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VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – UFFICIO DELLE LETTURE

http://www.maranatha.it/Ore/ord/LetDom/06DOMpage.htm

VI DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – UFFICIO DELLE LETTURE

INVITATORIO
V. Signore, apri le mie labbra
R. e la mia bocca proclami la tua lode.

Antifona
Venite, adoriamo il Signore,
pastore e guida del suo popolo, alleluia.

SALMO 94 Invito a lodare Dio
( Il Salmo 94 può essere sostituito dal salmo 99 o 66 o 23 )
Esortandovi a vicenda ogni giorno, finché dura « quest’oggi » (Eb 3,13).

Si enunzia e si ripete l’antifona.

Venite, applaudiamo al Signore, *
acclamiamo alla roccia della nostra salvezza.
Accostiamoci a lui per rendergli grazie, *
a lui acclamiamo con canti di gioia (Ant.).

Poiché grande Dio è il Signore, *
grande re sopra tutti gli dèi.
Nella sua mano sono gli abissi della terra, *
sono sue le vette dei monti.
Suo è il mare, egli l’ha fatto, *
le sue mani hanno plasmato la terra (Ant.).

Venite, prostràti adoriamo, *
in ginocchio davanti al Signore che ci ha creati.
Egli è il nostro Dio, e noi il popolo del suo pascolo, *
il gregge che egli conduce (Ant.).

Ascoltate oggi la sua voce: †
« Non indurite il cuore, *
come a Merìba, come nel giorno di Massa nel deserto,

dove mi tentarono i vostri padri: *
mi misero alla prova pur avendo visto le mie opere (Ant.).

Per quarant’anni mi disgustai di quella generazione †
e dissi: Sono un popolo dal cuore traviato, *
non conoscono le mie vie;

perciò ho giurato nel mio sdegno: *
Non entreranno nel luogo del mio riposo » (Ant.).

Gloria al Padre e al Figlio *
e allo Spirito Santo.
Come era nel principio, e ora e sempre, *
nei secoli dei secoli. Amen (Ant.).

Inno
Splende nel giorno ottavo
l’era nuova del mondo,
consacrata da Cristo,
primizia dei risorti.

O Gesù, re di gloria,
unisci i tuoi fedeli
al trionfo pasquale
sul male e sulla morte.

Fa’ che un giorno veniamo
incontro a te, Signore,
sulle nubi del cielo
nel regno dei beati.

Trasformàti a tua immagine,
noi vedremo il tuo volto;
e sarà gioia piena
nei secoli dei secoli. Amen.

1^ Antifona
Signore mio Dio,
come un manto ti avvolge la luce,
sei rivestito di maestà e di splendore, alleluia.

SALMO 103, 1-12 (I) Inno a Dio creatore
Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate; ecco ne sono nate di nuove (2 Cor 5, 17).

Benedici il Signore, anima mia, *
Signore, mio Dio, quanto sei grande!
Rivestito di maestà e di splendore, *
avvolto di luce come di un manto.

Tu stendi il cielo come una tenda, *
costruisci sulle acque la tua dimora,

fai delle nubi il tuo carro, *
cammini sulle ali del vento;

fai dei venti i tuoi messaggeri, *
delle fiamme guizzanti i tuoi ministri.

Hai fondato la terra sulle sue basi, *
mai potrà vacillare.

L’oceano l’avvolgeva come un manto, *
le acque coprivano le montagne.

Alla tua minaccia sono fuggite, *
al fragore del tuo tuono hanno tremato.

Emergono i monti, scendono le valli †
al luogo che hai loro assegnato.

Hai posto un limite alle acque:
non lo passeranno, *
non torneranno a coprire la terra.

Fai scaturire le sorgenti nelle valli *
e scorrono tra i monti;
ne bevono tutte le bestie selvatiche *
e gli ònagri estinguono la loro sete.

Al di sopra dimorano gli uccelli del cielo, *
cantano tra le fronde.

Gloria al Padre e al Figlio *
e allo Spirito Santo.
Come era nel principio e ora e sempre *
nei secoli dei secoli. Amen.

1^ Antifona
Signore mio Dio,
come un manto ti avvolge la luce,
sei rivestito di maestà e di splendore, alleluia.

2^ Antifona
Tu fai nascere il pane dalla terra
e il vino che allieta il cuore dell’uomo, alleluia.

SALMO 103, 13-23 (II) Inno a Dio creatore
Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate; ecco ne sono nate di nuove (2 Cor 5, 17).

Dalle tue alte dimore irrighi i monti, *
con il frutto delle tue opere sazi la terra.

Fai crescere il fieno per gli armenti †
e l’erba al servizio dell’uomo, *
perché tragga alimento dalla terra:

il vino che allieta il cuore dell’uomo; †
l’olio che fa brillare il suo volto *
e il pane che sostiene il suo vigore.

Si saziano gli alberi del Signore, *
i cedri del Libano da lui piantati.
Là gli uccelli fanno il loro nido *
e la cicogna sui cipressi ha la sua casa.

Per i camosci sono le alte montagne, *
le rocce sono rifugio per gli iràci.
Per segnare le stagioni hai fatto la luna *
e il sole che conosce il suo tramonto.

Stendi le tenebre e viene la notte *
e vagano tutte le bestie della foresta;
ruggiscono i leoncelli in cerca di preda *
e chiedono a Dio il loro cibo.

Sorge il sole, si ritirano *
e si accovacciano nelle tane.
Allora l’uomo esce al suo lavoro, *
per la sua fatica fino a sera.

Gloria al Padre e al Figlio *
e allo Spirito Santo.
Come era nel principio e ora e sempre *
nei secoli dei secoli. Amen.

2^ Antifona
Tu fai nascere il pane dalla terra
e il vino che allieta il cuore dell’uomo, alleluia.

3^ Antifona
Dio guardò la sua creazione:
ed era tutta buona, alleluia.

SALMO 103, 24-35 (III) Inno a Dio creatore
Se uno è in Cristo, è una creatura nuova; le cose vecchie sono passate; ecco ne sono nate di nuove (2 Cor 5, 17).

Quanto sono grandi, Signore, le tue opere! †
Tutto hai fatto con saggezza, *
la terra è piena delle tue creature.

Ecco il mare spazioso e vasto: †
lì guizzano senza numero *
animali piccoli e grandi.

Lo solcano le navi, *
il Leviatàn che hai plasmato
perché in esso si diverta.

Tutti da te aspettano *
che tu dia loro il cibo in tempo opportuno.
Tu lo provvedi, essi lo raccolgono, *
tu apri la mano, si saziano di beni.

Se nascondi il tuo volto, vengono meno, †
togli loro il respiro, muoiono *
e ritornano nella loro polvere.

Mandi il tuo spirito, sono creati, *
e rinnovi la faccia della terra.

La gloria del Signore sia per sempre; *
gioisca il Signore delle sue opere.
Egli guarda la terra e la fa sussultare, *
tocca i monti ed essi fumano.

Voglio cantare al Signore finché ho vita, *
cantare al mio Dio finché esisto.
A lui sia gradito il mio canto; *
la mia gioia è nel Signore.

Scompaiano i peccatori dalla terra †
e più non esistano gli empi. *
Benedici il Signore, anima mia.

Gloria al Padre e al Figlio *
e allo Spirito Santo.
Come era nel principio e ora e sempre *
nei secoli dei secoli. Amen.

3^ Antifona
Dio guardò la sua creazione:
ed era tutta buona, alleluia.

Versetto
V. Beati i vostri occhi, che vedono il Cristo:
R. I vostri orecchi, che ascoltano la sua voce.

Prima Lettura
Dal libro dei Proverbi 1, 1-7. 20-32

Esortazione a ricercare la sapienza
Proverbi di Salomone, figlio di Davide, re d’Israele,
per conoscere la sapienza e la disciplina,
per capire i detti profondi,
per acquistare un’istruzione illuminata,
equità, giustizia e rettitudine,
per dare agli inesperti l’accortezza,
ai giovani conoscenza e riflessione.
Ascolti il saggio e aumenterà il sapere,
e l’uomo accorto acquisterà il dono del consiglio,
per comprendere proverbi e allegorie,
le massime dei saggi e i loro enigmi.
Il timore del Signore è il principio della scienza;
gli stolti disprezzano la sapienza e l’istruzione.
La sapienza grida per le strade
nelle piazze fa udire la voce;
dall’alto delle mura essa chiama,
pronunzia i suoi detti alle porte della città:
«Fino a quando, o inesperti, amerete l’inesperienza
e i beffardi si compiaceranno delle loro beffe
e gli sciocchi avranno in odio la scienza?
Volgetevi alle mie esortazioni:
ecco, io effonderò il mio spirito su di voi
e vi manifesterò le mie parole.
Poiché vi ho chiamato e avete rifiutato,
ho steso la mano e nessuno ci ha fatto attenzione;
avete trascurato ogni mio consiglio
e la mia esortazione non avete accolto;
anch’io riderò delle vostre sventure,
mi farò beffe quando su di voi verrà la paura,
quando come una tempesta
vi piomberà addosso il terrore,
quando la disgrazia vi raggiungerà come un uragano,
quando vi colpirà l’angoscia e la tribolazione.
Allora mi invocheranno, ma io non risponderò,
mi cercheranno, ma non mi troveranno.
Poiché hanno odiato la sapienza
e non hanno amato il timore del Signore;
non hanno accettato il mio consiglio
e hanno disprezzato tutte le mie esortazioni;
mangeranno il frutto della loro condotta
e si sazieranno dei risultati delle loro decisioni.
Sì, lo sbandamento degli inesperti li ucciderà
e la spensieratezza degli sciocchi li farà perire;
ma chi ascolta me vivrà tranquillo
e sicuro dal timore del male».

Responsorio Cfr. 1 Cor 3, 18-19; 1, 23. 24
R. Se qualcuno tra voi si crede un sapiente in questo mondo, si faccia stolto per diventare sapiente. * la sapienza del mondo è stoltezza davanti a Dio.
V. Noi predichiamo Cristo crocifisso, potenza di Dio e sapienza di Dio:
R. la sapienza del mondo è stoltezza davanti a Dio.

Seconda Lettura
Dai «Commenti dal Diatessaron» di sant’Efrem, diacono
(1, 18-19; SC 121, 52-53)

La parola di Dio è sorgente inesauribile di vita
Chi è capace di comprendere, Signore, tutta la ricchezza di una sola delle tue parole? E’ molto più ciò che ci sfugge di quanto riusciamo a comprendere. Siamo proprio come gli assetati che bevono ad una fonte. La tua parola offre molti aspetti diversi, come numerose sono le prospettive di coloro che la studiano. Il Signore ha colorato la sua parola di bellezze svariate, perché coloro che la scrutano possano contemplare ciò che preferiscono. Ha nascosto nella sua parola tutti i tesori, perché ciascuno di noi trovi una ricchezza in ciò che contempla.
La sua parola è un albero di vita che, da ogni parte, ti porge dei frutti benedetti. Essa è come quella roccia aperta nel deserto, che divenne per ogni uomo, da ogni parte, una bevanda spirituale. Essi mangiarono, dice l’Apostolo, un cibo spirituale e bevvero una bevanda spirituale (cfr. 1 Cor 10, 2).
Colui al quale tocca una di queste ricchezze non creda che non vi sia altro nella parola di Dio oltre ciò che egli ha trovato. Si renda conto piuttosto che egli non è stato capace di scoprirvi se non una sola cosa fra molte altre. Dopo essersi arricchito della parola, non creda che questa venga da ciò impoverita. Incapace di esaurirne la ricchezza, renda grazie per la immensità di essa. Rallegrati perché sei stato saziato, ma non rattristarti per il fatto che la ricchezza della parola ti superi. Colui che ha sete è lieto di bere, ma non si rattrista perché non riesce a prosciugare la fonte. E` meglio che la fonte soddisfi la tua sete, piuttosto che la sete esaurisca la fonte. Se la tua sete è spenta senza che la fonte sia inaridita, potrai bervi di nuovo ogni volta che ne avrai bisogno. Se invece saziandoti seccassi la sorgente, la tua vittoria sarebbe la tua sciagura. Ringrazia per quanto hai ricevuto e non mormorare per ciò che resta inutilizzato. Quello che hai preso o portato via è cosa tua, ma quello che resta è ancora tua eredità. Ciò che non hai potuto ricevere subito a causa della tua debolezza, ricevilo in altri momenti con la tua perseveranza. Non avere l’impudenza di voler prendere in un sol colpo ciò che non può essere prelevato se non a più riprese, e non allontanarti da ciò che potresti ricevere solo un po’ alla volta.

