Archive pour la catégorie 'meditazioni'

IL VALORE DEL SILENZIO

https://carlomafera.wordpress.com/2016/07/08/il-silenzio-vuol-dire-ascolto-amoroso-di-dio-che-parla/

IL VALORE DEL SILENZIO

di Dall’Osto Antonio

In un mondo lacerato dal rumore, discorrere sul silenzio può sembrare una perdita di tempo. Per un gran numero di persone il piacere sta nel rumore. Ci sono individui che lo idolatrano, altri che senza di esso si sentono persi, perché incapaci di stare nel silenzio. Il rumore costituisce un modo di fuggire da se stessi, specialmente da quelle realtà che sono traumatiche e frustranti, o anche dal confronto con il proprio essere. Eppure, in mezzo a questa realtà, il silenzio può costituire un cammino di guarigione, nel senso che dà la possibilità di comprendere meglio gli avvenimenti che ci circondano e che toccano la nostra vita.
In un articolo dedicato a questo argomento, p. Rogério Gomes, redentorista, scrive che il silenzio, in una società del rumore come la nostra, costituisce una vera e propria sfida. Soprattutto per chi vuole dedicarsi alla preghiera e alla lectio divina e cercare Dio. ,
Un silenzio kenotico
Per giungere all’unione e all’intimità con Dio è necessario, osserva il padre, percorrere un cammino che si sviluppa in quattro momenti o tappe.
Occorre coltivare, anzitutto, un silenzio che egli chiama kenotico. Ciò avviene quando sospendiamo i nostri giudizi, i pensieri e le preoccupazioni; quando ci immergiamo nel nostro mondo interiore e lasciamo la nostra casa limpida, pronta a ricevere il visitatore illustre che è Dio. Nel silenzio kenotico la domanda che ci poniamo è: di che cosa voglio svuotarmi? Kenosis vuol dire infatti spogliarsi di se stessi, staccarsi dal proprio io, dalle proprie sicurezze. Non è un distacco dovuto a disprezzo, ma l’espressione di un desiderio profondo di lasciare che l’azione di Dio penetri nelle profondità delle nostra azioni. Questo liberarsi da se stessi vuol dire essere come un’argilla che poco alla volta va modellandosi nelle mani del vasaio. Ci lasciamo cioè plasmare dalle mani del Vasaio Eterno.
In realtà, la kenosis non ci svuota di niente se non dai nostri legami interiori. È una liberazione dalle prigioni che noi stessi ci creiamo, che sono come delle fortezze che ci nascondono l’amore profondo di Dio. Bernard Häring afferma: la kenosis è solo apparentemente uno svuotamento. In realtà, è tutto un impegno per aprirsi all’azione della grazia di Dio, per rimanere immuni dagli agguati dell’orgoglio.
Il mistero della kenosis, ci aiuta inoltre a comprendere il processo redentore di Cristo: la sua incarnazione, vita, missione , la sua morte e risurrezione. Infatti la vita di Cristo è stata una kenosis perenne.
Un silenzio ontologico
È necessario poi il silenzio ontologico che ci conduce ai fondamenti del nostro essere, alla nostra abitazione interiore, al riscatto della dimensione sacrale che è in noi e del soffio divino che molte volte dimentichiamo nel corso della vita. Ci aiuta a comprendere che non siamo né angeli, né demoni, siamo semplicemente esseri umani, con le nostre virtù e ambiguità. Essere umani significa dialogare con un io interiore, con una storia personale e con una realtà che la circonda ed esiste nel tempo e nello spazio. È questo il momento in cui ci stiamo di fronte a noi stessi, disarmati dalle nostre verità assolute, arcaiche, e ci mettiamo in questione in una maniera che provoca la la catarsi. Il silenzio ontologico, sottolinea p. Gomes, nella sua profondità ci conduce all’abisso esistenziale del nostro essere per riempirlo di significato e farci avanzare nelle acque più profonde del mare della nostra esistenza.
È il momento in cui passiamo dall’esteriorità che è in noi e ci immergiamo nella nostra storia personale, nella nostra costituzione bio-fisica-psicologica, nei valori personali e culturali, consentendo così il riscatto del nostro essere. In questa tappa, la domanda centrale è: chi sono io? Il silenzio ontologico ci permette di prendere contatto con il nostro passato, di riconciliarci con esso, e di entrare in una profonda comunione con il nostro essere, dandoci la possibilità di ricominciare e la speranza di poter giungere alla perfezione.
La terza dimensione del silenzio è quella mistagogica. È il silenzio che ci pone davanti al mistero, all’ineffabile, a una realtà destinata a provocare in noi, esseri umani, il desiderio supremo e ci fa comprendere il senso della nostra grande piccolezza. Ci conduce a una profonda esperienza del mistero, a una spiritualità mistagogica. Il silenzio mistagogico ci stimola a scrutare il mistero di Dio, in un atteggiamento di fede. Ci permette di vivere l’esperienza dell’amore autentico davanti a colui che ci ha creato. E tanto più amiamo, quanto più conosciamo. Giunti a questo grado, possiamo scrutare, al di là del mistero che è Dio, anche il mistero che siamo noi stessi.
C’è infine il silenzio teofanico quello che, nel profondo svuotamento dell’essere, fa incontrare il mistero e permette alla voce di Dio di parlare.
Ascolto amoroso di Dio che parla
Il silenzio conduce a un ascolto amoroso di Dio. Ascoltare/udire suppone un atteggiamento discepolare, obbediente. Il discepolato del silenzio porta quindi a quel servizio caritativo che va incontro all’altro e l’accoglie così come è; si tratta dell’ascolto di Dio che parla anche attraverso l’altro. Il grande esempio è quello di Maria (Lc 1,29-45) che accolse l’annuncio dell’angelo, si interrogò sul significato di ciò che aveva ascoltato e si mise in viaggio per andare a visitare la cugina Elisabetta.
La Sacra Scrittura è piena di testi che si riferiscono all’ascolto di Dio. Per l’israelita, ascoltare ha delle implicazioni profonde nella sua vita, nel suo agire etico-spirituale. In breve possiamo affermare che gli israeliti furono il popolo dell’ascolto di Dio, e quando non lo ascoltarono, andarono incontro a delle conseguenze disastrose nella loro vita.
Per ascoltare è necessario fare silenzio, aprire gli orecchi e fare attenzione a colui che parla. Ma come ascoltare Dio se non lo vediamo? Un dialogo infatti suppone due interlocutori, uno che parla e l’altro che ascolta. Dio ci parla, ma noi non lo vediamo… Per questa ragione, senza un ascolto amoroso, Dio rimarrà sempre sconosciuto, susciterà solo paura, e mai saremo in grado di instaurare con lui un dialogo vicendevole. Egli è un interlocutore silenzioso, ma ci interpella con la voce del silenzio… Dio infatti è uno che dialoga e con cui si dialoga: basta volerlo ascoltare!
L’atteggiamento dell’ascolto non è facile soprattutto quando abbiamo a che fare con persone che dicono cose che non abbiamo voglia di ascoltare. Ascoltare gli amici è facile, ma ascoltare persone estranee, con i loro problemi, richiede ascesi. Ma se vogliamo fare una profonda esperienza di Dio, è necessario ascoltare e assumere l’atteggiamento dell’autore biblico quando afferma: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte» (Dt 6,4-9).
Questi versetti forniscono elementi molto preziosi per riflettere sull’ascolto amoroso di Dio. Lo Shemá è un imperativo che manifesta una convocazione, una professione di fede israelita nell’unicità di Jahweh: uno solo è il liberatore e a motivo della sua azione liberatrice nel mondo deve essere ricordato incessantemente e amato di generazione in generazione, poiché le sue azioni hanno segnato profondamente la vita del popolo. Esso evoca una profondità di ascolto ineffabile. Si tratta di auscultare, ossia, di prestare attenzione, comprendere, accogliere, intendere, esaminare, discernere, farsi obbedienti, acconsentire. È mettere in pratica ciò che si è ascoltato coniugandolo con la vita in modo che colui che ha ascoltato annuncia, proclama e invita gli altri a fare l’esperienza del Dio unico.
L’implicazione di questo ascolto è l’amore. Si tratta infatti di una realtà del cuore, inteso come centro delle decisioni, luogo dove l’essere umano è quello che è, del luogo della coscienza.
Soltanto colui che fa l’esperienza di ascoltare l’altro è in grado di amarlo nella sua totalità, con tutto il cuore. Amare con tutto il cuore è donarsi gratuitamente, senza riserve, da cuore a cuore; è fare l’esperienza della gioia, del timore, del coraggio, della sofferenza, del desiderio, della tristezza. Amare con tutto il cuore richiede di andare al centro delle nostre decisioni e della genesi delle nostre intenzioni, e fare l’esperienza dell’amore assoluto, Dio, con tutta la nefesh (v. 5), termine che può essere tradotto con tutta la vita, l’anima, il respiro… con tutto ciò che rende l’uomo capace di vivere. È la creatura con tutta la vita, con tutta la forza del suo essere, con i suoi appetiti e desideri, col suo essere e l’esistenza, e anche con le sue miserie. È l’esperienza dell’indigenza che desidera Dio in maniera straordinaria con tutte le sue forze.
Silenzio e presenza di Dio
Se il silenzio è un ascolto amoroso che ci fa entrare nell’intimità del nostro essere. Ci introduce nel nostro tempio interiore e ci permette di percepire Dio che entra in questo santuario che lui stesso ha creato, per così contemplare la sua meravigliosa opera. È qui in profondità che il creatore e la creatura si contemplano, è qui che si fa l’esperienza profonda dell’amore di Dio che viene e che permea tutto ciò che è umano nella sua totalità.
Sant’Agostino, nel secolo IV parla dell’importanza di riservare uno spazio alla meditazione e al silenzio. A questo scopo, è necessario raccogliersi, isolarsi da ogni rumore, di immergersi nel profondo dell’anima, lasciando da parte il rumore e la confusione, e ascoltare nella calma la parola per comprenderla. Il silenzio è il cammino per giungere all’interiorità, e la condizione che consente di cogliere la voce della verità e intenderla.
Sapremo di essere giunti al vero silenzio quando sentiamo il battito del nostro cuore, e in mezzo al rumore, il ritmo dei nostri passi. Il silenzio raggiunge e penetra il cuore umano ed è qui che risiede la nostra interiorità, è il luogo dove siamo ciò che siamo. Il silenzio fatto di preghiera ci mette in comunione profonda con la Trinità e ci spinge all’azione.
Un tesoro da non perdere
Il silenzio ci aiuta, nel processo di integrazione personale, a cogliere le nostre luci e le nostre ombre e a convivere armoniosamente con esse. Il silenzio suscita sensibilità, e al momento giusto dà le risposte alle inquietudini personali.
La mancanza di silenzio invece fa perdere la sensibilità. Non bisogna mai dimenticare nelle preghiere personali e comunitarie che i momenti di silenzio sono importanti per l’interiorizzazione. Molte volte facciamo delle nostre preghiere personali e comunitarie dei discorsi. Vogliamo metterci dentro tutto quello che sappiamo, ma allora questo è meno di tutto che pregare. Non lasciamo cioè parlare lo Spirito, soffochiamo con la nostra ragione discorsiva il sentimento cuore che invece vuole assaporare il silenzio emanato dal soffio dello Spirito. Il silenzio conduce alla comunione contemplativa con tutto l’universo, a prendere coscienza che anche noi ne siamo parte, e nello stesso tempo a contemplarlo come opera del Creatore. Ci permette di formarci una coscienza riflessiva ed ecologica, a destarci alla bellezza emanata dal cosmo, e a percepirlo come la grande casa che accoglie l’essere umano e lo sostenta perché possa sviluppare le sue potenzialità.
C’è chi si perde d’animo, conclude p. Gomes, perché non riesce a fare silenzio. In effetti, si tratta di un cammino lento e arduo, che richiede costante esercizio e apertura allo Spirito. C’è anche chi riesce a fare silenzio in mezzo al rumore e a coltivare un alto grado di meditazione e di intimità con Dio. In una parola, se vuole pregare, bisogna fare silenzio.(a cura di Antonio Dall’Osto).

