senza rendersene conto ». Ed allora, « l’amore è una sfida continua. Dio stesso forse ci sfida affinché noi stessi sfidiamo il destino » [ibid. pago 849].

Publié dans:la coppia, MATRIMONIO (IL) |on 12 mai, 2014 |Pas de commentaires »

Detail of a mosaic in San Lorenzo fuori le mura in Rome of Christ the Good Shepherd, – Vangelo di domani

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San Pietro Apostolo

San Pietro Apostolo dans immagini sacre pierre
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CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DI PENTECOSTE – BENEDETTO XVI 2011

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2011/documents/hf_ben-xvi_hom_20110612_pentecoste_it.html

CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DI PENTECOSTE

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana

domenica, 12 giugno 2011

Cari fratelli e sorelle!

Celebriamo oggi la grande solennità della Pentecoste. Se, in un certo senso, tutte le solennità liturgiche della Chiesa sono grandi, questa della Pentecoste lo è in una maniera singolare, perché segna, raggiunto il cinquantesimo giorno, il compimento dell’evento della Pasqua, della morte e risurrezione del Signore Gesù, attraverso il dono dello Spirito del Risorto. Alla Pentecoste la Chiesa ci ha preparato nei giorni scorsi con la sua preghiera, con l’invocazione ripetuta e intensa a Dio per ottenere una rinnovata effusione dello Spirito Santo su di noi. La Chiesa ha rivissuto così quanto è avvenuto alle sue origini, quando gli Apostoli, riuniti nel Cenacolo di Gerusalemme, «erano perseveranti e concordi nella preghiera, insieme ad alcune donne e a Maria, la madre di Gesù, e ai fratelli di lui» (At 1,14). Erano riuniti in umile e fiduciosa attesa che si adempisse la promessa del Padre comunicata loro da Gesù: «Voi, tra non molti giorni, sarete battezzati in Spirito Santo…riceverete la forza dallo Spirito Santo che scenderà su di voi» (At 1,5.8).

Nella liturgia della Pentecoste, al racconto degli Atti degli Apostoli sulla nascita della Chiesa (cfr At 2,1-11), corrisponde il salmo 103 che abbiamo ascoltato: una lode dell’intera creazione, che esalta lo Spirito Creatore il quale ha fatto tutto con sapienza: «Quante sono le tue opere, Signore! Le hai fatte tutte con saggezza; la terra è piena delle tue creature…Sia per sempre la gloria del Signore; gioisca il Signore delle sue opere» (Sal 103,24.31). Ciò che vuol dirci la Chiesa è questo: lo Spirito creatore di tutte le cose, e lo Spirito Santo che Cristo ha fatto discendere dal Padre sulla comunità dei discepoli, sono uno e il medesimo: creazione e redenzione si appartengono reciprocamente e costituiscono, in profondità, un unico mistero d’amore e di salvezza. Lo Spirito Santo è innanzitutto Spirito Creatore e quindi la Pentecoste è anche festa della creazione. Per noi cristiani, il mondo è frutto di un atto di amore di Dio, che ha fatto tutte le cose e del quale Egli si rallegra perché è “cosa buona”, “cosa molto buona” come dice il racconto della creazione (cfr Gen 1,1-31). Dio perciò non è il totalmente Altro, innominabile e oscuro. Dio si rivela, ha un volto, Dio è ragione, Dio è volontà, Dio è amore, Dio è bellezza. La fede nello Spirito Creatore e la fede nello Spirito che il Cristo Risorto ha donato agli Apostoli e dona a ciascuno di noi, sono allora inseparabilmente congiunte.