Responsorio Cfr. 1 Pt 1, 25; Bar 4, 1
R. La parola del Signore rimane in eterno: * è questo il vangelo che vi è stato annunziato.
V. Questo è il libro dei decreti di Dio, la legge che sussiste nei secoli; quanti si attengono ad essa avranno la vita:
R. è questo il vangelo che vi è stato annunziato.

Inno TE DEUM
Noi ti lodiamo, Dio *
ti proclamiamo Signore.
O eterno Padre, *
tutta la terra ti adora.

A te cantano gli angeli *
e tutte le potenze dei cieli:
Santo, Santo, Santo *
il Signore Dio dell’universo.

I cieli e la terra *
sono pieni della tua gloria.
Ti acclama il coro degli apostoli *
e la candida schiera dei martiri;

le voci dei profeti si uniscono nella tua lode; *
la santa Chiesa proclama la tua gloria,
adora il tuo unico Figlio, *
e lo Spirito Santo Paraclito.

O Cristo, re della gloria, *
eterno Figlio del Padre,
tu nascesti dalla Vergine Madre *
per la salvezza dell’uomo.

Vincitore della morte, *
hai aperto ai credenti il regno dei cieli.
Tu siedi alla destra di Dio, nella gloria del Padre. *
Verrai a giudicare il mondo alla fine dei tempi.

Soccorri i tuoi figli, Signore, *
che hai redento col tuo sangue prezioso.
Accoglici nella tua gloria *
nell’assemblea dei santi.

[*] Salva il tuo popolo, Signore, *
guida e proteggi i tuoi figli.
Ogni giorno ti benediciamo, *
lodiamo il tuo nome per sempre.

Degnati oggi, Signore, *
di custodirci senza peccato.
Sia sempre con noi la tua misericordia: *
in te abbiamo sperato.

Pietà di noi, Signore, *
pietà di noi.
Tu sei la nostra speranza, *
non saremo confusi in eterno.

[*] Quest’ultima parte dell’inno si può omettere.

Orazione
O Dio che hai promesso di essere presente in coloro che ti amano e con cuore retto e sincero custodiscono la tua parola, rendici degni di diventare tua stabile dimora. Per il nostro Signore.

R. Amen.
Benediciamo il Signore.
R. Rendiamo grazie a Dio.

INTRODUZIONE LITURGICA E TEOLOGICA ALLA FESTA DELLA DORMIZIONE DELLA DEIPARA

 http://oodegr.co/italiano/tradizione_index/commentilit/introdfestadormiz.htm  

INTRODUZIONE LITURGICA E TEOLOGICA ALLA FESTA DELLA DORMIZIONE DELLA DEIPARA  

L’ultima grande festa dell’anno liturgico bizantino è Theomitorika, come lo è la prima, all’8 settembre. La data di questa celebrazione non era ancora stata fissata stabilmente nei primi secoli variando in alcune località dove era celebrata il 15 gennaio; fu poi estesa a tutto l’impero d’oriente dall’imperatore Maurizio tra il 588 e il 602, mentre a Roma ad introdurla fu il papa Teodoro I (642-649), proveniente dal clero di Gerusalemme. Dall’1 agosto i fedeli cominciano un digiuno molto rigido di preparazione, l’ultimo dei 4 grandi digiuni della Chiesa. La festa oltre a un giorno di pre-festa ne ha altri 8 di post-festa, durando fino al 23. È la più importante tra le feste Theomitorike e coincide con la festa dell’Assunzione in Occidente. L’Oriente bizantino nel denominarla Koìmesis in greco e Uspenie in slavo, considera piuttosto l’ultimo sonno della Madre di Dio, premessa alla glorificazione in corpo e anima in cielo. Gli Evangeli tacciono al riguardo, l’antica tradizione patristica[1] che si basa anche su apocrifi ha fornito elementi ripresi nell’ufficiatura. La Vergine, divinamente informata dell’ora di ricongiungersi al Figlio, si preparò nella casa di Gerusalemme. Nel frattempo gli apostoli, trasportati sulle nubi dalle estremità della terra dove si eran dispersi per predicare la buona novella, si riunirono attorno a lei, che li salutò, li consolò e, stesasi poi sul suo giaciglio, rese l’anima nelle mani del suo Figlio e Dio. (Nelle icone sempre è raffigurato, dietro alla Vergine, Gesù Cristo con in braccio una bambina in fasce che è l’anima di Maria). Gli apostoli seppellirono il santo corpo nella valle del Cedron, presso il Getzemani, ma tre giorni dopo, quando Tommaso, giunto in ritardo, volle rivedere le amate sembianze, la tomba riaperta fu trovata vuota e una visione della stessa Madre di Dio annunziò loro che era risorta e portata al cielo presso il Figlio. Senza dare importanza ai singoli elementi del racconto, la fede ortodossa, chiaramente espressa nella preghiera, crede nella morte corporale della Vergine e nella sua anticipata glorificazione in cielo con il corpo e l’anima. Ciò non significa che la Madre di Dio è separata dall’umanità, anzi ne è possente e instancabile interceditrice; e se nell’ufficiatura vi sono accenni alla tristezza degli apostoli, predomina però la gioia per il trionfo della Theotókos. La liturgia Ortodossa, dunque, pone la Madre di Dio in una prospettiva escatologica, facendo intravedere per lei anche la possibilità di una risurrezione corporale anticipata? Alcuni testi al pari di certi fatti liturgici possono fornire indizi in questo senso. Il primo fatto è particolarmente noto; se ne può anzi parlare come di un fatto dogmatico ed è l’assenza totale, costatata da sempre, di reliquie corporali della Theotókos. Quest’assenza di venerazione delle spoglie corporali della Madre di Dio è propria di tutte le liturgie e non solo di quella bizantina. Sant’Epifanio di Cipro alla fine del IV secolo affermò di non sapere affatto se la Vergine fosse morta o meno e neppure di conoscere alcunché circa la sua sepoltura[2]. Si sa anche che al tempo di Epifanio il culto dei martiri era strettamente legato al luogo della loro tomba. Più tardi non fu più così, ma la venerazione delle reliquie corporali restò sempre uno degli elementi essenziali nel culto dei santi della Chiesa. Se nell’epoca successiva a quella di Epifanio si parlò della tomba, o anche dei luoghi in cui visse la Vergine, nella Chiesa non si ebbe mai una venerazione riconosciuta di reliquie corporali della Deipara. L’unica venerazione riconosciuta era quella di parti dei vestiti della Vergine e ciò ha dato luogo qua e là alla comparsa di feste come quella della Deposizione della preziosa veste della santissima Theotókos, nel calendario liturgico bizantino fissata al 2 luglio. Tali fatti costituiscono certamente un argomento autorevole per appoggiare la dottrina della risurrezione corporale della santissima Madre di Dio. Un secondo indizio dell’affermarsi di questa dottrina nella liturgia bizantina è rappresentato da una parte dell’innografia della Dormizione della santissima Theotókos (15 agosto). Si tratta della parte in cui ha trovato eco la domanda del vescovo palestinese Teotecno di Livia, i cui sermoni sono stati scoperti e pubblicati da p. Antonio Wenger[3]. Teotecno si chiedeva se il corpo teoforo di colei che è la Madre della Vita poteva conoscere o no la corruzione della morte. Così una parte dell’innografia della Dormizione afferma che l’anima di Maria, dopo la morte, è stata accolta nella gloria celeste e che, anche dopo aver lasciato la terra, la Madre di Dio non ha abbandonato la Chiesa terrena e continua a intercedere per i fedeli del Figlio suo. In questo senso si può citare il tropario della festa: Nella tua maternità hai conservato la verginità; nella tua dormizione non hai abbandonato il mondo, o Madre di Dio. Sei passata alla vita, tu che sei la Madre della Vita, e con la tua intercessione liberi le nostre anime dalla morte. Ma accanto a ciò si trovano altri componimenti innografici che sono stati influenzati dalle idee di Teotecno di Livia e anche da quelle di san Germano di Costantinopoli (m. 733)[4], di sant’Andrea di Creta (m. 760)[5] e soprattutto di san Giovanni Damasceno (m. 760)[6], particolarmente dal suo secondo sermone sulla dormizione. In esso san Giovanni Damasceno riprende il racconto dell’avvenimento come circolava nella Chiesa del tempo, con i suoi dettagli più o meno leggendari, e se ne serve per proclamare la fede nella risurrezione corporale della Deipara. L’esempio di testi che esprimono questa fede è dato dal kontàkion della festa: La tomba e la morte non prevalsero sulla Madre di Dio, che prega incessantemente per noi e resta ferma speranza d’intercessione. Infatti colui che abitò un seno sempre vergine ha assunto alla vita colei che è la Madre della Vita. Molto significativo è anche il megalinario del canone 2° della festa che celebra l’esaltazione corporale della Madre di Dio: Gli angeli furono colti da stupore vedendo la dormizione della Vergine. In che modo la Vergine si innalza dalla terra al cielo? Si potrebbe anche citare nel canone di Cosma il tropario 4° della 1a ode e nel canone di Teofane Graptos, compreso nel mattutino (órthros) del 14 agosto, il primo tropario dell’ode 5a. Infine sono molto significativi, nell’affermazione della risurrezione corporale della Madre di Dio, il canone slavo della vigilia[7] e l’Acàtisto, pure slavo, per la Dormizione della Madre di Dio[8]. Esiste ancora un terzo indizio. È rappresentato dalla generale domanda di intercessione rivolta dalla Chiesa alla Tuttasanta. Le preghiere in cui la Chiesa domanda aiuto alla Theotókos sono assai più numerose di quelle in cui chiede l’aiuto dei santi. Ciò implica: a. Il fatto che la fede della Chiesa nell’efficacia delle preghiere della Madre di Dio presenta Maria più vicina al Figlio e agli uomini che gli altri santi. Ciò potrebbe indicare che ella ha ripreso vita[9] in un grado più intenso degli altri santi. b. L’«onnipresenza» della Theotókos nella liturgia e nella preghiera della Chiesa Ortodossa[10]. Grazie ai theotókia e agli staurotheotókia, l’innografia mariana supera largamente, presso i bizantini, lo stretto quadro delle feste Theomitorike e appare anche nella celebrazione dei sacramenti e dei sacramentali. Quanto alle feste Theomitorike, esse sono diventate molto numerose nell’anno liturgico grazie allo sviluppo delle feste votive e delle feste di icone. Le preghiere rivolte alla Vergine sono, possiamo dire, innumerevoli, sia nella pietà liturgica che in quella privata. Ne risulta che la Deipara è straordinariamente presente in tutte le akolouthìai, in tutte le ufficiature pubbliche e private. Questa «onnipresenza» può essere anche espressione della fede in una ripresa della vita d’oltretomba infinitamente gloriosa e intensa, che farebbe pensare puramente e semplicemente alla risurrezione. c. Gli interventi miracolosi – sempre numerosi, sempre possibili – della Vergine nella vita della Chiesa e dei fedeli. Abbiamo appena ricordato il moltiplicarsi delle feste devozionali della Madre di Dio accanto alle sue feste storiche, che hanno rapporto con gli avvenimenti della storia della salvezza. La lista di queste feste devozionali non è chiusa. Ciò dimostra, ancora una volta, che la Madre di Dio è particolarmente viva dopo la sua dormizione ed è vicina agli uomini. Dobbiamo infine ricordare un quarto indizio offerto dalla liturgia. Si tratta dell’ufficio della sepoltura della Vergine, detto «Glorificazione della santissima Theotókos»[11]. Questo ufficio, nella sua struttura, ricorda quello della sepoltura di Cristo, celebrato nel grande sabato. La sua variante gerosolimitana, più antica, viene celebrata il 14 agosto nel Getzemani in relazione con la dormizione. L’immagine della Vergine stesa su un letto, posta al centro della chiesa durante l’ufficio, vi resta fino al 24 agosto, ultimo giorno della festa. La sua variante russa, celebrata dapprima nei grandi monasteri, è attualmente diffusa anche nelle chiese parrocchiali[12]. Per quanto si riferisce all’annuncio della risurrezione della Madre di Dio, è molto più espressiva che non l’ufficio del Getzemani. La festa viene celebrata dopo il 15 agosto, perché, come raccontano gli apocrifi, la risurrezione della Theotókos fu conosciuta tre giorni dopo la sua deposizione nella tomba. Proprio come l’órthros del grande sabato, l’ufficio russo comporta delle strofe con tropari intercalati tra i versetti del Salmo 118. Questi tropari esprimono lo stupore dei credenti di fronte al mistero della sepoltura e della risurrezione di colei che è la Madre della Vita. Seguono gli euloghitària (benedizioni), che proclamano trionfalmente la risurrezione corporale della Theotókos, proprio come il grande sabato gli euloghitària proclamano la risurrezione di Cristo. La Madre di Dio non può non avere avuto una morte speciale, diversa da quella di ogni altro mortale: Gli apostoli gloriosi, ti conoscono, o Vergine senza macchia, sei una donna, mortale e allo stesso tempo, in modo soprannaturale, sei Madre di Dio; perciò ora tendono verso di te mani tremanti, mentre ti vedono risplendente di gloria, tabernacolo che ha custodito Dio. «Il tabernacolo che ha custodito Dio», è questo l’epiteto più frequente che attesta l’obiettività religiosa degli ortodossi. Possiamo esaltare la Vergine con ogni genere di litania che ne evochi la bellezza, ma la ragione reale di questa esaltazione non è in lei, ma in ciò che si compì attraverso di lei, in ciò che scelse liberamente: l’offerta di generare il Signore. O apostoli, raccolti qui da ogni parte del mondo, seppellite il mio corpo al Getzemani: e Tu, figlio mio e mio Dio, ricevi il mio spirito. Per divino comando il capo degli apostoli giunse dall’estremità della terra per seppellirti… Una morte reale, dunque, e una sepoltura reale, sono seguite da una conclusione reale: l’ascensione al cielo del corpo benedetto della Vergine senza l’attesa del Giudizio Finale. Questi sono gli indizi liturgici dell’esistenza nella Chiesa Ortodossa della dottrina della risurrezione corporale della Madre terrena di Gesù Cristo. Che ne dice la teologia ortodossa? I teologi russi del XX secolo, con Bulgakov da una parte, Florovskij e Lossky dall’altra, considerano la risurrezione della Madre di Dio come dogma rivelato. La teologia greca si mantiene riservata[13]. Questa riservatezza si spiega entro certi limiti con la reticenza ortodossa di fronte all’immacolata concezione proclamata da Pio IX dogma di fede cattolica nel 1854 e che appare il fondamento teologico del dogma dell’assunzione, dichiarato da Pio XII nel 1950. Ora, invece, bisogna ricordare che, secondo i teologi ortodossi che ammettono la risurrezione corporale della Theotókos, questa risurrezione non può essere che frutto della risurrezione di Cristo e conseguenza della maternità divina di Maria. Un altro motivo per cui l’ortodossia si oppone a questa dottrina è la mancanza del semper che deve accompagnare ogni dogma rivelato, come ha sostenuto san Vincenzo di Lérins[14]. Infatti sembra che questa dottrina sia stata completamente ignorata nei primi quattro o cinque secoli della storia cristiana. A questo, tuttavia, si potrebbe rispondere che l’assenza di reliquie corporali della Deipara, in tale periodo e dopo, è un’argomentazione a silentio che può sostituire il semper. L’oikos 11° dell’inno Acàtisto saluta la santissima Madre paragonandola alla terra promessa[15], quella terra dove è detto che scorrono latte e miele[16]. Parlare della Deipara in questo modo significa porre la Madre terrena del Figlio di Dio fatto uomo in una prospettiva Teologica; essa è la terra data in possesso perenne ad Abramo ed alla sua discendenza[17], al Nuovo Israele. La terra della promessa che nei profeti è il luogo in cui il nuovo popolo sarà reinsediato da Dio, che Ezechiele[18] e Zaccaria[19] vedono purificata e sacralizzata: terra santa[20]; terra che potrà essere chiamata, come Gerusalemme, Sposa di Dio[21], partecipe della salvezza, terra delle delizie[22] di una nuova umanità. Così che la promessa di eredità della terra fatta a coloro che sono “miti”[23], assume un significato escatologico, come sembra abbia un significato escatologico, secondo l’autore dell’acatisto, la venerazione di Colei che ha partorito Dio. Senza doversi, dunque, pronunciare definitivamente sulla domanda se la risurrezione corporale della Theotókos sia un dogma rivelato (ciò si deve risolvere per via conciliare ed è quello che un concilio dovrebbe fare se un giorno nella Chiesa la venerazione della Madre di Dio fosse messa in questione in un modo o nell’altro), si può già fin d’ora affermare che la Chiesa ha effettivamente collegato la sua visione della Madre di Dio con la propria attesa escatologica. Mariologia ed escatologia sono in relazione, come lo sono ecclesiologia ed escatologia e ugualmente ecclesiologia e mariologia. Così la Theotókos è figura della Chiesa. Ora la Chiesa, corpo di Cristo e tempio del Santo Spirito, ha già ricevuto in Maria il compimento escatologico. Perciò la Theotókos, vera Madre di Dio nella quale si è incarnato il Lògos divino concepito per opera del Santo Spirito, Madre Vergine prima, durante e dopo il parto, è la personificazione della Chiesa sia nel suo mistero sia come Madre dei fedeli. Ella è dunque proprio l’icona escatologica della Chiesa, che la venera come tale nella sua preghiera, poiché vede in lei un segno del regno futuro, segno che annuncia la terra nuova sotto cieli nuovi[24]. Tutto questo la Chiesa celebra in questa ultima festa dell’anno liturgico, il compimento della promessa di eredità alla discendenza della Donna, il conseguimento dei cieli nuovi e terra nuova[25] ai suoi soffi. Questa festa ci rammenta che la morte per noi credenti non può incutere timore, che l’angoscia del distacco ed il dolore sono solo temporanei. Veramente la morte non ha più potere su di noi e la gioia della vita eterna, che la Deipara già gode essendone segno e compimento, ci attende: Egli l’ha portata nei cieli. Danza con lei nella gloria, e noi ci rivolgiamo a Cristo: «Benedetto sei tu, Dio glorioso, e Dio dei nostri padri»… il Tabernacolo della gloria è salito fino a Sion, dove le voci pure di coloro che fanno festa cantano di ineffabile gioia.

