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DAI «DISCORSI» DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO : RALLEGRATEVI NEL SIGNORE, SEMPRE

VIII SETTIMANA DEL T.O. – UFFICIO DELLE LETTURE

SECONDA LETTURA

DAI «DISCORSI» DI SANT’AGOSTINO, VESCOVO

(Disc. 171, 1-3. 5; PL 38, 933-935)

RALLEGRATEVI NEL SIGNORE, SEMPRE

L’Apostolo ci comanda di rallegrarci, ma nel Signore, non nel mondo. «Chi dunque vuole essere amico del mondo si rende nemico di Dio» (Gc 4, 4), come ci assicura la Scrittura. Come un uomo non può servire a due padroni, così nessuno può rallegrarsi contemporaneamente nel mondo e nel Signore.
Quindi abbia il sopravvento la gioia nel Signore, finché non sia finita la gioia nel mondo. Cresca sempre più la gioia nel Signore, mentre la gioia nel mondo diminuisca sempre finché sia finita. E noi affermiamo questo, non perché non dobbiamo rallegrarci mentre siamo nel mondo, ma perché, pur vivendo in questo mondo, ci rallegriamo già nel Signore.
Ma qualcuno potrebbe obiettare: Sono nel mondo, allora, se debbo gioire, gioisco là dove mi trovo. Ma che dici? Perché sei nel mondo, non sei forse nel Signore? Ascolta il medesimo Apostolo che parla agli Ateniesi e negli Atti degli Apostoli dice del Dio e Signore nostro creatore: «In lui infatti viviamo, ci muoviamo ed esistiamo» (At 17, 28).
Colui che è dappertutto, dove non è? Forse che non ci esortava a questo quando insegnava: «Il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla»? (Fil 4, 5-6).
E’ una ineffabile realtà questa: ascese sopra tutti i cieli ed è vicinissimo a coloro che si trovano ancora sulla terra. Chi è costui, lontano e vicino al tempo stesso, se non colui che si è fatto prossimo a noi per la sua misericordia?
Tutto il genere umano è quell’uomo che giaceva lungo la strada semivivo, abbandonato dai ladri. Il sacerdote e il levita, passando, lo disprezzarono, ma un samaritano di passaggio gli si accostò per curarlo e prestargli soccorso. Lontano da noi, immortale e giusto, egli discese fino a noi, che siamo mortali e peccatori, per diventare prossimo a noi.
«Non ci tratta secondo i nostri peccati» (Sal 102, 10). Siamo infatti figli. E come proviamo questo? Morì per noi l’Unico, per non rimanere solo. Non volle essere solo, egli che è morto solo. L’unico Figlio di Dio generò molti figli di Dio. Si acquistò dei fratelli con il suo sangue. Rese giusti i reprobi. Donandosi, ci ha redenti; disonorato, ci onorò; ucciso, ci procurò la vita.
Perciò, fratelli, rallegratevi nel Signore, non nel mondo; cioè rallegratevi nella verità, non nel peccato; rallegratevi nella speranza dell’eternità, non nei fiori della vanità. Così rallegratevi: e dovunque e per tutto il tempo che starete in questo mondo, «il Signore è vicino! Non angustiatevi per nulla» (Fil 4, 5-6).

PRIMA LETTURA : QOELET 1,2; 2,21-23 – COMMENTO

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QOELET 1,2; 2,21-23

1,2 Vanità delle vanità — dice Qoèlet — vanità delle vanità, tutto è vanità. 2,21 Perché chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare i suoi beni a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e grande sventura.
22 Allora quale profitto c’è per l’uomo in tutta la sua fatica e in tutto l’affanno del suo cuore con cui si affatica sotto il sole? 23 Tutti i suoi giorni non sono che dolori e preoccupazioni penose, il suo cuore non riposa neppure di notte. Anche questo è vanità!