 

Publié dans:meditazioni |on 26 octobre, 2020 |Pas de commentaires »

PAROLA E SILENZIO – ALCUNE CITAZIONI

http://www.meditazionecristiana.it/meditazione-cristiana/parola-e-silenzio/

PAROLA E SILENZIO – ALCUNE CITAZIONI

«Come nella giornata del cristiano ci sono determinate ore dedi­cate alla parola, specie le ore del culto e della preghiera in comune, così nella giornata devono esserci pure determinati periodi di silenzio nell’ascolto della Parola, silenzio che nasce dalla Parola. Saranno so­prattutto i momenti prima e dopo l’ascolto della Parola. La Parola non raggiunge gli uomini rumorosi, ma quelli che rimangono in si­lenzio. Il silenzio nel tempo è il segno della santa presenza di Dio nel­la sua Parola» **

«Taciamo prima di ascoltare la Parola, perché i nostri pensieri sono già rivolti verso la Parola, come un bambino tace quando entra nella stanza del padre. Taciamo dopo l’ascolto della Parola, perché questa ci parla ancora, vive e dimora in noi. Taciamo la mattina pre­sto, perché Dio deve avere la prima parola, e taciamo prima di co­ricarci, perché l’ultima parola appartiene a Dio. Taciamo solo per amore della Parola, cioè proprio per non disonorarla, ma per ono­rarla e riceverla come si deve. Tacere, infine, non vuoI dire altro che aspettare la Parola di Dio e venire via, dopo averla ascoltata, con la sua benedizione **

«La voce di Dio – affermano i padri – è il silenzio, ed esercita una pressione infinitamente discreta, mai irresistibile. Dio non dà ordi­ni, ma lancia appelli: Ascolta, Israele!, oppure: Se vuoi essere perfet­ta … »**

«lI silenzio è una qualità di Dio, perché ogni prova costringente vìola la coscienza umana. E nel silenzio – dice Nicola Cabasilas – che Dio manifesta il suo amore verso gli uomini, manikòs éros, amore folle di Dio per l’uomo e suo incomprensibile rispetto verso la li­bertà umana … La fede è la risposta a questa presenza discreta di Dio. La fede dice: Offri la tua piccola ragione e ricevi il Logos. Dona il tuo sangue e ricevi lo Spirito» *

«Secondo i padri, prima di ascoltare le parole del Verbo bisogna im­parare ad ascoltare il suo silenzio, quel linguaggio del mondo che sta per venire, secondo sant’Isacco. È in questo silenzio e nella sovrana libertà del suo spirito che ogni uomo è invitato a rispondere: Che ne é di Dio? San Gregorio di Nissa si lascia sfuggire questa risposta: Tu, che l’anima mia ama!»’.*

«Dio ha parlato per mezzo dei profeti, ha parlato durante la sua vita terrena, ma dopo la Pentecoste non parla che attraverso l’azio­ne dello Spirito Santo» *

«Un grande silenzio avvolgeva la terra il venerdì di Passione. Dopo aver annunciato la morte di Dio, sembra che il mondo entri nel silenzio del grande sabato»*

«Quando l’uomo rientra in se stesso e ritrova il vero silenzio, vive l’esperienza quasi di un’attesa che gli viene dal Padre che è presen­te nel segreto (Mt 6,6) … È una parola che non s’impone; è parola che testimonia di una prossimità vivente: “Ecco, sto alla tua porta e bus­so (Ap 3,20)” *

«In un immenso sospiro il silenzio avvolge la terra di pace: Tut­to è tuo, Signore; io sono tuo, accoglimi. A chi pone l’alternativa tra contemplazione e vita attiva, san Serafino ha risposto: Trova la pace interiore ed il silenzio, e una moltitudine di uomini troverà salvezza in te» *

«Dio ha creato gli angeli in silenzio, dicono i padri. Dio guida i si­lenziosi, mentre quanti si agitano fanno ridere gli angeli» *

** Bonhoeffer Dietrich, Vita comune, dell’editore Queriniana Edizioni

* Evdokìmov: L’amore folle di Dio, Edizione Paoline, Roma 1983.

//

Publié dans:meditazioni |on 1 juillet, 2020 |Pas de commentaires »

LA VITA È IL MANTELLO DI DIO (XIII Domenica del Tempo Ordinario, 27 giugno 2010)

https://it.zenit.org/articles/la-vita-e-il-mantello-di-dio/

LA VITA È IL MANTELLO DI DIO (XIII Domenica del Tempo Ordinario, 27 giugno 2010)

di padre Angelo del Favero*

ROMA, venerdì, 25 giugno 2010 (ZENIT.org).- “Partito di lì, Elia trovò Eliseo, figlio di Safat. Costui arava con dodici paia di buoi davanti a sé, mentre egli stesso guidava il dodicesimo. Elia, passandogli vicino, gli gettò addosso il suo mantello. Quello lasciò i buoi e corse dietro ad Elia, dicendogli: “Andrò a baciare mio padre e mia madre, poi ti seguirò”. Elia disse: “Va’ e torna, poiché sai che cosa ho fatto per te”. Allontanatosi da lui, Eliseo prese un paio di buoi e li uccise; con la legna del giogo dei buoi fece cuocere la carne e la diede al popolo perché la mangiasse. Quindi si alzò e seguì Elia, entrando al suo servizio” (1Re 19,16b.19-21).
“Cristo ci ha liberati per la libertà! State dunque saldi e non lasciatevi imporre di nuovo il giogo della schiavitù. Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri.(…) Vi dico dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare i desideri della carne” (Gal 5,1.13-18).
“(…) Mentre camminavano per la strada, un tale gli disse: “Ti seguirò dovunque tu vada”. E Gesù gli rispose: “Le volpi hanno le loro tane e gli uccelli del cielo i loro nidi, ma il Figlio dell’uomo non ha dove posare il capo”. A un altro disse: “Seguimi”. E costui rispose: “Signore, permettimi di andare prima a seppellire mio padre”. Gli replicò: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio”. Un altro disse: “Ti seguirò, Signore, prima però lascia che io mi congedi da quelli di casa mia”. Ma Gesù gli rispose: “Nessuno che mette mano all’aratro e poi si volge indietro è adatto per il regno di Dio” (Lc 9,51-62).
La liturgia di questa XIII Domenica del T. O. ci fa subito incontrare una parola alquanto comune, una parola chiave, un filo conduttore con cui lo Spirito Santo ha ricamato il tessuto dei testi proposti: la parola “mantello” (1Re 19,19). Il suo significato biblico è illustrato dal racconto della vocazione di Eliseo, nella prima Lettura.
La storia di Eliseo, infatti, comincia con un mantello gettato a sorpresa su di lui da parte del profeta Elia, in cammino lungo la strada che costeggia il campo che egli sta arando con ben ventiquattro buoi (il numero esagerato indica che Eliseo è un contadino benestante).
Quello di Elia è un gesto simbolico che sta a significare l’irreversibile chiamata di Dio:“Il mantello è simbolo del carisma profetico; esso è gettato sulle spalle dell’eletto in una specie di investitura divina” (G. Ravasi).
Ha così inizio la nuova vita di Eliseo al servizio del Signore e del profeta Elia.
Salutati parenti ed amici con un banchetto d’addio, Eliseo segue fedelmente Elia fino al giorno della sua misteriosa dipartita da questa vita, quando sarà trasportato in alto da un carro di fuoco. A questo punto, caduto per terra dal carro, ricompare il mantello, che Eliseo raccoglie subito gridando “Padre mio, padre mio..” (2Re 2,11-13). Lo spirito del Maestro prende allora definitivo possesso del discepolo, come da padre a figlio primogenito.
La brusca investitura profetica di Eliseo è così commentata dal card. Martini: “nessuna parola, nessun tentativo di convinzione, ma solo un gesto violento dal significato chiarissimo. Il mantello è simbolo della persona e, in qualche modo, anche dei suoi diritti. Gettare il mantello su qualcuno costituisce un segno di acquisto, di desiderio di alleanza” (C.M.M., “Il Dio vivente, riflessioni sul profeta Elia”, p.118).
Simbolo della persona, il mantello fa pensare anche al dono-chiamata della vita, che ognuno riceve da Dio senza venire interpellato. Ciò non toglie che, come il mantello di Elia, anche la vita sia un dono fatto alla libertà dell’uomo, un dono “gettato” su di lui per essere accolto e custodito come il più prezioso di tutti i doni ed il più necessario ed impegnativo dei compiti, se davvero l’uomo vuole vivere felice e realizzare se stesso nell’amore. E’ quanto suggerisce oggi Paolo: “Voi infatti, fratelli, siete stati chiamati a libertà. Che questa libertà non divenga però un pretesto per la carne; mediante l’amore siate invece a servizio gli uni degli altri.(…) Ma se vi mordete e vi divorate a vicenda, badate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!” (Gal 5,13).
L’ironia fin troppo realistica di Paolo non suona esagerata, se pensiamo non solo alla nostra situazione sociale e politica, ma anche alle tristissime incomprensioni e divisioni tra coloro che un unico carisma o una comune vocazione (un solo mantello!) ha costituito fratelli ed operai del regno di Dio. Occorre precisare che nel vocabolario dell’Apostolo, “carne” significa genericamente ogni comportamento dettato da un sentire egocentrico e disordinato. Atteggiamento, questo, che non scaturisce da quella vera libertà che è la capacità di amare nella verità al modo di uno stile di accoglienza, di ascolto senza pregiudizi e nel dominio di sè.
Un esempio “carnale” di essere e di agire, lo da’ oggi la reazione istintiva di Giacomo e Giovanni, contrariati dal rifiuto opposto a Gesù dai Samaritani: “Signore, vuoi che diciamo che scenda un fuoco dal cielo e li consumi?” (Lc 9,54). I due discepoli avevano oggettivamente ragione, ma Gesù “si voltò e li rimproverò” (Lc 9,55).
La ricetta di Paolo per discernere e dominare ogni genere di passione disordinata, è semplice ed efficace: “Vi dico, dunque: camminate secondo lo Spirito e non sarete portati a soddisfare il desiderio della carne. (…) Se vi lasciate guidare dallo Spirito, non siete sotto la Legge” (Gal 5,16.18).
“La forza del peccato è la Legge”, scrive altrove Paolo (1Cor 15,56); ed egli per primo sperimenta quanto doloroso sia il peccato di divisione dai suoi fratelli ebrei, tanto zelanti per l’osservanza della Legge da voler uccidere lui che ne va proclamando il compimento in Gesù Cristo.
Ma che significa camminare “secondo lo Spirito”? Vuol dire “al passo” dello Spirito, seguendo umilmente il cammino e gli esempi del Signore per entrare nello spazio immenso della sua dolce e trasformante amicizia. Una chiamata assoluta, tanto affascinante quanto esigente, a giudicare dalle parole di Gesù a colui che chiedeva solo di congedarsi da quelli di casa propria: “Lascia che i morti seppelliscano i loro morti; tu invece va’ e annuncia il regno di Dio” (Lc 9,60).
Una simile radicalità non è disumana, ma intrinseca e necessaria alla missione profetica. Questa, per altro, gode della legge pedagogica della gradualità, come fa intendere la vicenda stessa di Eliseo con la dinamica misteriosa del mantello, in un primo tempo gettatogli sulle spalle da Elia, ma poi “recuperato” a terra dallo stesso Eliseo nel momento del congedo definitivo da lui, come se in precedenza glielo avesse restituito.
Infatti, “si ha l’impressione, pur se il testo non lo dice, che Eliseo abbia ridato il mantello al grande maestro, per indicare che deve prima imparare, deve prima assimilare i suoi insegnamenti di vita. Di fatto, questo mantello sarà consegnato definitivamente ad Eliseo nel momento del rapimento in cielo di Elia.” (C.M.M., id., p. 120).
E’ quest’ultima spiegazione pedagogica che ci consente di tornare al mantello come simbolo della persona e della vita, per osservare che la pienezza della verità sulla vita umana, da comunicare gradualmente al passo di chi ascolta, è comunque e per tutti solo quella rivelata dalla Parola di Gesù. Ne farà esperienza certa chiunque voglia avvicinarsi a Lui con la fede umile ed audace di quella donna malata, che “udito parlare di Gesù, venne tra la folla e da dietro toccò il suo mantello. Diceva infatti: “Se riuscirò anche solo a toccare le sue vesti, sarò salvata”. E subito le si fermò il flusso di sangue e sentì nel suo corpo che era guarita dal male” (Mc 5,25-29).

Publié dans:meditazioni |on 27 novembre, 2019 |Pas de commentaires »

LA BELLEZZA E LA SUA DESTINAZIONE SPIRITUALE

http://www.foglimariani.it/index.php?option=com_content&view=article&id=387:la-bellezza-e-la-sua-destinazione-spirituale&catid=39&Itemid=113

LA BELLEZZA E LA SUA DESTINAZIONE SPIRITUALE

Scritto da Francesco di Maria.