 

[1] Cfr. S. Jean Damascene, Homélies sur la Nativité et la Dormition a cura di P. Voulet, Sources Chrétiennes 80, Paris 1961, pp. 24-36. [2] Panarion Haereses, 78, nn. 10-12, PG 42, 716 AD; GCS 37 (Epifanio, 3), pp. 461-462. [3] A. Wenger, L’Assomption de la Très Sainte Vierge dam la tradition byzantine des VI-X siècles, Etudes et Documents, Istituto di Studi Bizantini, Parigi 1955, pp. 100-103. [4] PG 98, 340-372. [5] PG 97, 1045-1109. [6] PG 96, 700-761. [7] Edizione speciale dei Minèa (Menaia), San Pietroburgo 1895. [8] «Raccolta degli Acàtisti slavi», Kiev 1693, pp. 115, 120, 125. [9] Cfr. sopra, par. I, 2. [10] A. Kniazeff, La toute-présence liturgique de la Theotòkos, in Questions liturgique, Lovanio, n. 1 (1973) pp. 45s (cfr. nota 15). [11] Cfr. S. Salaville, Marie dans la liturgie byzantine ou greco-slave in Maria, I, p. 284. La variante russa dell’ufficio è stata data recentemente dal patriarcato di Mosca e anche, tra gli emigrati, da p. Valent Romensky. [12] Questa ufficiatura era molto diffusa anche nella Magna Grecia Ortodossa, dove, nonostante la spietata latinizzazione, è sopravvissuta nella pietà popolare presso alcuni paesi di Calabria, dove le donne la sera del 14 agosto portano in processione l’immagine della Madre di Dio fino al cimitero locale, per riportarla poi in chiesa il giorno successivo. Da alcuni anni questa tradizione unitamente all’ufficiatura è stata ripresa nel paesino di Gallicianò (fraz. di Condofuri), nell’area grecanica di Calabria, presso la chiesa ortodossa di “Panagia di Grecia”, da alcuni anni ricostruita.

[13] Cfr. Maria, VII, pp. 275-311. [14] Commonitorium, cap. II, PL 50, 639s. [15] Rallegrati, o terra promessa; rallegrati, tu, da cui scaturisce latte e miele. [16] Esodo 3, 8. [17] Genesi 17, 8. [18] Ezechiele 47, 13 – 48, 35. [19] Zaccaria 14. [20] Zaccaria 2, 16; 2 Maccabei 1, 7; Sapienza 12, 3. [21] Isaia 62, 4. [22] Malachia 3, 12. [23] Matteo 5, 4. [24] Cfr. A. Kniazeff, Dormition de Marie dans l’Eglise orthodoxe in Cahiers marials, 88 (15-6.1973), pp. 145-156. [25] Isaia 65, 17; Apocalisse 21, 1.  

GIOITE NEL SIGNORE SEMPRE!

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GIOITE NEL SIGNORE SEMPRE!