COMMENTO
Qoelet 1,2; 2,21-23
Tutto è vanità
Il libro da cui è riportata la presente lettura è designato con il nome (o appellativo) del suo presunto autore, in ebraico Qohelet, nome oggi in genere preferito alla sua traduzione greca Ekklesiastês, Ecclesiaste. Nel canone ebraico questo libro si situa nella sezione degli Scritti dove fa parte, insieme con Rut, Cantico dei cantici, Lamentazioni, Ester, dei cinque volumi (meghillôt) che nella liturgia ebraica vengono utilizzati nelle principali festività dell’anno.
Il Qohelet è un piccolo libro, pieno di dubbi, scritto da un autore disincantato, il quale riflette sul significato e sulla caducità della vita umana, mettendo in questione idee e luoghi comuni della tradizione biblica e soprattutto sapienziale. Esso suscita numerosi problemi circa le circostanze e modalità della sua composizione, ma soprattutto circa il suo contenuto che, mentre lo pone in stretta contiguità con Giobbe, lo allontana da gran parte della letteratura sapienziale e, più in genere, biblica. Il suo genere letterario si avvicina a quello di una raccolta di pensieri che ruotano intorno ad un certo tema, ma che mantengono in gran parte la loro autonomia.
Il libro si apre con il titolo e un prologo (Qo 1,1-11). L’autore passa poi a descrivere, nella prima parte del libro, la vanità di tutte le cose (1,12-6,9); in un breve brano che occupa la posizione centrale del libro, l’autore esprime i limiti di ogni essere umano (6,10-12). Egli poi, nella seconda parte del libro, mette a fuoco soprattutto i limiti della conoscenza umana (7,1 – 11,6). Lo scritto termina con una conclusione (11,7 – 12,8) e un epilogo (12,9-14). Il testo utilizzato dalla liturgia, l’unico di cui essa fa uso, è ricavato dal prologo (1,2) e dall’inizio della prima parte del libro (2,21-23).
La frase iniziale del brano liturgico è quella in cui si compendia tutta la riflessione dell’autore: «Vanità delle vanità, dice Qoèlet, vanità delle vanità: tutto è vanità» (1,2). Essa è una dichiarazione di principio: tutto è «vanità» (hebel). Questo termine significa propriamente «vapore», «alito» e designa qualcosa di vuoto, effimero, senza consistenza. La forma raddoppiata («vanità delle vanità»), usata in ebraico per indicare il superlativo, significa che si tratta di una vanità totale, senza eccezione o rimedio.
In questo versetto l’autore dice per la prima volta, dopo il titolo, il suo nome, Qohelet, che riappare altre sei volte nel seguito del libro (1,2.12; 7,27; 12,8.9.10) e non è mai utilizzato al di fuori di esso. Il suo significato è incerto. Dal punto di vista morfologico sembra un participio presente femminile qal del verbo qahal (convocare, adunare): se così fosse esso significherebbe «colui che raduna l’assemblea», ma non risulta che il verbo sia mai usato in questa forma. È più probabile invece che si tratti di un aggettivo sostantivato derivato da qahal (assemblea, riunione), il cui significato sarebbe «uomo dell’assemblea». È questo anche il significato del termine greco Ecclesiaste (da ekklesia, assemblea) con cui è stato tradotto.
Nel brano successivo riportato dalla liturgia, l’autore, dopo aver affermato di essere giunto al punto di disperare in cuor suo per tutta la fatica che aveva sostenuto sotto il sole (v. 20), ne dà questo motivo: «chi ha lavorato con sapienza, con scienza e con successo dovrà poi lasciare la sua parte a un altro che non vi ha per nulla faticato. Anche questo è vanità e un grande male» (v. 21). Se uno si impegna a fondo nella vita, può ottenere dei buoni risultati in campo materiale. Ma alla morte, tutto quello che ha accumulato non gli serve più, anzi deve lasciarlo magari a uno che invece non ha saputo impegnarsi nella vita e non ha messo da parte nulla. L’autore ritiene ciò una grande vanità.
L’autore aggiunge poi un altro motivo del suo pessimismo: «Infatti, quale profitto viene all’uomo da tutta la sua fatica e dalle preoccupazioni del suo cuore, con cui si affanna sotto il sole? Tutti i suoi giorni non sono che dolori e fastidi penosi; neppure di notte il suo cuore riposa. Anche questo è vanità!» (vv. 22-23). Anche durante la sua vita, l’uomo paga il suo successo in campo economico con preoccupazioni e affanni, al punto tale che perde persino la possibilità di riposare nella notte. Qoelet conclude che anche questo è una grande vanità, perché si sacrifica per le cose materiali quel poco di piacere che potrebbe avere in questa vita.

Linee interpretative
Il Qoelet è spesso accusato di pessimismo o di scetticismo. Oggi si afferma sempre più l’interpretazione che vede in questo strano personaggio un «predicatore della gioia». È vero, egli mette in discussione tanti luoghi comuni e critica come falsi tanti ideali che l’uomo si propone quaggiù. Spesso la sapienza non è apprezzata, specialmente quando si combina con la povertà, ma essa è pur sempre superiore alla stoltezza o alla forza (9,13-18). Pur senza eccedere, la giustizia deve essere ricercata (7,16-18). Il saggio è più forte di dieci potenti che governano la città, anche se non bisogna illudersi: nessuno è così giusto da non peccare mai (7,19-22). Come un saggio tradizionale, Qohelet raccomanda anche l’impegno attivo e dinamico in ogni campo, perché negli inferi non vi sarà più nulla (9,10). Egli si scaglia contro la pigrizia (10,14-20) e invita ad accettare il rischio e ad assumersi le proprie responsabilità (11,1-6).
Ma soprattutto egli esorta al godimento di tutto ciò che la vita presenta di buono e gradevole, nella convinzione che si tratta di un dono di Dio (cfr. 2,24; 3,12-13; 5,17; 8,15; 9,7-9; 11,7-9), anche se invita a tener sempre presente che anche questo è «vanità» (2,1). Qoelet concepisce l’esistenza dell’uomo come un essere nel tempo, come una possibilità che gli è data solo nello scorrere del presente, e che per ciascuno si concluderà nella morte. Ma, pur nella sua precarietà, l’uomo può sperimentare la sua esistenza terrena come un’esperienza di felicità.
In questa prospettiva bisogna capire lo spirito religioso del Qoelet. Egli presenta Dio come una realtà trascendente e misteriosa, che ha creato il mondo e lo dirige in un modo che per gli esseri umani è del tutto inintelligibile. Dio non è un dio lontano e nascosto o addirittura arbitrario, ma il Dio di Israele, che toglie all’uomo l’illusione di poter comprendere la propria vita senza mettere in conto il suo agire misterioso. Di fronte a lui l’uomo non può far altro che temerlo, cioè sottomettersi alla sua volontà. Dio agisce nel mondo con lo scopo di far sì che «si abbia timore di lui» (3,14). Dopo aver esortato il lettore a non essere troppo saggio o troppo stolto, egli afferma che chi teme Dio riesce in tutte le cose (7,16). Infine egli esprime la sua convinzione secondo cui «saranno felici coloro che temono Dio» (8,12-13).

SALMO 137 (138) RENDIMENTO DI GRAZIE

http://www.perfettaletizia.it/bibbia/salmi/Salmo137.htm

SALMO 137 (138) RENDIMENTO DI GRAZIE

DI DAVIDE

Ti rendo grazie, Signore, con tutto il cuore:
hai ascoltato le parole della mia bocca.
Non agli dèi, ma a te voglio cantare,

mi prostro verso il tuo tempio santo.
Rendo grazie al tuo nome per il tuo amore e la tua fedeltà:
hai reso la tua promessa più grande del tuo nome.

Nel giorno in cui ti ho invocato, mi hai risposto,
hai accresciuto in me la forza.