Nella Bibbia tutte le realtà create da Dio appaiono ambivalenti, nel senso che sono dotate di potenzialità positive e potenzialità negative. La bellezza, come la conoscenza, il potere, la ricchezza, non vi appare come qualcosa di univoco ma come qualcosa che ha il suo valore nell’uso che se ne fa. Essa può essere qualcosa di gradevole o di esaltante oppure qualcosa di insignificante o di superfluo: dipende da quello che essa riesce ad esprimere e a comunicare e dai modi in cui essa è capace di manifestarsi agli altri oltre che per i fini ai quali appare tesa. Naturalmente, a seconda dell’indole e dei gusti non solo estetici ma anche spirituali dei vari soggetti maschili e femminili che ne fanno esperienza, la bellezza può essere percepita e giudicata in modi diversi, ma questo non toglie che, ove il punto di vista di chi giudica sia quello ispirato ad una sana fede in Cristo e a seri criteri spirituali, la bellezza fisica o estetica sarà ritenuta tanto più umanamente coinvolgente e gratificante quanto più chiari appariranno il suo radicamento morale e la sua vocazione spirituale.
Come tutte le cose create, infatti, anche la bellezza fisica, e più segnatamente la bellezza fisica femminile, può orientarsi verso valori universali di umanità e dignità oppure verso valori effimeri di pura e semplice apparenza. Per questa ragione, in un’ottica cristiana può accadere e accade talvolta che donne belle siano meno interessanti e attraenti di donne meno belle o decisamente sgraziate o che quest’ultime esercitino un appeal superiore a quello di donne fisicamente più dotate e appariscenti.
I termini biblici più ricorrenti per designare la bellezza umana sono in ebraico quelli di Japheh e Tov (splendido, ben riuscito, piacevole) e in greco quelli di Kalòs e Agathòs (bello e buono, nel senso di sano, forte, eccellente), per cui, come si vede, la distinzione tra aspetto estetico e aspetto etico non è sufficientemente chiaro o marcato. Dio crea la bellezza allo scopo di stupire, di sorprendere gli esseri umani sollecitandone una reazione emotiva, estetica, contemplativa che ne favorisca uno stato di benessere interiore. In questo senso, già il mondo creato nella sua interezza ha, per gli esseri umani in generale, indiscutibili tratti di bellezza che provocano in essi un senso di stupore e un desiderio di essere partecipi delle bellezze naturali create da Dio.
Ma già a questo livello la bellezza che suscita ammirazione e desiderio estatico può venire percepita in modo ambivalente, perché da una parte l’uomo resta affascinato e attratto dal mondo creato mentre dall’altra egli può essere tentato di percepirlo come una sorta di divinità in se stesso scambiando idolatricamente l’effetto creato con la causa creatrice. Anche oggi è ben evidente come spesso non si sia immuni da questa tendenza idolatrica di rivestire la realtà o singole realtà del nostro mondo e della nostra vita di caratteri divini. Dinanzi a certe bellezze tipicamente terrene non assumiamo spesso un atteggiamento di adorazione? Di fronte a certe bellezze femminili, a certe bellezze virili, non ci sentiamo forse girare la testa e pervasi da duraturi quanto ingiustificati vortici emozionali? Ma anche dinanzi alle stupefacenti realtà della tecnologia o della medicina più evoluta, non corriamo spesso il rischio di trovarci in posizione letteralmente adorante? Chi si ricorda in quei frangenti dell’origine, della radice, della fonte di queste stesse realtà? E proprio l’oblío o la dimenticanza dell’artefice di tutte le cose fa sí che esistenzialmente si finisca per riservare ogni attenzione alle cose o realtà create piuttosto che all’Autore di esse. Si diventa idolatri senza accorgersene, indipendentemente dal fatto che ci si professi o non ci si professi credenti e cristiani.
Accade spesso che persino tanti seguaci dichiarati di Cristo, per non essere capaci di vedere nelle bellezze conclamate del mondo nient’altro che un riflesso della bellezza infinita di Dio, finiscano per compromettere la loro pur asserita volontà di restare fedeli a Cristo.
La Bibbia è piena di donne bellissime, a cominciare dalle mogli dei patriarchi che sono donne di grande fascino, di bell’aspetto, che fanno innamorare i loro futuri mariti al primo sguardo; è piena di donne bellissime e seduttrici come di regine e schiave, peccatrici o fattucchiere, vergini e madri, e non di rado anche di uomini molto belli e vigorosi come nel caso di re Davide e di suo figlio Assalonne: si pensi, solo per esemplificare, a Betsabea con Davide, Dalila e Sansone, Giuditta e Oloferne, Erodiade e Salomé, Ester con Assuero e Aman. Ma nella Bibbia la bellezza non vale mai per se stessa, bensí solo in quanto espressione della infinita gratuità divina, per cui il suo significato nella storia umana è sempre ambivalente. Come si legge nei “Proverbi”, là dove si descrive la donna saggia che sa bene governare la propria casa, la bellezza, che è sempre un riflesso della bellezza divina, è poca cosa se rimane dissociata dal timore di Dio. La stessa bellezza femminile, priva della sapienza di Dio, è una bellezza opaca, una bellezza che non brilla, che non produce amore nella complessa trama dei rapporti umani.
Si può dire che nell’Antico Testamento è emblematica di una bellezza davvero fulgida e coinvolgente la figura della regina di Saba, una donna bellissima e ricchissima che, per amore della sapienza, non esita a recarsi con grande umiltà e ammirazione da colui che era considerato come l’uomo più sapiente del mondo e in tal senso come il più profondo conoscitore della sapienza stessa di Dio, ovvero il re Salomone. Mentre, nel Nuovo Testamento, la forma più esaltante di bellezza, ovvero un riflesso purissimo della Sapienza stessa di Cristo-Dio, è senza dubbio quella di Maria di Nazaret, sulle cui qualità esteriori tacciono pudicamente i vangeli ma che doveva essere bellissima e rappresentare lo splendore assoluto proveniente dalla plenitudine della grazia divina presente in lei e che con grande ammirazione e molto rispettosamente viene salutata dallo stesso arcangelo Gabriele.
Luigi Maria di Grignion di Montfort volle descrivere l’incomparabile bellezza di Maria in questi termini: «Dio, il Padre, ha fatto un insieme di tutte le acque, che ha chiamato mare; ha fatto un insieme di tutte le sue grazie, che ha chiamato Maria». D’altra parte, risulta inequivocabilmente dagli atti che nel 1854 al commissario Jacquomet che la interrogava, la piccola Bernadette Soubirous descrisse Maria come la «più bella di tutte le signore che conosco».
Ma non si può sottacere il fatto che, come sottolineano i Padri della Chiesa e molti autorevoli esegeti della Bibbia, è esattamente di Maria che si parla nel Libro del “Cantico dei cantici” come di una donna di straordinaria bellezza: «Come sei bella, amica mia, come sei bella!/ Gli occhi tuoi sono colombe,/ dietro il tuo velo./ Le tue chiome sono un gregge di capre,/ che scendono dalle pendici del Gàlaad./ I tuoi denti come un gregge di pecore tosate,/ che risalgono dal bagno;/ tutte procedono appaiate,/ e nessuna è senza compagna./ Come un nastro di porpora le tue labbra/ e la tua bocca è soffusa di grazia;/ come spicchio di melagrana la tua gota/ attraverso il tuo velo./ Come la torre di Davide il tuo collo,/ costruita a guisa di fortezza./ Mille scudi vi sono appesi,/ tutte armature di prodi./ I tuoi seni sono come due cerbiatti,/ gemelli di una gazzella,/ che pascolano fra i gigli./ Tutta bella tu sei, amica mia,/ in te nessuna macchia./ Tu mi hai rapito il cuore,/ sorella mia, sposa,/ tu mi hai rapito il cuore/ con un solo tuo sguardo,/ con una perla sola della tua collana!/ Quanto sono soavi le tue carezze,/ sorella mia, sposa,/ quanto più deliziose del vino le tue carezze./ L’odore dei tuoi profumi sorpassa tutti gli aromi./ Le tue labbra stillano miele vergine, o sposa,/ c’è miele e latte sotto la tua lingua/ e il profumo delle tue vesti è come il profumo del Libano./ Giardino chiuso tu sei,/ sorella mia, sposa,/ giardino chiuso, fontana sigillata.

Ma, in generale, si può dire che quasi tutte le donne del Nuovo Testamento siano donne bellissime perché perdutamente innamorate di Cristo e della sua sapienza.

Publié dans:meditazioni |on 21 novembre, 2019 |Pas de commentaires »

IL PAPA E IL CRIMINE CHE I CRISTIANI POCO CONSIDERANO. LA MALDICENZA UCCIDE. E MAI È INNOCENTE

https://www.avvenire.it/opinioni/pagine/il-papa-e-il-crimine-che-i-cristiani-poco-considerano

IL PAPA E IL CRIMINE CHE I CRISTIANI POCO CONSIDERANO. LA MALDICENZA UCCIDE. E MAI È INNOCENTE

1 settembre 2014

Cristiani da salotto, cristiani di pasticceria, cristiani omicidi… Omicidi!? Sì. Proprio così. E chi sono? Sono quelli che sparlano. Quelli che dicono male degli altri. Quelli che invidiano, che con le loro lingue dividono, calunniano, diffamano. Non usa mezzi termini, papa Francesco. E tiene a sottolineare che «su questo punto, non c’è posto per le sfumature. Se tu parli male del fratello, uccidi il fratello. E noi, ogni volta che lo facciamo, imitiamo quel gesto di Caino, il primo omicida della storia». La questione è ritornata inesorabile, e più attuale che mai, anche nell’ultima udienza di mercoledì scorso. «Le chiacchiere – ha ribadito il Papa – sempre vanno su questa dimensione della criminalità. Non ci sono chiacchiere innocenti».Parole dure. Durissime. Senza scampo, per un aspetto della vita sociale che riguarda e si estende, pressoché a tutti; chi più, chi meno. Ma quanti tra i cristiani, tra le comunità cattoliche, si sono accorti di entrare dritti con le loro chiacchiere, i loro piccoli gossip parrocchiali – spesso reputati naturali, leggeri, innocenti – in questa fonda e cupa «dimensione criminale»? Quanti si sentono killer e carnefici? Non sarà un’esagerazione? Ce lo chiediamo, dando quasi per scontato il mal comune. Ma di fronte a parole così crude, che mettono a nudo interiori oscurità, anche meccanismi di autodifesa possono scattare automatici. E questo, come la scarsa coscienza, può far sì che tra le tante cose dette da Francesco tali riferimenti scivolino, anche con sussiego, in second’ordine di considerazione e di confronto.Fatto è, però, che forse nessun altro pontefice, nella storia recente, con un linguaggio puntuto ed efficace ha battuto tanto su questo male. E di fatto non c’è piaga dolente come questa della maldicenza, così sentita e additata da papa Bergoglio, che è – ed è stata – oggetto della sua predicazione ordinaria fin dall’inizio. Unita a un altro aspetto distruttivo per la Chiesa: quello della mondanità spirituale. I due « caini » hanno viaggiato, viaggiano insieme. Di pari passo. A quella vile «lebbra» del «darsi gloria gli uni gli altri» – spirito mondano che corrode le fondamenta della comunità ecclesiale – sempre s’accompagnano (e scorazzano gioconde) la superbia e l’invidia, radici del pettegolezzo più distruttivo: la calunnia.Del resto il male biforcuto prodotto dalla «clericas invidia», come la definiva il celebre moralista Haring ai tempi del Concilio, è ben noto. E non c’è qui bisogno di scomodare Dante che definiva l’invidia «meretrice delle corti». La «radice di mali infiniti» è inconciliabile con lo spirito della fede, e nella tradizione della Chiesa, da san Crisostomo a sant’Agostino e san Tommaso, ne viene descritto l’aspetto diabolico. Le maldicenze, le calunnie che portano alle divisioni, nascono infatti dall’«Invidia prima», quella che appartiene a Satana. Il primo calunniatore della storia è stato Satana, la sua prima calunnia è nei confronti di Dio. La calunnia è perciò il modello di Satana nel suo parlare. Egli sa che questa può distruggere in un attimo quello che è stato costruito in tanto tempo con amore, amicizia, rispetto reciproco. Egli sa che così ostacola l’unità. Egli sa che il corpo di Cristo non può essere diviso. Ci sono pochi peccati che la Bibbia condanna con altrettanta severità come essa fa con la calunnia. Lo stesso san Francesco di Sales, sul modello di altri, parla in modo efficace della maldicenza come «crimine» e «causa diabolica di omicidi». Dunque, non si tratta di una personale espressione, né di una particolare esagerazione o fissazione di papa Francesco. «Un cristiano omicida… Non lo dico io, eh?, lo dice il Signore… Quello che ha nel suo cuore un po’ d’odio contro il fratello è un omicida»; e in un’altra omelia, a Santa Marta, riprende: «anche l’apostolo Giovanni nella sua prima lettera, lo dice, chiaro: colui che odia suo fratello, cammina nelle tenebre; chi giudica il fratello, cammina nelle tenebre». E così nell’ultima udienza, significativamente, afferma anche riguardo all’unità dei cristiani: «Quando noi parliamo di peccati contro l’unità dei cristiani pensiamo agli scismi, alle sfide ecumeniche, alle guerre di religione. Ma tutto nasce dalle divisioni nel nostro cuore alle quali dobbiamo fare un esame di coscienza». E continua: «Pensiamo a mancanze molto comuni nelle nostre comunità… tristemente segnate da invidie, gelosie… alle chiacchiere che sono alla portata di tutti… In una comunità cristiana la divisione è uno dei peccati più gravi, perché la rende segno non dell’opera di Dio, ma dell’opera del Diavolo, il quale è per definizione colui che separa, che rovina i rapporti, che insinua pregiudizi… è opera gravissima perché è opera del Diavolo» cui noi prestiamo collaborazione.La maldicenza provoca la disunione nella famiglia di Dio. Sempre è fonte di separazione e danneggia assai più la Chiesa di quanto lo facciano altri peccati più scandalosi. È ciò, in sostanza, che non ci fa Chiesa di Cristo.Papa Francesco ci chiama quindi «a convertire il cuore» a «chiedere la grazia di non sparlare, di non criticare», di «non imitare il gesto di Caino», a bloccare sul nascere ogni maldicenza o interpretazioni calunniose che distruggono noi stessi e le altre persone e impediscono l’unità dei figli Dio nel vincolo supremo della carità. E forse può essere d’aiuto, in proposito, un aneddoto di Socrate, che data la gravità del «nefando crimine» riguardante tutti, potrebbe essere opportuno non prendere come un semplice fervorino. A un amico che stava per riferirgli in gran segreto una notizia sul conto di un altro, Socrate chiese: «Hai passato la tua intenzione ai tre colini?». Interpellato su cosa volesse dire con questa frase, Socrate spiegò: «Uno: sei sicuro che la cosa che stai per dirmi è vera? Due: sei sicuro che stai per dirmi una cosa buona? Tre: sei sicuro che sia proprio utile che io lo sappia?». L’amico comprese e rinunciò al suo proposito.

