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CONVERSIONE DI SAN PAOLO, 25 GENNAIO – UFFICIO DELLE LETTURE

25 GENNAIO : CONVERSIONE DI SAN PAOLO

(lo so sono in ritardo, ma l’Ufficio si può fare in qualsiasi ora)

UFFICIO DELLE LETTURE

INNO

 O apostoli di Cristo,
colonna e fondamento
della città di Dio!

Dall’umile villaggio
di Galilea salite
alla gloria immortale.

Vi accoglie nella santa
Gerusalemme nuova
la luce dell’Agnello.

La Chiesa che adunaste
col sangue e la parola
vi saluta festante;

ed implora: fruttifichi
il germe da voi sparso
per i granai del cielo.

Sia gloria e lode a Cristo,
al Padre e allo Spirito,
nei secoli dei secoli. Amen

1 ant.  Io sono Gesù che tu perseguiti;
duro è per te resistere al pungolo.

SALMO 18 A

I cieli narrano la gloria di Dio, *
    e l’opera delle sue mani annunzia il firmamento.
Il giorno al giorno ne affida il messaggio *
    e la notte alla notte ne trasmette notizia.

Non è linguaggio e non sono parole, *
    di cui non si oda il suono.
Per tutta la terra si diffonde la loro voce *
    e ai confini del mondo la loro parola.

Là pose una tenda per il sole †
    che esce come sposo dalla stanza nuziale, *
    esulta come prode che percorre la via.

Egli sorge da un estremo del cielo †
    e la sua corsa raggiunge l’altro estremo: *
    nulla si sottrae al suo calore.

1 ant.  Io sono Gesù che tu perseguiti;
duro è per te resistere al pungolo.

2 ant.  Anania, va’ e cerca Saulo:
io l’ho scelto perché annunzi il mio nome
a tutti i popoli.

SALMO 63

Ascolta, Dio, la voce, del mio lamento, *
    dal terrore del nemico preserva la mia vita.
Proteggimi dalla congiura degli empi *
    dal tumulto dei malvagi.

Affilano la loro lingua come spada, †
    scagliano come frecce parole amare *
    per colpire di nascosto l’innocente;

lo colpiscono di sorpresa *
    e non hanno timore.

Si ostinano nel fare il male, †
    si accordano per nascondere tranelli; *
    dicono: «Chi li potrà vedere?».

Meditano iniquità, attuano le loro trame: *
    un baratro è l’uomo e il suo cuore un abisso.

Ma Dio li colpisce con le sue frecce: *
    all’improvviso essi sono feriti,
la loro stessa lingua li farà cadere; *
    chiunque, al vederli, scuoterà il capo.

Allora tutti saranno presi da timore, †
    annunzieranno le opere di Dio *
    e capiranno ciò che egli ha fatto.

Il giusto gioirà nel Signore †
    e riporrà in lui la sua speranza, *
    i retti di cuore ne trarranno gloria.

2 ant.  Anania, va’ e cerca Saulo:
io l’ho scelto perché annunzi il mio nome
a tutti i popoli.

3 ant.  Nelle sinagoghe Paolo annunciava Gesù,
affermando che era il Cristo.

SALMO 96

Il Signore regna, esulti la terra, *
    † gioiscano le isole tutte.
Nubi e tenebre lo avvolgono, *
    giustizia e diritto sono la base del suo trono.

Davanti a lui cammina il fuoco *
    e brucia tutt’intorno i suoi nemici.
Le sue folgori rischiarano il mondo: *
    vede e sussulta la terra.

I monti fondono come cera davanti al Signore, *
    davanti al Signore di tutta la terra.
I cieli annunziano la sua giustizia *
    e tutti i popoli contemplano la sua gloria.

Siano confusi tutti gli adoratori di statue †
    e chi si gloria dei propri idoli. *
    Si prostrino a lui tutti gli dei!

Ascolta Sion e ne gioisce, †
    esultano le città di Giuda *
    per i tuoi giudizi, Signore.

Perché tu sei, Signore, l’Altissimo su tutta la terra, *
    tu sei eccelso sopra tutti gli dei.

Odiate il male, voi che amate il Signore: †
    lui che custodisce la vita dei suoi fedeli *
    li strapperà dalle mani degli empi.

Una luce si è levata per il giusto, *
    gioia per i retti di cuore.
Rallegratevi, giusti, nel Signore, *
    rendete grazie al suo santo nome.

3 ant.  Nelle sinagoghe Paolo annunciava Gesù,
affermando che era il Cristo.

V. Buono e pietoso è il Signore,
V. lento all’ira e grande nell’amore.

PRIMA LETTURA         

Dalla lettera ai Galati di san Paolo, apostolo 1,11-24
Rivelò a me il suo Figlio perché lo annunziassi

    Vi dichiaro dunque, fratelli, che il vangelo da me annunziato non è modellato sull’uomo; infatti io non l’ho ricevuto né l’ho imparato da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo. Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo, come io perseguitassi fieramente la Chiesa di Dio e la devastassi, superando nel giudaismo la maggior parte dei miei coetanei e connazionali, accanito com’ero nel sostenere le tradizioni dei padri. Ma quando colui che mi scelse fin dal seno di mia madre e mi chiamò con la sua grazia si compiacque di rivelare a me suo Figlio perché lo annunziassi in mezzo ai pagani, subito, senza consultare nessun uomo, senza andare a Gerusalemme da coloro che erano apostoli prima di me, mi recai in Arabia e poi ritornai a Damasco.
    In seguito, dopo tre anni andai a Gerusalemme per consultare Cefa, e rimasi presso di lui quindici giorni; degli apostoli non vidi nessun altro, se non Giacomo il fratello del Signore. In ciò che vi scrivo io attesto davanti a Dio che non mentisco. Quindi andai nelle regioni della Siria e della Cilicia- Ma ero sconosciuto personalmente alle chiese della Giudea che sono in Cristo; soltanto avevano sentito dire: «Colui che una volta ci perseguitava, va ora annunziando la fede che un tempo voleva distruggere». E glorificavano Dio a causa mia.

RESPONSORIO         Cfr. Gal 1,11-12; 2 Cor 11,10.7

R. Il vangelo che annunzio non è modellato sull’uomo: * non l’ho ricevuto da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.
V. La verità di Cristo è in me, poiché vi ho annunziato il vangelo di Dio:
R. non l’ho ricevuto da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo.

SECONDA LETTURA         

Dalle «Omelie» di san Giovanni Crisostomo, vescovo
(Om. 2, Panegirico di san Paolo, apostolo; PG 50,477-480)
Paolo sopportò ogni cosa per amore di Cristo

    Che cosa sia l’uomo e quanta la nobiltà della nostra natura, di quanta forza sia capace questo essere pensante lo mostra in un modo del tutto particolare Paolo. Ogni giorno saliva più in alto, ogni giorno sorgeva più ardente e combatteva con sempre maggior coraggio contro le difficoltà che incontrava. Alludendo a questo diceva: Dimentico il passato e sono proteso verso il futuro (cfr. Fil 3,13). Vedendo che la morte era ormai imminente, invitava tutti alla comunione di quella sua gioia dicendo: «Gioite e rallegratevi con me» (Fil 2,18). Esulta ugualmente anche di fronte ai pericoli incombenti, alle offese e a qualsiasi ingiuria e, scrivendo ai Corinzi, dice: Sono contento delle mie infermità, degli affronti e delle persecuzioni (cfr. 2 Cor 12,10). Aggiunge che queste sono le armi della giustizia e mostra come proprio di qui gli venga il maggior frutto, e sia vittorioso dei nemici. Battuto ovunque con verghe, colpito da ingiurie e insulti, si comporta come se celebrasse trionfi gloriosi o elevasse in alto trofei. Si vanta e ringrazia Dio, dicendo: Siano rese grazie a Dio che trionfa sempre in noi (cfr. 2 Cor 2,14). Per questo, animato dal suo zelo di apostolo, gradiva di più l’altrui freddezza e le ingiurie che l’onore, di cui invece noi siamo così avidi. Preferiva la morte alla vita, la povertà alla ricchezza e desiderava assai di più la fatica che non il riposo. Una cosa detestava e rigettava: l’offesa a Dio, al quale per parte sua voleva piacere in ogni cosa.
    Godere dell’amore di Cristo era il culmine delle sue aspirazioni e, godendo di questo suo tesoro, si sentiva più felice di tutti. Senza di esso al contrario nulla per lui significava l’amicizia dei potenti e dei principi. Preferiva essere l’ultimo di tutti, anzi un condannato però con l’amore di Cristo, piuttosto che trovarsi fra i più grandi e i più potenti del mondo, ma privo di quel tesoro.
    Il più grande ed unico tormento per lui sarebbe stato perdere questo amore. Ciò sarebbe stato per lui la geenna, l’unica sola pena, il più grande e il più insopportabile dei supplizi.
    Il godere dell’amore di Cristo era per lui tutto: vita, mondo, condizione angelica, presente, futuro, e ogni altro bene. All’infuori di questo, niente reputava bello, niente gioioso. Ecco perché guardava alle cose sensibili come ad erba avvizzita. Gli stessi tiranni e le rivoluzioni di popoli perdevano ogni mordente. Pensava infine che la morte, la sofferenza e mille supplizi diventassero come giochi da bambini quando si trattava di sopportarli per Cristo.

RESPONSORIO         Cfr. 1 Tm 1,13-14; 1 Cor 15,9

R. Dio mi ha usato misericordia, perché agivo senza saperlo. * La grazia ha sovrabbondato, insieme alla fede e alla carità, che è in Cristo Gesù.
V. Non merito di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio.
R. La grazia ha sovrabbondato, insieme alla fede e alla carità, che è in Cristo Gesù.

Celebrazione vigiliare

TE DEUM

Noi ti lodiamo, Dio, *
ti proclamiamo Signore.
O eterno Padre, *
tutta la terra ti adora.

A te cantano gli angeli *
e tutte le potenze dei cieli:
Santo, Santo, Santo *
il Signore Dio dell’universo.

I cieli e la terra *
sono pieni della tua gloria.
Ti acclama il coro degli apostoli *
e la candida schiera dei martiri;

le voci dei profeti si uniscono nella tua lode; *
la santa Chiesa proclama la tua gloria,
adora il tuo unico Figlio, *
lo Spirito Santo Paraclito.

O Cristo, re della gloria, *
eterno Figlio del Padre,
tu nascesti dalla Vergine Madre *
per la salvezza dell’uomo.

Vincitore della morte, *
hai aperto ai credenti il regno dei cieli.
Tu siedi alla destra di Dio, nella gloria del Padre. *
Verrai a giudicare il mondo alla fine dei tempi.

Soccorri i tuoi figli, Signore, *
che hai redento col tuo sangue prezioso.
Accoglici nella tua gloria *
nell’assemblea dei santi.

Salva il tuo popolo, Signore, *
guida e proteggi i tuoi figli.
Ogni giorno ti benediciamo, *
lodiamo il tuo nome per sempre.

Degnati oggi, Signore, *
di custodirci senza peccato.
Sia sempre con noi la tua misericordia: *
in te abbiamo sperato.

Pietà di noi, Signore, *
pietà di noi.
Tu sei la nostra speranza, *
non saremo confusi in eterno.

ORAZIONE

    O Dio, che hai illuminato tutte le genti con la parola dell’apostolo Paolo, concedi anche a noi, che oggi ricordiamo la sua conversione, di camminare sempre verso di te e di essere testimoni della tua verità. Per il nostro Signore.

Benediciamo il Signore.
R. Rendiamo grazie a Dio.