Ti renderanno grazie, Signore, tutti i re della terra,
quando ascolteranno le parole della tua bocca.

Canteranno le vie del Signore:
grande è la gloria del Signore!

Perché eccelso è il Signore, ma guarda verso l’umile;
il superbo invece lo riconosce da lontano.

Se cammino in mezzo al pericolo,
turni ridoni vita;
contro la collera dei miei avversari stendi la tua mano
e la tua destra mi salva.

Il Signore farà tutto per me.
Signore, il tuo amore è per sempre:
non abbandonare l’opera delle tue mani.

COMMENTO

Il salmista ringrazia Dio per avere ascoltato la sua preghiera e avergli usato misericordia. La tradizione parla del re Davide, ma più probabilmente si tratta di Ezechia dopo la clamorosa liberazione di Gerusalemme dall’assedio degli Assiri (2Re 19,35): “Hai reso la tua promessa più grande del tuo nome”.
Egli vuole cantare la sua lode al cospetto di Dio, rifiutando ogni adesione agli idoli: « Non agli dèi, ma a te voglio cantare ».
Dio ha risposto alla sua supplica rendendolo più forte di fronte ai sui nemici: “Hai accresciuto in me la forza”.
Il salmista professa la sua fede nel futuro messianico che vedrà “tutti i re della terra” lodare il Signore. Sarà quando “ascolteranno le parole della tua bocca”, dove per “bocca” si deve intendere il futuro Messia.
I re, i popoli, celebreranno le vie del Signore annunciate dal Messia.
Il salmista ha grande fiducia in Dio, affinché la sua missione di re abbia successo: « Il Signore farà tutto per me ». Il salmista termina invocando: “Non abbandonare l’opera delle tue mani”, cioè la dinastia di Davide.
Noi crediamo che giungerà il tempo della “civiltà dell’amore”, quando i popoli e i potenti che li governano, si apriranno a Cristo. Ogni cristiano deve adoperarsi per questo tempo con la forza (“hai accresciuto in me la forza”) che sgorga dalla partecipazione Eucaristica.
La nostra battaglia non è contro nemici fatti di carne e sangue, come ci dice san Paolo (Ef 6,12), ma “contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male”, cioè contro i demoni.

15 LUGLIO – SAN BONAVENTURA (m) – VESCOVO E DOTTORE DELLA CHIESA – UFFICIO DELLE LETTURE

15 LUGLIO – SAN BONAVENTURA (m) – VESCOVO E DOTTORE DELLA CHIESA

UFFICIO DELLE LETTURE

PRIMA LETTURA
Dal primo libro dei Re 18, 16b-39

Elia vince la sfida contro i sacerdoti di Baal
In quei giorni Acab si diresse verso Elia. Appena lo vide, Acab disse a Elia: «Sei tu la rovina di Israele!». Quegli rispose: «Io non rovino Israele, ma piuttosto tu insieme con la tua famiglia, perché avete abbandonato i comandi del Signore e tu hai seguito Baal. Su, con un ordine raduna tutto Israele presso di me sul monte Carmelo insieme con i quattrocento cinquanta profeti di Baal e con i quattrocento profeti di Asera, che mangiano alla tavola di Gezabele».
Acab convocò tutti gli Israeliti e radunò i profeti sul monte Carmelo. Elia si accostò a tutto il popolo e disse: «Fino a quando zoppicherete con i due piedi? Se il Signore è Dio, seguitelo! Se invece lo è Baal, seguite lui!». Il popolo non gli rispose nulla. Elia aggiunse al popolo: «Sono rimasto solo, come profeta del Signore, mentre i profeti di Baal sono quattrocento cinquanta. Dateci due giovenchi; essi se ne scelgano uno, lo squartino e lo pongano sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Io preparerò l’altro giovenco e lo porrò sulla legna senza appiccarvi il fuoco. Voi invocherete il nome del vostro dio e io invocherò quello del Signore. La divinità che risponderà concedendo il fuoco è Dio!». Tutto il popolo rispose: «La proposta è buona!».
Elia disse ai profeti di Baal: «Sceglietevi il giovenco e cominciate voi perché siete più numerosi. Invocate il nome del vostro Dio, ma senza appiccare il fuoco». Quelli presero il giovenco, lo prepararono e invocarono il nome di Baal dal mattino fino a mezzogiorno, gridando: «Baal, rispondici!». Ma non si sentiva un alito, né una risposta. Quelli continuavano a saltare intorno all’altare che avevano eretto. Essendo già mezzogiorno, Elia cominciò a beffarsi di loro dicendo: «Gridate con voce più alta, perché egli è un dio! Forse è soprappensiero oppure indaffarato o in viaggio; caso mai fosse addormentato, si sveglierà». Gridarono a voce più forte e si fecero incisioni, secondo il loro costume, con spade e lance, fino a bagnarsi tutti di sangue. Passato il mezzogiorno, quelli ancora agivano da invasati ed era venuto il momento in cui si sogliono offrire i sacrifici, ma non si sentiva alcuna voce né una risposta né un segno di attenzione.
Elia disse a tutto il popolo: «Avvicinatevi!». Tutti si avvicinarono. Si sistemò di nuovo l’altare del Signore che era stato demolito. Elia prese dodici pietre, secondo il numero delle tribù dei discendenti di Giacobbe, al quale il Signore aveva detto: «Israele sarà il tuo nome». Con le pietre eresse un altare al Signore; scavò intorno un canaletto, capace di contenere due misure di seme. Dispose la legna, squartò il giovenco e lo pose sulla legna. Quindi disse: «Riempite quattro brocche d’acqua e versatele sull’olocausto e sulla legna!». Ed essi lo fecero. Egli disse: «Fatelo di nuovo!». Ed essi ripeterono il gesto. Disse ancora: «Per la terza volta!». Lo fecero per la terza volta. L’acqua scorreva intorno all’altare; anche il canaletto si riempì d’acqua. Al momento dell’offerta si avvicinò il profeta Elia e disse: «Signore, Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, oggi si sappia che tu sei Dio in Israele e che io sono tuo servo e che ho fatto tutte queste cose per tuo comando. Rispondimi, Signore, rispondimi e questo popolo sappia che tu sei il Signore Dio e che converti il loro cuore!».
Cadde il fuoco del Signore e consumò l’olocausto, la legna, le pietre e la cenere, prosciugando l’acqua del canaletto. A tal vista, tutti si prostrarono a terra ed esclamarono: «Il Signore è Dio! Il Signore è Dio!».