Publié dans:meditazioni |on 24 mai, 2019 |Pas de commentaires »

NELL’UMILTÀ DI DIO L’ESALTAZIONE DELL’UOMO

http://www.korazym.org/25755/nellumilta-di-dio-lesaltazione-delluomo/

NELL’UMILTÀ DI DIO L’ESALTAZIONE DELL’UOMO

4 settembre 2016 Bussole per la fede

di Don Giuseppe Liberto

L’uomo biblico è il credente che si colloca nella luce del Signore. Riconoscendo la propria bassezza e nullità, il cristiano celebra in sé la grazia del Signore che colma il vuoto e illumina il nascondimento. Nella santa Scrittura l’umiltà è realizzata dai poveri di Jahweh, cioè dagli umili di Dio che sono gli uomini di fede che vivono nella luce del Signore. L’umile per eccellenza è Verbo fatto Carne e Cibo di vita. Esemplare sublime è la Vergine Madre sua Maria. Il Magnificat ritrae mirabilmente l’umiltà come povertà della risorsa dell’uomo scelto da Dio che solo nell’umile opera grandi cose: Il Signore ha guardato l’umiltà della sua serva…ha esaltato gli umili. Il vero umile è il povero che crede, non confida in se stesso, ma si abbandona nelle mani del suo vero Dio e solo Signore nella certezza che la propria vita riuscirà nella misura in cui farà agire nella propria esistenza l’onnipotenza divina che renderà feconda la sterilità umana, perché nulla è impossibile a Dio.
C’è, però, il pericolo diabolico della falsa umiltà, che è subdola superbia che provoca antipatia e rigetto perché si tratta di vivere nella non verità su Dio e su sé stessi. Anche dal punto di vista soltanto umano la persona intelligente non perde nulla a restare nei propri limiti vivendo in una sapiente modestia. La storia, che è sempre maestra di vita, ci insegna che istintivamente gli orgogliosi, gli autoesaltati, gli arrivisti, gli autosufficienti sono umiliati e i poveri di spirito che vivono nella verità dell’umiltà sono esaltati.
L’apostolo Paolo scrivendo ai cristiani di Roma li ammonisce con queste parole: Abbiate i medesimi sentimenti gli uni verso gli altri; non aspirate a cose troppo alte, piegatevi invece a quelle umili. Non fatevi un’idea troppo alta di voi stessi (12,16).
La grande lezione all’umanità è data dallo stesso Maestro e Signore Gesù. Non conosco altri signori e maestri! Il Figlio dell’uomo è venuto per servire l’uomo nell’umiltà dell’essere umano, anzi, nell’umiliazione della croce. Incarnazione e Redenzione sorprendono e sconvolgono. Il fatto poi che Gesù dichiara di non essere venuto per essere servito ma per servire e mettere la propria esistenza per la redenzione dell’umanità, nella mente superba potrebbe suscitare comprensibile reazione. Soltanto l’umile di cuore comprende e adora il mistero che, prima dell’ultima Cena, Gesù si fa servo e lava i piedi ai suoi discepoli. La croce, poi, sarà il posto di umiliazione del Cristo Redentore, del Servo di Jahweh che si addossa sulle spalle il peso del peccato e dell’umiliazione dell’uomo. Soltanto alla luce di questo Mistero possiamo valutare la dimensione dell’umiltà cristiana che è ben diversa dalla modestia, dalla convenienza, da quei falsi giochi che ci inducono a non far brutte figure. La vera umiltà si costruisce sull’esempio di quella di Gesù.
Cos’è l’Eucaristia se non il Sacramento dell’umiltà di Cristo? Prendete e mangiatene tutti: questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi…. Prendete e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue…versato per voi e per tutti. L’Eucaristia celebra il banchetto in cui Cristo “serve” l’uomo donando il suo Corpo e il suo Sangue. L’umiltà raggiunge il suo culmine nella carità che è donazione di se stessi. Cristo è il primo e il modello di chi è dedito al servizio. Solo agli umili Dio rivela i suoi segreti, innalzandoli a sé. Soltanto con l’atteggiamento dell’umiltà è possibile creare l’assemblea cristiana che si riunisce per celebrare la Cena del Signore e non per fare spettacoli di se stessi e delle proprie cose.
Il cristiano è lontano dal praticare quella sorta di umiltà esteriore, soltanto teorica, dottrinale o intellettuale che lascia ciascuno al proprio destino. La falsa umiltà, poi, che non è pura verità e nemmeno libertà di coscienza ma effetto d’immaginazione e di autoesaltazione, porta sempre a manifestazioni insopportabili e talvolta squilibranti. Sappiamo che il demonio gioca sempre a tendere i suoi lacci e i suoi inganni.
Nella parabola del fariseo e del pubblicano, Gesù ci istruisce che la regola fondamentale di chi siede alla mensa del Regno è sempre questa: Chi si esalta sarà umiliato e chi si umilia sarà esaltato (cf Lc 18, 9-14). Il fariseo giudica e condanna gli altri misurandoli superficialmente con il proprio metro di giudizio. Facendosi termine di paragone si sostituisce all’unica misura che è la santità di Dio, e da qui scoppia la sua superbia orgogliosa. Egli, infatti, ha un concetto parziale e perciò falso di umiltà che è sempre verità, sia quando si configura a Dio, sia quando si rapporta ai fratelli.
Chi siamo noi che presumiamo violare con i nostri giudizi e con le nostre critiche il santuario della coscienza altrui? Quella del fariseo è la condanna di un metodo astratto ed estraneo del vivere religiosamente. A Gesù, però, è bastata l’umiltà del pubblicano più che l’umiliazione, il suo cuore contrito e umiliato. Così nel silenzio dell’umiltà è fiorito il miracolo della misericordia.Solo il prodigio della misericordia ci viene in aiuto per renderci umili. Solo la vera umiltà accoglie quella misericordia che, a sua volta, rende misericordioso il cuore dell’uomo.

Publié dans:meditazioni |on 20 mai, 2019 |Pas de commentaires »

LA BELLEZZA DI DIO

http://www.centrostudifrancescani.it/site/2017/05/la-bellezza-di-dio/

LA BELLEZZA DI DIO

7 Maggio 2017

La ricerca del ‘Bello’, nel suo valore più elevato, è sempre stata un itinerario di avvicinamento al divino, come ha scritto Simone Weil: “[…] in tutto ciò che suscita in noi il sentimento puro e autentico del bello c’è come una specie di incarnazione di Dio […]; quindi tutta l’arte di prim’ordine è per essenza religiosa [in quanto] testimonianza in favore dell’Incarnazione. Una melodia gregoriana testimonia quanto la morte di un martire”. Come leggiamo infatti nell’Idiota di Fedor M. Dostoevskij, “La Bellezza salverà il mondo”. La Bibbia testimonia ampiamente lo stupore dell’uomo dinanzi al fascino della Bellezza di Dio, che supera ogni bellezza umana, poiché sempre fragile, sottoposta alla caducità. Nella Bibbia si parla anzitutto della bellezza degli elementi del creato, che rimanda a quella del Creatore. Per la Bibbia il bello (tov / buono), riferito alle cose o alle persone, significa ciò che è ordinato, senza difetti, proporzionato e armonioso in tutte le sue parti. La bellezza è anche la tenerezza dei sentimenti, la verità, ma è soprattutto espressione della santità divina (cf Sal 25,8), perché è Dio la bellezza-bontà sperimentabile quasi in modo sensoriale: “Assaporate e gustate quanto è buono (bello) Jhwh” (Sal 27,13). Il mondo biblico, volendo esprimere la felicità delle origini della creazione, ricorre all’immagine della bellezza dell’Eden: “Il Signore Dio piantò un giardino in Eden e vi collocò l’uomo che aveva modellato; fece spuntare dal terreno ogni sorta di alberi, attraenti per la vista e buoni da mangiare” (Gn 2,8-9). Anche dell’albero proibito si dice che il frutto ”era buono da mangiare, seducente per gli occhi e attraente” (Gn 3,6). La bellezza di Dio nella Bibbia viene espressa anche con il tema della Sapienza divina che è vitale, feconda, benefica. Essa è come le piante più belle della flora palestinese (come il cedro e l’umile rosa di Gerico), con il loro lussureggiante fogliame, con i fiori, i frutti, che rimandano al godimento spirituale che viene donato dalla Sapienza (cf Sir 24,12-17). Tutte le opere della creazione di Dio sono buone (belle): ”Dio vide tutto quello che aveva fatto ed ecco era molto buono” (Gn 1,31). La bellezza del Creatore emerge soprattutto nell’uomo, creato a sua immagine e somiglianza (cf Gn 1,26-27); ne riflette meglio il suo splendore, la sua gloria e la sua grandezza (cf Sal 8). Tale bellezza si manifesta soprattutto attraverso i personaggi che hanno avuto un ruolo particolare nel piano salvifico di Dio, sono più vicini al suo cuore. I personaggi biblici che hanno grandi qualità morali e spirituali, sono sempre presentati con la caratteristica della bellezza fisica.
Nel Nuovo Testamento il binomio bellezza-bontà è del tutto assente. Coloro che vengono chiamati da Dio per realizzare il suo disegno salvifico (Maria, Giovanni Battista, Giuseppe), sono persone comuni, di cui si evidenziano anche i difetti, la vita di peccato (Matteo, la Maddalena) e non c’è nessun riferimento all’aspetto fisico. Sul monte Tabor la gloria di Dio si manifesta attraverso la luce e il candore delle vesti. Ciò dipende dal fatto che nel Nuovo Testamento emerge la sapienza della croce, per cui è grande e bello dinanzi a Dio tutto ciò che è stoltezza e realtà sgradevole dinanzi agli uomini. Ciò che conta non è il vigore fisico, ma la debolezza accettata per testimoniare la fede, non la potenza e la forza, ma la mitezza, l’umiltà, la povertà e la semplicità, non la ricchezza e lo splendore agli occhi degli uomini. La bellezza di Dio si manifesta soprattutto nell’uomo dei dolori, nel Crocifisso che è lo stesso Unigenito del Padre Celeste. Il Nuovo Testamento evidenzia quindi che Gesù è l’icona del Padre (cf Col 1,15), è l’irradiazione della gloria divina (cf Eb 1,3), perchè è passato per l’annientamento, rinunciando allo splendore divino: “Gesù Cristo, pur essendo di natura divina, non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo” (Fil 2,6). La bellezza di Dio si manifesta nel Cristo, per il fatto che ha donato tutto se stesso per amore dell’umanità, come il pastore buono che dà la vita per le pecore (cf Gv 10,11.14), e si è fatto servo di tutti. Gesù ci manifesta che la bellezza di Dio è quella dell’amore. Lo splendore dell’alba di Pasqua, che supera le tenebre del venerdì santo, attesta il fulgore della vita che vince la morte, della riconciliazione che vince l’odio e la separazione. Per il cristianesimo la “bellezza si è compiuta una volta per sempre nel giardino fuori di Gerusalemme: sulla roccia del Calvario sta la Croce della Bellezza […]” (B. Forte). Il Verbo si è sottoposto alla kenosis; Colui che “è il più bello tra i figli degli uomini” (Sal 45,3) è diventato Colui che “non aveva più né bellezza, né decoro” (Is 53,2). S. Agostino ha sottolineato il motivo di questo mistero paradossale: “Egli non aveva bellezza né decoro per dare a te bellezza e decoro. Quale bellezza? Quale decoro? L’amore della carità, affinchè tu possa correre amando e amare correndo […]. Guarda a Colui dal quale sei stato fatto bello”. L’amore infinito di Colui che ha il volto sfigurato, lo rende il più bello tra i figli degli uomini. Egli ha rinunciato alla sua bellezza divina per rendere noi belli, non secondo l’aspetto fisico, bensì nell’amore, nel servizio, nella testimonianza. L’umanità spesso smarrisce il vero senso della bellezza; si lascia prendere dalla vertigine di ciò che è appariscente, e trasforma il bello in spettacolo, in bene di consumo, abbandonandosi all’immediatamente fruibile. La bellezza che si è resa trasfigurata e crocifissa ci redime dalla seduzione dell’effimero. Il grido di abbandono del più bello tra i figli degli uomini (“Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” Mc 14,34) ci libera dall’abbaglio delle bellezze caduche, per rivelarci il vero Bello, il volto del Padre misericordioso, che per amore ci dona il Figlio Crocifisso (cf Rm 8,32) e lo Spirito di Amore (cf Gv 19,30), Autore della rinascita nella vera bellezza. La vittoria pasquale del Crocifisso dà senso anche alle fragili bellezze terrene, che sono un segno della bellezza divina, nonostante il loro limite, quando rispecchiano la Sapienza divina e il suo progetto salvifico. Un’icona della trasfigurazione della bellezza terrena è Maria di Nazareth, la giovane e umile donna totalmente protesa all’accoglienza della bellezza divina. Maria non è un mito, non è un’astrazione, ma una donna concreta che è vissuta nella società ebraica. E’ questa concreta femminilità che rivela la bellezza dell’Eterno; è l’incontro tra la bellezza terrena e quella divina. La Vergine Madre figlia del suo Figlio, coperta dall’ombra dello Spirito (cf Lc 1.35), diventa la dimora santa del Verbo di Dio fra gli uomini. Maria è l’icona della Bellezza trinitaria, è “il santuario e il riposo della Santissima Trinità” (San Luigi Maria Grignion de Monfort), il grembo della Bellezza divina (H.U. von Balthasar). In Maria tota pulchra, la Donna Bella secondo il piano salvifico di Dio, si rende presente in modo eminente l’esistenza umana redenta, protesa alla contemplazione del Bello Assoluto.