AGIRE SIMBOLICO: IN SILENZIO

 http://www.artcurel.it/ARTCUREL/RELIGIONE/TEOLOGIA%20SIMBOLICA/agiresimbolicosilenzio.htm

AGIRE SIMBOLICO: IN SILENZIO

di Sante Babolin

Nella celebrazione eucaristica, sovente si richiede una pausa di silenzio: dopo il saluto, prima dell’atto penitenziale e di proclamare le orazioni, dopo l’omelia e la comunione. Poi, caso singolare, il silenzio apre la liturgia del Venerdì santo: « il sacerdote e i sacri ministri si recano all’altare e, fatta la riverenza, si prostrano a terra o s’inginocchiano: tutti in silenzio pregano per breve tempo ». Nelle regole monastiche il silenzio è considerato « grande cerimonia » e quindi più espressivo della parola. Nella preghiera, il tema del silenzio raccoglie altri temi importanti: esame di coscienza, meditazione, adorazione. Ci viene spontaneo allora domandarci: quando il silenzio è « grande cerimonia » dentro l’Eucaristia? quando funziona come pausa nell’esecuzione d’una « musica corale » come potrebbe essere considerata un’azione liturgica? quando esprime adorazione?   
SIMBOLICA DEL SILENZIO                                                                  
Considerato come azione simbolica, il silenzio assume un significato positivo o negativo, nel senso che la bocca resta chiusa, o perché si prepara ad aprirsi o perché non vuole aprirsi: il silenzio è preludio alla parola e alla rivelazione, il mutismo è chiusura alla comunicazione e alla rivelazione per rifiuto di riceverla o di trasmetterla o per punizione di averla offuscata nella confusione dei gesti e delle passioni; il silenzio è preparazione al dono, il mutismo è rifiuto del dono (toglie la parola per togliere l’amore). Il silenzio racchiude grandi avvenimenti, il mutismo li occulta; l’uno dà alle cose grandezza e maestà, l’altro le deprezza e le degrada; l’uno segna un progresso, l’altro un regresso. Nel rito eucaristico il silenzio richiesto deve compiersi con significato positivo e non come mutismo: secondo la sacra Scrittura, vi fu silenzio prima della creazione e vi sarà silenzio alla fine dei tempi; nel momento presente siamo invitati a « fare silenzio » di fronte alla maestà di Dio, coltivando l’adorazione nel cuore: « Il Signore risiede nel suo tempio santo; taccia davanti a lui tutta la terra » (Ab 2, 20). Dio si rivela all’anima che fa regnare il silenzio dentro di sé, ma rende muto e insensibile chi si perde in chiacchiere (rumore e confusione), proprio come l’Agnello dell’Apocalisse che, prima di aprire il settimo e ultimo sigillo, attende che si faccia silenzio (Ap 8, 1). Inoltre, sempre seguendo alcuni testi della sacra Scrittura, scopriamo che il silenzio vie ne spesso espresso con il termine greco esichía, pure usato per esprimere tranquillità, calma, mitezza e pace. Paolo raccomanda a Timoteo « di far pregare per i re e per tutti quelli che stanno al potere, perché possiamo trascorrere una vita calma e tranquilla con tutta pietà e dignità » (1Tm 2, 2); e Pietro, sullo stesso tono, invita i cristiani « a cercare ciò che è prezioso davanti a Dio e cioè ad ornare l’interno del cuore con un’anima incorruttibile piena di mitezza e di pace » (1Pt 3, 4). Dobbiamo allora riconoscere che il significato del gesto di « tenere la bocca chiusa », per un processo di naturale isomorfismo, si dilata fino a congiungere altri significati simili: quiete, calma, pace, pazienza e mitezza: atteggiamenti che convergono nello stato d’animo più profondo del dominio di sé: si fa silenzio per diventare « signori di se stessi ». D’altra parte, per « possederci » ed entrare nel silenzio abbiamo pure bisogno di sentirci bene nella nostra pelle, di ascoltarci nel profondo senza giudicarci e mantenendo un costante atteggiamento di umiltà di fronte alla maestà di Dio e di abbandono al suo amore di Padre: « io non giudico me stesso, confessa Paolo ai cristiani di Corinto, perché anche se non sono consapevole di colpa alcuna non per questo sono giustificato; mio giudice è il Signore » (1Cor 4, 3-4). Il silenzio, richiesto nei momenti richiamati sopra, sembra sia un nongesto, mentre realizza una vera e propria esichìa eucaristica; su questo tracciato si potrebbe sviluppare una felice riflessione sulla dimensione eucaristica dell’esicasmo. Soltanto qualche pennellata.
Virginio Ciminaghi: litografia per l’Evangeliario delle Chiese d’Italia: le dieci vergini. « A mezzanotte si levò un grido: Ecco lo sposo, andategli incontro! » (cf Mt 25,1-13). L’artista raffigura il grido che « taglia » il silenzio nel mezzo della notte, come una lama affilata, verticale
ESICASMO DI LUCE E D’AMORE
Dopo la consacrazione, la rubrica liturgica suggerisce che, quando il sacerdote presenta al popolo i santi Doni, tutti fissino lo sguardo sull’Ostia consacrata e sul Calice e adorino il Corpo e il Sangue di Cristo. Qui il silenzio, che chiude la bocca, apre gli occhi per farci contemplare (theoréin) i segni sacramentali dell’amore sconvolgente di Dio, del suo manikòs eros (espressione tanto cara a S. Massimo il Confessore), come ai piedi della Croce sul calvario, quando « tutte le folle che erano accorse a quello spettacolo (theoria), ripensando (theorésantes) a quanto era accaduto, se ne tornavano percotendosi il petto » (Lc 23, 48). Il silenzio eucaristico è quindi accoglienza pura, è farsi terra « informe e deserta »: è quindi la « grande celebrazione » del Venerdì santo (passione e morte del Signore) che fissa il significato spirituale del silenzio eucaristico e ci indica come possiamo diventare « silenzio – esichìa », piena e incondizionata disponibilità alla volontà salvifica del Padre: « Se qualcuno vuol venire dietro a me, rinneghi se stesso, prenda la sua croce ogni giorno e mi segua. Chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per me, la salverà » (Lc 9, 23-24). Il silenzio richiesto dopo la comunione assume altro significato complementare: è l’amore sponsale per Gesù, è cedere alla sua divina seduzione per essere con lui una cosa sola. È l’ardente desiderio che Gesù espresse nella preghiera al Padre, a voce alta perché i suoi discepoli sapessero quanto era grande e sincero questo desiderio di essere uno con loro: « Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me, perché tutti siano una sola cosa. Come tu, Padre, sei in me eio in te, siano anch’essi in noi una cosa sola: io in loro e tu in me, perché siano perfetti nell’unità » (Gv 17, 20-21. 23). Qui entra in azione tutta la spiritualità del Cantico dei Cantici: « Somiglia il mio diletto a un capriolo o ad un cerbiatto. Eccolo, egli sta dietro il nostro muro, guarda dalla finestra, spia attraverso le inferriate » (Ct 2, 9). Anche il cristiano, che ama profondamente il suo Signore e trova in lui tutta la gioia della vita, spia continuamente l’amico dell’anima per scoprire quello che gli piace. È da questa operazione d’amore che prende forma ogni tentativo d’imitare Cristo: è l »amore che stimola ogni cammino di santità. Gli spazi di silenzio, vissuti con consapevole profondità nell’Eucaristica, possono favorire anche una « cultura del silenzio », una specie di esicasmo moderno, che sarebbe salutare innanzitutto nella vita personale e nelle relazioni sociali, in cui troppo spesso dominano l’agitazione e la superficialità: coltivare il silenzio significa esercitarci nell’attenzione per l’altro, esaminarci per capirci di più e non chiuderci nel nostro narcisismo, riflettere sulle nostre scelte e prevederne le conseguenze, così da fuggire da una irresponsabile spontaneità che talvolta può costarci cara. invece nella vita di fede coltivare il silenzio significa « vivere tutto alla presenza di Dio », puntando a diventare quei veri adoratori in spirito e verità che il Padre sta cercando. Alla Samaritana che chiedeva a Gesù dove si deve adorare Dio, Gesù rispose: « Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre, poiché i veri adoratori lo adoreranno in spirito e verità; e il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità » (Gv 4, 21.23-24). Concludendo, anche le pause di silenzio nel rito eucaristico sono gesti importanti, che vanno eseguiti veramente (almeno per alcuni secondi e, talvolta, per qualche minuto), con convinzione ed interiorità; posti così, cominciano a dire la loro parola che può illuminare la mente e riscaldare il cuore, favorendo un rapporto più intimo con Dio e più vero con i fratelli.

Publié dans:liturgia, Teologia |on 8 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

6 GENNAIO: EPIFANIA DEL SIGNORE (s) – UFFICIO DELLE LETTURE

http://www.maranatha.it/Ore/nat/0106letPage.htm

6 GENNAIO: EPIFANIA DEL SIGNORE (s)

UFFICIO DELLE LETTURE

Prima Lettura
Dal libro del profeta Isaia 60, 1-22

Il Signore manifesta la sua gloria sopra Gerusalemme
Alzati, rivestiti di luce, perché viene la tua luce,
la gloria del Signore brilla sopra di te.
Poiché, ecco, le tenebre ricoprono la terra,
nebbia fitta avvolge le nazioni;
ma su di te risplende il Signore,
la sua gloria appare su di te.
Cammineranno i popoli alla tua luce,
i re allo splendore del tuo sorgere.
Alza gli occhi intorno e guarda:
tutti costoro si sono radunati, vengono a te.
I tuoi figli vengono da lontano,
le tue figlie sono portate in braccio.
A quella vista sarai raggiante,
palpiterà e si dilaterà il tuo cuore,
perché le ricchezze del mare si riverseranno su di te,
verranno a te i beni dei popoli.
Uno stuolo di cammelli ti invaderà,
dromedari di Madian e di Efa,
tutti verranno da Saba,
portando oro e incenso
e proclamando le glorie del Signore.
Tutti i greggi di Kedar si raduneranno da te,
i montoni dei Nabatei saranno a tuo servizio,
saliranno come offerta gradita sul mio altare;
renderò splendido il tempio della mia gloria.
Chi sono quelle che volano come nubi
e come colombe verso le loro colombaie?
Sono navi che si radunano per me,
le navi di Tarsis in prima fila,
per portare i tuoi figli da lontano,
con argento e oro,
per il nome del Signore tuo Dio,
per il Santo di Israele che ti onora.
Stranieri ricostruiranno le tue mura,
i loro re saranno al tuo servizio,
perché nella mia ira ti ho colpito,
ma nella mia benevolenza ho avuto pietà di te.
Le tue porte saranno sempre aperte,
non si chiuderanno né di giorno né di notte,
per lasciar introdurre da te le ricchezze dei popoli
e i loro re che faranno da guida.
Perché il popolo e il regno
che non vorranno servirti periranno
e le nazioni saranno tutte sterminate.
La gloria del Libano verrà a te,
cipressi, olmi e abeti insieme,
per abbellire il luogo del mio santuario,
per glorificare il luogo dove poggio i miei piedi.
Verranno a te in atteggiamento umile
i figli dei tuoi oppressori;
ti si getteranno proni alle piante dei piedi
quanti ti disprezzavano.
Ti chiameranno Città del Signore,
Sion del Santo di Israele.
Dopo essere stata derelitta,
odiata, senza che alcuno passasse da te,
io farò di te l’orgoglio dei secoli,
la gioia di tutte le generazioni.
Tu succhierai il latte dei popoli,
succhierai le ricchezze dei re.
Saprai che io sono il Signore tuo salvatore
e tuo redentore, io il Forte di Giacobbe.
Farò venire oro anziché bronzo,
farò venire argento anziché ferro,
bronzo anziché legno,
ferro anziché pietre.
Costituirò tuo sovrano la pace,
tuo governatore la giustizia.
Non si sentirà più parlare di prepotenza nel tuo paese,
di devastazione e di distruzione entro i tuoi confini.
Tu chiamerai salvezza le tue mura
e gloria le tue porte.
Il sole non sarà più
la tua luce di giorno,
né ti illuminerà più
il chiarore della luna.
Ma il Signore sarà per te luce eterna,
il tuo Dio sarà il tuo splendore.
Il tuo sole non tramonterà più
né la tua luna si dileguerà,
perché il Signore sarà per te luce eterna;
saranno finiti i giorni del tuo lutto.
Il tuo popolo sarà tutto di giusti,
per sempre avranno in possesso la terra,
germogli delle piantagioni del Signore,
lavoro delle sue mani per mostrare la sua gloria.
Il piccolo diventerà un migliaio,
il minimo un immenso popolo;
io sono il Signore:
a suo tempo, farò ciò speditamente.

Responsorio   Is 60, 1. 3
R. Alzati, vestiti di luce, Gerusalemme, perché viene colui che t’illumina: * sopra di te brilla la gloria del Signore.
V. Alla tua luce cammineranno i popoli, i re allo splendore che ti irradia:
R. sopra di te brilla la gloria del Signore.

Seconda Lettura
Dai «Discorsi» di san Leone Magno, papa
(Disc. 3 per l’Epifania, 1-3. 5; Pl 54, 240-244)

Il Signore ha manifestato in tutto il mondo la sua salvezza
La Provvidenza misericordiosa, avendo deciso di soccorrere negli ultimi tempi il mondo che andava in rovina, stabilì che la salvezza di tutti i popoli si compisse nel Cristo.
Un tempo era stata promessa ad Abramo una innumerevole discendenza che sarebbe stata generata non secondo la carne, ma nella fecondità della fede: essa era stata paragonata alla moltitudine delle stelle perché il padre di tutte le genti si attendesse non una stirpe terrena, ma celeste.
Entri, entri dunque nella famiglia dei patriarchi la grande massa delle genti, e i figli della promessa ricevano la benedizione come stirpe di Abramo, mentre a questa rinunziano i figli del suo sangue. Tutti i popoli, rappresentati dai tre magi, adorino il Creatore dell’universo, e Dio sia conosciuto non nella Giudea soltanto, ma in tutta la terra, perché ovunque «in Israele sia grande il suo nome» (cfr. Sal 75, 2).
Figli carissimi, ammaestrati da questi misteri della grazia divina, celebriamo nella gioia dello spirito il giorno della nostra nascita e l’inizio della chiamata alla fede di tutte le genti. Ringraziamo Dio misericordioso che, come afferma l’Apostolo, «ci ha messo in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. E’ lui che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto» (Col 1, 12-13). L’aveva annunziato Isaia: «Il popolo dei Gentili, che sedeva nelle tenebre, vide una grande luce e su quanti abitavano nella terra tenebrosa una luce rifulse» (cfr. Is 9, 1). Di essi ancora Isaia dice al Signore: «Popoli che non ti conoscono ti invocheranno, e popoli che ti ignorano accorreranno a te» (cfr. Is 55, 5).
«Abramo vide questo giorno e gioì» (cfr. Gv 8, 56). Gioì quando conobbe che i figli della sua fede sarebbero stati benedetti nella sua discendenza, cioè nel Cristo, e quando intravide che per la sua fede sarebbe diventato padre di tutti i popoli. Diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto il Signore aveva promesso lo avrebbe attuato (Rm 4, 20-21). Questo giorno cantava nei salmi David dicendo: «Tutti i popoli che hai creato verranno e si prostreranno davanti a te, o Signore, per dare gloria al tuo nome» (Sal 85, 9); e ancora: «Il Signore ha manifestato la sua salvezza, agli occhi dei popoli ha rivelato la sua giustizia» (Sal 97, 2).
Tutto questo, lo sappiamo, si è realizzato quando i tre magi, chiamati dai loro lontani paesi, furono condotti da una stella a conoscere e adorare il Re del cielo e della terra. Questa stella ci esorta particolarmente a imitare il servizio che essa prestò, nel senso che dobbiamo seguire, con tutte le nostre forze, la grazia che invita tutti al Cristo. In questo impegno, miei cari, dovete tutti aiutarvi l’un l’altro. Risplendete così come figli della luce nel regno di Dio, dove conducono la retta fede e le buone opere. Per il nostro Signore Gesù Cristo che con Dio Padre e con lo Spirito Santo vive e regna per tutti i secoli dei secoli. Amen.