SECONDA LETTURA
Dall’opuscolo «Itinerario della mente a Dio» di san Bonaventura, vescovo
(Cap. 7,1.2.4.6; Opera omnia, 5,312-313)

La mistica sapienza rivelata mediante lo Spirito Santo
Cristo è la via e la porta. Cristo è la scala e il veicolo. E il propiziatorio collocato sopra l’arca di Dio (cfr. Es 26,34). È «il mistero nascosto da secoli» (Ef 3,9). Chi si rivolge a questo propiziatorio con dedizione assoluta, e fissa lo sguardo sul crocifisso Signore mediante la fede, la speranza, la carità, la devozione, l’ammirazione, l’esultanza, la stima, la lode e il giubilo del cuore, fa con lui la Pasqua, cioè il passaggio; attraversa con la verga della croce il Mare Rosso, uscendo dall’Egitto per inoltrarsi nel deserto. Qui gusta la manna nascosta, riposa con Cristo nella tomba come morto esteriormente, ma sente, tuttavia, per quanto lo consenta la condizione di viatori, ciò che in croce fu detto al buon ladrone, tanto vicino a Cristo con l’amore: «Oggi sarai con me nel paradiso!» (Lc 23,43).
Ma perché questo passaggio sia perfetto, è necessario che, sospesa l’attività intellettuale, ogni affetto del cuore sia integralmente trasformato e trasferito in Dio.
È questo un fatto mistico e straordinario che nessuno conosce se non chi lo riceve. Lo riceve solo chi lo desidera, non lo desidera se non colui che viene infiammato dal fuoco dello Spirito Santo, che Cristo ha portato in terra. Ecco perché l’Apostolo afferma che questa mistica sapienza è rivelata dallo Spirito Santo.
Se poi vuoi sapere come avvenga tutto ciò, interroga la grazia, non la scienza, il desiderio non l’intelletto, il sospiro della preghiera non la brama del leggere, lo sposo non il maestro, Dio non l’uomo, la caligine non la chiarezza, non la luce ma il fuoco che infiamma tutto l’essere e lo inabissa in Dio con la sua soavissima unzione e con gli affetti più ardenti.
Ora questo fuoco è Dio e questa fornace si trova nella santa Gerusalemme; ed è Cristo che li accende col calore della sua ardentissima passione. Lo può percepire solo colui che dice: L’anima mia ha preferito essere sospesa in croce e le mie ossa hanno prescelto la morte! (cfr. Gb 7,15).
Chi ama tale morte, può vedere Dio, perché rimane pur vero che: «Nessun uomo può vedermi e restar vivo» (Es 33,20). Moriamo dunque ed entriamo in questa caligine; facciamo tacere le sollecitudini, le concupiscenze e le fantasie. Passiamo con Cristo crocifisso, «da questo mondo al Padre», perché, dopo averlo visto, possiamo dire con Filippo «questo ci basta» (Gv 14,8); ascoltiamo con Paolo: «Ti basta la mia grazia» (2Cor 12,9); rallegriamoci con Davide, dicendo: «Vengono meno la mia carne e il mio cuore; ma la roccia del mio cuore è Dio, è Dio la mia sorte per sempre» (Sal 72,26). «Benedetto il Signore, Dio d’Israele da sempre e per sempre. Tutto il popolo dica: Amen» (Sal 105,48).

24 GIUGNO : NATIVITA’ DI SAN GIOVANNI BATTISTA SOLENNITA’ – LETTURE DELLA MESSA

24 GIUGNO : NATIVITA’ DI SAN GIOVANNI BATTISTA  SOLENNITA’

Prima Lettura   Ger 1, 4-10
Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto.

Dal libro del profeta Geremìa
Nei giorni del re Giosìa mi fu rivolta questa parola del Signore:
«Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto,
prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato;
ti ho stabilito profeta delle nazioni».
Risposi: «Ahimè, Signore Dio!
Ecco, io non so parlare, perché sono giovane».
Ma il Signore mi disse: «Non dire: “Sono giovane”.
Tu andrai da tutti coloro a cui ti manderò
e dirai tutto quello che io ti ordinerò.
Non aver paura di fronte a loro,
perché io sono con te per proteggerti».
Oracolo del Signore.
Il Signore stese la mano
e mi toccò la bocca,
e il Signore mi disse:
«Ecco, io metto le mie parole sulla tua bocca.
Vedi, oggi ti do autorità
sopra le nazioni e sopra i regni
per sradicare e demolire,
per distruggere e abbattere,
per edificare e piantare».

Salmo Responsoriale   Dal Salmo 70
Dal grembo di mia madre sei tu il mio sostegno.

In te, Signore, mi sono rifugiato,
mai sarò deluso.
Per la tua giustizia, liberami e difendimi,
tendi a me il tuo orecchio e salvami.

Sii tu la mia roccia,
una dimora sempre accessibile;
hai deciso di darmi salvezza:
davvero mia rupe e mia fortezza tu sei!
Mio Dio, liberami dalle mani del malvagio.

Sei tu, mio Signore, la mia speranza,
la mia fiducia, Signore, fin dalla mia giovinezza.
Su di te mi appoggiai fin dal grembo materno,
dal seno di mia madre sei tu il mio sostegno.