La bellezza del Crocifisso risplende particolarmente attraverso la testimonianza di coloro che si sono conformati a lui; non si può non far riferimento al cantore della bellezza di Dio: Francesco d’Assisi. Egli è stato folgorato dalla bellezza divina, immergendosi in essa fino all’unione estatica. Nella bellezza delle creature il Poverello di Assisi contempla il Bellissimo che le possiede e le riempie, per cui uno dei titoli che attribuisce a Dio è proprio quello della Bellezza. Il Giullare di Dio contempla e loda la Bellezza del Padre celeste, come emerge dalle Lodi di Dio Altissimo, scritte per ringraziarLo del dono della bellezza delle stimmate. ‘Tu sei Bellezza” (FF 261,4). Il Celano nella Vita Seconda attesta che il Santo assisiate “nelle cose belle riconosce la Bellezza somma” (FF 750). La gioia estatica invade l’animo dell’Araldo del Gran Re nel contemplare la bellezza dei fiori e della natura in genere, recuperando il messaggio biblico della contemplazione del creato: “E quale estasi pensi gli procurasse la bellezza dei fiori quando ammirava le loro forme o ne aspirava la delicata fragranza? Subito rivolgeva l’occhio del pensiero alla bellezza di quell’altro Fiore il quale spuntando luminoso nel tempo della fioritura dalla radice di Jesse, con il suo profumo richiama alla vita migliaia e migliaia di morte” (FF 460). Anche il fuoco suscita la sua ammirazione: “Frate mio focu, di bellezza invidiabile fra tutte le creature, l’Altissimo ti ha creato vigoroso, bello e utile” (FF 752). Egli ammirava a tal punto la bellezza e l’utilità del fuoco che “non voleva mai impedire la sua azione” (FF 1816), come quella volta che, prendendo fuoco il suo abito, impedì che venisse spento. La bellezza di tutte le creature viene espressa da Francesco particolarmente nel Cantico di Frate Sole (FF 263). La bellezza di Dio si manifesta per lui soprattutto attraverso il sole, che è Luce radiosa, Vita, Bontà, Amore. Sull’esempio di Cristo povero e umile egli ha ammirato la bellezza di ciò che umanamente è considerato spregevole, e per questo ha amato intensamente Madonna Povertà (cf FF 641). Francesco contempla soprattutto nel Crocifisso di San Damiano la Bellezza di Dio, come pure nell’esperienza personale della Passione del Figlio di Dio. Due anni prima della fine del suo pellegrinaggio terreno gli fu concesso di contemplare la Bellezza sconvolgente della gloria del Cristo Crocifisso: è l’esperienza della Verna, della visione del Serafino trafitto in croce (FF 1225), della Bellezza radiosa e sfigurata dalla Passione nello stesso tempo. Come segno di tutto ciò, egli che in vita non aveva avuto alcuna bellezza, essendosi del tutto assimilato al Crocifisso, dopo l’incontro con sorella morte ottiene il dono della trasfigurazione del suo corpo, segno della bellezza futura (cf FF 1247). E’ questo il premio eterno che viene donato a coloro che sanno rinunciare alle bellezze effimere per amore della Bellezza che viene da altrove, dalla Patria trinitaria, a cui anela fortemente chi si pone senza compromessi alla sequela del Cristo, l’Uomo dei dolori, irradiazione dello splendore celeste. In base alla testimonianza delle Scritture ebraiche, delle Scritture cristiane, della Chiesa, possiamo quindi concludere che “la bellezza che salverà il mondo non è ‘l’armonia’ delle parti, o una ‘forma’ qualsiasi che esprime il senso personale del piacere. Né si riduce alle assenze asimmetriche nella vita sociale e politica di un popolo. Non è bello ciò che piace, ma ciò che riconcilia. Il Cristo, Crocifisso-Risorto, è la Bellezza che salverà il mondo, l’orizzonte ultimo della nostra visione, il possesso finale dei redenti” (E. Scognamiglio).

Publié dans:meditazioni |on 13 mai, 2019 |Pas de commentaires »

OPUS DEI – L’UMILTÀ – 1. L’UMILTÀ COME VIRTÙ MORALE

https://opusdei.org/it-it/article/lumilta/

L’umiltà mantiene la direzione della intenzionalità personale di fondo verso il valore e verso l’amore; senza umiltà, anche ciò che appare come virtù in realtà può non esserlo.

OPUS DEI – L’UMILTÀ – 1. L’UMILTÀ COME VIRTÙ MORALE

Le virtù morali sono abiti che iscrivono fortemente, nella persona che le possiede, i criteri regolatori delle tendenze umane, in modo che gli impulsi e gli atti che ne derivano non eccedano né abbassino la misura richiesta dal bene proprio e da quello altrui. Così come la sobrietà regola la tendenza ad alimentarsi e la castità modera la tendenza sessuale, l’umiltà regola due importanti tendenze dell’individuo: la necessità di riconoscenza e di stima da parte degli altri e il sentimento del proprio valore (auto-stima)[1]. Sono due tendenze che fanno parte della condizione umana: esistono in ogni uomo, e non si possono né si debbono sopprimere, come del resto non è possibile eliminare l’alimentazione e la tendenza sessuale. L’educazione all’umiltà è di estrema importanza per conservare l’equilibrio e la crescita morale personale e, indirettamente, il buon ordine delle relazioni interpersonali, perché le ingiustizie, la violenza, i fallimenti coniugali e i conflitti nell’ambito professionale, per citare soltanto alcuni esempi, sono assai spesso la conseguenza dell’orgoglio, della suscettibilità o del rancore. Anche nelle relazioni dell’uomo con Dio, l’umiltà svolge un ruolo importante: la vita spirituale richiede un’idea adeguata della posizione che l’uomo ha davanti a Dio.

L’umiltà è stata spesso mal interpretata e addirittura considerata una qualità negativa e spregevole, caratteristica di una morale da schiavi o frutto del risentimento dei deboli. Che qualcuno voglia far passare per umiltà il tentativo di nascondere debolezze e squilibri è perfettamente possibile, come lo è l’intento di mascherare comportamenti viziosi sotto il nome di un’altra virtù (la prepotenza può essere coperta da un pretesto di dignità o di giustizia; la vigliaccheria può apparire come benevolenza, ecc). Però tutto questo non ha nulla da vedere con l’umiltà, che risponde all’innegabile necessità di regolare e di educare due tendenze fondamentali che tutti possiedono.

2. L’importanza e i compiti dell’umiltà

È possibile indagare, sia dal punto di vista storico che dell’analisi teorica, quale sia stato il percorso dell’umiltà negli ambienti non cristiani. Naturalmente nell’antichità pagana l’umiltà era considerata più come un vizio che come una virtù, pur con alcune eccezioni. Ma lasciando da parte tale questione, è preferibile soffermarsi a mostrare quali siano le sue radici antropologiche prima di esaminare le forme caratteristiche dell’umiltà in quanto virtù cristiana.

La regolazione etica delle due tendenze alle quali si riferisce l’umiltà consiste nell’adattarle alla realtà di ogni persona, sia considerata in se stessa che nel suo ambito familiare, professionale e sociale, e anche nella sua relazione con Dio. Questo pensa Aristotele quando scrive: “Chi è degno di piccole cose e di queste cose si reputa degno, è sensato [...]. Chi si reputa degno di grandi cose ma ne è indegno, è vanitoso [...]. Chi si reputa degno di cose minori di quelle di cui è degno, è pusillanime: che sia degno di grandi cose, o che lo sia di cose medie o che anche lo sia di piccole cose, egli si ritiene degno di cose ancora più piccole[2]. L’importante non è aspirare al molto o al poco, ma piuttosto a quello che è ragionevole sulla base di una valutazione oggettiva e serena della realtà, non forzata dalla passione.

L’importanza dell’umiltà non sta tanto nel fatto che essa realizzi positivamente una delle dimensioni del bene umano, quanto nel fatto che essa abbia il compito di preservare le realizzazioni della conoscenza, dell’amore, del lavoro, dalle deformazioni che le privino del loro autentico valore. L’orgoglioso è egocentrico e difficilmente capace di un vero amore; egli considera il lavoro soltanto come una forma di autoaffermazione e non come una modalità di auto-trascendenza che arricchisce il mondo e contribuisce al bene degli altri.

È naturale nell’uomo la capacità di guardare se stesso come si guarda uno che è portatore di un valore. Dal punto di vista evolutivo, la percezione del proprio valore passa attraverso il giudizio che meritiamo agli occhi dei nostri simili (genitori, amici, ecc.). L’essere umano ha bisogno di un certo riconoscimento da parte degli altri e a ciò risponde la tendenza che abbiamo chiamato necessità di stima. Con lo sviluppo psicologico e morale la persona, anche se non può e non deve essere completamente indifferente alle reazioni che il proprio modo di essere o il proprio comportamento provocano negli altri, acquista la maturità di giudizio sufficiente per formarsi una immagine realistica di se stessa e del proprio valore (auto-stima), valutando le qualità positive e quelle negative, quel che si è e quel che si può arrivare a essere. Nella misura in cui la coscienza del proprio valore dipende da un giudizio personale, oggettivo e realistico, la persona può impostare adeguatamente le proprie relazioni con gli altri (dipendenza – indipendenza, libertà – autorità, ecc.).

Il difetto di una guida ragionevole (dell’umiltà) può riguardare le due tendenze menzionate: la necessità di stima, quando la persona non raggiunge un distacco sufficientemente equilibrato rispetto al giudizio degli altri; l’auto-stima quando, pur disponendo di una sufficiente autonomia di giudizio, si ha una percezione poco realistica del proprio valore, per eccesso o per difetto.

La dipendenza eccessiva dal giudizio degli altri dà luogo a fenomeni come la smania di notorietà, la vanità, la caparbietà e la rigidezza, l’isolamento, la simulazione di una malattia, ecc. Essi comportano un tormento per chi ne soffre e spesso anche per gli altri. La smania di notorietà è caratteristica di una personalità debole e immatura, che ha bisogno di sentirsi continuamente approvata e lodata da chi le sta attorno. Cerca di soddisfare questa necessità con tutti i mezzi a disposizione: utilizza i propri beni e immola il suo sapere e il suo lavoro al prestigio e alla stima pubblica, oppure cerca di far parlare di sé mediante comportamenti ostentati o addirittura assurdi, cerca l’approvazione del gruppo accettando idee e consuetudini dominanti, anche quando sono contrarie alle proprie convinzioni più profonde. Altre volte opta per la vanità, ovvero, per apparire ciò che non è, adottando a questo fine comportamenti falsi o inautentici. Quando deve lavorare sotto l’autorità di altri o in stretta collaborazione con loro, si fa notare per la caparbietà, l’intransigenza o la rigidità. Nei casi più estremi, si cercano le attenzioni e l’affetto degli altri simulando una malattia, a volte con piena coscienza dell’inganno, a volte senza (fenomeni di tipo isterico). Chi va soggetto a deformazioni di questo tipo finisce per impoverire le proprie relazioni sociali e la propria sensibilità ai valori oggettivi. La persona è sempre impegnata con il proprio io, perché il disordinato desiderio di stima è insaziabile. Neppure sarebbe giusto, all’opposto, che una persona non fosse sufficientemente sensibile alle reazioni che suscita negli altri, cosa che porterebbe a continue mancanze di attenzione, di rispetto o di educazione.

Il secondo problema nasce quando la sensazione del proprio valore dipende da un giudizio autonomo, ma non sufficientemente realistico. Appaiono allora sensazioni sempre irrazionali di inferiorità e di insicurezza da una parte, o di orgoglio e di autosufficienza dall’altra. La personalità dell’orgoglioso è diversa da quella condizionata dalla smania di notorietà. Dietro a quest’ultimo fenomeno, malgrado le apparenze, si nasconde una personalità fragile e povera, che spesso si tortura con paragoni e invidie. L’orgoglioso, invece, ha una personalità dura, provocatrice di conflitti, spesso aggressiva e violenta, giudica tutto e tutti (spirito critico), pensa di avere sempre ragione, si sente superiore a tutti, magari “premia” chi gli si sottomette, ma difficilmente ama e si dona a qualcuno, e difficilmente può essere amato, ancorché sia temuto. Ammira e rispetta soltanto se stesso, tende al narcisismo. Spesso l’orgoglioso è suscettibile o arrogante. Si scontra con gli altri e con la realtà stessa, perché il suo livello di aspirazioni è superiore alle sue vere capacità. A volte le sue capacità sono in realtà elevate, ma gli manca il buon senso nel governarle, e non riesce a evitare di “montarsi la testa”.

Questa breve descrizione mostra l’importanza dell’umiltà per l’equilibrio e la crescita personale, ma contemporaneamente ne evidenzia le difficoltà. L’umiltà mantiene la direzione della intenzionalità personale di fondo verso il valore e verso l’amore; senza umiltà, anche ciò che appare come virtù in realtà può non esserlo. La difficoltà dell’umiltà è dovuta al fatto che le tendenze che regola non si possono sopprimere od opprimere con la volontà. Debbono essere educate; in altre parole, si debbono adeguare alla realtà e aprire alla partecipazione, al servizio e all’amore. Non è possibile evitare completamente di guardare a se stessi, però si può imparare a farlo con una misto di realismo e di senso dell’humour, e soprattutto senza che si offuschi la percezione di ciò che sta fuori e di ciò che sta al di sopra di noi, perché in questa dimensione acquista un senso ciò che siamo, ma anche ciò che non siamo.

3. La virtù cristiana dell’umiltà

Non è possibile fermarsi a studiare il gran numero di aspetti che nell’Antico Testamento assume l’umiltà. L’idea prevalente è legata alla professione della fede in Jahvé, che nei suoi interventi nella storia degli uomini abbatte i superbi, mentre sceglie e redime gli umili e quelli che sono stati umiliati. È l’idea che riappare nel cantico della Madre di Gesù – il Signore “ha guardato l’umiltà della sua serva”, “ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili”[3] – e poi nella prima lettera di san Pietro e in quella di san Giacomo[4]. Ma il tema di fondo degli insegnamenti del Nuovo Testamento sull’umiltà è che Cristo ha percorso un cammino di umiltà; Egli stesso lo propone come esempio quando dice: “Imparate da me, che sono mite e umile di cuore”[5], e san Paolo lo commenta nell’inno della Lettera ai Filippesi[6]. Questa dinamica di umiliazione ed esaltazione ispira gli insegnamenti del Signore quando invita a non scegliere per sé i primi posti[7], nella parabola del fariseo e del pubblicano[8], nell’esortazione a essere come bambini[9], in diversi discorsi polemici contro i capi del popolo[10] e nella raccomandazione di servire gli altri e di non lasciarsi servire da loro[11].