LaParrocchia.it 

III Domenica di Avvento (Anno C) – Gaudete (13/12/2009) Vangelo: Lc 3,10-18 Clicca per vedere le Letture (Vangelo: )

L’Antifona d’ingresso di questa domenica recita in latino: « Gaudete in Domino semper ». Da questa prima parola, « Gaudete », prende nome – per antica tradizione – questa terza domenica d’Avvento. Oggi celebriamo, perciò, la domenica Gaudete, la domenica della gioia! Anticamente questa domenica doveva dare ai fedeli un po’ di respiro dalle rinunce e penitenze, che venivano praticate in Avvento così come in Quaresima. Oggi, però, l’Avvento è stato riscoperto come tempo di attesa e non più come tempo penitenziale: non si tratta più perciò di dare sollievo ai fedeli gravati da chissà quali penitenze, ma di dare all’attesa il colore della gioia anziché quello della mestizia. L’invito alla gioia ritorna incalzante nella Seconda Lettura, tratta dalla Lettera di San Paolo ai Filippesi. Paolo, prigioniero ed in catene, scrive agli abitanti di Filippi invitandoli ad avere gli stessi sentimenti di Gesù Cristo ed esortandoli, ripetutamente, a rallegrarsi ed a « gioire nel Signore »! È straordinario pensare come un uomo in catene, in catene per Cristo, possa invitare altri a rallegrarsi in questi termini! Mentre rileggevo queste pagine, mi risuonavano nel cuore le parole della nota « predica della perfetta letizia » di San Francesco d’Assisi. Perfetta letizia, perfetta felicità, gioia vera si ha quando nonostante le prove più terribili non cediamo alla disperazione e alla depressione più profonda, ma restiamo ancorati a Cristo, perché nessuno mai potrà separarci da Lui e dal Suo Amore! Cristo è la fonte della vera gioia, che nessuno potrà mai toglierci! Infatti, se ritorniamo al testo della Lettera ai Filippesi, al testo originale, il testo greco, vediamo che la parola (rallegratevi) ha la stessa radice di (grazia). La gioia, dunque, è strettamente legata alla grazia e la grazia è l’effetto della vicinanza del Signore. La vicinanza del Signore, dunque, è il vero motivo della nostra gioia! Se già il popolo di Israele poteva vantare davanti a tutti gli altri popoli « la prossimità di Dio », ancor più noi, popolo della Nuova Alleanza, dobbiamo esultare di gioia indicibile perché proprio quel Dio, che allo sforzo della ricerca umana si rivela « fascinoso e tremendo », si è abbassato, per sua libera scelta, fino ad assumere la nostra natura, la carne di peccato, e ci ha resi partecipi della sua intimità, della vita trinitaria. Dio si è fatto uomo perché l’uomo diventi Dio! Lo stesso motivo di gioia è racchiuso anche nel racconto dell’Annunciazione che abbiamo ascoltato pochi giorni fa’, nella solennità dell’Immacolata Concezione di Maria. L’Angelo si rivolge a Maria con il saluto: « Gioisci, rallegrati, ricolmata di grazia, il Signore è con te »… il motivo dell’invito alla gioia, dunque, è la prossimità di Dio, e l’effetto di questa vicinanza è la sovrabbondanza della grazia. La gioia è, perciò, essenziale all’annuncio cristiano, è l’anima stessa di questo annuncio. Il Vangelo non è forse « buona notizia », notizia di gioia? Domandiamoci perciò se viviamo il nostro essere cristiani, il nostro essere « il popolo del Dio vicino », con questa gioia, la gioia che traboccando dalla pienezza del nostro cuore straripa e coinvolge il mondo intero. Essere « sale della terra » significa dare a questa terra, dare a questo mondo, la gioia vera, quella che proviene da Gesù nostro Signore. Lui solo può appagare i desideri più nascosti del nostro cuore. Lui solo può trasformare la tristezza dipinta sui volti degli uomini in vera gioia, gioia che nessuno potrà mai strappare. La gioia vera, poi, è più eloquente di qualsiasi altra parola, dice molto, molto più di qualsiasi discorso, di qualsiasi predica. La gioia che dalla pienezza del nostro cuore straripa sui nostri volti e permea le nostre relazioni, rendendole fraterne, sarà la testimonianza più credibile del mistero dell’Incarnazione che celebreremo nei giorni del Natale. « Afflictis lentae, celeres gaudentibus horae »… Chiediamo al Signore che i nostri giorni, le nostre ore, siano liete perché sovrabbondanti del Suo Amore Trinitario che ci è stato rivelato nel mistero del Verbo fatto carne. Amen. Maranathà! Commento a cura di don Michele Munno

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MEDITAZIONE DI CHIARA LUBICH PER IL VENERDÌ SANTO

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MEDITAZIONE DI CHIARA LUBICH PER IL VENERDÌ SANTO

Un dono della fondatrice dei Focolarini per i lettori di ZENIT

18 Marzo 2008

ROMA, martedì, 18 marzo 2008 (ZENIT.org).- Pubblichiamo la meditazione scritta da Chiara Lubich, fondatrice del Movimento dei Focolari, per i lettori di ZENIT in occasione del Venerdì Santo del Grande Giubileo del 2000.

* * *
Venerdì santo: la morte di Gesù in croce è l’altissima, divina, eroica lezione di Gesù su cosa sia l’amore. Aveva dato tutto: una vita accanto a Maria nei disagi e nell’obbedienza.

Tre anni di predicazione rivelando la Verità, testimoniando il Padre, promettendo lo Spirito Santo e facendo ogni sorte di miracoli d’amore. Tre ore di croce, dalla quale dà il perdono ai carnefici, apre il Paradiso al ladrone, dona a noi la Madre e, finalmente, il suo Corpo e il suo Sangue, dopo averceli dati misticamente nell’Eucaristia.
Gli rimaneva la divinità.La sua unione col Padre, la dolcissima e ineffabile unione con Lui che l’aveva fatto tanto potente in terra, quale figlio di Dio, e tanto regale in croce, questo sentimento della presenza di Dio doveva scendere nel fondo della sua anima, non farsi più sentire, disunirlo in qualche modo da Colui che Egli aveva detto di essere uno con Lui: «Io e il Padre siamo uno» (Gv. 10,30). In Lui l’amore era annientato; la luce, spenta la sapienza, taceva. Si faceva dunque nulla per far noi partecipi al Tutto; verme (Salmo, 22,7) della terra, per far noi figli di Dio.Eravamo staccati dal Padre. Era necessario che il Figlio, nel quale noi tutti ci ritrovavamo, provasse il distacco dal Padre. Doveva sperimentare l’abbandono di Dio, perché noi non fossimo mai più abbandonati.
Egli aveva insegnato che nessuno ha maggior carità di colui che pone la vita per gli amici suoi. Egli, la Vita, poneva tutto di sé. Era il punto culmine, la più bella espressione dell’amore.Il suo volto è nascosto in tutti gli aspetti dolorosi della vita: non sono che Lui. Sì, perché Gesù che grida l’abbandono è la figura del muto: non sa più parlare. È la figura del cieco: non vede, del sordo: non sente.
È lo stanco che si lamenta. Rasenta la disperazione. È l’affamato… d’unione con Dio. È figura dell’illuso, del tradito, appare fallito. È pauroso, timido, disorientato. Gesù abbandonato è la tenebra, la malinconia, il contrasto, la figura di tutto ciò che è strano, indefinibile, che sa di mostruoso, perché un Dio che chiede aiuto!… È il solo, il derelitto… Appare inutile, scartato, scioccato… Lo si può scorgere perciò in ogni fratello sofferente.Avvicinando coloro che a Lui somigliano, possiamo parlare di Gesù abbandonato. A quanti si vedono simili a lui e accettano di condividere con Lui la sorte, ecco che egli risulta: per il muto la parola, a chi non sa, la risposta, al cieco la luce, al sordo la voce, allo stanco il riposo, al disperato la speranza, al separato l’unità, per l’inquieto, la pace. Con Lui l’uomo si trasforma e il non senso del dolore acquista senso.
Egli aveva gridato il perché al quale nessuno aveva risposto, perché noi avessimo la risposta ad ogni perché.Il problema della vita umana è il dolore. Qualsiasi forma abbia, per terribile che sia, sappiamo che Gesù l’ha preso su di sé e muta, per un’alchimia divina, il dolore in amore. Per esperienza posso dire che appena si gode di un qualsiasi dolore, per essere come Lui e poi si continua ad amare facendo la volontà di Dio, il dolore, se spirituale, sparisce; se fisico, diviene giogo leggero. Il nostro amore puro al contatto col dolore, lo tramuta in amore; in certo modo lo divinizza, quasi prosegue in noi – se lo possiamo dire – la divinizzazione che Gesù fece del dolore.
E, dopo ogni incontro con Gesù abbandonato, amato, trovo Dio in modo nuovo, più faccia a faccia, più aperto, in un’unità più piena. Tornano la luce e la gioia e, con la gioia, la pace che è frutto dello spirito.Quella luce, quella gioia, quella pace fiorite dal dolore amato colpiscono e sciolgono anche le persone più difficili. Inchiodati in croce si è madri e padri di anime. Effetto è la massima fecondità. Come scrive Olivier Clément: «L’abisso, aperto per un istante da quel grido, si riempie del grande soffio della resurrezione». Si annulla ogni disunità, traumi e spacchi sono colmati, risplende la fraternità universale, fioriscono miracoli di risurrezione, nasce una nuova primavera nella Chiesa e nell’umanità.

(18 Marzo 2008)

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COME ENTRARE NEL TEMPO E NELLO SPAZIO DI DIO, PAPA FRANCESCO – di Sandro Magister

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COME ENTRARE NEL TEMPO E NELLO SPAZIO DI DIO

Papa Francesco rompe a sorpresa il suo silenzio sulla liturgia. « È la nube di Dio che ci avvolge tutti », dice. E invoca un ritorno al vero senso del sacro

di Sandro Magister

ROMA, 14 febbraio 2014 – A cinquant’anni dalla promulgazione del documento del concilio Vaticano II sulla liturgia, in Vaticano solennizzano l’avvenimento con un convegno di tre giorni alla pontificia università del Laterano, promosso dalla congregazione per il culto divino, il 18-20 di questo mese.
La liturgia non è apparsa finora in primo piano nella visione di papa Francesco. Nella lunga intervista-confessione a « La Civiltà Cattolica » della scorsa estate, ridusse la riforma liturgica conciliare a questa sbrigativa definizione: « un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta ».
Non una parola di più, se non per il « preoccupante rischio di ideologizzazione del Vetus Ordo, la sua strumentalizzazione ».
Ma lunedì 10 febbraio, all’improvviso, Jorge Mario Bergoglio ha rotto il silenzio e ha dedicato alla liturgia l’intera omelia della messa mattutina nella cappella di Santa Marta. Dicendo cose che non aveva mai detto in precedenza, da quando è papa.
Quella mattina, nella messa si leggeva il primo libro dei Re, quando durante il regno di Salomone la nube, la gloria divina, riempì il tempio e « il Signore decise di abitare nella nube ».
Prendendo spunto da quella « teofania », papa Jorge Mario Bergoglio ha detto che « nella liturgia eucaristica Dio è presente », in modo ancor « più vicino » che nella nube nel tempio, la sua « è una presenza reale ».

E ha proseguito:
« Quando parlo di liturgia mi riferisco principalmente alla santa messa. La messa non è una rappresentazione, è un’altra cosa. È vivere un’altra volta la passione e la morte redentrice del Signore. È una teofania: il Signore si fa presente sull’altare per essere offerto al Padre per la salvezza del mondo ».

Più avanti il papa ha detto:
« La liturgia è tempo di Dio e spazio di Dio, e noi dobbiamo metterci lì nel tempo di Dio, nello spazio di Dio e non guardare l’orologio. La liturgia è proprio entrare nel mistero di Dio, lasciarsi portare al mistero ed essere nel mistero. È la nube di Dio che ci avvolge tutti ».