La seconda Lettura e il Vangelo odierni ci mostrano questa connessione. Lo Spirito Santo è Colui che ci fa riconoscere in Cristo il Signore, e ci fa pronunciare la professione di fede della Chiesa: “Gesù è Signore” (cfr 1 Cor 12,3b). Signore è il titolo attribuito a Dio nell’Antico Testamento, titolo che nella lettura della Bibbia prendeva il posto del suo impronunciabile nome. Il Credo della Chiesa è nient’altro che lo sviluppo di ciò che si dice con questa semplice affermazione: “Gesù è Signore”. Di questa professione di fede san Paolo ci dice che si tratta proprio della parola e dell’opera dello Spirito. Se vogliamo essere nello Spirito Santo, dobbiamo aderire a questo Credo. Facendolo nostro, accettandolo come nostra parola, accediamo all’opera dello Spirito Santo. L’espressione “Gesù è Signore” si può leggere nei due sensi. Significa: Gesù è Dio, e contemporaneamente: Dio è Gesù. Lo Spirito Santo illumina questa reciprocità: Gesù ha dignità divina, e Dio ha il volto umano di Gesù. Dio si mostra in Gesù e con ciò ci dona la verità su noi stessi. Lasciarsi illuminare nel profondo da questa parola è l’evento della Pentecoste. Recitando il Credo, noi entriamo nel mistero della prima Pentecoste: dallo scompiglio di Babele, da quelle voci che strepitano una contro l’altra, avviene una radicale trasformazione: la molteplicità si fa multiforme unità, dal potere unificatore della Verità cresce la comprensione. Nel Credo che ci unisce da tutti gli angoli della Terra, che, mediante lo Spirito Santo, fa in modo che ci si comprenda pur nella diversità delle lingue, attraverso la fede, la speranza e l’amore, si forma la nuova comunità della Chiesa di Dio.

Il brano evangelico ci offre poi una meravigliosa immagine per chiarire la connessione tra Gesù, lo Spirito Santo e il Padre: lo Spirito Santo è rappresentato come il soffio di Gesù Cristo risorto (cfr Gv 20,22). L’evangelista Giovanni riprende qui un’immagine del racconto della creazione, là dove si dice che Dio soffiò nelle narici dell’uomo un alito di vita (cfr Gen 2,7). Il soffio di Dio è vita. Ora, il Signore soffia nella nostra anima il nuovo alito di vita, lo Spirito Santo, la sua più intima essenza, e in questo modo ci accoglie nella famiglia di Dio. Con il Battesimo e la Cresima ci è fatto questo dono in modo specifico, e con i sacramenti dell’eucaristia e della Penitenza esso si ripete di continuo: il Signore soffia nella nostra anima un alito di vita. Tutti i Sacramenti, ciascuno in maniera propria, comunicano all’uomo la vita divina, grazie allo Spirito Santo che opera in essi.

Nella liturgia di oggi cogliamo ancora un’ulteriore connessione. Lo Spirito Santo è Creatore, è al tempo stesso Spirito di Gesù Cristo, in modo però che il Padre, il Figlio e lo Spirito Santo sono un solo ed unico Dio. E alla luce della prima Lettura possiamo aggiungere: lo Spirito Santo anima la Chiesa. Essa non deriva dalla volontà umana, dalla riflessione, dall’abilità dell’uomo o dalla sua capacità organizzativa, poiché se così fosse essa già da tempo si sarebbe estinta, così come passa ogni cosa umana. La Chiesa invece è il Corpo di Cristo, animato dallo Spirito Santo. Le immagini del vento e del fuoco, usate da san Luca per rappresentare la venuta dello Spirito Santo (cfr At 2,2-3), ricordano il Sinai, dove Dio si era rivelato al popolo di Israele e gli aveva concesso la sua alleanza; “il monte Sinai era tutto fumante – si legge nel Libro dell’Esodo –, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco” (19,18). Infatti Israele festeggiò il cinquantesimo giorno dopo Pasqua, dopo la commemorazione della fuga dall’Egitto, come la festa del Sinai, la festa del Patto. Quando san Luca parla di lingue di fuoco per rappresentare lo Spirito Santo, viene richiamato quell’antico Patto, stabilito sulla base della Legge ricevuta da Israele sul Sinai. Così l’evento della Pentecoste viene rappresentato come un nuovo Sinai, come il dono di un nuovo Patto in cui l’alleanza con Israele è estesa a tutti i popoli della Terra, in cui cadono tutti gli steccati della vecchia Legge e appare il suo cuore più santo e immutabile, cioè l’amore, che proprio lo Spirito Santo comunica e diffonde, l’amore che abbraccia ogni cosa. Allo stesso tempo la Legge si dilata, si apre, pur diventando più semplice: è il Nuovo Patto, che lo Spirito “scrive” nei cuori di quanti credono in Cristo. L’estensione del Patto a tutti i popoli della Terra è rappresentata da san Luca attraverso un elenco di popolazioni considerevole per quell’epoca (cfr At 2,9-11). Con questo ci viene detta una cosa molto importante: che la Chiesa è cattolica fin dal primo momento, che la sua universalità non è il frutto dell’inclusione successiva di diverse comunità. Fin dal primo istante, infatti, lo Spirito Santo l’ha creata come la Chiesa di tutti i popoli; essa abbraccia il mondo intero, supera tutte le frontiere di razza, classe, nazione; abbatte tutte le barriere e unisce gli uomini nella professione del Dio uno e trino. Fin dall’inizio la Chiesa è una, cattolica e apostolica: questa è la sua vera natura e come tale deve essere riconosciuta. Essa è santa, non grazie alla capacità dei suoi membri, ma perché Dio stesso, con il suo Spirito, la crea, la purifica e la santifica sempre.