Publié dans:feste del Signore, liturgia |on 5 janvier, 2013 |Pas de commentaires »

Te Deum Laudamus – Storia

http://www.tommasoapostolo.eu/index.php?option=com_content&view=article&id=377:te-deum-laudamus-2012&catid=3:attualita&Itemid=50

Te Deum Laudamus – Storia

L’inno Te Deum laudamus, con cui tradizionalmente ringraziamo il Signore Dio dei benefici da Lui ricevuti, pure se detto « inno ambrosiano », è una composizione poetica adesso attribuita con certezza a Niceta di Remesiana, intorno all’anno 400.
Originariamente si rivolgeva a Cristo Dio e Signore: « Te (o Cristo) noi lodiamo Dio! Te (o Cristo) noi professiamo Signore! ». Successivamente, con l’attenuarsi delle eresie sulla Persona Divina e sulla Divina Signoria di Gesù, poco alla volta la pietà cristiana lo ha indirizzato al Padre e al Figlio e allo Spirito; infatti, con questa qualificazione trinitaria noi lo abbiamo recepito e a nostra volta lo trasmettiamo.
Per la composizione musicale in occasione della chiusura del Grande Giubileo 2000 nella solennità dell’Epifania 2001 abbiamo ritmato l’inno in forma diversa da quella tradizionale allo scopo di valorizzare più e meglio nel canto della Cappella Musicale Pontificia « Sistina », sufficientemente sviluppato e adeguatamente ornato, l’intervento attivo della sterminata Assemblea partecipante; ma, insieme, allo scopo di scandire chiaramente nella lode al nostro Dio la proclamazione del suo essere Luce e Amore di Padre e Figlio e Spirito, e del suo divenire salvezza misericordiosa nella nostra storia.
Un « ritornello » assembleare è stato fatto, dunque, così da intendersi: ?« Te (o Padre e Figlio e Spirito) noi lodiamo (nostro) Dio! Te (o Padre e Figlio e Spirito) noi professiamo (nostro) Signore! ».
Intonazione dell’inno e insistenza iniziale, prima, esso irrompe sette volte ripetendo poi la medesima proclamazione trinitaria.
I versetti dell’inno originario (esclusi, quindi, gli otto versetti salmici dell’aggiunta finale), complessivamente venti oltre l’intonazione, sono cantati dal coro raccolti con raffinata eleganza in sette complesse unità ciascuna di senso testuale-musicale compiuto. Essi offrono all’Assemblea una ampiezza senza assillo e una suggestione senza pari per contemplare la Vita divina ed eterna, per pregare Lui che si ama e ci ama, per evocare la Sua Salvezza e invocare la Sua Misericordia.
I sette affreschi sonori si concatenano come raccordati in tre navate architettoniche.
La prima, si costruisce e si colora per il Padre:
1. « Te, o eterno Padre venera tutta la terra! ?- 2. A te gli Angeli tutti, a te, i Cieli e tutte le Potenze – 3. a te i Cherubini e i Serafini, inneggiano con voce incessante:?- Te noi lodiamo… – ?4. Santo Santo Santo il Signore Dio Pantocratore! – ?5. I cieli e la terra (o Signore) sono pieni della tua gloria! »?- Te noi lodiamo…
La seconda architettura enumera la Chiesa diffusa nel Mondo e riunita dai quattro venti nella confessione di Dio Padre e Figlio e Spirito:
6. « Te il glorioso coro degli Apostoli – ?7. te il non piccolo numero dei Profeti? – 8. te il candido esercito dei Martiri – 9. te la santa Chiesa diffusa su tutta la terra, confessa:?- Te noi lodiamo…? – 10. Padre della gloria immensa – ?11. il Figlio tuo unigenito vero e adorando – ?12. il Santo (tuo) Spirito Consolatore! »?- Te noi lodiamo…
La terza, si costruisce e si colora per il Figlio fatto uomo e salvatore, Lui che è venuto e che ritornerà:
13. « Tu, o Cristo, Re della gloria – 14. Tu Figlio eterno del Padre – 15. Tu per il progetto di liberazione dell’uomo ti sei abbassato (a incarnarti) nel grembo della Vergine! – ?16. Tu vincitore del pungiglione della morte hai (ri)aperto ai (tuoi) fedeli il regno dei cieli!? – 17. Tu siedi alla destra di Dio, nella gloria del Padre – ?18. e (da li) noi crediamo che, giudice, verrai!? – 19. Tu dunque (o Cristo) soccorri i tuoi servi che hai redenti con il sangue tuo prezioso? – 20. e fa che (tutti) si riuniscano nel numero dei tuoi Santi »!?- Te noi lodiamo…
Chi il 6 gennaio 2001 in Piazza San Pietro cantò « Te noi lodiamo Dio! Te noi professiamo Signore! » e chi fu tra i due miliardi di creature umane che in mondovisione ne vide e ne sentì « vibrare gli stipiti delle porte » (Isaia 6,4) alla « voce dell’immensa folla, simile al fragore di grandi acque e a rombo di tuoni possenti, che gridavano » (Apocalisse 19,6) gioirà di certo facendo riecheggiare il medesimo canto nelle Chiese di tutta la terra.  

 La formazione del canto cristiano
Il cristianesimo nacque dalla predicazione e dagli insegnamenti di Gesù Cristo, il quale completò e rinnovò la dottrina del popolo ebraico sull’esistenza di un solo Dio. I giudei furono ostili ai primi seguaci di Cristo, ma non si può ignorare il fatto che furono ebrei i primi convertiti alla nuova fede. Giustamente quindi si afferma che l’ebraismo giudaico fu la matrice del cristianesimo e quindi della sua dottrina, ma anche della sua liturgia, delle sue preghiere, dei suoi canti. ?La conquista e la distruzione di gerusalemme effettuata nel 70 d.C. dalle truppe romane dell’imperatore Tito cagionarono la cosidetta diaspora (cioè la dispersione, l’esilio) di gran parte degli abitanti di Isdraele, ebrei e cristiani. Essi si sparsero in tutto il bacino mediterraneo, favorendo la costituzione delle prime comunità cristiane fra el popolazioni dell’impero romano di lingua greca (soprattutto a Efeso, ad Antiochia, ad Alessandria d’Egitto e a Costantinopoli, poi capitale dell’Impero d’oriente) e di lingua latina (particolarmente nella capitale Roma, dove si insediarono l’apostolo Pietro, il primo Papa, e S. Paolo, ma anche nell’Africa settentrionale e nella Spagna). Si svilupparono così varie Chiese, prime quelle d’oriente. Fra esse venne assumendo maggiore importanza la Chiesa di Costantinopoli, poi ribattezzata Bisanzio, centro di sviluppo del canto liturgico bizantino. Da esso derivano in seguito la musica del rito greco-ortodosso e quella del rito russo.
Le persecuzioni dei cristiani volute dagli imperatori romani fino a Diocleziano ritardarono l’espansione del cristianesimo in Occidente. Solo dopo che l’imperatore Costantino, con l’editto di milano (313) ebbe riconosciuto ufficialmente il cristianesimo, e dopo che l’imperatore Teodosio ebbe vietato i culti pagani (391), il cristianesimo potè espandersi a Roma, e il latino fu riconosciuto quale lingua della liturgia in Occidente.? E’ dimostrato che le manifestazioni del culto cristiano nei primi tempi derivano da quelle della tradizione giudaica, e che nessuan influenza esercitò su di esse la musica greco-romana. I trapassi dall’ebraismo al cristianesimo riguardarono sia libri sacri dell’Antico Testamento, dai quali vennero tratti i testi delle letture e delle preghiere, sia i modi e le forme primitive del canto, ricalcati su quelli impiegati nelle cerimonie di culto giudaico: la cantillazione, il jubilus, l’esecuzione dei salmi. ?Nella sua irradiazione tra le popolazioni mediterranee, il nuovo culto venne a contatto con le usanze religiose e musicali delle varie regioni, e parzialmente ne fù influenzato e le assorbì. Si spiega in questo modo la formazione di differenti repertori locali che caratterizzarono i primi secoli del canto cristiano e che vennero poi unificati attraverso una lunga azione omogeneizzante, la cui paternità fu attribuita al Papa Gregorio I Magno.
I primi e principali repertori locali del canto cristiano occidentale furono il romano antico, l’ambrosiano, l’aquileiese e il beneventano in Italia; il mozarambico nella Spagna il gallico nella Gallia.? L’unico tra questi repertori che sia stato in parte conservato fino ad oggi è il canto milanese, più noto come canto ambrosiano dal nome di S. Ambrogio (339 ca. – 397), prima governatore, poi vescovo di Milano, che ne fu l’iniziatore.? A S. Ambrogio risalgono varie iniziative riguardanti il canto liturgico latino, a cominciare dalla diffusione degli inni, che erano cantati soprattutto durante le assemblee di fedeli, al tempo delle lotte contro i seguaci dell’eresia ariana. S. Ambrogio compose certamente 4 inni, forse più. Egli inoltre adottò il canto salmodico, l’esecuzione antifonica e il jubilus. Sul jubilus lasciò scritte pagine mirabili S. Agostino (354 – 430), che trascorse alcuni anni a Milano, a contatto con S. Ambrogio.?Gli altri repertori locali hanno lasciato incerte e lacunose tracce, e tra essi solo due ebbero rilevanza storica: il gallicano e il mozarabico.? Il canto gallico rimase in uso in Galiia fino all’VIII secolo; conteneva elementi celtici e bizantini e fu soppresso dagli imperatori carolingi. Il canto ispanico, che fu chiamato canto mazarabico dopo la conquista araba di parte della Spagna, aveva subìto nel V secolo l’influenza dei Visigoti (già convertiti al cristianesimo), i quali avevano in precedenza assimilato usi delle liturgie orientali.  