E tornando a un suo ricordo d’infanzia:
« Io ricordo che da bambino, quando ci preparavano alla prima comunione, ci facevano cantare: “’O santo altare custodito dagli angeli”, e questo ci faceva capire che l’altare era davvero custodito dagli angeli, ci dava il senso della gloria di Dio, dello spazio di Dio, del tempo di Dio ».
Avviandosi alla conclusione, Francesco ha invitato i presenti a « chiedere oggi al Signore che dia a tutti questo senso del sacro, questo senso che ci faccia capire che una cosa è pregare a casa, pregare il rosario, pregare tante belle preghiere, fare la via crucis, leggere la bibbia, e un’altra cosa è la celebrazione eucaristica. Nella celebrazione entriamo nel mistero di Dio, in quella strada che noi non possiamo controllare. Lui soltanto è l’unico, lui è la gloria, lui è il potere. Chiediamo questa grazia: che il Signore ci insegni a entrare nel mistero di Dio ».
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L’omelia di papa Francesco del 10 febbraio nella sintesi che ne ha dato « L’Osservatore Romano »:

> A messa senza orologio

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La costituzione del concilio Vaticano II sulla liturgia, il primo dei documenti approvati da quell’assise: > Sacrosanctum Concilium
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Ed ecco come ne parlò Benedetto XVI nel discorso a braccio al clero di Roma del 14 febbraio 2013, esattamente un anno fa, uno degli ultimissimi atti del suo pontificato:
« Dopo la prima guerra mondiale era cresciuto, nell’Europa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia, che era finora quasi chiusa nel messale del sacerdote, mentre la gente pregava con propri libri di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore della gente, così che si cercava di tradurre i contenuti alti, il linguaggio alto, della liturgia classica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo. Ma erano quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la messa secondo il messale, ed i laici, che pregavano, nella messa, con i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava sull’altare.
« Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del messale e la necessità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo chierichetto, dicesse ‘Et cum spiritu tuo’ eccetera, ma che fosse realmente un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell’altare e la liturgia del popolo fosse un’unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia.
« Io trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. ‘Operi Dei nihil praeponatur’: questa parola della Regola di san Benedetto (cfr. 43, 3) appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale: parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del corpo e sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione. Adesso non vorrei entrare nei dettagli della discussione, ma vale sempre la pena tornare, oltre le attuazioni pratiche, al Concilio stesso, alla sua profondità e alle sue idee essenziali.
« Ve n’erano, direi, diverse: soprattutto il mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi della vita cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della risurrezione. Sempre di nuovo cominciamo il nostro tempo con la risurrezione, con l’incontro con il Risorto, e dall’incontro con il Risorto andiamo al mondo. In questo senso, è un peccato che oggi si sia trasformata la domenica in fine settimana, mentre è la prima giornata, è l’inizio; interiormente dobbiamo tenere presente questo: che è l’inizio, l’inizio della creazione, è l’inizio della ri-creazione nella Chiesa, incontro con il Creatore e con Cristo risorto. Anche questo duplice contenuto della domenica è importante: è il primo giorno, cioè festa della creazione, noi stiamo sul fondamento della creazione, crediamo nel Dio creatore; e incontro con il Risorto, che rinnova la creazione; il suo vero scopo è creare un mondo che è risposta all’amore di Dio.
« Poi c’erano dei principi: l’intelligibilità, invece di essere rinchiusi in una lingua non conosciuta, non parlata, ed anche la partecipazione attiva. Purtroppo, questi principi sono stati anche male intesi. Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio, se penso giorno per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla lettura delle epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo ».

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14.2.2014

DAI «DISCORSI» DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO : RALLEGRATEVI NEL SIGNORE, SEMPRE

VIII SETTIMANA DEL T.O. – UFFICIO DELLE LETTURE

SECONDA LETTURA

DAI «DISCORSI» DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO

(Disc. 171, 1-3. 5; PL 38, 933-935)

RALLEGRATEVI NEL SIGNORE, SEMPRE

L’Apostolo ci comanda di rallegrarci, ma nel Signore, non nel mondo. «Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio» (Gc 4, 4), come ci assicura la Scrittura. Come un uomo non può servire a due padroni, così nessuno può rallegrarsi contemporaneamente nel mondo e nel Signore.
Quindi abbia il sopravvento la gioia nel Signore, finché non sia finita la gioia nel mondo. Cresca sempre più la gioia nel Signore, mentre la gioia nel mondo diminuisca sempre finché sia finita. E noi affermiamo questo, non perché non dobbiamo rallegrarci mentre siamo nel mondo, ma perché, pur vivendo in questo mondo, ci rallegriamo già nel Signore.
Ma qualcuno potrebbe obiettare: Sono nel mondo, allora, se debbo gioire, gioisco là dove mi trovo. Ma che dici? Perché sei nel mondo, non sei forse nel Signore? Ascolta il medesimo Apostolo che parla agli Ateniesi e negli Atti degli Apostoli dice del Dio e Signore nostro creatore: «In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17, 28).
Colui che è dappertutto, dove non è? Forse che non ci esortava a questo quando insegnava: «Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla»? (Fil 4, 5-6).
E’ una ineffabile realtà questa: ascese sopra tutti i cieli ed è vicinissimo a coloro che si trovano ancora sulla terra. Chi è costui, lontano e vicino al tempo stesso, se non colui che si è fatto prossimo a noi per la sua misericordia?
Tutto il genere umano è quell’uomo che giaceva lungo la strada semivivo, abbandonato dai ladri. Il sacerdote e il levita, passando, lo disprezzarono, ma un samaritano di passaggio gli si accostò per curarlo e prestargli soccorso. Lontano da noi, immortale e giusto, egli discese fino a noi, che siamo mortali e peccatori, per diventare prossimo a noi.
«Non ci tratta secondo i nostri peccati» (Sal 102, 10). Siamo infatti figli. E come proviamo questo? Morì per noi l’Unico, per non rimanere solo. Non volle essere solo, egli che è morto solo. L’unico Figlio di Dio generò molti figli di Dio. Si acquistò dei fratelli con il suo sangue. Rese giusti i reprobi. Donandosi, ci ha redenti; disonorato, ci onorò; ucciso, ci procurò la vita.
Perciò, fratelli, rallegratevi nel Signore, non nel mondo; cioè rallegratevi nella verità, non nel peccato; rallegratevi nella speranza dell’eternità, non nei fiori della vanità. Così rallegratevi: e dovunque e per tutto il tempo che starete in questo mondo, «il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla» (Fil 4, 5-6).

PIETRA VIVA: LA BELLEZZA DELL’ALTARE LITURGICO

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PIETRA VIVA: LA BELLEZZA DELL’ALTARE LITURGICO

« LE COSE BELLE MANIFESTANO LA FORZA ATTRAENTE DELLA VERITÀ »

DI RANDY STICE

Tu sei bellezza … Tu sei bellezza! esclamava di Dio San Francesco d’Assisi. Dio che è bellezza è anche Essere, colui che ha creato e sostiene ogni cosa (cfr. Col. 1,16-17). La bellezza perciò è una categoria dell’essere e ogni bellezza partecipa in qualche misura della bellezza di Dio, come insegna il Concilio Vaticano II: « Per loro natura, le belle arti hanno relazione con l’infinita bellezza divina che deve essere in qualche modo espressa dalle opere dell’uomo » (Sacrosanctum Concilium, n.122). Poiché la bellezza è una categoria dell’essere, nel determinare la bellezza di qualcosa, si deve prima conoscere la sua natura essenziale. Jacques Maritain lo chiamava « segreto ontologico », da lui definito « l’intimo essere » e « l’essenza spirituale ». Il segreto ontologico delle cose è « l’invisibile realtà spirituale del loro essere oggetti di comprensione ».
La Costituzione sulla Sacra Liturgia offre la chiave per il segreto ontologico delle cose in uso nella sacra liturgia: « le cose appartenenti al culto sacro splendano veramente per dignità, decoro e bellezza, per significare e simbolizzare le realtà soprannaturali » (Sacrosanctum Concilium, n.122). Ecco il loro segreto ontologico: significati e simboli delle realtà soprannaturali. Per questa ragione, lo scopo ultimo è « una nobile bellezza piuttosto che una mera sontuosità » (n. 124). Ecco perché, se si vuole giudicare la bellezza dell’altare liturgico, occorre determinare quanto esso sia segno e simbolo delle realtà soprannaturali, e lo stesso occorre ancor prima determinare per l’edificio chiesa.
Prima di considerare la questione dell’ontologia, dobbiamo specificare la nostra metodologia estetica. A questo scopo ci rivolgiamo a San Tommaso d’Aquino. Egli insegna che le cose belle possiedono tre qualità: ‘integritas, consonantia et claritas’. L’integritas si riferisce alla completezza e alla perfezione: nulla di essenziale manca, nulla di estraneo è presente. La consonantia è la qualità della proporzionalità in relazione a un fine, quello che Dio predispone. La claritas, il terzo elemento, è il potere di un oggetto di rivelare la sua realtà ontologica. Umberto Eco la descrive come « la comunicabilità fondamentale della forma, che si realizza in chi guarda o vede l’oggetto ». Una cosa per essere veramente bella, deve avere tutti e tre gli elementi costitutivi (integritas), proporzionata al suo fine ultimo (consonantia), e manifestare la propria realtà essenziale (claritas).
Parlando del consonante, Umberto Eco descrive pure la differenza importante che esiste tra cose differenti ma interconnesse, che formano quello che egli chiama « una densa rete di relazioni… Infatti siamo liberi di considerare la relazione di tre, quattro o un’infinità di cose proporzionate tra loro e proporzionate anche rispetto a un intero unificante ». « In breve, si tratta di una duplice relazione delle parti tra loro e con l’intero di cui sono parte ». Applicato a un edificio ecclesiale e alle sue suppellettili, ciò descrive una moltitudine di relazioni: dal presbiterio alla navata, dall’altare al persbiterio, dall’altare al tabernacolo, dall’ambone alla cattedra del celebrante, e così via.
Chiarita la metodologia, passiamo ora alla questione del segreto ontologico dell’edificio chiesa e dell’altare. L’ontologia dell’edificio ecclesiale deriva dall’ontologia della Chiesa. La Lumen Gentium descrive la Chiesa come segue: « Questo edificio viene chiamato in varie maniere: casa di Dio, nella quale cioè abita la sua famiglia, la dimora di Dio nello Spirito, la dimora di Dio con gli uomini, e soprattutto tempio santo, il quale, rappresentato da santuari di pietra, è l’oggetto della lode dei santi Padri ed è paragonato a giusto titolo dalla liturgia alla Città santa, la nuova Gerusalemme » (Lumen Gentium, n.6).
Notare come la frase leghi la natura della Chiesa alla natura dell’edificio chiesa, leghi le immagini bibliche che descrivono la dimora di Dio con il suo popolo ai luoghi di culto di pietra che sono « paragonati dalla liturgia alla Città santa, la nuova Gerusalemme ». Ontologicamente quindi, l’edificio chiesa è un’immagine del Tempio, e la Città santa immagine della nuova Gerusalemme descritta nel libro dell’Apocalisse.
Figura centrale nella nuova Gerusalemme è l’Agnello (cfr. Ap. 21, 22-23; 22,1.3), che offre il contesto per l’ontologia dell’altare liturgico. Esso è simbolo del Cristo, centro del ringraziamento attualizzato nell’Eucaristia, l’altare del sacrificio e mensa del Signore. Per prima cosa, l’altare è simbolo di Cristo, come affermava Sant’Ambrogio nel IV secolo: « L’altare è l’immagine del corpo di Cristo e il corpo di Cristo sta sull’altare ». Il Catechismo della Chiesa Cattolica riassume tale importante simbolismo: « l’altare cristiano è il simbolo di Cristo stesso, presente in mezzo all’assemblea dei suoi fedeli sia come la vittima offerta per la nostra riconciliazione, sia come alimento celeste che si dona a noi » (1383).
Se l’altare è il simbolo di Cristo, deve per forza anche essere « il centro dell’assemblea, al quale si deve la massima venerazione » (Eucharisticum Mysterium). L’Istruzione Generale riafferma l’insegnamento dell’Eucharisticum Mysterium, quando lo descrive come « il centro del rendimento di grazie compiuto nell’Eucaristia ». Terzo, l’altare è « il luogo nel quale si compiono i misteri salvifici », l’altare del sacrificio. E’ il luogo, dice l’Istruzione Generale al Messale Romano, « sul quale si rende efficace il Sacrificio della Croce attualizzato nei segni sacramentali ». Quarto, è la mensa della cena sacrificale, « la mensa del Signore alla quale è convocato il Popolo di Dio per partecipare alla Messa ». Unendo questi due ultimi aspetti, il Catechismo dice: « l’altare, attorno al quale la Chiesa è riunita nella celebrazione dell’Eucaristia, rappresenta i due aspetti di uno stesso mistero: l’altare del sacrificio e la mensa del Signore » (n.1383). Un altare che « serva con la sua dignità e bellezza al decoro del culto » (Sacrosanctum Concilium n.122), rivelerà questa quadruplice ontologia.
Benché i documenti del Magistero non usino la terminologia dell’Aquinate, mostrano di conoscere implicitamente i suoi tre elementi. Riguardo alle specificazioni dell’altare, i documenti della Chiesa parlano dei suoi vari elementi, della sua ‘integritas’, la sua interezza o completezza. L’Istruzione Generale al Messale Romano sottolinea la centralità dell’altare: « l’altare sia collocato in un luogo che veramente sia il centro verso il quale l’attenzione dell’intera assemblea dei fedeli si volge in modo naturale ». Il libro della Conferenza Episcopale Americana « Built of Living Stones », fa riferimento ad altri due elementi, l’altare del sacrificio e la mensa del pasto sacrificale: « la forma e la dimensione devono riflettere la natura dell’altare come luogo del sacrificio e la mensa attorno alla quale Cristo riunisce la comunità per nutrirla ». Ciascuno di questi passaggi si riferisce all’integritas dell’Aquinate.
Il concetto di consonantia, proporzionalità a un fine, trova riscontro allo stesso modo nei documenti del Magistero. L’Introduzione all’Ordine della Messa stabilisce che « dimensione e proporzioni dell’altare devono essere adeguati alla normale celebrazione eucaristica festiva per ospitare le patene, le pissidi e i calici per la Comunione dei fedeli ». Anche la consonantia come « densa rete di relazioni » è presente. Ad esempio l’Esortazione ‘Eucharisticum Mysterium’ dice: « I Pastori siano consapevoli che la disposizione della chiesa contribuisce grandemente a una degna celebrazione e a un’attiva partecipazione dei fedeli ». Fa eco ‘Built of Living Stones’: « Considerando le dimensioni dell’altare, i parroci si assicurino che le principali suppellettili nel presbiterio siano armonicamente propozionate all’altare … L’altare sia collocato centralmente nel presbiterio e sia al centro dell’attenzione nella chiesa ». Un altare che abbia consonantia sarà appropriato alla funzione liturgica e in armonia con le altre suppellettili sacre.
Il terzo elemento dell’Aquinate, claritas, si riferisce al potere di un oggetto di rivelare la sua realtà ontologica. Una cosa può possedere consonantia e integritas, ma se non si rendono percepibili, non sarà bella. E’ quanto dice l’Istruzione Generale quando specifica che « la natura e la bellezza del luogo e delle suppellettili favoriscano la devozione ed esprimano visivamente la santità dei misteri ivi celebrati ». Secondo l’Eucharisticum Mysterium, l’altare sia « collocato e costruito in modo tale che sia sempre visto segno di Cristo stesso ». Un aspetto chiave dell’altare come simbolo di Cristo è l’altare di pietra. L’Istruzione Generale dispone che « vi sia un altare fisso in ogni chiesa, affinché sia più chiaramente e permanentemente significato Gesù Cristo, la pietra viva (1 Pt. 2,4; Ef. 2,20) ». Benché negli Stati Uniti gli altari di legno siano permessi, un altare « con la mensa di pietra naturale » rafforzerà la ‘claritas’ dell’altare, « poiché rappresenta Cristo Gesù, la Pietra Viva ». Da questi riferimenti, risulta bene come l’altare debba mostrare chiaramente la sua realtà ontologica.
Le cose belle rivelano più facilmente e completamente la loro realtà ontologica e manifestano la forza attraente della Verità. La bellezza di un edificio chiesa rifletterà la sua ontologia come Tempio e nuova Gerusalemme, e un bell’altare mostrerà la sua realtà di immagine di Cristo stesso, l’altare del sacrificio, la tavola del banchetto celeste e del ringraziamento. I tre elementi costitutivi della bellezza secondo San Tommaso d’Aquino – integritas, consonantia, claritas – costituiscono una utile metodologia per far sì che quanto è destinato alla sacra liturgia sia degno, bello e in grado di far volgere le menti con devozione verso Dio. La fedeltà alle realtà ontologiche produrranno un edificio chiesa che sarà « veicolo per portare la presenza del Trascendente » (Evdokimov), in cui « ogni altare…dal più grande al più piccolo, sia illuminato dall’altare d’oro del Cielo (Ap. 8,3), e divenga la sua replica sulla terra, la rappresentazione di Cristo stesso » (G. Webb).