Infine, il Vangelo di oggi ci consegna questa bellissima espressione: «I discepoli gioirono al vedere il Signore» (Gv 20,20). Queste parole sono profondamente umane. L’Amico perduto è di nuovo presente, e chi prima era sconvolto si rallegra. Ma essa dice molto di più. Perché l’Amico perduto non viene da un luogo qualsiasi, bensì dalla notte della morte; ed Egli l’ha attraversata! Egli non è uno qualunque, bensì è l’Amico e insieme Colui che è la Verità che fa vivere gli uomini; e ciò che dona non è una gioia qualsiasi, ma la gioia stessa, dono dello Spirito Santo. Sì, è bello vivere perché sono amato, ed è la Verità ad amarmi. Gioirono i discepoli, vedendo il Signore. Oggi, a Pentecoste, questa espressione è destinata anche a noi, perché nella fede possiamo vederLo; nella fede Egli viene tra di noi e anche a noi mostra le mani e il fianco, e noi ne gioiamo. Perciò vogliamo pregare: Signore, mostrati! Facci il dono della tua presenza, e avremo il dono più bello: la tua gioia. Amen!

11 MAGGIO 2014 | 4A DOMENICA DI PASQUA A – LECTIO DIVINA : GV 10,1-10

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/Anno_A-2014/4-Pasqua-A-2014/Omelie/04-Domenica-Pasqua-A-2014/03-4a-Domenica-A-2014-JB.htm

11 MAGGIO 2014 | 4A DOMENICA DI PASQUA A | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : GV 10,1-10

Con la doppia immagine della porta dell’ovile ed il pastore del gregge, Gesù allude alla relazione personale che mantiene con la comunità dei discepoli. La familiarità con le sue pecore gli permette di comunicare con loro con facilità, guidarli con sicurezza e difenderli con efficacia. Gesù insiste, soprattutto, nella conoscenza personalizzata e mutua che regna tra il pastore ed il suo gregge, conseguenza di una convivenza continua. Come la porta dà accesso al gregge e alla vita, Gesù permette di entrare nella comunità e concede la vita in abbondanza: tutti gli altri, non sono degni di obbedienza e, più che dare vita, la rubano. L’opzione per Gesù conduce alla vita in comune di quanti mantengono una vita di obbedienza e di sequela: non c’è un’altra porta che conduca alla vita, nessun’altra che ci introduce nella comunità cristiana; in lei si riuniscono quelli che distinguono la voce del loro pastore dalla voce del ladro.