Il criterio secondo il quale la virtù cristiana dell’umiltà regola le tendenze umane di cui stiamo parlando è sempre quello della verità. L’umiltà non tollera la falsità intorno alle proprie qualità positive o negative. Però, alla luce degli insegnamenti del Signore, è possibile capire con maggiore esattezza qual è la nostra vera posizione nei confronti di Dio e degli altri. Il cristiano è perfettamente consapevole di aver ricevuto gratuitamente da Dio ogni cosa, sia l’essere e la vita che la giustizia e la grazia. Con la sua dottrina sulla giustificazione, san Paolo mette in evidenza che, considerando le cose in tutta la loro profondità, non esiste in noi nessuna vera giustizia se non quella per cui Dio stesso ci fa giusti per mezzo di Gesù Cristo. Nulla possediamo che non abbiamo ricevuto[12]. Ci possiamo gloriare soltanto della Croce di Cristo[13]. Quali che siano le nostre opere, ci conviene in ogni caso assumere davanti a Dio un atteggiamento di profonda adorazione e di amorosa gratitudine, perché soltanto in virtù della sua gratuita azione salvifica in Cristo possiamo essergli graditi. Qualunque atteggiamento presuntuoso o auto-sufficiente ci priverebbe della sua grazia e ci lascerebbe prigionieri delle nostre povere miserie. L’umiltà diviene così l’altra faccia dell’amore di Dio, della carità. L’orgoglioso non ama Dio né riesce ad accogliere l’amore che Dio gli dà. Deo omnis gloria: a Dio tutta la gloria; ciò significa che non abbiamo nulla di buono che non venga da Dio, Verità e Amore sussistente.

L’umiltà insegnata dal Signore è anche l’altra faccia della carità verso il prossimo. Chi sa di essere nulla davanti alla maestà di Dio, evita l’orgoglio e il disprezzo del prossimo, sa comprendere gli altri, anche i loro errori. Soltanto chi pensa di non avere mai sbagliato, inorridisce per gli errori degli altri (“se gli altri fossero come me, le cose non andrebbero tanto male”). L’umiltà è in ogni caso verità, vera conoscenza di se stesso, e perciò non impedisce di riconoscere le buone qualità che si posseggono, ma induce a non dimenticare che sono state ricevute da Dio come doni da mettere generosamente al servizio degli altri. Il Signore condanna la falsa umiltà di chi nasconde il talento ricevuto[14], che bisognava far fruttare al servizio di Dio e degli altri. Questa fecondità arriva attraverso la direzione spirituale dove lo Spirito Santo modella l’anima: sicut lutum in manus figuli[15] (come argilla nelle mani del vasaio). Gli insegnamenti di san Paolo intorno ai forti e ai deboli nella fede e nella scienza[16] spiegano eloquentemente che le qualità personali, e anche il bene prezioso della legittima libertà cristiana, non vanno considerati una barriera che ci protegge dalle esigenze degli altri, ma un mezzo da mettere volentieri al loro servizio. Cristo ha caricato su di sé i nostri peccati, dando la propria vita per noi, e anche in tal modo ci ha dato un esempio di umiltà di cuore.

Sul piano pratico l’umiltà ha molteplici manifestazioni, che qui non è possibile esaminare nel dettaglio. Su di esse hanno scritto cose di grande valore i Padri della Chiesa, i Santi e quanti se ne sono occupati nel corso della storia della teologia spirituale. Per concludere queste riflessioni ci limiteremo a riprodurre una pagina di san Josemaría Escrivá, la cui eloquenza rende inutile qualsiasi commento.

“Lascia che ti ricordi, tra gli altri, alcuni sintomi evidenti di mancanza di umiltà: – pensare che ciò che fai o dici è fatto o detto meglio di quanto dicano o facciano gli altri; – volerla avere sempre vinta; – discutere senza ragione o, quando ce l’hai, insistere caparbiamente e in malo modo; – dare il tuo parere senza esserne richiesto, e senza che la carità lo esiga; – disprezzare il punto di vista degli altri; – non ritenere tutti i tuoi doni e le tue qualità come ricevuti in prestito; – non riconoscere di essere indegno di qualunque onore e stima, persino della terra che calpesti e delle cose che possiedi; – citarti come esempio nelle conversazioni; – parlar male di te, perché si formino un buon giudizio su di te o ti contraddicano; – scusarti quando ti si riprende; – occultare al Direttore qualche mancanza umiliante, perché non perda il buon concetto che ha di te; – ascoltare con compiacenza le lodi, o rallegrarti perché hanno parlato bene di te; – dolerti che altri siano più stimati di te; – rifiutarti di svolgere compiti inferiori; – cercare o desiderare di distinguerti; – insinuare nelle conversazioni parole di autoelogio o che lascino intendere la tua onestà, il tuo ingegno o la tua abilità, il tuo prestigio professionale…; – vergognarti perché manchi di certi beni…”[17].

A. Rodríguez Luño

 

Publié dans:meditazioni |on 2 janvier, 2019 |Pas de commentaires »

LA PACE INTERIORE CAMMINO DI SANTITÀ

http://www.reginamundi.info/catechesi/articolo.asp?codice=34

LA PACE INTERIORE CAMMINO DI SANTITÀ

di Padre Jacques Philippe

1. Senza di me non potete fare nulla
Per comprendere quanto sia fondamentale, per lo sviluppo della vita cristiana, sforzarsi di acquisire e conservare la pa¬ce del cuore, la prima cosa di cui dobbiamo essere ben con¬vinti è che tutto il bene che possiamo fare viene da Dio e da lui solo. « Senza di me non potete fare nulla », ha detto Gesù (Gv 15,5). Non ha detto: « Non potete fare grandi co¬se », ma « Non potete fare nulla ». E per noi essenziale esse¬re persuasi di questa verità. Avremo spesso bisogno di in¬successi, umiliazioni e prove — permesse da Dio — perché detta verità possa non solo essere colta dalla nostra intelli¬genza, ma divenire esperienza per tutto il nostro essere. Dio, se potesse, ci risparmierebbe tutte queste prove, ma esse so¬no necessarie per farci scoprire la nostra innata impossibili¬tà a fare del bene da soli. Secondo la testimonianza di tutti i santi, è indispensabile acquisire la conoscenza dei nostri li¬miti, perché è il terreno adatto nel quale potranno fiorire tutte le grandi cose che il Signore farà in noi con la potenza della sua grazia.
E per questo che santa Teresa di Gesù Bambino diceva che la più grande cosa che il Signore aveva fatto nella sua ani¬ma era l’averle mostrato la sua piccolezza e la sua impotenza. Se analizziamo seriamente la parola del Vangelo di Gio¬vanni, sopra citata, comprendiamo allora che il problema fon¬damentale della nostra vita spirituale diventa questo: Come lasciare agire in noi Gesù? Come permettere alla grazia di Dio di operare liberamente nella nostra vita?
Non dobbiamo dunque tanto imporci di fare determina¬te cose secondo i nostri progetti e le nostre capacità, bensì dobbiamo cercare di scoprire quali siano le disposizioni del¬la nostra anima che permettono a Dio di agire in noi. Solo in questo modo potremo portare un frutto duraturo, un frutto che rimanga (Gv 15,16).
Alla domanda: « Cosa fare per lasciar agire liberamente la grazia di Dio nella nostra vita? », non esiste una risposta univoca, una ricetta che vada bene per tutti. Per rispondere in modo completo, bisognerebbe scrivere un trattato di vita spirituale in cui si parli della preghiera, dei sacramenti, della purificazione del cuore, della docilità allo Spirito santo e di tutti i modi attraverso i quali la grazia di Dio viene a inon¬darci. Non intendiamo farlo, vogliamo semplicemente trat¬tare un aspetto della vita spirituale, oggi troppo dimentica¬to. Si tratta di questa verità essenziale: per permettere alla grazia di Dio di agire e produrre in noi — con la nostra coo¬perazione — tutte queste « opere buone che il Signore ha predisposto perché noi le praticassimo » (Ef 2,10), è estre¬mamente importante che ci sforziamo di acquisire e conser¬vare la pace interiore, la pace del cuore.
Per una migliore comprensione, useremo un’immagine (da non prendere troppo alla lettera, come tutti i paragoni). Con¬sideriamo la superficie di un lago sulla quale brilli il sole: se questa sarà calma e tranquilla il sole vi si potrà riflettere quasi perfettamente e tanto più perfettamente quanto più il lago sarà calmo. In caso contrario, l’immagine del sole non vi si potrebbe riflettere.
Accade un po’ la stessa cosa alla nostra anima, nei con¬fronti di Dio: più questa è calma, più Dio vi si riflette, la sua immagine s’imprime in noi, la sua grazia agisce attraverso noi. Se invece la nostra anima è agitata e turbata, l’azione della grazia diventa molto più difficoltosa. Tutto il bene che possiamo fare è un riflesso di questo sommo Bene che è Dio. Più la nostra anima è nella calma e nell’abbandono, più que¬sto Bene si comunica a noi e, attraverso noi, agli altri. « II Signore darà forza al suo popolo, il Signore benedirà il suo popolo nella pace », dice la Scrittura (Sai 29,11).
Il nostro Dio è il Dio della pace. Non parla e non opera che nella pace, non nel turbamento e nell’agitazione. Ram¬mentiamo l’esperienza del profeta Elia sul monte Oreb: Dio non era nell’uragano, né nel terremoto, né nel fuoco, ma nel mormorio di un vento leggero (IRe cap. 19).
Spesso ci agitiamo, ci inquietiamo nel tentativo di voler risolvere tutto da soli, mentre sarebbe molto più efficace re¬stare calmi, sotto lo sguardo di Dio, lasciandolo agire ed ope¬rare in noi con la sua saggezza e la sua potenza, infinitamen¬te superiori alle nostre. « Poiché così dice il Signore Dio, il Santo d’Israele: Nella conversione e nella calma sta la vostra salvezza, nell’abbandono confidente sta la vostra forza. Ma voi non avete voluto » (Is 30,15).
Il nostro non vuole essere, ben inteso, un invito alla pi-grizia e all’inerzia; ma un’esortazione a non agire mossi da uno spirito d’inquietudine e di fretta eccessiva, bensì sotto l’impulso mite e pacifico dello Spirito di Dio. San Vincenzo de’ Paoli, la persona meno sospettabile di pigrizia, diceva: « II bene che Dio opera si fa da sé, quasi senza che uno se ne accorga. Bisogna essere più passivi che attivi; e così Dio solo farà per mezzo di voi ciò che tutti gli uomini insieme non potrebbero fare senza di lui ».

 

2. Pace interiore e fecondità apostolica
Questa ricerca della pace interiore potrebbe sembrare ad alcuni molto egoistica: perché porsi questo come obiettivo principale, mentre nel mondo vi sono tanta sofferenza e tanta miseria?
A tale osservazione dobbiamo anzitutto rispondere che . pace in questione è quella del Vangelo. Essa non ha nulla che vedere con una sorta d’impassibilità, di morte della sensibilità, di fredda indifferenza chiusa in se stessa, come potrebbero suggerirci certi atteggiamenti dello yoga o alcune statuine di Budda. Al contrario, come vedremo in seguito, . pace di cui parliamo è l’indispensabile corollario dell’amo-:, di una vera apertura alle sofferenze del prossimo e di un’autentica compassione. Poiché solo questa pace del cuore ci li-era da noi stessi, aumenta la nostra sensibilità verso l’altro ci rende disponibili al prossimo.
In aggiunta diremo che solo l’uomo che gode di questa pace interiore può aiutare in modo efficace un fratello. Co¬te, infatti, donare la pace ad altri se non la si possiede? Co-le potrà esserci pace nelle famiglie, nella società, tra le per¬one, se prima di tutto non regna la pace nei cuori?
« Conquista la pace interiore e una moltitudine troverà la salvezza presso di te », diceva san Serafino di Sarov, un gran-e santo russo del settecento. Per acquisire questa pace interiore, egli si è sforzato di vivere nella preghiera incessante. Dopo sedici anni di vita monastica e sedici di vita eremi¬ca, rimase altri sedici anni recluso in una cella. Egli ha cominnciato a irradiare in modo visibile quanto s’era operato ella sua anima, solo dopo quarantotto anni di vita contemplativa. Ma con quali frutti! Migliaia di pellegrini andavano a lui e ripartivano confortati, liberati da dubbi e inquietudini, illuminati sulla loro vocazione, guariti nel corpo e nell’anima.
L’esortazione di san Serafino non fa che testimoniare la sua esperienza personale, identica a quella di tanti altri santi. L’acquisizione e il mantenimento della pace interiore, impossibili senza la preghiera, dovrebbero essere considerati una priorità, soprattutto per chi ha la pretesa di voler fare del bene al prossimo. In caso contrario, spesso comuunicheremmo a chi è nella difficoltà solo le nostre inquietidini.