La mia bocca racconterà la tua giustizia,
ogni giorno la tua salvezza.
Fin dalla giovinezza, o Dio, mi hai istruito
e oggi ancora proclamo le tue meraviglie.

Seconda Lettura   1 Pt 1, 8-12
Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti.

Dalla prima lettera di san Pietro apostolo
Carissimi, voi amate Gesù Cristo, pur senza averlo visto e ora, senza vederlo, credete in lui. Perciò esultate di gioia indicibile e gloriosa, mentre raggiungete la mèta della vostra fede: la salvezza delle anime.
Su questa salvezza indagarono e scrutarono i profeti, che preannunciavano la grazia a voi destinata; essi cercavano di sapere quale momento o quali circostanze indicasse lo Spirito di Cristo che era in loro, quando prediceva le sofferenze destinate a Cristo e le glorie che le avrebbero seguite. A loro fu rivelato che, non per se stessi, ma per voi erano servitori di quelle cose che ora vi sono annunciate per mezzo di coloro che vi hanno portato il Vangelo mediante lo Spirito Santo, mandato dal cielo: cose nelle quali gli angeli desiderano fissare lo sguardo.

Canto al Vangelo   Cf Gv 1,7; Lc 1,17 
Alleluia, alleluia.
Venne per rendere testimonianza alla luce
e preparare al Signore un popolo ben disposto.
Alleluia.

 Vangelo   Lc 1, 5-17
Ti darà un figlio e tu lo chiamerai Giovanni.

Dal vangelo secondo Luca
Al tempo di Erode, re della Giudea, vi era un sacerdote di nome Zaccarìa, della classe di Abìa, che aveva in moglie una discendente di Aronne, di nome Elisabetta. Ambedue erano giusti davanti a Dio e osservavano irreprensibili tutte le leggi e le prescrizioni del Signore. Essi non avevano figli, perché Elisabetta era sterile e tutti e due erano avanti negli anni.
Avvenne che, mentre Zaccarìa svolgeva le sue funzioni sacerdotali davanti al Signore durante il turno della sua classe, gli toccò in sorte, secondo l’usanza del servizio sacerdotale, di entrare nel tempio del Signore per fare l’offerta dell’incenso. Fuori, tutta l’assemblea del popolo stava pregando nell’ora dell’incenso.
Apparve a lui un angelo del Signore, ritto alla destra dell’altare dell’incenso. Quando lo vide, Zaccarìa si turbò e fu preso da timore. Ma l’angelo gli disse: «Non temere, Zaccarìa, la tua preghiera è stata esaudita e tua moglie Elisabetta ti darà un figlio, e tu lo chiamerai Giovanni. Avrai gioia ed esultanza, e molti si rallegreranno della sua nascita, perché egli sarà grande davanti al Signore; non berrà vino né bevande inebrianti, sarà colmato di Spirito Santo fin dal seno di sua madre e ricondurrà molti figli d’Israele al Signore loro Dio. Egli camminerà innanzi a lui con lo spirito e la potenza di Elia, per ricondurre i cuori dei padri verso i figli e i ribelli alla saggezza dei giusti e preparare al Signore un popolo ben disposto».

VANGELO DI OGGI: MARCO 1,14-20

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VANGELO DI OGGI: MARCO 1,14-20

14 Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù si recò nella Galilea predicando il vangelo di Dio e diceva: 15 «Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete al vangelo».
16 Passando lungo il mare della Galilea, vide Simone e Andrea, fratello di Simone, mentre gettavano le reti in mare; erano infatti pescatori. 17 Gesù disse loro: «Seguitemi, vi farò diventare pescatori di uomini». 18 E subito, lasciate le reti, lo seguirono.
19 Andando un poco oltre, vide sulla barca anche Giacomo di Zebedèo e Giovanni suo fratello mentre riassettavano le reti. 20 Li chiamò. Ed essi, lasciato il loro padre Zebedèo sulla barca con i garzoni, lo seguirono.