In quel tempo, Gesù disse:
1 « In verità, in verità io vi dico: chi non entra nel recinto delle pecore dalla porta, ma vi sale da un’altra parte, è un ladro e un brigante. 2 Chi invece entra dalla porta, è pastore delle pecore. 3 Il guardiano gli apre e le pecore ascoltano la sua voce: egli chiama le sue pecore, ciascuna per nome, e le conduce fuori. 4 E quando ha spinto fuori tutte le sue pecore, cammina davanti a esse, e le pecore lo seguono perché conoscono la sua voce. 5 Un estraneo invece non lo seguiranno, ma fuggiranno via da lui, perché non conoscono la voce degli estranei ». 6 Gesù disse loro questa similitudine, ma essi non capirono di che cosa parlava loro.
7 Allora Gesù disse loro di nuovo: « In verità, in verità io vi dico: io sono la porta delle pecore. 8 Tutti coloro che sono venuti prima di me, sono ladri e briganti; ma le pecore non li hanno ascoltati. 9 Io sono la porta: se uno entra attraverso di me, sarà salvato; entrerà e uscirà e troverà pascolo. 10 Il ladro non viene se non per rubare, uccidere e distruggere; io sono venuto perché abbiano la vita e l’abbiano in abbondanza.
1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Giovanni 10 è concepito come un dibattito in due parti tra Gesù e gli ebrei. Nella seconda, ambientata nel tempio (10,22-39), il conflitto si intensificherà, perché Gesù si identifica con Dio. Il nostro testo che appartiene alla prima parte (10,1-21), ha qualche relazione con la guarigione del cieco (10,21). Una doppia allusione alla reazione degli uditori (10,6.19-21) segnala due sezioni, introdotte per identica formulazione (10,1.7) che sono, in realtà, un unico discorso di Gesù, basato in differenti allegorie (ladro) mercenario/pastore, porta. Il vocabolario e le immagini sono prese dal mondo dei pastori; in un primo momento, la descrizione è generica, impersonale (10,1-5); nel secondo, si identifica alle due immagini menzionate prima da Gesù (10,7-10).
La similitudine del pastore e del ladro (10,1-6) è estratta dalla vita dei pastori, una realtà alla quale gli uditori di Gesù erano ben abituati. Ogni pastore, proprietario o salariato, aveva il suo proprio bestiame col quale conviveva durante il giorno; durante le notti i diversi greggi erano condotti ad un unico ovile la cui porta era custodita da un guardiano. Chi pensasse di rubare le pecore altrui doveva entrare nell’ovile facendo un buco nel muro o saltandolo. La mattina, bastava che ogni pecora sentisse la voce del suo padrone affinché uscisse dall’ovile e si lasciasse guidare dal suo pastore. Curiosamente, nelle parole di Gesù, la figura del ladro/bandito/estraneo avvolge e centra (10,1b.5) quella del pastore (10,2-4). Il contrasto tra tutti e due i personaggi rimane stabilito dal loro modo di agire, quando si avvicinano all’ovile (10,1-3°) e nel loro modo di uscire, seguiti o no, dalle pecore (10,3b-5). La forma di introdursi nell’ovile e, una volta dentro, la relazione di intimità che stabilisce con le pecore caratterizzano il pastore legittimo.
Il vero pastore entra per la porta, alla luce del giorno. La sua voce è familiare, conosce i nomi. Precede il suo gregge, senza che importi a questo dove si diriga. L’estraneo assalta l’ovile, ignora le pecore. Il successo di uno ed il fallimento di un altro è visto nel gregge che conosce la voce della sua guida, perché può chiamare ogni pecora per il suo nome (10,4.5; cf. Is 43,7): la convivenza porta verso la familiarità; la familiarità, è motivo della sequela; e questo, ratifica la leadership.
Con la spiegazione che dà alla parabola, Gesù va oltre il semplice chiarimento. In realtà, continua il discorso, ripetendo l’introduzione (10.1.7) ed identificandosi con la porta (10,7-10) e col buon pastore (10,11-18). Richiama l’attenzione che la porta (10,1-2) era, in primo luogo, criterio per distinguere il pastore buono dal cattivo; dopo, Gesù è la porta di entrata all’ovile (10,7) e quella di uscita che conduce ai pascoli (10,9; cf. Ez 34,14.25-31): via di accesso ed uscita alla vita, Gesù si offre come mezzo e meta della salvezza. Chi entra per lui è salvo; chi esce attraverso di lui trova la vita. Quelli che vennero e vengono prima di lui sono dei ladri, rubano la vita alle sue pecore invece di dargliela (10,8.10). Benché possa vedersi un’allusione, basandosi sulla critica profetica (Ger 23,1-2; Ez 34,1-10; Zac 11,4-10.15-16) ai leader religiosi ebrei, la cosa certa è che l’universalità dell’immagine mette in evidenza una chiara intenzione di screditare qualunque preteso salvatore che appaia nel mondo: chi non è Gesù è un ladro, un estraneo, che farà stragi invece di dare vita. Solo Gesù assicura vita abbondante ed intima conoscenza a chi lo segue.