Publié dans:Inni, liturgia |on 30 décembre, 2012 |Pas de commentaires »

SOLENNITÀ, FESTE, MONUMENTI…

http://www.zenit.org/article-32991?l=italian

SOLENNITÀ, FESTE, MONUMENTI…

Risponde padre Edward McNamara, L.C., professore di Teologia e direttore spirituale

ROMA, venerdì, 5 ottobre 2012 (ZENIT.org).- Un sacerdote dello Sri Lanka ha inviato la seguente domanda a padre Edward McNamara:
Noi, come cattolici usiamo comunemente la parola « festa » per coprire tutto, dalle feste della chiesa di vari santi e la nostra Benedetta Madre, al Corpus Christi, ecc. Sappiamo anche che ci sono tre tipi di feste celebrazioni: memoriali, feste e solennità. Potrebbe gentilmente approfondire queste tre categorie? Inoltre, perché Corpus Christi non è un giorno di precetto? — R.D., Enderamulla, Sri Lanka
Padre McNamara ha risposto:
In effetti si usa la parola « festa » in riferimento ad ogni tipo di festa, anche se la parola ha un preciso significato tecnico nella gerarchia delle celebrazioni. Non c’è grande difficoltà in questo, poiche` di solito il contesto chiarisce se stiamo parlando tecnicamente o in generale.
Le tre classi fondamentali sono quelle accennate dal nostro lettore, anche se le ‘memorie” spesso sono divise in obbligatorie e facoltative. Ci sono altri mezzi per classificare le celebrazioni che danno diversi numeri e categorie. Ad esempio, se si classifica sulla base di quali messe possono essere celebrate in un dato giorno, si arriva a sette raggruppamenti di celebrazioni.
La differenza tra le tre categorie di base risiede nella loro importanza, che a sua volta si riflette nella presenza o assenza di diversi elementi liturgici.
Le solennità sono il grado più alto e di solito sono riservate per i misteri più importanti della fede. Questi includono la Pasqua, la Pentecoste e l’Immacolata Concezione, i titoli principali di Nostro Signore, come quelli di Re e del Sacro Cuore, e le celebrazioni che onorano alcuni santi di particolare importanza nella storia della salvezza, come la festa dei SS. Pietro e Paolo, e di San Giovanni Battista nel giorno della sua nascita.
Le solennità hanno gli stessi elementi di base di una Domenica: tre letture, la preghiera dei fedeli, il Credo e il Gloria che viene recitato anche quando la solennità si verifica durante l’Avvento o la Quaresima. Ha anche formule di preghiera proprie esclusive per il giorno: antifona d’ingresso, la preghiera di apertura, la preghiera sopra le offerte, Antifona alla Comunione, e la preghiera dopo la Comunione. Nella maggior parte dei casi si ha anche una prefazio particolare.
Alcune solennità sono anche feste di precetto, ma queste variano di paese in paese.
Una solennità si celebra se cade di Domenica del tempo ordinario o del tempo di Natale. Ma di solito è trasferita al seguente Lunedi se cade in una Domenica di Avvento, di Quaresima e di Pasqua, o durante la Settimana Santa o l’ottava di Pasqua.
Una festa onora un mistero o un titolo del Signore, della Madonna, di santi di particolare importanza (come gli apostoli e gli evangelisti) e alcuni santi importanti storicamente come il diacono san Lorenzo.
La festa di solito ha alcune preghiere proprie, ma ha solo due letture più il Gloria. Le Feste del Signore, come la Trasfigurazione e la Esaltazione della Santa Croce, a differenza di altre feste, si celebrano quando cadono di Domenica. In tali occasioni hanno tre letture, il Gloria e il Credo.
Una memoria è di solito di santi, ma può anche celebrare qualche aspetto del Signore o di Maria. Per esempio, la memoria facoltativa del Santo Nome di Gesù o la memoria obbligatoria del Cuore Immacolato di Maria.
Dal punto di vista degli elementi liturgici non c’è differenza tra la memoria facoltativa e quella obbligatoria. La memoria ha almeno una preghiera propria di apertura e può avere letture proprie adatte per il santo che si celebra. Le letture del giorno possono essere utilizzate, e il lezionario scoraggia un eccessivo uso di letture specifiche per i santi in modo da non interrompere troppo il ciclo continuo di letture quotidiane.
D’altro canto, le letture specifiche devono sempre essere utilizzate per alcuni santi, soprattutto quelli specificamente menzionati nelle stesse letture, come per esempio Marta, Maria Maddalena e Barnaba.
Durante Quaresima e Avvento dal 17 al 24 Dicembre si possono celebrare memorie solo come commemorazioni. In altre parole, solo la preghiera di apertura del santo è usata e tutto il resto viene dal giorno.
Il 2 novembre, giorno dei morti, è qualcosa che appartiene ad una classe speciale che, senza essere una solennità, ha ancora precedenza sulla Domenica.
E ‘anche importante notare che la stessa celebrazione può avere una diversa classificazione in diverse aree geografiche, come alcune celebrazioni e santi sono venerati più in un luogo che in un altro. Ad esempio, San Benedetto, una memoria obbligatoria nel calendario universale, è una festa in Europa, dal momento che è uno dei suoi patroni. Ma e` considerato solo una solennità nella diocesi e nell’abbazia di Montecassino, dove è sepolto.
Infine, la decisione se una solennità, come il Corpo e il Sangue del Signore, è un giorno di precetto spetta principalmente alla Conferenza Episcopale, che decide in base alla realtà pastorale di ogni paese. Alcuni hanno mantenuto la tradizionale celebrazione del Giovedì e l’hanno mantenuto come festa di precetto; altri potrebbero aver mantenuto il giorno, ma senza l ‘obbligo. Molti hanno preferito trasferire la celebrazione alla Domenica successiva in modo da garantire la celebrazione con il maggior numero di fedeli.
Il Vaticano, per esempio, continua la tradizionale celebrazione del Giovedi e quindi la processione del Santo Padre con il Santissimo Sacramento si svolge in quel giorno. La Diocesi di Roma, però, insieme al resto d’Italia, la celebra la Domenica seguente.
Chiunque abbia domande che riguardano i temi liturgici può scrivere al seguente indirizzo:
liturgia.zenit@zenit.org

Publié dans:liturgia |on 5 octobre, 2012 |Pas de commentaires »

Il pane e il vino per l’Eucarestia

http://www.borgopiave.diocesi.it/liturgia%20a%20puntate/il%20pane%20e%20il%20vino.htm

Il pane e il vino per l’Eucarestia

Al tempo di Gesù il pane e il vino in Palestina erano l’alimento principale. Mangiare e bere hanno un profondo significato. Essi rendono possibile la vita. Chi non può mangiare e bere, chi non ha nulla da mangiare e da bere, deve morire. Così ogni pasto contiene un tacito accenno al carattere di dipendenza e di caducità della nostra vita. Cibo e bevande vengono sperimentate dall’uomo religioso come doni del Creatore, il quale è non solo l’origine e la fonte della vita, ma anche colui che la mantiene. Così il pasto è qualcosa che rimanda al Dio creatore. Chi pensa a ciò ringrazia. Ma ringraziare Dio significa pregare. E così la preghiera della mensa è un antichissimo uso dell’uomo. Il pasto stesso ha una connotazione religiosa, una solennità religiosa. Nello stesso tempo esso è un simbolo della comunione e dell’amicizia con tutti coloro che vi partecipano. Così il pane e il vino, il mangiare e il bere poterono diventare per Cristo dei segni visibili per un pasto nel quale egli stesso diviene cibo e nel quale egli stabilisce la comunione dei partecipanti con sé e tra loro.
Prima di prendere in considerazione singolarmente i due elementi invitiamo e leggere i numeri 281-286 di Principi e Norme per l’uso del Messale Romano e per facilitarne la comprensione e stimolare la riflessione riportiamo il commento ai numeri appena citati tratto da « Principi e norme per l’uso del Messale Romano – testo e commento », guida alla lettura di Rinaldo Falsini – Ed. O.R. Milano 1996:

PANE E VINO (nn. 281-286)
«Fedele all’esempio di Cristo, la Chiesa ha sempre usato pane e vino con acqua per celebrare la Cena del Signore» (n. 281). La frase non ha puro valore descrittivo, ma comporta una chiara presa di posizione di fronte a proposte anche molto recenti di usare altri alimenti propri di determinate culture (africane e asiatiche), quale il riso, il tè ecc. La continuità della tradizione, contro i tentativi verificatisi fin dai primi secoli, ha una sua chiara motivazione. Non si tratta di semplici alimenti conviviali, di cibo e di bevanda, ma di pane e vino ritenuti e usati quali simboli per indicare il Corpo e il Sangue di Cristo.
Ciò non toglie che il pane secondo la tradizione latina deve essere di frumento, fresco e azzimo (n. 282) – si presenti veramente come cibo (n. 283). Il richiamo alla sua evidenza di vero pane, non apparente ed evanescente come sono le sottilissime «ostie» bianche, è senza dubbio un omaggio alla verità degli elementi rituali, la valorizzazione del segno. Vero pane che rievochi le parole e il gesto di Gesù: « Io sono il pane vivo.., prese il pane… lo spezzò e lo distribuì ».
Ma vero pane anche in vista della valorizzazione del gesto della frazione: « Conviene che il pane eucaristico, sebbene azzimo e confezionato nella forma tradizionale, sia fatto in modo che il sacerdote nella Messa celebrata con il popolo possa spezzare davvero l’ostia in più parti e distribuirla almeno ad alcuni fedeli » (n. 283). Spezzare l’unico pane, distribuirlo fra i commensali e mangiarlo insieme è anche per noi, non solo per l’uomo biblico, un segno di comunione fraterna, «Il gesto della frazione del pane – continua il nostro numero – con cui l’eucaristia veniva semplicemente designata nel tempo apostolico, manifesterà sempre più la forza e l’importanza del segno dell’unità di tutti in un unico pane, e del segno della carità per il fatto che unico pane è distribuito tra i fratelli». Sacrificando la frazione del pane, come regolarmente avviene con l’uso del pane eucaristico di dimensioni ridotte, si sacrifica il segno dell’unità e della carità, al quale tanta importanza veniva riconosciuta al tempo apostolico.
L’impoverimento dei gesti rituali comporta sempre un impoverimento della nostra catechesi. Sacrificando il segno si rende sempre meno comprensibile la realtà del mistero eucaristico, perché questo si svela « attraverso i riti e le preghiere » (SC 48). Purtroppo l’invito dell’istruzione non è stato accolto che in rarissimi casi, in qualche celebrazione di gruppo. È diventato invece norma generale l’eccezione prevista sempre nel nostro testo: « Le ostie piccole non sono comunque affatto escluse, quando il numero dei comunicandi, o altre ragioni pastorali lo esigono » (n. 283).
Il vino, sempre per il suo simbolismo biblico (cf. Lc 22, 18) deve essere tratto dalla vite, naturale e genuino (n. 284). Per ragioni pratiche si è introdotto il vino bianco, anche se il colore rosso evoca più da vicino il sangue.
L’Istruzione esorta alla diligenza nella conservazione del pane e del vino (n. 285) e dà alcuni suggerimenti per la soluzione di qualche difficoltà in cui il sacerdote può venire a trovarsi.

Publié dans:liturgia, preghiere |on 6 août, 2012 |Pas de commentaires »

L’incantato «Sappiate che Dio è con noi, sappiatelo e stupite!».

http://www.suffragio.it/prediche/Natale/3Follia.htm

L’incantato

‘«Sappiate che Dio è con noi, sappiatelo e stupite!».

(Liturgia ambrosiana delle ore)

Negli antichi presepi, in mezzo a tante statuine, ce n’era una molto originale e molto significativa. Era un personaggio con una mano accostata alla fronte per poter guardare meglio, per poter guardare più lontano. È chiamata la statuina dell’incantato.
Simbolo di chi desidera fermarsi a guardare, di chi sa vedere oltre gli occhi della semplice ragione, di chi sa aprirsi alla meraviglia e lascia la parola al cuore. Per questo l’incantato è divenuto simbolo del credente.
Punto esclamativo
«Alekos credeva in Dio. Una volta io gli dissi: « Dio è un punto interrogativo », e lui mi rispose: « No, un punto esclamativo ». E quando morì pronunciò queste parole: « Theòs, Theòs mu ». Dio, Dio mio, che in greco suonano così forti, solenni».
(dialogo tra Oriana Fallaci e Alekos Panagulis)
Così fa dire ad uno dei protagonisti di una sua opera teatrale Jean Paul Sartre:
Un Dio, trasformarsi in un uomo! Che favola degna di una balial lo non vedo che cosa potrebbe interessarlo della nostra condizione umana. Gli dei abitano in cielo, tutti occupati a godere di se stessi. E se capitasse loro di discendere in mezzo a noi, ciò avverrebbe sotto qualche forma brillante e fugace, come una nube di porpora o un lampo. Un Dio si cambierebbe in uomo? L’Onnipotente, in seno alla sua gloria, contemplerebbe questi pidocchi che brulicano sulla vecchia crosta della terra sporcandolo con i loro escrementi, e direbbe: voglio essere uno di quel vermi là? Lasciatemi ridere. Un Dio che si induce a nascere, a restare nove mesi come una fragola di sangue!?

 » … lo stesso protagonista più avanti dirà:
Se un Dio si fosse fatto uomo per me io l’amerei con l’esclusione di tutti gli altri, ci sarebbe come un legame di sangue tra lui e me e la mia vita non sarebbe troppo lunga per dimostrargli la mia riconoscenza. Ma quale Dio sarebbe così folle per questo? … Un Dio-Uomo, un Dio fatto della nostra carne umiliata, un Dio che accetterebbe di conoscere questo gusto di sale che c’è al fondo delle nostre bocche quando il mondo intero ci abbandona, un Dio che accetterebbe anticipatamente di soffrire quello che io soffro oggi … Via, è una follia.
(Bariona, ou le Fils du tonnerre – 1940)

Forse è una follia, forse saremo dei folli … ma è proprio questo che i cristiani credono e che si ridicono ad ogni nuovo Natale: Dio si è fatto uomo per me, per ogni uomo. Si è fatto bambino.
E’ ancora Sartre, nella stessa opera, che attribuisce a Maria questo pensiero:
Questo Dio è mio figlio. Questa carne divina è la mia carne. Egli è fatto di me, ha i miei occhi e questa forma della sua bocca è la forma della mia. Egli mi rassomiglia. E’ Dio e mi rassomiglia.
E’ un Dio che può prendere tra le braccia e coprire di baci …
E’ un Dio che si « nasconde » in un bambino, un Dio che si rivela e insieme si vela in un bambino … per lasciare spazio alla libertà, alla fede.
In tutto questo sta la fatica e la gioia dei credere, perché come dice splendidamente il teologo e poeta Bruno Forte:
Il credente non è che un povero « ateo » che ogni giomo si sforza di cominciare a credere. Se il credente non fosse tale, la sua fede non sarebbe che un dato sociologico, una rassìcurazione mondana … La fede è un continuo convertirsi a Dio, un continuo consegnargli il cuore, cominciando ogni giomo, in modo nuovo, a vivere la fatica di credere, di sperare, di amare e proprio per questo ad esistere per gli altri.
… Chi pensa di aver fede senza lottare, non crede più in nulla. … Se Dio per te non è un fuoco divorante, se l’incontro con Lui è per te soltanto tranquilla ripetizione di gesti sempre uguali e senza passione d’amore, il tuo Dio non è più il Dio vivente.
… Credere è « cor-dare », un dare il cuore …
(Bruno Forte – Confessio theologi)
E’ questo che vi auguro in questo Natale: lasciatevi « prendere il cuore » da questo Bambino, lasciate che vi parli, sentitevi presi per mano, illuminati, rafforzati, consolati, perdonati, fatti nuovi da questo Bambino…
Sentite dette per voi queste parole: « Non temete » … pare che nella Bibbia questa espressione sia presente 365 volte … una per ogni giorno dell’anno… E inginocchiatevi davanti a questo Bambino perché soltanto quando un uomo si inginocchia è Natale …
Come ci richiama quello splendido dipinto di Giorgione, dono natalizio alle famiglie della parrocchia: il cappello posato per terra, le mani giunte, inginocchiato davanti al Bambino, un pastore è in silenziosa adorazione.
Un’icona che ho commentato con le parole di don Primo Mazzolari:

Mi inginocchio e mi basta.
Se mi inginocchio davanti al bambino,
l’anima si placa nel perdono
e subito mi ritrovo fratello di ognuno.
Se mi inginocchio l’ideale mi si accosta e l’amore,
come vento d’aprile,
m’accarezza il cuore bruciato.
Se mi inginocchio … mi offro.