COMMENTO
Marco 1,14-20

L’inaugurazione del regno di Dio  
Il prologo del vangelo di Marco (1,1-13) termina con la tentazione di Gesù nel deserto. Dopo di esso l’evangelista riporta una sezione in cui descrive il ministero pubblico di Gesù in Galilea (1,14–3,35). Il materiale contenuto in questa sezione può sembrare a prima vista eterogeneo. Tuttavia a un’attenta analisi il quadro presentato dall’evangelista rivela una profonda unità. Il tema generale è indicato nel sommario iniziale (1,14-15), dove si riassume la predicazione di Gesù tutta incentrata sulla venuta imminente del regno di Dio. I brani successivi mostrano invece come questa predicazione sia stata accompagnata da gesti significativi che ne hanno manifestato la dinamica interna. In altre parole l’evangelista vuole mettere in luce l’impatto che l’apparizione di Gesù ha avuto in Galilea: Diversamente da Matteo, il quale riporta subito all’inizio del vangelo un discorso programmatico di Gesù («Discorso della montagna»), Marco attesta la venuta del regno di Dio da lui annunziato mediante il racconto delle sue opere straordinarie. Il testo liturgico riprende il sommario introduttivo (vv. 14-15) e la chiamata dei primi discepoli (vv. 16-20).
La predicazione in Galilea (vv. 14-15)
// Mt 4,12.17
Marco introduce la predicazione di Gesù in Galilea con due versetti che rappresentano il primo dei sommari di cui è ricco il secondo vangelo: «Dopo che Giovanni fu arrestato, Gesù andò nella Galilea, predicando il vangelo di Dio, e diceva: Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino; convertitevi e credete nel vangelo». La notizia secondo cui Gesù ha iniziato il suo ministero pubblico dopo l’arresto di Giovanni contrasta con il fatto che il quarto vangelo ricorda un’attività parallela dei due (cfr. Gv 3,22-24); d’altro canto Marco stesso narrerà solo in seguito l’arresto e la morte di Giovanni (6,17-29). È probabile che egli voglia qui separare nettamente l’opera del Battista da quella di Gesù per motivi più teologici che storici, mettendo così in luce una tendenza che sarà accentuata maggiormente da Luca (cfr. Lc 3,19-20; 16,16). Invece di recarsi in Giudea, zona densamente abitata da giudei, dove avevano sede le principali istituzioni giudaiche, Gesù torna in Galilea, sua terra d’origine. L’evangelista non ignora che in Is 8,23 essa è chiamata «Galilea delle genti» (Galilaia tôn êthnôn), appellativo che all’epoca di Gesù richiamava il carattere misto della sua popolazione (cfr. Mt 4,15).
Il termine «predicare» (keryssô), con cui è indicata l’attività di Gesù in Galilea, indica la proclamazione pubblica fatta da un araldo; con esso i cristiani indicavano l’annunzio della salvezza fatto dagli apostoli (cfr. At 8,5; Rm 10,8; 1Cor 1,23). L’espressione «vangelo (euanghelion) di Dio», appartiene anch’essa al linguaggio della prima comunità cristiana (cfr. Rm 1,1; 15,16; 2Cor 11,7) e indica non la buona novella che ha per oggetto Dio, ma quella che proviene da Dio stesso, in quanto autore della salvezza. Gesù si presenta dunque come colui che, in nome di Dio, annunzia la salvezza imminente (cfr. 2Cor 5,20). L’espressione «predicare il vangelo di Dio», pur rispecchiando il modo di esprimersi dei primi cristiani,  ha però profonde radici bibliche. Il verbo «evangelizzare» (euanghelizô) infatti è usato nella seconda e nella terza parte del libro di Isaia per indicare il lieto annunzio della prossima liberazione rivolto ai giudei esiliati in Mesopotamia e ai primi rimpatriati (cfr. Is 40,9; 52,7; 61,1).
Il lieto annunzio proclamato da Gesù è espresso con una frase molto concisa. Anzitutto egli afferma, con un linguaggio che si ispira all’apocalittica giudaica, che «il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino» (v. 15a): il «tempo» (kairos), cioè il periodo dell’attesa, che separa il momento attuale da quello finale e conclusivo della storia, è arrivato al termine; di conseguenza il «regno di Dio», cioè l’esercizio pieno e definitivo della sua sovranità divina in questo mondo, «è vicino» (enghiken), o meglio si è reso prossimo, sta per realizzarsi in questa terra. In altre parole sta ora iniziando il periodo finale della storia, caratterizzato dal fatto che Dio stesso interviene per far riconoscere e accettare pienamente la sua sovranità non solo su Israele, ma su tutta l’umanità.
Al tempo di Gesù li tema della regalità di JHWH era molto sentito nel giudaismo. Esso gettava le sue radici nell’esperienza primordiale di Israele, il quale attribuiva il titolo di re al Dio che lo aveva liberato dalla schiavitù d’Egitto. In questo contesto la regalità di Dio assumeva una dimensione di potenza, ma soprattutto di misericordia, e suscitava l’impegno per una liberazione interiore basata su norme di giustizia e di uguaglianza. Il periodo trascorso in esilio aveva conferito a questa esperienza un aspetto di universalismo e una forte dimensione escatologica: JHWH è re di tutta l’umanità, ma non ha ancora rivelato pienamente la sua sovranità, cosa che farà quanto prima sconfiggendo in modo definitivo le potenze diaboliche, identificate spesso con l’impero romano, oppressore dei giudei. Gesù afferma dunque che questa attesa apocalittica, in tutta la sua dimensione universalistica, sta per essere adempiuta: egli si riserva però di spiegare con più precisione le modalità con cui ciò avverrà.
All’annunzio del lieto messaggio riguardante l’azione escatologica di Dio fa eco un invito: «convertitevi e credete nel vangelo» (v. 15b). Come già aveva fatto Giovanni Battista, Gesù invita i suoi ascoltatori a «convertirsi» (metanoein, cambiare mente) cioè, in base al linguaggio ebraico sottostante, a «ritornare» a Dio cambiando mentalità e sottomettendosi una volta per tutte alla sua sovranità; ma per fare ciò è necessario «credere (pisteuô) nel vangelo», cioè aprirsi al lieto annunzio ed essere disposti a basare su di esso tutta la propria vita.
I primi discepoli di Gesù (vv. 16-20)
// Mt 4,18-22 // Lc 5,1-11
Il primo gesto compiuto da Gesù dopo il suo ritorno in Galilea è stato, secondo Marco, la chiamata di alcuni discepoli, che ebbe luogo mentre Gesù stava «passando lungo il mare di Galilea», cioè il lago di Genezaret. Luca invece inquadra la loro vocazione in un contesto di miracolo, la pesca miracolosa (cfr. Lc 5,1-11). I primi chiamati sono due fratelli, Simone e Andrea, i quali stanno svolgendo il loro lavoro di pescatori (v. 16). Per la loro professione, che precludeva loro un’osservanza precisa e costante della legge, essi appartenevano a quello che i farisei chiamavano con disprezzo il «popolo della terra». È significativo che uno dei primi due, Andrea, porti un nome greco; ma anche il nome dell’altro, Simone, è una trasposizione greca di Simeone.
Ai due Gesù rivolge l’invito: «Seguitemi; vi farò diventare pescatori di uomini» (v. 17). È dunque lui che prende l’iniziativa, chiamandoli al suo seguito. Il significato simbolico della pesca può essere ricavato da un brano di Geremia (16,16) in cui si tratta in realtà dell’invio di Israele in esilio, ma che, letto alla luce del versetto precedente, poteva alludere alla raccolta degli esuli in vista del ritorno nella terra promessa. Da questo parallelo si ricava che ciascuno dei prescelti, sotto la guida di Gesù, dovrà diventare un centro di aggregazione per altre persone disposte ad accettare il regno di Dio. In altre parole essi dovranno lasciarsi coinvolgere nel progetto di Gesù, per annunziare con lui la venuta del regno di Dio e per chiamare tutto Israele alla conversione e al perdono.
All’invito perentorio di Gesù i primi due chiamati lasciano «subito» (euthys), senza tergiversare, le loro reti, che rappresentano tutto il loro avere, e lo seguono (v. 18); il verbo «seguire» (akoloutheô) rievoca l’esperienza di Israele, che nell’esodo si è lasciato guidare da JHWH e ha preso l’impegno di «camminare nelle sue vie» (cfr. Dt 10,12). Essi rispondono, come aveva fatto Abramo, con una silenziosa obbedienza, abbandonando le proprie sicurezze e affrontando un cambiamento radicale di vita.
Lo stesso invito è rivolto anche a un’altra coppia di fratelli, Giacomo e Giovanni, ugualmente pescatori, i quali seguono Gesù lasciando il loro padre Zebedeo nella barca con i garzoni (vv. 19-20): anche qui appare la radicalità di un gesto che implica l’abbandono non solo di una persona cara, il padre, ma anche di una piccola impresa a gestione familiare, in cui la presenza di garzoni è segno inequivocabile di una certa prosperità.