The Institute for Sacred Architecture, n. 21 – Primavera 2012
http://www.sacredarchitecture.org/articles/living_stone_the_beauty_of_the_liturgical_altar/
trad. it. di d. Giorgio Rizzieri

(29/01/2013)

Publié dans:liturgia, LITURGIA: STUDI |on 24 février, 2015 |Pas de commentaires »

IL BATTESIMO INIZIO DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE PER GRAZIA (2005) DI BARTOLOMEO I

http://www.30giorni.it/articoli_id_9733_l1.htm

IL BATTESIMO INIZIO DELLA NOSTRA DIVINIZZAZIONE PER GRAZIA (2005)

Dovremmo avere lo stesso dono della parola che aveva il nostro santo predecessore Gregorio il Teologo, il quale nella sua omelia sulla Santa Epifania – insuperabile sia teologicamente che letterariamente – esprime in maniera incomparabile la fede genuina della Chiesa sul santo battesimo trasmessa fin dai tempi antichi

DI BARTOLOMEO I, PATRIARCA ECUMENICO DI COSTANTINOPOLI

In queste pagine, i mosaici della prima metà dell’XI secolo del monastero
di Hosios Loukas, Daphni, Grecia; qui sopra il battesimo di Gesù
In queste pagine, i mosaici della prima metà dell’XI secolo del monastero di Hosios Loukas, Daphni, Grecia; qui sopra il battesimo di Gesù
Dovremmo avere lo stesso dono della parola che aveva il nostro santo predecessore Gregorio il Teologo, il quale nella sua omelia sulla Santa Epifania – insuperabile sia teologicamente che letterariamente – esprime in maniera incomparabile la fede genuina della Chiesa sul santo battesimo trasmessa fin dai tempi antichi, e, riferendosi alla rivelazione del Dio Trinitario al fiume Giordano, illustra con commovente magnificenza la grandezza dell’amore del Signore per gli uomini, che con la santificazione degli elementi materiali, come l’acqua, rende possibile la partecipazione alla vita divina a noi pellegrini sulla terra.
Molteplici sono le teofanie che – nelle sue svariate religioni mitiche – l’umanità ha conosciuto fin dai tempi antichi ed esse rivelano la profondissima ma inappagata sete dell’animo umano di giungere alla comunione con il suo Creatore. La Chiesa, Corpo di Cristo, che vive il compimento delle prefigurazioni e delle visioni dell’Antico Testamento, a partire dalla manifestazione del Dio Trinitario al fiume Giordano nel momento del battesimo di Gesù, non ha mai cessato di vivere manifestazioni divine di diversa intensità, grazie alla condiscendenza misericordiosa di Dio amico dell’uomo.
Dal momento in cui il Dio Logos «si è fatto uomo affinché l’uomo diventasse Dio», come diceva Atanasio il Grande, gradualmente ha rivelato il mistero della divinizzazione degli uomini, certo non per natura ma per grazia, tramite la potenza increata dello Spirito Santo, e ha consegnato ai fedeli sé stesso come esempio: «Cristo patì per voi, lasciandovi un esempio, perché ne seguiate le orme» (1Pt 2, 21).
Battezzato lui stesso nel Giordano, ha insegnato così la necessità del battesimo come sacramento fondamentale e introduttivo per l’incorporazione e l’innesto dei fedeli nel bell’olivo della Chiesa e ha ripetuto, nel suo famoso dialogo notturno con il discepolo Nicodemo, che «se uno non nasce dall’acqua e dallo Spirito, non può entrare nel regno di Dio» (Gv 3, 5). Allo stesso modo ognuno di noi, quando riceve il battesimo, viene purificato in modo misterioso dalla macchia del peccato, e, rinato spiritualmente, ha da quel momento in poi la possibilità di partecipare dinamicamente alla vita della Chiesa, dove vivendo in purezza di spirito e di corpo può sperimentare già ora le manifestazioni divine e la manifestazione divina finale della quale godranno quanti diverranno partecipi del Paradiso, secondo la mirabile descrizione dell’evangelista Giovanni nella sua Apocalisse (capp. 21 e 22).
Quando parliamo di manifestazione divina, non intendiamo una condizione prodotta dalla fantasia, ma una totale partecipazione dell’intera persona umana, corpo e anima, ai doni dello Spirito Santo. In tale partecipazione, può accadere di sperimentare soltanto interiormente la presenza operante di Dio o può accadere di vivere anche corporalmente un cambiamento che non si può descrivere con parole umane. Così d’altronde capitò al santo apostolo Paolo che per primo visse questo fatto (2Cor 12), e si scoprì incapace di descriverlo, trattandosi di una pregustazione seppure di minima intensità del Paradiso.
Simili doni di grazia sono stati e sono ancora vissuti da moltissimi santi della Chiesa, sia antichi sia a noi contemporanei, che peraltro non li hanno cercati, visto che la manifestazione di Dio costituisce un evento straordinario, concepibile soltanto come dono di Dio, e non può essere il risultato di speciali sforzi tecnici che in una qualche maniera costringano Dio a rivelare sé stesso.
Una tale visione e condizione spirituale esige una vita assolutamente evangelica, secondo le promesse pronunciate al momento del nostro battesimo, quando «abbiamo rinunciato a Satana e siamo stati uniti a Cristo». E visto, comunque, che «viviamo nella carne e abitiamo nel mondo» e sporchiamo la candida veste del battesimo sia a causa della debolezza umana sia per la tentazione del demonio, il Signore misericordioso ci ha donato il secondo battesimo, cioè quello del pentimento e delle lacrime. Addirittura, riguardo al valore di questo secondo battesimo, san Gregorio di Nissa scrive che «anche la lacrima che gocciola ha la stessa forza del lavacro del battesimo, e un gemito di contrizione restituisce la grazia che si era perduta per poco tempo».
Con quel che abbiamo detto qui molto brevemente, abbiamo tentato di mostrare la fede ininterrotta che vive la Madre Santa, la Grande Chiesa di Cristo, riguardo al significato della manifestazione di Dio, in primo luogo al Giordano e poi nella vita quotidiana dei fedeli. La nostra discendenza da Adamo, il progenitore decaduto, certamente ci ha fatto ereditare anche tante conseguenze negative che ci ostacolano nel cammino per giungere alla visione diretta del volto di Dio. Il Signore misericordioso, però, con la sua ineffabile incarnazione e l’insieme della divina economia, ci concede la possibilità di spogliarci del vecchio Adamo corruttibile e di rivestirci in Lui del nuovo, secondo il detto paolino: «Quanti siamo battezzati in Cristo, ci siamo rivestiti di Cristo». Così canta la Chiesa nel giorno luminoso della festa dell’Epifania, con la gioia nel cuore, aspettando il rinnovamento di questo mondo corruttibile al momento della seconda venuta del Signore, il quale con la santificazione delle acque inaugura il ritorno alla bellezza primigenia anche della creazione stessa, che soffre con noi fino a quando Cristo sarà tutto in tutti.