Inginocchiamoci credenti, adoranti, grati, stupiti, amanti.
Credenti e adoranti, capaci di dire: « mi fido, ci credo ».
Stupiti per avere un Dio così, che si fa bambino.
Grati perché ci sappiamo straamati e perdonati, mai disperatamente abbandonati.
Amanti perché stregati dall’amore  »folle » di Dio, un amore che ci inquieta, che ci toglie la pace se non amiamo, se non perdoniamo.
In ginocchio ci capiterà di « commuoverci » … e sarà un Natale cristiano perché chi si commuove è salvo. E l’amore di Dio accarezzi anche chi ha il « cuore bruciato » da una delusione, da una sconfitta, da un dolore, da una morte …
Buon Natale a tutti.

don Mirko – Il Segno, Dicembre 1996

Publié dans:liturgia, Liturgia Ambrosiana |on 20 juin, 2012 |Pas de commentaires »

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE DEL SOMMO PONTEFICE – CELEBRARE IL CORPUS DOMINI

http://www.vatican.va/news_services/liturgy/2011/documents/ns_lit_doc_20110621_corpus-domini_it.html

UFFICIO DELLE CELEBRAZIONI LITURGICHE DEL SOMMO PONTEFICE

CELEBRARE IL CORPUS DOMINI

(Mons. Guido Marini, Maestro delle Celebrazioni Liturgiche Pontificie)

Primo incontro internazionale sull’adorazione eucaristica

Roma, martedì 21 giugno 2011

Quando mi è stato indicato il titolo di questo intervento, il mio ricordo è ritornato immediatamente a una celebre omelia, tenuta da Benedetto XVI, nel 2008, proprio in occasione della celebrazione della solennità del Corpus Domini a Roma.
Mi soffermerò a considerare tre grandi verità legate alla celebrazione del Corpus Domini, cercando al contempo di trarne alcune importanti conseguenze che coinvolgono soprattutto la nostra vita liturgica.

Stare davanti al Signore

Nella Chiesa antica lo “stare davanti al Signore” era espresso con il termine “statio”. Cerchiamo di capire qualche cosa di più del significato pregnante di questo termine.
Quando il cristianesimo si diffuse al di là dei confini del mondo giudaico, gli apostoli e i loro immediati successori ebbero una prioritaria preoccupazione: che in ogni città vi fosse un solo vescovo e un solo altare. Perché una tale preoccupazione? L’unicità del vescovo e dell’altare doveva dare espressione all’unità della Chiesa, al di là delle molteplici differenze, presenti in coloro che ne diventavano membri in virtù del Battesimo.
Nell’unità così espressa troviamo il senso più profondo dell’Eucaristia: ricevendo l’unico pane diventiamo un organismo vivente, l’unico corpo del Signore. Ecco perché l’apostolo Paolo poteva esclamare: “Qui non vi è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero, ma Cristo è tutto in tutti” (Col 3, 11).
La partecipazione all’Eucaristia implicava, pertanto, che si ritrovassero insieme persone provenienti da condizioni molto diverse: l’uomo e la donna, il ricco e il povero, il nobile e lo schiavo, l’intellettuale e l’ignorante, l’asceta e il peccatore convertito da una vita dissoluta. L’accesso alla celebrazione eucaristica diventava, anche visibilmente, l’ingresso nell’unico corpo del Signore, la Chiesa.
Quando, più tardi, il numero dei cristiani iniziò a crescere non fu più possibile conservare questa forma esterna, espressiva dell’unità. A Roma vennero erette le chiese titolari; nel tempo sarebbero sorte le parrocchie. In un tale contesto rinnovato era necessario dare nuova forma espressiva all’unità visibile di un tempo. E questo avvenne con l’istituzione della “statio”. Il Papa, in qualità di vescovo di Roma, soprattutto durante il tempo quaresimale, celebrava il culto divino nelle diverse chiese titolari, dove si radunavano tutti i cristiani della città. Così, se pure in modo nuovo, si rinnovava l’esperienza di un tempo: tutti coloro che erano accomunati dalla stessa fede si ritrovavano insieme, nello stesso luogo, davanti al Signore.
Le festa del “Corpus Domini” recupera questo intendimento originario. Essa si propone, infatti, come “statio urbis”. Si “aprono le porte” delle chiese, delle parrocchie, dei gruppi nelle nostre diocesi e tutti si ritrovano insieme presso il Signore per essere una cosa sola a partire da Lui. Perché è proprio Lui, il Signore presente nella SS. Eucaristia, che ci fa un corpo solo e rende possibile che la molteplicità converga nell’unità della Chiesa.

Entrare nel noi della Chiesa
La celebrazione del “Corpus Domini”, allora, ci educa ogni volta a entrare nel “noi” della Chiesa che prega. Questo “noi” ci parla di una realtà, la Chiesa appunto, che va al di là dei singoli, delle comunità e dei gruppi. Questo “noi” ci ricorda che la Chiesa, anche quando si rende presente in una dimensione locale o particolare, è sempre universale: raggiunge tutti i tempi, tutti i luoghi e varca la soglia del tempo per lasciarsi raggiungere dall’eternità; custodisce e trasmette il mistero di Cristo, risposta ultima e definitiva alla domanda di senso presente nel cuore di ogni uomo.
Ne consegue che, celebrando il “Corpus Domini”, siamo richiamati ad alcune dimensioni tipiche e irrinunciabili della liturgia. Mi riferisco, anzitutto, alla dimensione della cattolicità, che è costitutiva della Chiesa fin dall’inizio. In quella cattolicità unità e varietà si compongono in armonia così da formare una realtà sostanzialmente unitaria, pur nella legittima diversità delle forme. E poi la dimensione della continuità storica, in virtù della quale l’auspicabile sviluppo appare quello di un organismo vivo che non rinnega il proprio passato, attraversando il presente e orientandosi al futuro. E, ancora, la dimensione della partecipazione alla liturgia del cielo, per il quale è quanto mai appropriato parlare della liturgia della Chiesa come dello spazio umano e spirituale nel quale il cielo si affaccia sulla terra. Si pensi, solo a titolo esemplificativo, al passaggio della Preghiera eucaristica I, nella quale chiediamo: “…fa’ che questa offerta, per le mani del tuo angelo santo, sia portata sull’altare del cielo…”.
E, infine, la dimensione della non arbitrarietà, che evita di consegnare alla soggettività del singolo o del gruppo ciò che invece appartiene a tutti come tesoro ricevuto, da custodire e trasmettere. La liturgia non è una sorta di intrattenimento, dove ciascuno può sentirsi in diritto di togliere e aggiungere secondo il proprio gusto e la propria più o meno felice capacità inventiva. La liturgia non è una festa nella quale si deve sempre trovare qualche cosa di nuovo per destare l’interesse dei partecipanti. La liturgia è la celebrazione del mistero di Cristo, consegnato alla Chiesa, nel quale siamo chiamati a entrare con sempre maggiore intensità, anche in virtù della provvidenziale ripetitività sempre nuova del rito.
Entrare nel “noi” della Chiesa a partire dall’Eucaristia significa anche lasciarsi trasformare nella logica di quella cattolicità che è carità, ovvero apertura del cuore, secondo la misura del Cuore di Cristo: abbraccia tutti, piega il proprio egoismo alle esigenze dell’amore vero, si dispone a dare la vita senza riserve. L’Eucaristia è la sorgente vera della carità della Chiesa e nel cuore di ognuno. Dall’Eucaristia prende forma quella quotidianità nella carità che è lo stile evangelico a cui siamo tutti chiamati.

Il canto e la lingua
Di recente il Santo Padre, nella Lettera scritta in occasione del 100° anniversario della fondazione del Pontificio Istituto di Musica Sacra, è ritornato sul tema dell’universalità del linguaggio, per ciò che attiene alla musica sacra.
La celebrazione del “Corpus Domini”, nel suo essere radice ed espressione di cattolicità, ci richiama alla universalità del canto proprio della liturgia e alla necessità di educarci ed educare in tal senso.
Così scrive Benedetto XVI: «A volte, infatti, tali elementi, che si ritrovano nella Sacrosanctum Concilium, quali, appunto, il valore del grande patrimonio ecclesiale della musica sacra o l’universalità che è caratteristica del canto gregoriano, sono stati ritenuti espressione di una concezione rispondente ad un passato da superare e da trascurare, perché limitativo della libertà e della creatività del singolo e delle comunità. Ma dobbiamo sempre chiederci nuovamente: chi è l’autentico soggetto della Liturgia? La risposta è semplice: la Chiesa. Non è il singolo o il gruppo che celebra la Liturgia, ma essa è primariamente azione di Dio attraverso la Chiesa, che ha la sua storia, la sua ricca tradizione e la sua creatività. La Liturgia, e di conseguenza la musica sacra, « vive di un corretto e costante rapporto tra sana traditio e legitima progressio », tenendo sempre ben presente che questi due concetti – che i Padri conciliari chiaramente sottolineavano – si integrano a vicenda».
L’universalità, che è tipica del canto gregoriano, è costantemente richiamata dal magistero della Chiesa, tra le note caratterizzanti l’espressione musicale che voglia a buon diritto dirsi sacra e liturgica. In questa universalità ci è dato di cogliere il rapporto vitale tra canto liturgico e mistero celebrato. Di quel mistero, che è universale perché destinato a tutti, il canto non può che essere fedele interprete ed esegesi. La musica o il canto che fossero solo espressione della soggettività, dell’emozione superficiale e passeggera, o della moda corrente sarebbero troppo poveri per avere cittadinanza nella liturgia. Nella liturgia, infatti, tutti devono rimanere in ascolto e farsi partecipi di un linguaggio universale e, di conseguenza, di una musica e un canto che aprano il cuore al mistero del Signore.
La musica e il canto, in liturgia, devono conservare un riferimento privilegiato alla Parola di Dio e a quella parola che la grande tradizione spirituale ci ha consegnato, come eco e interpretazione del mistero di Cristo. Solo così musica e canto rimangono fedeli alla loro nativa vocazione di essere vie di accesso all’avvenimento cristiano che salva la vita.
La celebrazione del “Corpus Domini”, la “statio urbis” segno dell’universalità della Chiesa raccolta attorno al mistero eucaristico, è richiamo anche a non dimenticare l’elemento di cattolicità che sempre deve farsi presente nella musica liturgica.