LINEE INTERPRETATIVE
L’annunzio di Gesù è un «vangelo» in quanto mette in primo piano non ciò che gli uomini devono fare per ottenere il favore di Dio, ma ciò che Dio stesso sta facendo per coinvolgere il suo popolo in un grande progetto di liberazione, che trova nell’antica idea della regalità di Dio il suo carattere distintivo. È significativo il fatto che Gesù annunzia non se stesso e le sue prerogative, ma l’opera di Dio in un mondo dominato da potenze che ne impediscono l’attuazione. Agli ascoltatori egli chiede di convertirsi, cioè di lasciarsi coinvolgere, di non opporre resistenza all’azione di Dio in questo mondo.
La chiamata dei primi discepoli mostra qual era la risposta che Gesù si aspettava quando annunziava la venuta del regno di Dio e invitava alla conversione. L’evangelista sottolinea come la loro chiamata sia dovuta esclusivamente a Gesù, il quale sceglie egli stesso uomini adulti e maturi, impegnati in una precisa attività professionale. Così facendo egli si distacca dai dottori della legge i quali non sceglievano, ma accoglievano giovani studenti che facevano richiesta di essere guidati nello studio della legge. Il fatto che i prescelti siano semplici pescatori mette ulteriormente in luce la gratuità della loro vocazione e al tempo stesso mostra come Gesù, cominciando dagli ultimi, voglia veramente arrivare a tutto il popolo.
I primi chiamati dovranno essere «pescatori di uomini». Ciò significa che essi rappresentano il nucleo centrale intorno al quale e per mezzo del quale dovrà radunarsi l’Israele degli ultimi tempi. Dal punto di vista storico la chiamata dei primi discepoli non può essere avvenuta se non dopo un certo periodo, quando cioè Gesù era già noto in forza della sua predicazione: e di fatti Luca la situa in un momento successivo (Lc 5,1-11). Il fatto che Marco ponga questo episodio subito all’inizio della sua attività rivela un interesse non tanto biografico, quanto piuttosto teologico: il regno di Dio annunziato da Gesù manifesta la sua vera natura ed efficacia anzitutto nell’aggregazione di persone disposte ad assumerlo su di sé e ad accettarne tutte le conseguenze. Il racconto della vocazione dei primi discepoli trasmesso da Giovanni (Gv 1,35-51) si distacca da quello di Marco, in quanto il quarto evangelista, più che i fatti, intende mettere in luce il significato teologico della vocazione.

29 GIUGNO SANTI PIETRO E PAOLO – UFFICIO DELLE LETTURE

29 GIUGNO SANTI PIETRO E PAOLO

UFFICIO DELLE LETTURE

Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di sant’Agostino, vescovo
(Disc. 295, 1-2. 4. 7-8; PL 38, 1348-1352)

Questi martiri hanno visto ciò che hanno predicato
Il martirio dei santi apostoli Pietro e Paolo ha reso sacro per noi questo giorno. Noi non parliamo di martiri poco conosciuti; infatti «per tutta la terra si diffonde la loro voce ai confini del mondo la loro parola» (Sal 18, 5). Questi martiri hanno visto ciò che hanno predicato. Hanno seguito la giustizia. Hanno testimoniato la verità e sono morti per essa.
Il beato Pietro, il primo degli apostoli, dotato di un ardente amore verso Cristo, ha avuto la grazia di sentirsi dire da lui: «E io ti dico: Tu sei Pietro» (Mt 16, 18). E precedentemente Pietro si era rivolto a Gesù dicendo: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente» (Mt 16, 16). E Gesù aveva affermato come risposta: «E io ti dico: Tu sei Pietro e su questa pietra edificherò la mia Chiesa» (Mt 16, 18). Su questa pietra stabilirò la fede che tu professi. Fonderò la mia chiesa sulla tua affermazione: «Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente». Tu infatti sei Pietro. Pietro deriva da pietra e non pietra da Pietro. Pietro deriva da pietra, come cristiano da Cristo.
Il Signore Gesù, come già sapete, scelse prima della passione i suoi discepoli, che chiamò apostoli. Tra costoro solamente Pietro ricevette l’incarico di impersonare quasi in tutti i luoghi l’intera Chiesa. Ed è stato in forza di questa personificazione di tutta la Chiesa che ha meritato di sentirsi dire da Cristo: «A te darò le chiavi del regno dei cieli» (Mt 16, 19). Ma queste chiavi le ha ricevute non un uomo solo, ma l’intera Chiesa. Da questo fatto deriva la grandezza di Pietro, perché egli è la personificazione dell’universalità e dell’unità della Chiesa. «A te darò» quello che è stato affidato a tutti. E` ciò che intende dire Cristo. E perché sappiate che è stata la Chiesa a ricevere le chiavi del regno dei cieli, ponete attenzione a quello che il Signore dice in un’altra circostanza: «Ricevete lo Spirito Santo» e subito aggiunge: «A chi rimetterete i peccati saranno rimessi e a chi non li rimetterete, resteranno non rimessi» (Gv 20, 22-23).
Giustamente anche dopo la risurrezione il Signore affidò allo stesso Pietro l’incombenza di pascere il suo gregge. E questo non perché meritò egli solo, tra i discepoli, un tale compito, ma perché quando Cristo si rivolge ad uno vuole esprimere l’unità. Si rivolge da principio a Pietro, perché Pietro è il primo degli apostoli.
Non rattristarti, o apostolo. Rispondi una prima, una seconda, una terza volta. Vinca tre volte nell’amore la testimonianza, come la presunzione è stata vinta tre volte dal timore. Deve essere sciolto tre volte ciò che hai legato tre volte. Sciogli per mezzo dell’amore ciò che avevi legato per timore.
E così il Signore una prima, una seconda, una terza volta affidò le sue pecorelle a Pietro.
Un solo giorno è consacrato alla festa dei due apostoli. Ma anch’essi erano una cosa sola. Benché siano stati martirizzati in giorni diversi, erano una cosa sola. Pietro precedette, Paolo seguì. Celebriamo perciò questo giorno di festa, consacrato per noi dal sangue degli apostoli.
Amiamone la fede, la vita, le fatiche, le sofferenze, le testimonianze e la predicazione.