2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
Gesù ci è presentato come pastore del gregge e come porta dell’ovile, due immagini che possono sembrare lontane della nostra realtà, ma che definiscono bene la missione che Gesù vuole svolgere nella nostra vita e nella nostra comunità. Sarebbe deplorevole che, per non captare quello che vuole dirci, perdessimo l’opportunità di godere del servizio che è disposto ad offrirci.
Il pastore guida il gregge perché convive con lui; è il suo leader, perché non ha altra occupazione che il suo gregge; conosce le sue pecore perché passa vicino ad esse il giorno e la notte. Il suo gregge riconosce la sua voce perché condivide il suo riposo ed il suo cibo. Perché cammina davanti a lui, può essere seguito con facilità; a differenza dell’agricoltore, il pastore vive col suo gregge e si prodiga per lui.
Presentandosi come pastore, Gesù ci svela il suo impegno di convivenza, il suo impegno nel condividere tempo e posto, riposo e fatiche, con coloro che lo seguono. Come leader, conosce la strada che deve fare il suo gregge perché l’ha fatta prima lui; come pastore, non mangerà fino a che il suo gregge abbia trovato pascolo né riposerà fino a che i suoi stiano al riparo. Per quel motivo, si conoscono tanto bene: la convivenza prolungata sbocca in intimità; dal condividere insieme pene e sforzi, nasce naturalmente la fiducia e dalla fiducia sorge senza sforzo l’obbedienza. Seguire chi avanza vicino a noi, precedendoci durante il tragitto, cercando alimento e preparandoci il riposo, non deve costare troppo; camminare dietro chi si è fatto compagno di strada, confidare in chi ha consacrato la sua vita per badare a noi, ubbidire a chi conosce le nostre stesse difficoltà, perché ha le fatte sue, non dovrebbe risultarci pesante.
Ma, sfortunatamente, non basta perché Gesù ottenga che sia il nostro pastore. Senza gregge da guidare, nessuno può illudersi di essere pastore. Se non glielo permettiamo, ignorando il suo impegno o ignorando la sua voce, sottovalutando le sue attenzioni o trasgredendo i suoi ordini, non sarà mai pastore e guardiano delle nostre anime. Affinché lo sia in realtà, è necessario che conviviamo con lui ed a lui confidiamo le nostre vite, le nostre strade ed il nostro riposo. Senza assentire mai totalmente, cordialmente, alle sue decisioni, non riusciremo a sentirlo vicino né a saperlo intimo. Non basta, dunque, che egli si impegni a camminare vicino a noi per la vita, se ricusiamo di seguirlo per tutta la vita; a niente serve che continui chiamandoci per il nostro nome, se continuiamo a rispondere a tutte le voci che parlano alla nostra periferia meno che la sua. Senza prendere sul serio il suo impegno né vedere le sue attenzioni, non potremmo mai sentirlo impegnato con noi né apprezzare le sue attenzioni.
Chissà, a volte, ci crediamo trascurati da Dio; dovremmo domandarci se sono le nostre disattenzioni a farci percepire il suo apparente disinteresse. Nessuno che ha abbandonato Dio ha diritto di sentirsi abbandonato da Lui; se seguiamo altre voci o rispondiamo ai nostri interessi, non possiamo sperare che Dio ci parli. Il pastore dà la vita a chi condivide con lui il suo genere di vita, accetta la sua leadership e sa proporsi per diventare suo amico. Per ottenere le attenzioni di un pastore e la sicurezza di una leadership, bisognerà vivere nella sua compagnia, camminare per le sue strade e sottomettersi alle sue esigenze. Non basta che Gesù lo voglia, è necessario che noi accettiamo che così sia.