Camminare verso il Signore e con il Signore
Lo stare insieme davanti al Signore ha generato, fin da subito, il camminare verso il Signore e con il Signore.
Questo “camminare verso”, questo procedere diventato processione lo possiamo capire meglio se ritorniamo con la memoria all’esperienza fatta da Israele, al tempo della lunga peregrinazione attraverso il deserto. L’antico popolo di Dio ha potuto trovare una terra ed è riuscito a sopravvivere anche alla perdita della terra, perché non viveva di solo pane, ma si nutriva della parola del Signore. Quella parola era la forza che sosteneva il cammino arduo e faticoso, che rinfrancava nella desolazione e nella prova, che infondeva coraggio quando pareva venire meno ogni appiglio umano alla speranza.
L’esperienza dell’antico Israele è un segno e un riferimento permanente per la vita della Chiesa e di tutti noi. Se possiamo sostenere il peso del pellegrinaggio attraverso il tempo della storia e le sue contraddizioni, questo lo dobbiamo al fatto che camminiamo verso il Signore e che, nel cammino, Egli è con noi.
In tal modo celebrare il “Corpus Domini” significa camminare verso il Signore e con il Signore e, di conseguenza, celebrare il senso autentico della vita: questa non è un vagare senza meta nella solitudine di spazi sconfinati. La vita dell’uomo ha una direzione ben precisa. La direzione è Cristo, il Signore del tempo e della storia, il Salvatore di tutti; e mentre procediamo in quella direzione, Egli, che è la meta, è anche compagno di strada fedele, sostegno del nostro cammino. “Bone pastor, panis vere, / Iesu, nostri miserere: / tu nos pasce, nos tuere: /tu nos bona fac videre / in terra viventium”, canta la Sequenza della solennità liturgica (Buon pastore, vero pane, o Gesù, pietà di noi: nutrici e difendici, portaci ai beni eterni nella terra dei viventi).
Ciò che la comunità cristiana vive celebrando il “Corpus Domini” non lo vive solo per sé. Lo vive anche per tutti, per coloro che rimangono al di fuori della Chiesa, che la Chiesa l’hanno abbandonata o neppure l’hanno conosciuta. Il procedere pubblico dei cristiani per le vie della città dell’uomo verso il Signore e con il Signore è la testimonianza visibile di un modo nuovo di intendere la vita e la storia; un modo nuovo che ci è stato donato per grazia e che a tutti deve essere trasmesso. E’ il modo nuovo della speranza che scaturisce dalla fede in Gesù Cristo, il Dio incarnato, fattosi Eucaristia, che ci indica la strada da percorrere, accompagnando i passi del nostro andare.

L’orientamento a Cristo del cosmo e della storia
La celebrazione del “Corpus Domini” ci aiuta, pertanto, a ritrovare l’orientamento a Cristo di tutto, perché tutto è stato pensato e fatto “per mezzo di Lui e in vista di Lui” (Col 1, 16).
Le nostre personali conoscenze artistiche, insieme a recenti studi molto seri, ci ricordano che una delle caratteristiche tipiche della liturgia cristiana, fin dagli inizi, fu quella della celebrazione orientata.
Già nel termine “orientata” c’è tutto il significato del volgersi a oriente che caratterizzava la preghiera dei cristiani radunati per la celebrazione dei divini misteri. Le chiese erano rivolte a est, perché da lì sorge il sole, simbolo cosmico della venuta del Salvatore, richiamo quanto mai espressivo al vero Sole della vita, il Risorto. I cristiani, pregando, volgevano lo sguardo al sole nascente e, in tal modo, orientavano il cuore al Signore della storia, principio e fine della creazione.
Quando, nel corso del tempo, non fu più possibile, per diverse ragioni, continuare a costruire le chiese orientate a est, si supplì una tale impossibilità con il grande crocifisso dell’altare o l’abside riccamente decorata raffigurante l’immagine del Salvatore. Così, nonostante l’assenza del richiamo all’oriente mediante la struttura delle chiese, rimase ben chiaro l’orientamento della preghiera, a cui l’assemblea radunata era invitata durante la celebrazione liturgica.
Purtroppo, ai nostri tempi, corriamo il rischio di perdere l’orientamento della preghiera, con il conseguente rischio di perdere anche l’orientamento della vita e della storia. Il recupero della centralità della croce, così come il Santo Padre Benedetto XVI ci invita a fare con l’esempio della liturgia da lui presieduta, non è, dunque, un dettaglio marginale. Si tratta, in verità, di un elemento essenziale dell’atto liturgico, di un segno che riconduce lo sguardo degli occhi e del cuore al Signore, quale centro della nostra preghiera, che ripresenta davanti al cammino della nostra storia la meta vera verso la quale siamo incamminati.
Ecco il pensiero del Papa. “L’idea che sacerdote e popolo nella preghiera dovrebbero guardarsi reciprocamente è nata solo nella cristianità moderna ed è completamente estranea in quella antica. Sacerdote e popolo certamente non pregano l’uno verso l’altro, ma verso l’unico Signore. Quindi guardano nella preghiera nella stessa direzione: o verso Oriente come simbolo cosmico per il Signore che viene, o, dove questo non è possibile, verso un’immagine di Cristo nell’abside, verso una croce, o semplicemente verso il cielo, come il Signore ha fatto nella preghiera sacerdotale la sera prima della Passione (Gv 17, 1). Intanto si sta facendo strada sempre di più, fortunatamente, la proposta da me fatta alla fine del capitolo in questione della mia opera [Introduzione allo spirito della liturgia, pp.70-80]: non procedere a nuove trasformazioni, ma porre semplicemente la croce al centro dell’altare, verso la quale possano guardare insieme sacerdote e fedeli, per lasciarsi guidare in tal modo verso il Signore, che tutti insieme preghiamo” (Teologia della liturgia, pp. 7-8).
La liturgia cristiana – ed è questa una delle sue verità fondamentali – esprime, nei segni che le sono propri, il legame inscindibile tra creazione e alleanza, ordine cosmico e ordine storico di rivelazione. Così deve essere sempre.
Ecco come si è espresso, in proposito, il Santo Padre nell’omelia della Veglia pasquale di quest’anno: «Ora, ci si può chiedere: ma è veramente importante nella Veglia Pasquale parlare anche della creazione? Non si potrebbe cominciare con gli avvenimenti in cui Dio chiama l’uomo, si forma un popolo e crea la sua storia con gli uomini sulla terra? La risposta deve essere: no. Omettere la creazione significherebbe fraintendere la stessa storia di Dio con gli uomini, sminuirla, non vedere più il suo vero ordine di grandezza. Il raggio della storia che Dio ha fondato giunge fino alle origini, fino alla creazione. La nostra professione di fede inizia con le parole: “Credo in Dio, Padre onnipotente, Creatore del cielo e della terra”. Se omettiamo questo primo articolo del Credo, l’intera storia della salvezza diventa troppo ristretta e troppo piccola».
Portando in sé tutta la novità della salvezza in Cristo, il rito della Chiesa conserva e raccoglie ogni espressione di quella liturgia cosmica che ha caratterizzato la vita dei popoli alla ricerca di Dio per il tramite della creazione. Nell’Eucaristia trovano approdo di salvezza tutte le espressioni cultuali antiche. E’ quanto mai significativa, anche da questo punto di vista, la Preghiera eucaristica I o Canone romano, là dove ci si riferisce ai “doni di Abele, il giusto, il sacrificio di Abramo, nostro padre nella fede, e l’oblazione pura e santa di Melchisedech, tuo sommo sacerdote”.
In questo passaggio dell’antica preghiera della Chiesa ritroviamo un riferimento ai sacrifici antichi, al culto cosmico e legato alla creazione che ora, nella liturgia cristiana, non solo non è rinnegato, ma anzi è assunto nel nuovo ed eterno sacrificio di Cristo Salvatore.
D’altra parte, in questa stessa prospettiva, non si può che guardare ai molteplici segni e simboli cosmici dei quali la liturgia della Chiesa, insieme ai segni e ai simboli tipici dell’alleanza, fa uso al fine di dare forma al nuovo culto cristiano. Si pensi alla luce e alla notte, al vento e al fuoco, all’acqua e alla terra, all’albero e ai frutti. Si tratta di quell’universo materiale nel quale l’uomo è chiamato a rilevare le tracce di Dio. E si pensi ugualmente ai segni e ai simboli della vita sociale: lavare e ungere, spezzare il pane e condividere il calice.
Tutto, dunque, nel rito liturgico, trova il suo orientamento autentico, la sua direzione giusta, la sua verità più intima.
Come è bello, pertanto, guardare al Signore e a quei segni visibili che rendono più facile il volgersi a lui dello sguardo del cuore! Non deve destare meraviglia il fatto che una croce possa togliere una qualche visibilità nel rapporto tra celebrante e assemblea. Non è quella visibilità che primariamente conta nella preghiera. Ci si dovrebbe piuttosto meravigliare dell’assenza di segni eloquenti che garantiscano e favoriscano un tale volgersi a Cristo. Considerando che solo nel rivolgersi a Cristo è dato di aprire gli occhi sulla strada che dobbiamo percorrere e sulla verità della sua destinazione.
Così deve essere per noi, ogniqualvolta partecipiamo alla celebrazione dei divini misteri. Orientati a Cristo nella preghiera, ritroviamo la direzione della nostra esistenza, diventiamo capaci di interpretare il cosmo e la storia nella luce del Risorto, rientriamo nella quotidianità pronti a testimoniare la nuova speranza che ci è stata donata. E la solennità del “Corpus Domini” ci aiuta a ricordare esattamente questo, riportandoci alla verità essenziale della liturgia cristiana e della vita.

Inginocchiarsi alla presenza del Signore
Dal momento che il Signore stesso è presente nell’Eucaristia, che l’Eucaristia è il Signore, questa ha sempre implicato anche l’adorazione.
Sappiamo che nella sua forma solenne essa si è sviluppata nel corso del Medio Evo. Tuttavia non si trattò di un cambiamento immotivato o di un decadimento. Emerse in modo più evidente, in quel periodo storico, una verità che già era presente fin dall’antichità cristiana. Ovvero, se il Signore si dona a noi nel suo Corpo e nel suo Sangue, accoglierlo non può che significare anche inginocchiarsi, adorarlo, glorificarlo.
Si pensi, nei racconti evangelici, al gesto di Stefano (At 7, 60), Pietro (At 9, 40) e Paolo (At 20, 36) che hanno pregato in ginocchio. E vale la pena ricordare l’inno cristologico della Lettera ai Filippesi (2, 6-11) che presenta la liturgia del cosmo come un inginocchiarsi di fronte al nome di Gesù (2, 10) e vede in ciò adempiuta la profezia di Isaia (Is 45, 23) circa la signoria sul mondo del Dio d’Israele. Piegando le ginocchia davanti al Signore, la Chiesa compie la verità, rendendo omaggio a Colui che è vincitore perché ha donato se stesso fino alla morte e alla morte di croce.
Se la celebrazione del “Corpus Domini” si realizza nello stare davanti al Signore e nel camminare verso di Lui alla sua presenza, questa stessa celebrazione trova espressione quanto mai ricca di significato anche nell’atto dell’adorazione.
In tal modo la Chiesa afferma la verità delle cose e, insieme, la sua suprema libertà. Solo chi piega le ginocchia e il cuore davanti a Dio può vantare la libertà vera, quella dalle potenze del mondo, dalle schiavitù antiche e nuove del secolo presente.
Rifiutare l’adorazione al Signore si rivolge contro l’uomo, che diviene capace di ogni degradante sottomissione. Dove scompare Dio l’uomo rimane irretito nella schiavitù delle idolatrie. Adorare Gesù Cristo, vero Dio e vero Uomo, presente nell’Eucaristia, significa celebrare la vera libertà umana e, dunque, affermare la sua grande dignità. La dignità di figlio, figlio di un Dio che lo ha creato e che lo ha amato e lo ama fino al totale dono di sé.
D’altra parte l’atto dell’adorare comporta anche l’atto dell’aderire. La vera adorazione, infatti, è donare se stessi a Dio e agli uomini. L’adorazione autentica è l’amore, la conformità all’Amato, che ridona verità alla nostra vita e ricrea il nostro cuore. Non c’è vera adorazione senza generosa adesione. La Chiesa che piega le ginocchia davanti al suo Signore, piega anche il cuore alla sua volontà. E in lei tutti noi viviamo una tale esperienza spirituale: ci inginocchiamo con il corpo perché anche i nostri pensieri, sentimenti, affetti, comportamenti siano piegati al progetto di Dio. Così nell’atto dell’adorazione è presente già la figura del mondo nuovo, quello rinnovato dalla potenza dell’amore di Dio in Cristo, divenuto storia anche per il tramite della Chiesa, di tutti noi.

Il linguaggio dell’adorazione
La celebrazione del “Corpus Domini” ci introduce, pertanto, nel linguaggio orante dell’adorazione. La festa del Corpo e del Sangue del Signore ci aiuta a conservare con cura un tale linguaggio, nel contesto della celebrazione liturgica.
Mi piace, in questo contesto, ricordare un elemento fondamentale di questo linguaggio. Mi riferisco al silenzio sacro.
La liturgia, quando è ben celebrata, deve prevedere una felice alternanza di silenzio e parola, dove il silenzio anima la parola, permette alla voce di risuonare in sintonia con il cuore, mantiene ogni espressione vocale e gestuale nel giusto clima del raccoglimento.
Laddove vi fosse un predominio unilaterale della parola, non risuonerebbe l’autentico linguaggio della liturgia. Urge, pertanto, il coraggio di educare all’interiorizzazione, la disponibilità a imparare nuovamente l’arte del silenzio, di quel silenzio in cui apprendiamo l’unica Parola che può salvare dall’accumularsi delle parole vane e dei gesti vuoti e teatrali.
Il silenzio liturgico è sacro. Non è infatti una pausa tra un momento celebrativo e quello successivo. E’ piuttosto un vero momento rituale, in relazione di vitale reciprocità con la parola, la preghiera vocale, il canto, il gesto, attraverso il quale viviamo la celebrazione del mistero di Cristo.
I momenti di silenzio, che la liturgia prevede e che è necessario salvaguardare con attenzione, sono importanti in se stessi, ma aiutano anche a vivere l’intera celebrazione liturgica in un clima di raccoglimento e di preghiera, recuperando il silenzio quale elemento integrante dell’atto liturgico. Così è possibile approdare alla liturgia del silenzio, vera espressione di una preghiera adorante.
Da questo punto di vista, ci è dato di capire meglio il motivo per cui durante la preghiera eucaristica e, in specie, il canone, il popolo di Dio orante segue nel silenzio la preghiera del sacerdote celebrante. Quel silenzio non significa inoperosità o mancanza di partecipazione. Quel silenzio tende a far sì che tutti entrino nel significato di quel momento rituale che ripropone, nella realtà del sacramento, l’atto di amore con il quale Gesù si offre al Padre sulla croce per la salvezza del mondo. Quel silenzio, davvero sacro, è lo spazio liturgico nel quale dire sì, con tutta la forza del nostro essere, all’agire di Cristo, così che diventi anche il nostro agire nella quotidianità della vita.
Il silenzio liturgico, allora, è sacro perché è il luogo spirituale nel quale realizzare l’adesione di tutta la nostra vita alla vita del Signore, è lo spazio dell’“amen” prolungato del cuore che si arrende all’amore di Dio e lo abbraccia come nuovo criterio del proprio vivere. E’ proprio questo il significato stupendo dell’“amen” conclusivo della dossologia al termine della preghiera eucaristica, nella quale tutti diciamo con la voce quanto a lungo abbiamo ripetuto nel silenzio del cuore orante.