ARTE E LITURGIA – L’ARREDO FLOREALE SEGNO DI BELLEZZA E DI FESTA

http://www.stpauls.it/vita/0705vp/0705vp24.htm

ARTE E LITURGIA – L’ARREDO FLOREALE SEGNO DI BELLEZZA E DI FESTA

di MICAELA SORANZO

Vita Pastorale n. 5 maggio 2007 – Home Page Oggi nelle nostre chiese la presenza floreale appare triste o non adatta. I fiori invece possono essere un supporto per la preghiera.
«Io darò convegno agli Israeliti in questo luogo, che sarà consacrato alla mia Gloria. Consacrerò la tenda del convegno e l’altare» (Es 29,43-44).
È il Signore che ci chiama a radunarci in un luogo, che ci dà convegno attorno al suo altare. Nel Proemio all’Ordinamento generale del Messale Romano (OGMR 1) si fa specifico riferimento alla «grande sala già addobbata e pronta» dove «il Maestro desidera fare la cena pasquale con i suoi discepoli» (cf Mc 14,14; cf Lc 22,12).
La comunità cristiana ha bisogno per la propria espressione non solo della partecipazione attiva dei fedeli, ma anche di un’atmosfera di bellezza. Quindi il luogo in cui si riunisce per celebrare i sacramenti non è un elemento indifferente per la celebrazione stessa. Si devono, pertanto, adottare opportuni accorgimenti, come la cura della «diffusione sonora della voce, un’idonea illuminazione e tutto ciò che concorre a creare un’atmosfera nobile, accogliente e festosa» (ACRL 15). Ma è davvero questa l’atmosfera che ci accoglie quando entriamo in chiesa per partecipare alla liturgia domenicale o in un momento qualsiasi per pregare o per una visita?
Eppure gli elementi presenti, anche quelli più legati all’uso abituale, creano un clima che può facilitare la sosta o renderla meno gradevole: i fiori, la tovaglia, i candelieri, le luci parlano, sono qualcosa di più che semplici oggetti. I fiori nelle chiese sono sempre stati presenti, ma purtroppo oggi si evidenzia una presenza floreale triste o non adatta, rivelatrice di un vero e proprio vuoto; vi è una tale « superficialità in queste decorazioni floreali, che spesso testimoniano, al di là di un vago sentimentalismo, indifferenza, fretta, negligenza: i luoghi della celebrazione, soprattutto l’altare, o sono stravolti da una disordinata abbondanza di addobbi, dove i fiori avvizziscono nei vasi, oppure sono completamente spogli. Bisogna, invece, comprendere che i fiori sono un supporto per la preghiera e la contemplazione. Ma perché i fiori?
Senza dubbio per la loro bellezza, ma forse anche perché entrano a far parte di un clima gioioso, di un’atmosfera di festa. Il senso religioso ha spinto tutti i popoli in tutti i secoli, per le loro feste e le loro preghiere, a cogliere dei fiori per manifestare, attraverso loro, i sentimenti che provano e che non sanno esprimere.
Il fiore, secondo la Bibbia, è simbolo della bellezza e della grazia terrena, ma ricorda il paradiso, la beatitudine celeste. La martire cartaginese Perpetua in una visione contempla l’al di là come un giardino fiorito con rosai alti come cipressi. Nel linguaggio figurato della Bibbia il fiore, per la sua delicatezza, è anche simbolo dell’incostanza e della caducità proprie delle creature, un’immagine del carattere fugace della bellezza. L’uomo «come il fiore del campo, così egli fiorisce. Lo investe il vento e più non esiste, e il suo posto non lo riconosce» (Sal 103,15-16). La stessa idea si trova in Isaia: «Ogni uomo è come l’erba e tutta la sua gloria è come un fiore del campo» (Is 40,6). Nell’Antico Testamento il fiorire e l’essere uniti a Dio sono in stretta correlazione; in questo senso vanno intese le parole del Siracide: «Ascoltatemi, figli santi, e crescete come una pianta di rose su un torrente. Come incenso spandete un buon profumo, fate fiorire fiori come il giglio» (39,13).
La Chiesa delle origini si riuniva nella domus Ecclesiae; se la casa era di un patrizio, i fiori erano dipinti a fresco sui muri; le primitive tombe si trovavano spesso in mezzo a un giardino e venivano ornate con fiori freschi, ma anche con raffigurazioni di fiori e ghirlande per evocare l’immagine del giardino edenico. Nonostante i Padri della Chiesa, come Ambrogio o Girolamo, fossero contrari all’usanza di deporre fiori sulle tombe dei cristiani, tali consigli non allontanarono i fedeli dall’offrire fiori per la decorazione della chiesa. Si ornava la chiesa nei giorni di festa con festoni di foglie verdi, di viti e di fiori e si spargevano fiori sul pavimento: questi tappeti fioriti diventeranno poi mosaici.
I documenti della Chiesa e i libri liturgici, anche i più recenti, sono molto sobri nel trattare il tema dei fiori nella liturgia. Solo la recente edizione dei Praenotanda al Messale Romano fa riferimento specifico non solo all’uso dei fiori, ma anche al luogo dove metterli in relazione all’altare, precisando che «l’ornamento dei fiori sia sempre misurato e, piuttosto che sopra la mensa dell’altare, si disponga attorno ad esso» (OGMR 305). Nel Caerimoniale episcoporum (1984) si accenna solo all’opportunità o meno di disporre i fiori secondo i tempi liturgici in riferimento all’altare (236-252), al rito delle esequie (824), al luogo della reposizione (299c) e dell’adorazione eucaristica (1104).
Per la sistemazione dei fiori, le note pastorali dei vescovi La progettazione di nuove chiese e L’adeguamento delle chiese secondo la riforma liturgica invitano a realizzare apposite fioriere da collocare all’interno dello spazio celebrativo o «nell’area presbiterale, non solo per l’effetto di ordine, ma per l’uso liturgico nei tempi e nei modi consentiti» (PNC 18), «data la rilevanza che tale arredo può assumere nella decorazione dell’altare e degli altri luoghi della chiesa» (ACRL 24). Inoltre si precisa l’utilizzo di piante e fiori veri, scartando ogni addobbo con fiori artificiali.
Innanzitutto è importante sapere dove vanno collocati gli addobbi floreali, per evitare di spargerli indistintamente per tutta la chiesa o di concentrare tutto sul presbiterio trasformandolo in una serra. Attualmente fiori recisi e in vaso si mescolano a piante verdi; le collocazioni sono a volte bizzarre e il presbiterio si trasforma in un percorso a ostacoli; ogni spazio libero, ogni sporgenza va bene per appoggiare un vaso di fiori o una piantina, per non parlare della varietà di contenitori utilizzati. Una bella decorazione floreale, infatti, ha il compito di valorizzare e dare significato ai luoghi della celebrazione, non di nasconderli.
L’altare è prima di tutto la mensa del Signore; richiama la mensa nel Cenacolo o la tavola nella casa di Emmaus, dove i discepoli riconobbero il Signore nello spezzare il pane (cf Lc 24,27-31). Ma l’altare è punto di unità e fonte di grazia, perché l’altare è Cristo, così come affermano i Padri della Chiesa. Per questo nel Rito della dedicazione viene unto ed è oggetto di molti segni di venerazione, come l’inchino, il bacio, l’incensazione, l’omaggio floreale.
Nei primi secoli i fiori ornavano le tombe dei martiri in conformità all’uso di ornare i sepolcri; non risulta che si collocassero fiori sull’altare, ma solo attorno ad esso, soprattutto se l’altare conteneva la tomba di un martire. Poiché chiese e altari sono strettamente collegati alle tombe dei martiri, ne assumono ben presto l’ornamento floreale. Di quest’uso parlano Paolino da Nola, Ambrogio e Girolamo, che nella lettera a Eliodoro loda Nepoziano per il suo amore nell’adornare le chiese e le cappelle dei martiri con ogni varietà di fiori, ramoscelli d’alloro e tralci di vite. Tutti, però, parlano di fiori e di belle fronde verdi, nessuno accenna a fiori artificiali: meglio fare a meno dei fiori!
Dopo la visita pastorale del 1932 il cardinale vicario di Roma proibisce tutti i fiori artificiali e scrive: «I fiori artificiali sono interdetti. Debbono essere rimossi dalle chiese e dagli oratori, né possono esservi collocati per qualsiasi ragione. Ad ornamento delle chiese e degli altari si possono usare, sobriamente, piante e fiori freschi, che tra noi abbondano tutto l’anno».
Il fiore è reciso, dunque sacrificato, e sull’altare va posto solo ciò che si consuma, come le candele che bruciano. I colori, il profumo, l’armonia di un’equilibrata composizione dispongono l’animo dei presenti. Gli altari, anche nelle maggiori solennità, non devono mai essere trasformati in serre di fiori, perché all’ornamento dello spazio sacro si addice meglio la discrezione e il buon gusto.
Per quanto riguarda l’ambone, esso viene teologicamente definito dai Padri della Chiesa come icona spaziale della risurrezione, cioè come immagine visibile di Cristo risorto che emerge dal sepolcro e proclama la risurrezione a tutti gli uomini. Ecco perché al luogo dell’ambone è collegata l’immagine del giardino. «Ora, nel luogo dove era stato crocifisso, vi era un giardino e nel giardino un sepolcro vuoto, nel quale nessuno era stato deposto. Là, dunque, deposero Gesù» (Gv 19,41-42a). È in questo giardino che le donne ricevono l’annuncio che Cristo è risorto (cf Gv 20,11-18).
In molte chiese antiche, come San Clemente a Roma, c’è il giardino al centro della basilica, che unisce l’altare-risurrezione con l’ambone-sepolcro vuoto; è il giardino dell’Eden rinnovato (Gen 2,15), è il giardino della morte e risurrezione del Signore, è il giardino della sposa del Cantico dei Cantici (Ct 4,12; 5,1), è il giardino escatologico dell’Apocalisse (Ap 21,10; 22,2). In questi monumenti troviamo decorazioni con viti, fiori, foglie e simili e quindi anche noi poniamo fiori nelle nostre chiese, accanto l’altare e l’ambone non solo per motivo estetico, di abbellimento, ma per ricostruire simbolicamente questo ambiente sponsale di alleanza. Lo spazio destinato all’area battesimale, e quindi non solo il fonte, è il luogo dove si chiede di essere accolti in seno alla Chiesa; deve essere un luogo vivo, gioioso, al quale va dato rilievo anche al di fuori della celebrazione del rito. Alla catechesi battesimale cristiana si collega anche il tema della piantagione per designare la Chiesa, che è il paradiso di Dio, formato da alberi che sono i cristiani, piantati dal battesimo (cf 1Tm 3,6). Molti Padri, da Cipriano a Ippolito a Origene, parlano della Chiesa, paradiso di Dio, dove vi è un bel giardino con alberi carichi di frutti.
Deve essere dunque, il fonte battesimale, un ambiente di grande festa, perché è la casa del Padre tutta addobbata e ricca di fiori per accogliere il battezzando. Tertulliano chiama i cristiani Christi florentes, fioritura di Cristo, e quello dei fiori è uno degli elementi decorativi battesimali più frequenti; molte sono le suggestioni che nascono dall’immagine del fiore o dell’albero frondoso: dalla fioritura della radice di Jesse alla terra promessa carica di frutti. Per questo è importante che nell’area battesimale oltre alle decorazioni opportune, si mantenga costantemente presente il segno sacramentale dell’acqua, il cero pasquale, luce di Cristo, e una composizione di fiori, frutta e piante verdi a richiamo della nostra futura vita di battezzati.
Al di là dei luoghi in cui collocare un addobbo floreale l’attenzione principale, però, deve essere sempre e comunque alla liturgia; essa ha bisogno del linguaggio dei fiori, perché i fiori introducono nell’immobilità dell’architettura lo scorrere dell’anno liturgico e la diversità delle feste. A questo proposito, l’OGMR 305 chiarisce bene che nel tempo di Avvento è consentito ornare di fiori la chiesa in modo sobrio, per non «anticipare la gioia piena della Natività del Signore», mentre in Quaresima è assolutamente proibito l’uso dei fiori, fatta eccezione per la domenica Laetare, le solennità e le feste.
Questo non significa, però, che dobbiamo avere un presbiterio spoglio, ma lo possiamo addobbare con foglie, rami o bacche, di cui la natura è molto generosa. Inoltre, se la chiesa-edificio è immagine visibile della Chiesa-popolo di Dio, non è possibile entrarvi e trovare un ambiente « asettico », « fuori del tempo », ma essa deve far capire quale tempo liturgico si sta attraversando e soprattutto quale comunità parrocchiale lo sta vivendo hic et nunc.
Bisogna pensare sempre che la decorazione floreale è un arredo e quindi si deve adattare strettamente al luogo, allo stile: una chiesa romanica è molto diversa da una chiesa barocca o contemporanea. Insieme alla liturgia è necessaria anche una formazione biblica per preparare una composizione floreale, perché senza questo bagaglio culturale il rischio più facile è quello di appoggiarsi sull’allegoria, cadendo inevitabilmente in una casistica.
Bisogna evitare di stabilire una dottrina delle forme, dei colori o delle specie vegetali in funzione di una « simbolica » estranea alla nostra cultura. È importante anche variare la decorazione floreale secondo le stagioni dell’anno: dai grandi fiori colorati dell’estate alle belle foglie dell’autunno, così come non si può escludere la presenza dei frutti, che fanno parte della tradizione più antica della Chiesa delle origini: limoni, cedri, arance, melograni, ciliege possono arricchire le composizioni dando loro un maggior significato simbolico; vi sono poi le foglie, i rami, le piante aromatiche.
Per la disposizione dei vasi e dei fiori non è necessario cercare la simmetria: spesso troppa simmetria stanca. Si deve scegliere solo il naturale, frutto della creazione e per ovviare a problemi economici meglio optare per i fiori di campo, che faranno comunque uno splendido effetto: Gesù ha ammirato i gigli di campo più belli di Salomone in tutta la sua gloria! (cf Lc 12,27). Paolo lo dice chiaramente ai Romani: dalla creazione del mondo, le opere di Dio rendono visibili all’intelligenza i suoi attributi invisibili (cf Rm1,20). La composizione floreale dello spazio sacro è un’arte che esige misura, discrezione, economia di mezzi, creatività e disciplina: è un’arte che deve parlare al cuore degli uomini, perché «questo mondo, nel quale noi viviamo, ha bisogno di bellezza per non cadere nella disperazione» (Paolo VI, Messaggio del Concilio agli artisti, 8.12.65).