 

3. Pace e lotta spirituale
E necessario soffermarci su un’altra verità, non meno im¬portante: la vita cristiana è una lotta, una guerra senza tre¬gua. San Paolo ci invita, nella lettera degli Efesini, a rivesti¬re l’armatura di Dio per lottare « non contro creature fatte di sangue e di carne, ma contro i Principati e le Potestà, contro i dominatori di questo mondo di tenebra, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti » (Ef 6,10-17). Egli descrive dettagliatamente tutti i pezzi di quella armatura che dobbiamo indossare.
Ogni cristiano dev’essere ben convinto che la sua vita spi¬rituale non può in alcun caso ridursi a uno scorrere tranquil¬lo di giorni senza storia, ma deve essere il luogo di una lotta costante (contro il male, le tentazioni, lo scoraggiamento), a volte dolorosa, che terminerà solo alla morte. Quest’inevi¬tabile lotta è da interpretare come una realtà estremamente positiva. Poiché « non c’è pace senza guerra » (Santa Cate¬rina da Siena), senza lotta non c’è vittoria. Proprio questo conflitto è il luogo della nostra purificazione e della nostra crescita spirituale, in tal modo impariamo a conoscere noi stessi nejla nostra debolezza e Dio nella sua infinita miseri¬cordia. È, in definitiva, il modo scelto da Dio per la nostra trasfigurazione e la nostra glorificazione.
Ma la lotta spirituale del cristiano, pur essendo talvolta dura, non è mai la guerra disperata di chi si batte in solitudi¬ne, alla cieca, senza nessuna certezza circa l’esito dello scon¬tro. È la lotta di chi combatte con l’assoluta certezza che la vittoria è già assicurata, perché il Signore è risorto: « Non piangere più; ecco, ha vinto il Leone della tribù di Giuda » (Ap 5,1). Così, non combattiamo da soli con le nostre forze, ma con il Signore che ci dice: « Ti basta la mia grazia; la mia potenza infatti si manifesta pienamente nella debolezza » (2 Cor 12,9) e la nostra arma principale non è la naturale fer¬mezza del carattere o l’abilità umana, ma la fede, questa to¬tale adesione a Cristo che ci permette, anche nei momenti peggiori, di abbandonarci con fiducia cieca a colui che non abbandonerà. « Tutto posso in colui che mi da la forza » il 4,13). Ed ancora: « II Signore è mia luce e mia salvezza,
chi avrò paura? » (Sai 27).
Il cristiano dunque lòtta con energia, chiamato com’è a resistere « fino al sangue nella lotta contro il peccato » (Eb 1,4). Lo fa però con cuore tranquillo e la sua lotta è tanto più efficace quanto più il suo cuore dimora nella pace. Perché è proprio questa pace interiore che gli permette di lottare
non con le proprie forze — che verrebbero meno —, ma con quelle di Dio.

 

 

La pace: scopo frequente della lotta spirituale
Abbiamo appena detto che il credente in tutte le sue battaglie, qualunque ne sia la violenza, si sforzerà di custodire pace del cuore per lasciar combattere in lui il Dio delle schiere. Ebbene, bisogna che egli sappia quanto segue: la pace interiore non è solamente una condizione della lotta spirituale, essa ne è — molto spesso — il fine. E molto frequente che la lotta spirituale consista esattamente in questo: difen¬de la pace interiore dal nemico che si sforza di rapircela.
In effetti, una delle abituali strategie messe in atto dal demonio per allontanare un’anima da Dio e ritardarne il pro¬esso spirituale, è tentare di farle perdere la pace interiore, eco cosa dice in merito Lorenzo Scupoli, uno dei più grandi maestri spirituali del sedicesimo secolo, molto stimato da .n Francesco di Sales: « II demonio si sforza con tutto se esso di bandire la pace dal nostro cuore, perché sa che Dio mora nella pace ed è nella pace che opera grandi cose ». Sarà molto utile rammentarlo perché spesso, nello svolgimento quotidiano della nostra vita cristiana, accade che sbagliamo combattimento — se così si può dire —, che mal orientiamo i nostri sforzi. Combattiamo su un terreno dove il diavolo ci trascina sottilmente e sul quale può vincerci, invece di combattere sul vero campo di battaglia dove, con la gra¬zia di Dio, siamo sempre sicuri di vincere. Questo è uno dei grandi segreti della lotta spirituale: non sbagliare combatti¬mento, saper discernere, malgrado le astuzie dell’avversario, contro cosa dobbiamo realmente lottare e dove dirigere i no¬stri sforzi.
E errata la convinzione che, per riportare la vittoria nel¬la lotta spirituale, occorra vincere tutti i nostri difetti, non soccombere mai alla tentazione, non avere più debolezze e mancanze. Su questo terreno saremo immancabilmente scon¬fitti! Perché, chi di noi può avere la pretesa di non cadere mai? Non è certo questo che Dio esige, « poiché egli sa di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere » (Sai 103). Al contrario, la vera lotta spirituale, più che nel perseguire una invincibilità ed una infallibilità assolutamente fuori dal¬la nostra portata, consiste principalmente nell’imparare a non turbarci eccessivamente quando ci capita di essere miseri e a saper approfittare delle nostre cadute per rialzarci più in alto. Cosa sempre possibile, a condizione di non perderci d’a¬nimo e di conservare la calma.
Si potrebbe dunque a ragione enunciare questo princi¬pio: il primo obiettivo della lotta spirituale, verso cui devo¬no tendere i nostri sforzi, non è ottenere sempre la vittoria (sulle nostre tentazioni, sulle nostre debolezze, ecc.), è piut¬tosto imparare a custodire il proprio cuore nella pace in tutte le circostanze, anche in caso di sconfitta. Solo così facendo po¬tremo raggiungere l’altro scopo che è l’eliminazione progres¬siva delle nostre imperfezioni.
Dobbiamo mirare a questa vittoria completa sui nostri difetti e desiderarla, ma essere ben consapevoli che non ba¬stano le nostre proprie forze, e non pretendere di ottenerla immediatamente. E unicamente la grazia di Dio che ci darà la vittoria e la sua azione sarà tanto più potente e rapida, se sapremo mantenere l’anima nostra in pace ed abbando¬narci con fiducia nelle mani del Padre.

 

 

5. Le ragioni per cui perdiamo la pace sono sempre cattive ragioni

Uno degli aspetti dominanti della lotta spirituale è la lot¬ta sul piano dei pensieri. Spesso consiste nell’opporre a pen¬sieri che provengono dal nostro spirito, dalla mentalità che ci circonda, oppure dal Nemico e che ci turbano, ci spaven¬tano o ci scoraggiano, dei pensieri che possano confortarci e ristabilire in noi la pace. In previsione di questa lotta, « bea¬to l’uomo che piena ha la faretra » (Sai 127) di quelle frecce che sono i buoni pensieri, vale a dire quelle solide convin¬zioni basate sulla fede, che nutrono l’intelligenza e fortifica¬no il cuore nel momento della prova. Tra queste frecce nella mano dell’eroe, una delle affermazioni che deve esserci sem¬pre presente è che tutte le ragioni che ci fanno perdere la pace sono sempre delle cattive ragioni.
Questa convinzione non può certo basarsi su considera¬zioni umane, ma è una certezza di fede, fondata sulla parola di Dio. Non poggia sulle ragioni del mondo; Gesù ce lo ha detto chiaramente: « Vi lascio la pace, vi do la mia pace. Non come la da il mondo, io la do a voi. Non sia turbato il vostro cuore e non abbia timore » (Gv 14,27).
Se cerchiamo la pace come la da il mondo, cioè se ci aspet¬tiamo una pace secondo i criteri di vita che fanno dipendere lo stato interiore dal buon andamento delle cose esteriori, dall’assenza di contraddizioni, dalla realizzazione di tutti i nostri desideri ecc., sicuramente non saremo mai in pace, op¬pure la nostra pace sarà estremamente fragile e di breve durata.
Per noi credenti, il motivo essenziale per il quale possia¬mo rimanere sempre nella pace non viene dal mondo: « II mio regno non è di questo mondo », dice Gesù (Gv 18,36); vie¬ne dalla fiducia nella promessa del Signore. Quando Egli af¬ferma di donarci la pace, di lasciarci la pace, questa è parola divina ed ha la stessa forza creatrice di quella che ha fatto sorgere dal nulla il ciclo e la terra; lo stesso potere di quella che ha calmato la tempesta o di quella che ha guarito i mala¬ti e resuscitato i morti. Poiché Gesù dice — per ben due volte! — che ci da la sua pace, noi crediamo di averla in possesso e che essa non venga mai ritirata: « I doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili » (Rm 11,29). Siamo noi che non sem¬pre li sappiamo accogliere e conservare, perché molto spesso manchiamo di fede.
« Vi ho detto questo perché abbiate pace in me. Voi avrete tribolazioni nel mondo, ma abbiate fiducia; io ho vinto il mon¬do! » (Gv 16,33). In Gesù possiamo sempre dimorare nella pace, perché egli ha vinto il mondo, ha vinto ogni male e pec¬cato, perché è resuscitato dai morti. Con la sua morte ha vinto la morte, ha annullato la sentenza di condanna che gravava su di noi. Ha manifestato la benevolenza di Dio a nostro ri¬guardo. E « se Dio è per noi, chi sarà contro di noi?… Chi ci separerà dunque dall’amore di Cristo? » (Rm 8,31).
Partendo da questo incrollabile fondamento della fede, esamineremo più avanti alcune situazioni nelle quali ci capi¬ta sovente di perdere più o meno la pace del cuore, cercando di superarle alla luce dell’insegnamento del Vangelo. Prima però vorremmo far capire quale è, da parte nostra, la condi¬zione fondamentale per essere in grado di ricevere la pace promessa da Gesù.

 

6. La buona volontà, condizione necessaria alla pace
La pace interiore, di cui trattiamo, dipende fondamen¬talmente dall’atteggiamento nei confronti di Dio.
La pace interiore è dono di Dio, l’uomo che gli si oppo¬ne, che più o meno coscientemente lo rifugge o rifugge alcu¬ni dei suoi appelli o delle sue esigenze, non potrà godere di una vera pace.
Notiamo però una cosa: quando qualcuno è vicino a Dio. l’ama e desidera servirlo, sarà in grado di ricevere il dono della pace; l’ordinaria strategia, messa in atto dal demonio consisterà nel cercare di fargli perdere questa pace del cuo¬re, mentre Dio, al contrario, viene in suo aiuto per render¬gliela. I fattori di questa legge si invertono per una persona il cui cuore è lontano da Dio e che vive nel male e nell’indif¬ferenza: il demonio cercherà di tranquillizzarla, di mantenerla in una falsa pace; mentre invece il Signore, che desidera la sua salvezza e la sua conversione, turberà ed agiterà la sua coscienza per cercare di condurla al pentimento.
La pace di un uomo non può essere profonda e duratura, se egli è lontano da Dio, se la sua più profonda volontà non è interamente orientata verso Lui: « Tu ci hai fatti per te, Signore, ed il nostro cuore è inquieto se non riposa in te » (Sant’Agostino).
Condizione necessaria alla pace interiore è dunque quanto potremmo definire la buona volontà. Si potrebbe parimenti chiamare purezza di cuore. È quella stabile e costante dispo¬sizione d’animo dell’uomo deciso ad amare Dio più di ogni altra cosa, sinceramente desideroso di anteporre in tutte le circostanze la volontà di Dio alla sua. Potrà succedere — ac¬cadrà sicuramente — che nella vita di tutti i giorni il suo com¬portamento non sia in perfetta armonia con questo proponi¬mento. Molte imperfezioni si sommeranno nella realizzazio¬ne di questo desiderio, ma egli ne soffrirà, ne domanderà per¬dono al Signore e cercherà di correggersi. Dopo gli smarri¬menti eventuali, si sforzerà di rientrare in questo sì a Dio in tutto, senza eccezione.
Ecco cos’è la buona volontà. Non è la perfezione, in quan¬to può ben coesistere con delle esitazioni, delle imperfezio¬ni, con degli errori, ma è la via verso di essa, perché è pro¬prio questa disposizione abituale del cuore (fondata su virtù quali fede, speranza, carità), che permette alla grazia di Dio di condurci poco a poco alla perfezione.
Questa buona volontà, questa abituale determinazione di dire sempre di sì a Dio, nelle grandi come nelle piccole cose, è una conditio sine qua non della pace interiore. Fin quan¬do non avremo acquisito questa determinazione, continue-
ranno a dimorare in noi una certa inquietudine ed una certa tristezza: l’inquietudine di non amare Dio tanto quanto lui ci invita ad amarlo, la tristezza di non avergli ancora donato tutto. Perché l’uomo che ha donato la sua volontà a Dio, in un certo qual modo gli ha già donato tutto. Fin quando il nostro cuore non avrà così trovato la sua armonia, non po¬tremo essere veramente in pace. Esso non sarà unificato che nel momento in cui tutti i nostri desiderare saranno subor¬dinati al desiderio d’amare Dio, di piacere a lui e di fare la sua volontà. Ciò implica, ben inteso, anche la determinazio¬ne a staccarci da tutto quanto sarebbe contrario a Dio.
7. La buona volontà, condizione sufficiente alla pace
Possiamo anche affermare che questa buona volontà è suf¬ficiente per mantenere il proprio cuore nella pace, anche se, malgrado ciò, abbiamo ancora molti difetti e mancanze: « Pace in terra agli uomini di buona volontà » (testo latino della Vulgata).
In effetti, cosa ci domanda Dio, se non questa buona vo¬lontà? Cosa potrebbe pretendere di più, lui che è un Padre buono e compassionevole, quando vede che il suo figlio de¬sidera amarlo sopra ogni cosa, soffre di non amarlo a suffi¬cienza ed è disposto (anche se si ritiene incapace di farlo con la propria forza) a staccarsi da tutto ciò che gli sarebbe con¬trario? Non sta forse a Dio stesso intervenire per portare a buon fine questi desideri che l’uomo, lasciato alle sue sole capacità, non è in grado di realizzare?
A sostegno di quanto appena detto — cioè che la buona volontà è sufficiente per renderci graditi a Dio e dunque per poter stare nella pace — ecco un episodio della vita di santa Teresa di Gesù Bambino, raccontato da sua sorella Celina:
« In una circostanza nella quale suor Teresa m’aveva mostrato tutti i miei difetti, ero triste e un po’ disorientata. Eccomi tanto lontana dalla virtù — pensavo — proprio io che desideravo tanto possederla; vorrei tanto essere dolce, paziente, umile, caritatevole… Ah! non ci riuscirò mai!. Tuttavia la sera, durante la preghiera, lessi che a santa Geltrude, che aveva espresso lo stesso desiderio, nostro Signore aveva risposto: « In tutte le cose e al di sopra di tutto abbi buona volontà; questa sola disposizione donerà alla tua anima lo splendore e il merito speciale di tutte le virtù. Chiunque abbia buona volontà, desiderio sincero di la¬vorare per la mia gloria, rendermi grazie, partecipare alle mie sofferenze, amarmi e servirmi tanto quanto le creatu¬re insieme, riceverà senza dubbio ricompense degne della mia generosità e il suo desiderio sarà talvolta più vantaggio¬so di quanto non lo siano, per altri, le loro buone opere ». Molto contenta per questa buona parola — continua Celina — tutta a mio vantaggio, ne informai la nostra ca¬ra piccola Maestra (Teresa) che rincarò la dose ed aggiun¬se: « Avete letto quanto è riportato nella vita del padre Surin? Faceva un esorcismo; i demoni gli dissero: « Noi riusciamo a sopraffare tutto; non e ‘è che questa cagna di buona volontà alla quale non riusciamo mai a resistere! ». Ebbene, se non avete virtù, avete almeno una cagnolina che vi salverà da tutti i pericoli; consolatevi, essa vi porterà in paradiso! Ah, qual è l’anima che non desideri possedere la virtù! È la via più comune! Ma quanto poco numerose sono le anime che accettano di cadere e d’essere deboli, che sono contente di vedersi per terra e che gli altri le colgano sul fatto! » (Consigli e ricordi di sr. Geneviève).
Come risalta da questo testo, la concezione che Teresa (la più grande santa dei tempi moderni, secondo il giudizio di Papa Pio XI) aveva della perfezione non è affatto quella a cui ci viene spontaneo pensare…
Vediamo adesso come il credente di buona volontà può, alla luce della fede, superare tutte le circostanze nelle quali e tentato di perdere la pace.