Il rapporto tra celebrazione e adorazione
La solennità del “Corpus Domini”, con la compresenza di celebrazione e adorazione, ha anche la capacità di farci vivere in sana armonia il rapporto vitale tra questi due momenti eucaristici. Nel contesto di un Convegno come questo vale forse la pena attardarsi ancora un momento sul valore dell’adorazione in rapporto alla celebrazione.
In verità, come sempre ci ricorda il magistero della Chiesa anche recente, l’atto dell’adorazione eucaristica segue la celebrazione, della quale è come un prolungamento. E, d’altra parte, l’adorazione ha la capacità di aiutare a conservare nel cuore il frutto della celebrazione, radicandolo nel cuore dell’orante.
Il mistero della salvezza, di Cristo morto e risorto per noi, che nella celebrazione eucaristica si rende sempre di nuovo attuale, nell’adorazione viene contemplato e, per così dire, assimilato, in modo che poco alla volta diventa sempre più vita della vita.
Da questo punto di vista, l’adorazione porta a compimento quanto è già implicato nella celebrazione. In effetti, ciò che ancora risulta decisivo per la liturgia è che coloro che vi partecipano preghino per condividere lo stesso sacrificio del Signore, il suo atto di adorazione, diventando una solo cosa con Lui, vero corpo di Cristo che è la Chiesa. In altre parole, ciò che è essenziale è che alla fine venga superata la differenza tra l’agire di Cristo e il nostro agire, che vi sia una progressiva armonizzazione tra la sua vita e la nostra vita, tra il suo sacrificio adorante e il nostro, così che vi sia una sola azione, ad un tempo sua e nostra. Quanto affermato da san Paolo non può che essere l’indicazione di ciò che è necessario conseguire in virtù della celebrazione liturgica: “Sono stato crocifisso con Cristo, e non vivo più io, ma Cristo vive in me” (Gal 2, 19-20). E questo è ciò verso cui dirige la stessa adorazione eucaristica.
A ulteriore conferma di quanto affermato, ascoltiamo il Santo Padre in un passaggio dell’Esortazione Apostolica Sacramentum caritatis: “Già Agostino aveva detto: «Nessuno mangia questa carne senza prima adorarla; peccheremmo se non la adorassimo». Nell’Eucaristia, infatti, il Figlio di Dio ci viene incontro e desidera unirsi a noi; l’adorazione eucaristica non è che l’ovvio sviluppo della celebrazione eucaristica, la quale è in se stessa il più grande atto d’adorazione della Chiesa. Ricevere l’Eucaristia significa porsi in atteggiamento di adorazione verso Colui che riceviamo. Proprio così e soltanto così diventiamo una cosa sola con Lui e pregustiamo in anticipo, in qualche modo, la bellezza della liturgia celeste”. L’atto di adorazione al di fuori della santa Messa prolunga ed intensifica quanto s’è fatto nella Celebrazione liturgica stessa. Infatti, «soltanto nell’adorazione può maturare un’accoglienza profonda e vera. E proprio in questo atto personale di incontro col Signore matura poi anche la missione sociale che nell’Eucaristia è racchiusa e che vuole rompere le barriere non solo tra il Signore e noi, ma anche e soprattutto le barriere che ci separano gli uni dagli altri»” (n. 66).
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Stare, camminare, adorare. E’ in questi tre verbi, e in ciò che essi significano, la verità della celebrazione del “Corpus Domini” alla quale dobbiamo sempre tornare. Ricordando che tornare a una tale verità comporta ogni volta la riscoperta stupita e gioiosa del cuore, del centro, del tesoro della Chiesa e della sua liturgia. Per questo nella sequenza della solennità cantiamo: “Sit laus plena, sit sonora, / sit iucunda, sit decora / mentis iubilatio” (Lode piena e risonante, gioia nobile e serena sgorghi oggi dallo spirito).

Publié dans:feste, liturgia |on 8 juin, 2012 |Pas de commentaires »

DOMENICA « QUASIMODO » O OTTAVA DI PASQUA di dom Prosper Guéranger

 http://www.unavoce-ve.it/pg-pasqua-ottava.htm

DOMENICA « QUASIMODO » O OTTAVA DI PASQUA  

di dom Prosper Guéranger

Ogni domenica è una Pasqua.
Abbiamo visto, ieri, i neofiti chiudere la loro Ottava della Risurrezione. Erano stati immessi prima di noi alla partecipazione del mirabile mistero di Dio Risorto e, prima di noi, dovevano giungere al termine delle loro solennità. Questo giorno è dunque l’ottavo per noi che abbiamo celebrato di Domenica la Pasqua, senza anticiparla al Sabato sera. Ci si ricorda la gioia e la grandiosità dell’unica e solenne Domenica che ha associato tutto il mondo cristiano in un medesimo sentimento di trionfo. È il giorno della nuova luce che cancella l’antico Sabato: d’ora in avanti, sarà sacro il primo dì della settimana. È sufficiente che per ben due volte il Figlio di Dio l’abbia marcato col suggello della sua potenza. La Pasqua è, dunque, per sempre fissata di Domenica; e, come è stato già spiegato più sopra, nella « mistica del Tempo Pasquale », ogni Domenica è, d’ora in poi, una Pasqua.
Il nostro Divin Risorto ha voluto che la sua Chiesa così ne comprendesse il mistero, poiché, avendo intenzione di mostrarsi una seconda volta ai suoi discepoli, riuniti tutti assieme, ha aspettato, per farlo, il ritorno della Domenica. Durante tutti i giorni precedenti ha lasciato Tommaso in preda ai suoi dubbi; solamente oggi è voluto venire in suo soccorso, manifestandosi a questo Apostolo in presenza degli altri e obbligandolo a deporre la sua incredulità di fronte alla più palpabile evidenza. Oggi, dunque, la Pasqua riceve da Cristo il suo ultimo titolo di gloria, aspettando che lo Spirito Santo discenda dal cielo per venire a portare la luce del suo fuoco e fare, di questo giorno, già così privilegiato, l’era della fondazione della Chiesa Cristiana.

L’apparizione a san Tommaso.
L’apparizione del Salvatore al piccolo gruppo degli undici, e la vittoria che riporta sull’incredulità di uno dei suoi Discepoli è oggi l’oggetto speciale del culto della Santa Chiesa. Quest’apparizione, legata alla precedente, è la settima. Per suo mezzo Gesù entra nel possesso completo della fede dei suoi discepoli. La sua dignità, la sua pazienza, la sua carità in questa circostanza, sono veramente quelle di un Dio. Ancora una volta i nostri pensieri, troppo umani, restano sconvolti alla vista di questa dilazione di tempo che Gesù accorda all’incredulo, di cui, invece, sembrerebbe dover rischiarare senza indugio lo sfortunato acciecamento, o punire la temeraria insolenza.
Ma Gesù è la suprema Sapienza e la suprema Bontà. Nella sua saggezza prepara, per mezzo di questa lenta constatazione dell’avvenuta sua Risurrezione, un nuovo argomento in favore della realtà del fatto; nella sua bontà conduce il cuore del discepolo incredulo a ritrattare, da se medesimo, il suo dubbio con una sublime protesta di dolore, di umiltà e d’amore.
Noi non descriveremo qui quella scena così mirabilmente raccontata nel Vangelo, che la Santa Chiesa metterà tra poco sotto i nostri occhi; ci applicheremo solo, nell’odierno insegnamento, a far comprendere al lettore la lezione che Gesù oggi dà a tutti, nella persona di san Tommaso. È il grande ammaestramento della Domenica dell’Ottava di Pasqua. È importante ch’esso non venga trascurato, poiché, più di ogni altro, ci rivela il senso vero del Cristianesimo; ci illumina sulla causa delle nostre impotenze e sul rimedio per i nostri languori.

La lezione del Signore.
Gesù disse: « Poiché hai veduto, Tommaso, hai creduto; beati coloro che non han visto e han creduto! ». Parole piene di una divina autorità, consiglio salutare dato, non solamente a Tommaso, ma a tutti gli uomini che vogliono, entrare in rapporto con Dio e salvare le anime loro! Che voleva dunque Gesù dal suo Discepolo? Non aveva confessato, un momento fa, quella fede di cui ormai era convinto? Tommaso, del resto, era poi tanto colpevole per aver desiderato un’esperienza personale, prima di dare la sua adesione al più sorprendente dei prodigi? Era tenuto a rimettersi a Pietro ed agli altri, al punto di temere di mancare verso il suo Maestro, non fidandosi della loro testimonianza? Non dava prova di prudenza, lasciando in sospeso la sua convinzione, finché altri argomenti non gli avessero rivelato direttamente la realtà del fatto? Sì, Tommaso era un uomo saggio, un uomo prudente che non si fidava oltre misura; era degno di servire di modello a molti cristiani che giudicano e ragionano come lui nelle cose della fede.
E nondimeno quanto è grave, nella sua penetrante dolcezza, il rimprovero di Gesù! Con una condiscendenza inesplicabile, si è degnato di prestarsi alla constatazione che Tommaso aveva osato chiedere; adesso che il Discepolo si trova di fronte al Maestro risorto, e che esclama, con la più sincera emozione: « Mio Signore e mio Dio! », Gesù non gli fa grazia della lezione che aveva meritata. Ci vuole un castigo per quell’ardire, per quella incredulità; e la punizione consiste nel sentirsi dire: « Perché hai veduto, Tommaso, hai creduto ».

L’umiltà e la fede.
Ma Tommaso era dunque obbligato a credere prima di aver veduto? E chi può dubitarlo? Non soltanto Tommaso, ma tutti gli Apostoli erano tenuti a credere alla Risurrezione del Maestro, anche prima che fosse loro apparso. Non avevano vissuto tre anni insieme con lui? Non l’avevano visto confermare con numerosi prodigi la sua qualità di Messia e di Figlio di Dio? Non aveva annunziato la sua Risurrezione nel terzo giorno dopo la sua morte? E in quanto alle umiliazioni e ai dolori della Passione, non aveva, poco tempo prima, sulla strada di Gerusalemme, predetto che sarebbe stato preso dai Giudei, che l’avrebbero dato nelle mani dei Gentili, che sarebbe stato flagellato, coperto di sputi e messo a morte? (Lc 18,32-33).
Dei cuori retti e disposti alla fede non avrebbero avuto nessuna difficoltà a convincersene, appena saputo della sparizione del suo corpo. Giovanni non fece che entrare nel sepolcro, vedere i lenzuoli, e subito comprese tutto e credette fin da allora.
Ma l’uomo raramente è così sincero, e si ferma sul suo sentiero, quasi volendo obbligare Dio a prevenirlo. Gesù si degnò di farlo. Si mostrò alla Maddalena e alle sue compagne, che non erano incredule, ma soltanto distratte dall’esaltazione di un amore troppo naturale. Nel giudizio degli Apostoli, la loro testimonianza non era che il linguaggio di donne dall’immaginazione esaltata. Bisognò che Gesù venisse in persona a mostrarsi a quegli uomini ribelli, ai quali l’orgoglio faceva perdere la memoria di tutto il passato, che sarebbe bastato da solo ad illuminarli per il presente. Diciamo il loro orgoglio perché la fede non ha altro ostacolo che questo vizio. Se l’uomo fosse umile, si eleverebbe fino alla fede che trasporta le montagne.
Ora Tommaso ha ascoltato Maddalena ed ha sprezzato la sua testimonianza; ha ascoltato Pietro, e ha declinato la sua autorità; ha ascoltato gli altri fratelli suoi ed i Discepoli di Emmaus, e niente di tutto questo lo ha distolto dal poggiarsi solo sul suo giudizio personale. La parola altrui che, quando è grave e disinteressata, produce la certezza in uno spirito assennato, non ha più l’efficacia presso molte persone, appena si tratta di attestazione su cose soprannaturali. E questa è una grande piaga della nostra natura, lesa dal peccato. Troppo spesso, come Tommaso, noi vorremmo esperienze personali; e basta questo per privarci della pienezza della luce. Noi ci consoliamo come lui, perché siamo sempre nel numero dei Discepoli: – quest’Apostolo non aveva abbandonato i suoi fratelli: solamente non prendeva parte alla loro felicità. Quella felicità di cui era testimonio non risvegliava in lui che l’idea della debolezza: e provava un certo gusto a non condividerla.