Avremmo, dunque, che domandarci perché noi cristiani viviamo ogni giorno più tesi e preoccupati, meno sicuri e fiduciosi. Passiamo praticamente la vita ignorando Dio e la sua volontà, e, tuttavia, non sentiamo che egli si stia trasformando in uno sconosciuto, che seguiamo l’estraneo e ci allontaniamo da Lui e che Dio non ci risulti oramai tanto familiare e vicino come prima; non facciamo la sua volontà e ci sorprende che il suo amore ci risulti estraneo. Non permettendogli che ci pascoli che ci guidi precedendoci e ci difenda camminando al nostro fianco, sentiamo la sua mancanza: se Egli fosse il nostro pastore, niente ci mancherebbe; la sua bontà e la sua povertà ci accompagnerebbero tutti i giorni della nostra vita.
Ritorniamo, dunque, alla sua custodia, lasciamoci guidare dalla sua voce ed accettiamo di nuovo la sua collaborazione, procurerà alla nostra vita sicurezza e riposo. Solo se rispondiamo alla sua voce e seguiamo la sua chiamata, solo se seguiamo le sue orme e camminiamo dietro di lui, percepiremo la sua presenza e la sua vicinanza: Gesù sarà pastore delle nostre vite e farà del suo meglio per proteggerci, se ci troviamo tra quanti lo seguono; sapremo che cammina con noi, se camminiamo dietro le sue orme seguendo la sua voce. Abbonda di coraggio, non conosce la paura, chi è sicuro di camminare per tutta la vita vicino al suo Dio. Di un Dio che vuole essere il nostro guardiano, non possiamo sentirci abbandonati, se non che previamente l’avevamo abbandonato.
Non è facile capire questo impegno di Gesù di esserci guida e compagno, guardiano geloso ed intimo amico. Il vangelo ci ha ricordato che, non comprendendolo i suoi uditori, Gesù si paragonò con la porta dell’ovile: per sentirsi sicuro, il gregge deve passare per la porta; per raggiungere la vita, il cristiano deve passare, corpo ed anima, attraverso Cristo; non c’è un’altra via che porti alla vita che garantisca riposo, alimento e casa: entrando per lui, ci troviamo con lui. Solo Cristo può dare soddisfazione a quanto desideriamo, colmare la necessità di intimità che abbiamo, assicurarci di fronte ai pericoli che temiamo e condurci verso dove ha già preparato per noi la mensa e la casa. E lo farà, si è impegnato a ciò – è morto ed è risuscitato per ciò! -, purché siamo disposti a seguire la sua voce e ad accettare il suo volere.
È deplorevole che continuiamo ad impegnarci a rubare un po’ di felicità, nel procurarci qualche soddisfazione momentanea a qualunque prezzo, assicurarci una libertà che aumenta la nostra solitudine ed il nostro disagio, e perdiamo l’opportunità che Gesù ci dà di entrare attraverso di lui nella vita. Nessuno merita la nostra attenzione e la nostra obbedienza, se non ci assicura le sue attenzioni e la nostra vita: Gesù ha appena dichiarato proclamandosi guardiano fedele delle nostre vite e soglia autentica verso la vita eterna. Non so che cosa stiamo sperando.., ci sarà qualcuno che possa offrirci di più? Non perdiamo l’occasione: ritorniamo oggi, corpo ed anima, all’obbedienza e alla sequela di Cristo, costi quel che costi, e ci sentiremo curati da Cristo e completamente sicuri. Se il Signore è il nostro pastore, niente ci manca…
3 – PREGARE : Prega il testo e desidera la volontà di Dio: cosa dico a Dio?
Signore Gesù, sei il mio pastore! Fammi conoscere la tua voce, rendimi familiare alla tua parola. Che io ti segua perché mi conosci e ‘sai il mio nome’. Vieni a raccogliermi dove mi trovi, ritornerò con te non appena senta la tua voce e rimarrò con te per non smettere di ascoltarti.
Salvami da quanti, imitandoti ed ingannandomi, vogliono rubarmi. Mi perdi tu ed io mi perdo, se prevalgono i ladri. Non voglio essere preda di chi non mi vuole né mi conosce. Torna a chiamarmi e ti seguirò senza paura di perdermi.
Dato che sei la porta che conduce alla vita, lasciami transitare: che non passi mai al di fuori di te che passi sempre attraverso te. Sei venuto per darmi vita, cosa aspetti, se io sto già aspettandoti?

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

Sarajevo old orthodox church

 Sarajevo old orthodox church dans immagini sacre 450px-Sarajevo_old_orthodox_church_04
http://en.wikipedia.org/wiki/File:Sarajevo_old_orthodox_church_04.jpg

Publié dans:immagini sacre |on 8 mai, 2014 |Pas de commentaires »
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