Micaela Soranzo

Vita Pastorale n. 5 maggio 2007 

Publié dans:liturgia |on 11 novembre, 2014 |Pas de commentaires »

COME ENTRARE NEL TEMPO E NELLO SPAZIO DI DIO – di Sandro Magister

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/1350716?ref=hpchie

COME ENTRARE NEL TEMPO E NELLO SPAZIO DI DIO

Papa Francesco rompe a sorpresa il suo silenzio sulla liturgia. « È la nube di Dio che ci avvolge tutti », dice. E invoca un ritorno al vero senso del sacro

di Sandro Magister

ROMA, 14 febbraio 2014 – A cinquant’anni dalla promulgazione del documento del concilio Vaticano II sulla liturgia, in Vaticano solennizzano l’avvenimento con un convegno di tre giorni alla pontificia università del Laterano, promosso dalla congregazione per il culto divino, il 18-20 di questo mese.
La liturgia non è apparsa finora in primo piano nella visione di papa Francesco. Nella lunga intervista-confessione a « La Civiltà Cattolica » della scorsa estate, ridusse la riforma liturgica conciliare a questa sbrigativa definizione: « un servizio al popolo come rilettura del Vangelo a partire da una situazione storica concreta ».
Non una parola di più, se non per il « preoccupante rischio di ideologizzazione del Vetus Ordo, la sua strumentalizzazione ».
Ma lunedì 10 febbraio, all’improvviso, Jorge Mario Bergoglio ha rotto il silenzio e ha dedicato alla liturgia l’intera omelia della messa mattutina nella cappella di Santa Marta. Dicendo cose che non aveva mai detto in precedenza, da quando è papa.
Quella mattina, nella messa si leggeva il primo libro dei Re, quando durante il regno di Salomone la nube, la gloria divina, riempì il tempio e « il Signore decise di abitare nella nube ».
Prendendo spunto da quella « teofania », papa Jorge Mario Bergoglio ha detto che « nella liturgia eucaristica Dio è presente », in modo ancor « più vicino » che nella nube nel tempio, la sua « è una presenza reale ».
E ha proseguito:
« Quando parlo di liturgia mi riferisco principalmente alla santa messa. La messa non è una rappresentazione, è un’altra cosa. È vivere un’altra volta la passione e la morte redentrice del Signore. È una teofania: il Signore si fa presente sull’altare per essere offerto al Padre per la salvezza del mondo ».

Più avanti il papa ha detto:
« La liturgia è tempo di Dio e spazio di Dio, e noi dobbiamo metterci lì nel tempo di Dio, nello spazio di Dio e non guardare l’orologio. La liturgia è proprio entrare nel mistero di Dio, lasciarsi portare al mistero ed essere nel mistero. È la nube di Dio che ci avvolge tutti ».
E tornando a un suo ricordo d’infanzia:
« Io ricordo che da bambino, quando ci preparavano alla prima comunione, ci facevano cantare: “’O santo altare custodito dagli angeli”, e questo ci faceva capire che l’altare era davvero custodito dagli angeli, ci dava il senso della gloria di Dio, dello spazio di Dio, del tempo di Dio ».
Avviandosi alla conclusione, Francesco ha invitato i presenti a « chiedere oggi al Signore che dia a tutti questo senso del sacro, questo senso che ci faccia capire che una cosa è pregare a casa, pregare il rosario, pregare tante belle preghiere, fare la via crucis, leggere la bibbia, e un’altra cosa è la celebrazione eucaristica. Nella celebrazione entriamo nel mistero di Dio, in quella strada che noi non possiamo controllare. Lui soltanto è l’unico, lui è la gloria, lui è il potere. Chiediamo questa grazia: che il Signore ci insegni a entrare nel mistero di Dio ».
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L’omelia di papa Francesco del 10 febbraio nella sintesi che ne ha dato « L’Osservatore Romano »:
> A messa senza orologio
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LA COSTITUZIONE DEL CONCILIO VATICANO II SULLA LITURGIA, IL PRIMO DEI DOCUMENTI APPROVATI DA QUELL’ASSISE:
> Sacrosanctum Concilium
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Ed ecco come ne parlò Benedetto XVI nel discorso a braccio al clero di Roma del 14 febbraio 2013, esattamente un anno fa, uno degli ultimissimi atti del suo pontificato:
« Dopo la prima guerra mondiale era cresciuto, nell’Europa centrale e occidentale, il movimento liturgico, una riscoperta della ricchezza e profondità della liturgia, che era finora quasi chiusa nel messale del sacerdote, mentre la gente pregava con propri libri di preghiera, i quali erano fatti secondo il cuore della gente, così che si cercava di tradurre i contenuti alti, il linguaggio alto, della liturgia classica in parole più emozionali, più vicine al cuore del popolo. Ma erano quasi due liturgie parallele: il sacerdote con i chierichetti, che celebrava la messa secondo il messale, ed i laici, che pregavano, nella messa, con i loro libri di preghiera, insieme, sapendo sostanzialmente che cosa si realizzava sull’altare.
« Ma ora era stata riscoperta proprio la bellezza, la profondità, la ricchezza storica, umana, spirituale del messale e la necessità che non solo un rappresentante del popolo, un piccolo chierichetto, dicesse ‘Et cum spiritu tuo’ eccetera, ma che fosse realmente un dialogo tra sacerdote e popolo, che realmente la liturgia dell’altare e la liturgia del popolo fosse un’unica liturgia, una partecipazione attiva, che le ricchezze arrivassero al popolo; e così si è riscoperta, rinnovata la liturgia.
« Io trovo adesso, retrospettivamente, che è stato molto buono cominciare con la liturgia, così appare il primato di Dio, il primato dell’adorazione. ‘Operi Dei nihil praeponatur’: questa parola della Regola di san Benedetto (cfr. 43, 3) appare così come la suprema regola del Concilio. Qualcuno aveva criticato che il Concilio ha parlato su tante cose, ma non su Dio. Ha parlato su Dio! Ed è stato il primo atto e quello sostanziale: parlare su Dio e aprire tutta la gente, tutto il popolo santo, all’adorazione di Dio, nella comune celebrazione della liturgia del corpo e sangue di Cristo. In questo senso, al di là dei fattori pratici che sconsigliavano di cominciare subito con temi controversi, è stato, diciamo, realmente un atto di provvidenza che agli inizi del Concilio stia la liturgia, stia Dio, stia l’adorazione. Adesso non vorrei entrare nei dettagli della discussione, ma vale sempre la pena tornare, oltre le attuazioni pratiche, al Concilio stesso, alla sua profondità e alle sue idee essenziali.
« Ve n’erano, direi, diverse: soprattutto il mistero pasquale come centro dell’essere cristiano, e quindi della vita cristiana, dell’anno, del tempo cristiano, espresso nel tempo pasquale e nella domenica che è sempre il giorno della risurrezione. Sempre di nuovo cominciamo il nostro tempo con la risurrezione, con l’incontro con il Risorto, e dall’incontro con il Risorto andiamo al mondo. In questo senso, è un peccato che oggi si sia trasformata la domenica in fine settimana, mentre è la prima giornata, è l’inizio; interiormente dobbiamo tenere presente questo: che è l’inizio, l’inizio della creazione, è l’inizio della ri-creazione nella Chiesa, incontro con il Creatore e con Cristo risorto. Anche questo duplice contenuto della domenica è importante: è il primo giorno, cioè festa della creazione, noi stiamo sul fondamento della creazione, crediamo nel Dio creatore; e incontro con il Risorto, che rinnova la creazione; il suo vero scopo è creare un mondo che è risposta all’amore di Dio.
« Poi c’erano dei principi: l’intelligibilità, invece di essere rinchiusi in una lingua non conosciuta, non parlata, ed anche la partecipazione attiva. Purtroppo, questi principi sono stati anche male intesi. Intelligibilità non vuol dire banalità, perché i grandi testi della liturgia – anche se parlati, grazie a Dio, in lingua materna – non sono facilmente intelligibili, hanno bisogno di una formazione permanente del cristiano perché cresca ed entri sempre più in profondità nel mistero e così possa comprendere. Ed anche la Parola di Dio, se penso giorno per giorno alla lettura dell’Antico Testamento, anche alla lettura delle epistole paoline, dei Vangeli: chi potrebbe dire che capisce subito solo perché è nella propria lingua? Solo una formazione permanente del cuore e della mente può realmente creare intelligibilità ed una partecipazione che è più di una attività esteriore, che è un entrare della persona, del mio essere, nella comunione della Chiesa e così nella comunione con Cristo ».

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