Publié dans:meditazioni |on 4 octobre, 2018 |Pas de commentaires »

LA MORMORAZIONE (II istruzione)

http://www.immacolatine.it/Manoscritti_vol_2/Mormorazione_2.html

LA MORMORAZIONE

(II istruzione)

La mormorazione che, come abbiamo detto nell’ultima nostra istruzione, si può commettere in molte e diverse maniere, è un vizio universale che alligna quasi in tutti i ceti di persone, e pochi, pochissimi, anche tra i più devoti e i più santi, son quelli che ne vanno esenti. Pare proprio che non vi sia cosa al mondo che si ascolti più volentieri o con maggiore interesse che quella di dir male dei propri fratelli. Ma, come va, mie sorelle, che si mormora tutti con grande facilità: vecchi e giovani, ricchi e poveri, grandi e piccoli, secolari e religiosi? Forse che la mormorazione non è peccato? Credete che il togliere al prossimo la sua stima e la sua riputazione sia guadagnare indulgenze? Quanto si inganna chi la pensa così! Udite con attenzione, e mi direte che cosa si procura la lingua mormoratrice.
Grande male è la mormorazione: essa contiene in sé due malizie: toglie al prossimo la buona stima che egli giustamente si gode nell’opinione altrui, e la buona reputazione, che è un grande bene. Anzi, siccome la fama e la riputazione altrui sono un bene maggiore e più prezioso, come dice lo Spirito Santo nei Proverbi, di tutte le ricchezze e la roba di questo mondo, così chi toglie al prossimo la sua buona stima è peggiore di un ladro. Ora, un peccato che procura al prossimo sì grave danno, non vi pare che si dovrebbe guardare da tutti con sommo orrore? Eppure non è così. Si cerca anzi di scusarlo in mille maniere e si adducono mille scuse per farne scomparire la gravità.
« Noi, dicono alcuni, non crediamo di essere rei di colpa alcuna, perché, grazie al cielo, non abbiamo l’abitudine di dir male di alcuno: solamente ascoltiamo volentieri quelli che dicono male ». Perché piuttosto non dite: « Noi ci comportiamo male, spingendo altri a dir male del prossimo ». Vi credete innocenti? Non sapete che S. Bernardo rimane in dubbio se sia maggiore la colpa di chi mormora, o di chi ascolta con piacere la mormorazione? Egli dopo aver molto pensato tra sé, finalmente conclude che tutti e due portano con sé il demonio, con questa sola differenza, che chi mormora lo porta sulla bocca e chi ascolta lo porta nell’orecchio. Ed ha ragione: S. Basilio, infatti, dice che ascoltando voi volentieri la mormorazione, la rendete più animosa e quasi provocate a continuare la maldicenza, poiché nessuno mormora volentieri, se volentieri non è ascoltato. Se voi dunque, quando udite qualcuno dir male del suo prossimo, non gli fate, con le debite maniere, la dovuta correzione, richiamandolo o cambiando discorso, o almeno non mostrate di aver dispiacere, stando serio e taciturno, voi vi fate reo della medesima colpa di cui è colpevole il mormoratore. La maggior parte, però, delle scuse che si adducono per difendere il peccato della mormorazione non proviene da chi ascolta, ma da quelli stessi che mormorano, i quali credono di essere senza colpa: « perché, dicono, non intendiamo col nostro dire, causare danno al nostro prossimo ». Ma che giova a questi infelici screditati, che voi non abbiate avuta l’intenzione di screditarli o di cagionare loro alcun danno? Frattanto essi, per la vostra mala lingua, hanno perduta la loro fama e reputazione.
Altri si scusano col dire ch’essi non sono i primi a manifestare i fatti e i detti del prossimo, ma raccontano solo quello che hanno udito dire dagli altri. Ma sapete che cosa dice lo Spirito Santo nell’Ecclesiastico? Dice: « Se hai udito qualcosa di male del tuo prossimo, non lo manifestare ad altri, ma lascia che muoia in te e resti seppellito nel tuo cuore ». Lo so che cer-tuni, appena sentono qualcosa del loro prossimo, o vedono in altri qualche difetto, vorrebbero raccontarlo a questa e a quella persona loro confidente; ma credete che costoro, nell’operare così, non si facciano colpevoli di maldicenza? Io vi dico che si macchiano di due peccati: uno di credere, per una semplice apparenza, al male del prossimo, che forse sarà falso, perché ciò che si dice a carico dell’uno o dell’altro, per lo più è falso o falsa invenzione della malignità altrui; l’altro di farlo sapere a chi lo ignora. Che se a voi sembrasse di non commettere questi due peccati, né di credere il falso sul conto del vostro prossimo, né di propagare i suoi difetti a chi non li sapeva, perché i fatti riportati sono veri e tutti già li sanno, allora io vi dico che non c’è necessità che voi li andiate a ridire, se già sono noti a tutti. Se quegli infelici che li hanno commessi già sono diffamati, già sono morti all’onore, perché tornate a colpirli con la vostra lingua?
Ma voi dite che i falli del prossimo sono numerosi; ed io vi rispondo che certe volte non sono che calunnie quelle che sembrano verità autentiche. Qualcosa sembrava infatti, più vera che quella per cui fu accusata di adulterio la casta Susanna? Eppure noi sappiamo che era una solenne impostura. Ma siano pure anche vere: avremmo forse piacere che di noi o di qualche nostro congiunto fossero rivelati falli o mancanze, che sono veri, verissimi? No, certamente. Come, dunque, saremo così facili a propagandare le mancanze degli altri? La legge naturale, molto più la legge evangelica, non ci proibisce di fare agli altri quello che non vorremmo fosse fatto a noi?
I fatti che voi riferite sono veri? Ma ditemi, noi non abbiamo mai mancato in niente? Chi è che può dirsi senza peccato? Se vi è alcuno così innocente che la sua coscienza non gli rinfacci colpa di sorta, si faccia avanti e sia costui il primo a dir male del suo prossimo che io mi contento.
« Se qualcuno di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei », così disse Cristo a quei farisei che volevano lapidare la donna trovata in peccato; ma si guardarono in volto, poi l’uno dopo l’altro se ne andarono senza gettare alcuna pietra. Se riflettessimo anche noi a questo! Se guardassimo prima a noi stessi, non oseremmo aprir bocca contro nessuno.
« Ma noi, dicono altri, quando diciamo qualche cosa del prossimo non facciamo per mormorare, ma per ridere, e poi lo diciamo con persone particolari e in segreto, come in confessione ». Queste sono le ultime scuse che si dicono per difendere la maldicenza. Ma chi non vede quanto siano insulse e ridicole? Voi, dunque, dite male del prossimo per ridere e scherzare? Ma vedete, che voi intanto togliete al vostro prossimo la cosa più preziosa che egli abbia, quale è la sua fama? Che importa che voi abbiate scherzato, abbiate riso, se il prossimo perde intanto la sua stima? Quanto poi a dire che si confidano i difetti del prossimo a confidenti, in segreto e come in confessione, S. Giovanni Crisostomo nella sua terza omelia al popolo di Antiochia definisce tale scusa stolta ed insana. Egli dice: « Avete raccomandato il segreto: perché non l’avete osservato prima voi? Che necessità avevate di parlare? Se volevate che restasse segreto, bisognava che voi non ne parlaste, perché rivelandolo, voi avete dato stimolo ed eccitamento ad altri di fare lo stesso ». Ed ecco dove conduce la maldicenza: privare i mormoratori della vita eterna. La dottrina non è mia, è dell’apostolo S. Paolo, il quale, parlando dei maldicenti, li mette insieme ai fornicatori e ai ladri, e li esclude tutti dal regno dei cieli. Raccomanda ai cristiani di Corinto che stiano ben attenti su questo punto, né si lascino ingannare, perché né gli adulteri né i fornicatori, né i ladri né i maldicenti possederanno il regno dei cieli.
La mormorazione, per essere perdonata deve esse re seguita dalla restituzione dell’onore e della fama che fu tolta al prossimo. Come colui che ruba e toglie al prossimo la roba e i denari non può ottenere il perdono del suo operato e salvarsi, dice S. Agostino, senza restituire ciò che ha rubato, così non può conseguire la remissione dei propri peccati chi ha mormorato, senza restituire la fama da lui denigrata al suo fratello. Si possono fare elemosine, orazioni, digiuni, penitenze quanto si vuole, ma nulla giova se non si adempie a questo strettissimo e indispensabile dovere. I sacerdoti sono i depositari e i ministri dei tesori e delle grazie del cielo; e in virtù della piena autorità, data loro da Gesù Cristo nella persona degli apostoli, possono rimettere ogni peccato, ma non quello della mormorazione e del furto, senza questa espressa condizione di restituire ciò che si è tolto al prossimo. Ora questa necessità che costringe la persona maldicente a restituire la fama rubata, mette in molto pericolo la sua eterna salute, a motivo della difficoltà che incontra nell’adempiere questo dovere. A dir male dell’uno e dell’altro si fa presto, non ci vuole tanto a dire una parola e denigrare, in una o in un’altra maniera, la reputazione del prossimo, ma il difficile sta poi nel riparare i danni che da quella mormorazione sono causati. Il dover ritrattare e disdire ciò che si è detto contro l’uno o l’altro, è cosa un po’ dura al nostro amor proprio e pochi vi si sanno adattare.
Infatti vediamo che se le mormorazioni sono frequenti, per non dire quotidiane, ben di rado, e quasi mai, si sentono le lingue maldicenti rendere pubblicamente la fama a chi l’hanno tolta. E poi, anche se i maldicenti sono pronti a riparare la fama tolta, come possono farlo adeguatamente?
La loro maldicenza avrà forse fatto un assai lungo cammino; sarà già passata per la bocca di molti e molti, e come si può riparare con tutti, e da tutti levare la cattiva impressione che ha già cagionato la nostra mormorazione? Voi mi dite: quando si è fatto tutto il possibile, non si è tenuti a fare di più; tutto vero, ma intanto quali angustie e quali timori non agiteranno di continuo la propria coscienza nel timore di non avere avuta tutta la diligenza possibile per restituire la fama tolta? Quanto meglio sarebbe non aver mai detto male di alcuno! Ma se non si può far ritornare indietro il passato, provvediamo almeno all’avvenire e proponiamoci di non aprire mai bocca contro chiunque. Lo Spirito Santo ce ne avverte: « Custodite la lingua dalla mormorazione, guardatevi da essa e frenate la lingua, perché non si macchi di detrazione. Carità, non maldicenza con il nostro prossimo e, se non possiamo far altro, scusiamone almeno l’intenzione ». Non vi immischiate con i detrattori, ci ripete lo Spirito Santo, e fuggiteli come la peste. E se a far ciò non vi spinge altra ragione, vi spinga il timore di mettere a rischio la vostra salute eterna.
Gesù Cristo stesso nel Vangelo di S. Luca (c. VI) ci dice di essere misericordiosi come è misericordioso il vostro Padre celeste: con ciò vuol farci intendere che noi dobbiamo usarci carità l’uno con l’altro; una carità molto grande; carità, se fosse possibile, da uguagliare la misericordia stessa di Dio verso di noi: « Siate misericordiosi come è misericordioso il vostro Padre celeste ». Amen. 

Publié dans:meditazioni |on 27 septembre, 2018 |Pas de commentaires »
12345...40

PUERI CANTORES SACRE' ... |
FIER D'ÊTRE CHRETIEN EN 2010 |
Annonce des évènements à ve... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | Vie et Bible
| Free Life
| elmuslima31