Venerdì fra l’Ottava di Pasqua, Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 21,1-14.

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Venerdì fra l’Ottava di Pasqua

Dal Vangelo di Gesù Cristo secondo Giovanni 21,1-14.

Dopo questi fatti, Gesù si manifestò di nuovo ai discepoli sul mare di Tiberìade. E si manifestò così:
si trovavano insieme Simon Pietro, Tommaso detto Dìdimo, Natanaèle di Cana di Galilea, i figli di Zebedèo e altri due discepoli.
Disse loro Simon Pietro: «Io vado a pescare». Gli dissero: «Veniamo anche noi con te». Allora uscirono e salirono sulla barca; ma in quella notte non presero nulla.
Quando gia era l’alba Gesù si presentò sulla riva, ma i discepoli non si erano accorti che era Gesù.
Gesù disse loro: «Figlioli, non avete nulla da mangiare?». Gli risposero: «No».
Allora disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e troverete». La gettarono e non potevano più tirarla su per la gran quantità di pesci.
Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: «E’ il Signore!». Simon Pietro appena udì che era il Signore, si cinse ai fianchi il camiciotto, poiché era spogliato, e si gettò in mare.
Gli altri discepoli invece vennero con la barca, trascinando la rete piena di pesci: infatti non erano lontani da terra se non un centinaio di metri.
Appena scesi a terra, videro un fuoco di brace con del pesce sopra, e del pane.
Disse loro Gesù: «Portate un po’ del pesce che avete preso or ora».
Allora Simon Pietro salì nella barca e trasse a terra la rete piena di centocinquantatrè grossi pesci. E benché fossero tanti, la rete non si spezzò.
Gesù disse loro: «Venite a mangiare». Enessuno dei discepoli osava domandargli: «Chi sei?», poiché sapevano bene che era il Signore.
Allora Gesù si avvicinò, prese il pane e lo diede a loro, e così pure il pesce.
Questa era la terza volta che Gesù si manifestava ai discepoli, dopo essere risuscitato dai morti.

Ottava di Pasqua, Mercoledì, Vangelo di oggi: Lc 24,13-35 – Riconobbero Gesù nello spezzare il pane.

Ottava di Pasqua, Mercoledì, Vangelo di oggi:

Lc 24,13-35 – Riconobbero Gesù nello spezzare il pane.

Ed ecco, in quello stesso giorno, [il primo della settimana], due [dei discepoli] erano in cammino per un villaggio di nome Èmmaus, distante circa undici chilometri da Gerusalemme, e conversavano tra loro di tutto quello che era accaduto.
Mentre conversavano e discutevano insieme, Gesù in persona si avvicinò e camminava con loro. Ma i loro occhi erano impediti a riconoscerlo. Ed egli disse loro: «Che cosa sono questi discorsi che state facendo tra voi lungo il cammino?». Si fermarono, col volto triste; uno di loro, di nome Clèopa, gli rispose: «Solo tu sei forestiero a Gerusalemme! Non sai ciò che vi è accaduto in questi giorni?». Domandò loro: «Che cosa?». Gli risposero: «Ciò che riguarda Gesù, il Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; come i capi dei sacerdoti e le nostre autorità lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e lo hanno crocifisso. Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele; con tutto ciò, sono passati tre giorni da quando queste cose sono accadute. Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; si sono recate al mattino alla tomba e, non avendo trovato il suo corpo, sono venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. Alcuni dei nostri sono andati alla tomba e hanno trovato come avevano detto le donne, ma lui non l’hanno visto».
Disse loro: «Stolti e lenti di cuore a credere in tutto ciò che hanno detto i profeti! Non bisognava che il Cristo patisse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?». E, cominciando da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.
Quando furono vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. Ma essi insistettero: «Resta con noi, perché si fa sera e il giorno è ormai al tramonto». Egli entrò per rimanere con loro. Quando fu a tavola con loro, prese il pane, recitò la benedizione, lo spezzò e lo diede loro. Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma egli sparì dalla loro vista. Ed essi dissero l’un l’altro: «Non ardeva forse in noi il nostro cuore mentre egli conversava con noi lungo la via, quando ci spiegava le Scritture?».
Partirono senza indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, i quali dicevano: «Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone!». Ed essi narravano ciò che era accaduto lungo la via e come l’avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

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