La fede tiepida.
Tale è anche ai nostri giorni il cristiano imbevuto di razionalismo. Egli crede, ma perché la sua ragione gli dà come una necessità di credere: crede con la mente, non col cuore. La sua fede è una conclusione scientifica, non una aspirazione verso Dio e verso una vita soprannaturale. Perciò, quanto è fredda e impotente questa fede! Come è ristretta e incomoda! come teme sempre di progredire, credendo troppo! Vedendola contentarsi così facilmente di verità « diminuite » (Sal 11), pesate sulla bilancia della ragione invece di volare ad ali spiegate, come la fede dei santi, si direbbe che ha vergogna di se stessa. Parla sottovoce, ha paura di compromettersi; quando si mostra all’esterno è sotto la livrea delle idee umane, che le servono di passaporto. Non è lei che si esporrà ad un affronto per dei miracoli che giudica inutili e che non avrebbe mai consigliato a Dio di operare. Tanto per il passato che per il presente, ciò che le sembra meraviglioso, la spaventa: non ha avuto già sforzi sufficienti da fare, per ammettere ciò che è strettamente necessario di accettare?
La vita dei santi, le loro virtù eroiche, i loro sublimi sacrifici, tutto questo la agita. L’azione del cristianesimo nella società, nella legislazione, le sembra ledere i diritti di quelli che non credono; e intende rispettare la libertà dell’errore e la libertà del male; e non si accorge neppure più che il cammino del mondo ha trovato il suo ostacolo, da quando Gesù Cristo non è più Re sulla terra.

Vita di fede.

È per coloro la cui fede è così debole e così vicina al razionalismo, che Gesù, alle parole di rimprovero indirizzate a Tommaso, aggiunge quella insistenza che non lo riguarda esclusivamente, ma che mira a tutti gli uomini, di tutti i secoli: « Beati quelli che non hanno veduto e hanno creduto! » Tommaso peccò per non essere stato disposto a credere. Noi ci esponiamo a peccare come lui se non coltiviamo nella nostra fede quella espansione che di tutto la fa partecipe e la porta a quel progresso che Dio ricompensa, con un flusso di luce e di gioia nel cuore.
Una volta entrati nella Chiesa, il nostro dovere è di considerare tutto, d’ora in avanti, dal punto di vista soprannaturale; e non temiamo che questo punto di vista, regolato dagli insegnamenti della sacra autorità, ci trascini troppo lontano. « Il giusto vive di fede » (Rm 1,17); è il suo continuo nutrimento. In lui, se resta fedele al Battesimo, la vita naturale è trasformata per sempre. Crediamo, dunque, che la Chiesa avrebbe avuto tante cure, nell’istruzione dei neofiti, che li avrebbe iniziati attraverso tanti riti, i quali non respirano che idee e sentimenti di vita soprannaturale, per abbandonarli, poi, fin dall’indomani, senza rimorso, all’azione di quel pericoloso sistema che pone la fede in un cantuccio dell’intelligenza, del cuore e della condotta, per lasciare agire più liberamente l’uomo secondo la sua natura? No, non è cosi.
Riconosciamo dunque insieme con Tommaso il nostro errore; confessiamo insieme con lui che fino ad ora non abbiamo ancora creduto con una fede abbastanza perfetta. Come lui diciamo a Gesù: « Voi siete il mio Signore ed il mio Dio; e spesso ho pensato ed agito come se voi non foste stato, in tutto, il mio Signore ed il mio Dio. D’ora in avanti crederò senza avere veduto: poiché voglio essere del numero di quelli che voi avete chiamato beati ».
Questa Domenica, detta ordinariamente « Quasimodo », nella Liturgia porta il nome di « Domenica in Albis » e, più esplicitamente, « in albis depositis », perché oggi i neofiti ricomparivano in Chiesa con gli abiti usuali. Nel Medio Evo la chiamavano « Pasqua Chiusa », per esprimere, senza dubbio, che l’Ottava di Pasqua finiva in questo giorno. La solennità di questa domenica è così grande nella Chiesa che, non soltanto appartiene al rito del « doppio maggiore », ma non cede mai il suo posto a nessun’altra festa, di qualsiasi grado essa sia.
A Roma la Stazione si tiene nella Basilica di S. Pancrazio, sulla via Aurelia. I nostri predecessori non ci hanno insegnato nulla circa i motivi che hanno fatto scegliere questa Chiesa per la riunione dei fedeli nella giornata odierna. Forse ebbe la preferenza per la giovane età di quel martire di quattordici anni, a cui è dedicata, in rapporto a un certo confronto con la gioventù dei neofiti, che oggi formano ancora l’oggetto della materna preoccupazione della Chiesa.

STORIA DELLA QUARESIMA

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STORIA DELLA QUARESIMA

D’origine antichissima, la « Quaresima » indica quel periodo di preghiera e di penitenza, durante il quale la Chiesa prepara le anime a celebrare degnamente il mistero della Redenzione. Benché le pratiche penitenziali siano quasi ovunque cadute in disuso, non si può negare la loro importanza e necessità per la corrotta natura umana. Non è un caso che finanche i popoli pagani abbiano da sempre sentito l’esigenza di pratiche penitenzia­li per propiziarsi la divinità.
La penitenza s’esercita, o me­glio s’esercitava, principal­mente mediante la pratica del digiuno. Le tem­poranee dispense con­cesse dal Sovrano Pontefice [...] non co­stituiscono per noi una ragione sufficiente per sottacere un dovere così importante, al quale fanno incessante allusione le orazioni di ogni Messa di Quaresima, e di cui tutti debbono almeno conservare lo spirito, qualora la durezza dei tempi che si attraver­sano o la gracilità del­la salute non ne per­metterà l’osservanza in tutta la sua estensione e il suo rigore.
Essa risale ai primi tempi del Cri­stianesimo, ed è anche anteriore. La pratica del digiuno fu osservata dai profeti Mosè ed Elia [...], per quaran­ta giorni e quaranta notti fu osservata da Nostro Signore in mo­do assoluto, senza prendere il minimo alimento: e, sebbene egli non abbia voluto farne un precetto, che non sarebbe stato più suscettibile di dispen­se, pure tenne a di­chiarare che il digiu­no, spesso comandato da Dio nell’Antica Legge, sarebbe stato osservato anche dai fi­gli della Nuova Legge.
Un giorno i discepo­li di Giovanni si avvicinarono a Gesù e gli dissero: «Per qual motivo, mentre noi e i farisei digiuniamo spesso, i tuoi discepoli non digiuna­no?». E Gesù rispose loro: «Com’è possibile che gli amici dello sposo possano fare lutto finché lo sposo è con loro? Verranno poi i giorni in cui lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno» (Mt 9,14-15).
I primi cristiani si ricordarono di quelle parole di Gesù, e cominciaro­no molto presto a passare nel digiu­no assoluto i tre giorni (che per loro era uno solo) del mistero della Re­denzione, cioè dal Giovedì santo al mattino di Pasqua.
Fin dal II e III secolo abbiamo la prova che in parecchie Chiese si di­giunava il Venerdì e il Sabato santo, e sant’Ireneo, nella lettera al papa san Vittore, afferma che molte Chiese d’Oriente facevano la stessa cosa durante tutta la Settimana santa. Il digiuno pasquale si estese poi nel IV secolo, fino a che la preparazione alla festa di Pasqua, attraverso un pe­riodo sempre più lungo, divenne di quaranta giorni, cioè Quadragesima o Quaresima.
La più antica menzione della « Quarantena », in Oriente, si riscon­tra nel can. V del Concilio di Nicea (325). Il vescovo di Tmuis, Serapio­ne, attesta a sua volta, nel 331, che la « Quaresima » era al suo tempo una pratica universale, sia in Oriente che in Occidente. I Padri, come sant’A­gostino (discorso 210) dicono anti­chissima tale pratica; e san Leone (discorso 6) arriva a pensare, però a torto, che risaliva ai tempi apostolici. I primi a parlarci del digiuno quare­simale furono i Padri, e tra loro san­t’Ambrogio e san Girolamo.
I Sermoni di sant’Agostino dimo­strano che la Quaresima cominciava sei domeniche prima di Pasqua. Sic­come la domenica non si digiunava, non rimanevano che 34 giorni, 36 col Venerdì e il Sabato santo; tutta­via la Quaresima restava sempre una « quarantena » di preparazione alla solennità della Pasqua. Difatti anche allora, come adesso, non era il digiu­no l’unico mezzo per prepararsi alla Pasqua. Sant’Agostino insiste che al digiuno vada aggiunto: il fervore della preghiera, l’umiltà, la rinuncia ai desideri meno buoni, la generosità nell’elemosina, il perdono delle offe­se e la pratica d’ogni opera di pietà e di carità.
Della medesima durata consta in Spagna nel VII secolo, nella Gallia e a Milano. Per sant’Ambrogio il Ve­nerdì santo è la grande solennità del mondo: la stessa festa di Pasqua comprende il triduo della Morte, del­la sepoltura e della Risurrezione di Cristo (Lettera 233). La domenica s’interrompeva il digiuno, ma non s’abbandonava mai, grazie alla litur­gia, il colore penitenziale.
Anche san Leone afferma che la Quaresima è un periodo di quaranta giorni che termina il Giovedì santo sera; e, come sant’Agostino, dopo aver insistito sui vantaggi del digiu­no corporale raccomanda energica­mente l’esercizio della mortificazio­ne e della penitenza, e soprattutto l’aborrimento del peccato e la prati­ca fervente delle opere buone e di tutte le virtù.

NECESSITA’ DELLA PENITENZA – La necessità della penitenza è sempre at­tuale. Nell’epoca nostra di sensualità, in cui sem­bra caduta in disuso la mortificazio­ne corporale, non crediamo sia inuti­le spiegare ai cristiani l’importanza e l’utilità del digiuno. A favore di que­sta santa pratica stanno le divine Scritture, sia dell’Antico sia del Nuovo Testamento; anzi si può dire che vi si raggiunge la testimonianza della tradizione di tutti i popoli, in­fatti, l’idea che l’uomo possa placa­re la divinità con opere di espiazione del suo corpo è costante presso tutti i popoli della terra e la troviamo in tutte le religioni, anche le più lon­tane dalla purezza delle tradizioni patriarcali.

Per espiare…
«Per espiare i peccati del­le tue mani e delle tue brac­cia, di cui ti sei servita per amplessi peccaminosi ed opere cattive, le mie mani sono state trapassate da grossi chiodi, inchiodate alla Croce e lacerate per il peso del corpo. Per espiare i pec­cati dei tuoi piedi di cui ti sei servita per peccare nel ballo, o per recarti in luoghi peri­colosi, io ho avuto i piedi traforati e inchiodati al le­gno della Croce»
Gesù alla beata Angela da Foligno

Contemplando il Crocifisso
«Queste sono le meraviglie di Gesù crocifisso, che con le sue piaghe risana; con gli obbrobi sofferti, ci rende gloriosi; col sopportato di­sprezzo, promuove il nostro onore; con la sua prigionia, ci mette in libertà; con la sua morte ci dà la vita; col suo sangue versato lava le no­stre macchie e ci rende can­didi e puri».
San Bonaventura

Meraviglioso scambio nella Passione di Cristo.
La Passione del Signore e Salvatore nostro Gesù Cristo è fiducia della gloria e dottrina di pazienza. Che cosa infatti non si ripromette­ranno dalla grazia di Dio i cuori dei fedeli, quando per essi il Figlio unigenito di Dio, coeterno col Padre, non si è contentato di nascere uomo dall’uomo, ma ha voluto addirittura morire dalle mani degli uomini, che Lui stesso aveva creati? [...]. Chi potrà dubitare che Egli donerà ai santi la sua vita, se ad essi ha già fatto dono persino della sua morte? Perché la debolezza umana stenta a credere che gli uomini vivranno davvero un giorno con Dio? È molto più incredibile quel che è già av­venuto, che Dio è morto per gli uomini. [...]. Nella propria natura Egli non aveva di che morire per noi, se non prendeva da noi una carne mortale. Così l’immortale è potuto morire, così ha voluto donare la vi­ta ai mortali, rendendoli partecipi di Se stesso, dopo che Lui si era fat­to partecipe di loro. Noi di nostro non avevamo di che vivere, Lui di suo non aveva di che morire; fece allora con noi un mirabile commer­cio di scambio: quello con cui morì era nostro, quello per cui vivremo sarà suo.
Sant Agostino

Tratto da: De vita contemplativa

Publié dans:liturgia, Tempi liturgici: Quaresima |on 24 février, 2012 |Pas de commentaires »
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