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Io sono la via, la verità e la vita

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Publié dans:immagini sacre |on 16 mai, 2014 |Pas de commentaires »

ALLA PORTA DEL PARADISO – Gianfranco Ravasi

http://www.novena.it/mattutino/mattutino19.htm

ALLA PORTA DEL PARADISO

Gianfranco Ravasi

Un uomo bussò alla porta del paradiso. «Chi sei?», gli fu chiesto dall’interno. «Sono un ebreo», rispose. La porta rimase chiusa. Bussò ancora e disse: «Sono un cristiano». Ma la porta rimase ancora chiusa. L’uomo bussò per la terza volta e gli fu chiesto ancora: «Chi sei?». «Sono un musulmano». Ma la porta non si aprì.
Bussò ancora. «Chi sei?», gli chiesero. «Sono un’anima pura», rispose. E la porta si spalancò. Mistico e poeta musulmano, Mansur al-Hallaj (858-922) morì prima crocifisso e poi decapitato, lasciando dietro di sé una straordinaria testimonianza di fede e di amore. Dai suoi scritti abbiamo estratto questa parabola suggestiva.
La vera appartenenza religiosa non si misura – come ribadivano i profeti biblici – sull’adesione esteriore, sugli atti di culto, sull’ostentazione, ma sull’intima fedeltà, sulla purezza d’animo, sull’amore operoso. È questa scelta di vita che spalanca le porte del regno dei cieli. Ma vorremmo ora allegare un’altra testimonianza musulmana (anche per mostrare un volto diverso dell’islam rispetto a quello fondamentalista). Il mistico Rumi (1207-1273), fondatore dei dervisci danzanti, diceva: «La verità era uno specchio che, cadendo, si ruppe. Ciascuno ne prese un pezzo e, vedendovi riflessa la propria immagine, credette di possedere l’intera verità».
Il mistero glorioso della verità ci precede: dobbiamo deporre ogni arroganza ideologica e spirituale e ascoltare anche l’altro col suo bagaglio di verità da lui scoperta. Certo, questo non significa che tutte le idee e le credenze siano automaticamente frammenti di verità, essendo possibili i miraggi, le illusioni, gli accecamenti. L’autenticità brillerà attraverso l’amore, la donazione a Dio e al fratello, la ricerca umile e appassionata.

 

ATTI 6,1-7 – COMMENTO BIBLICO

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Atti%206,1-7

ATTI 6,1-7 – COMMENTO BIBLICO

1 In quei giorni, mentre aumentava il numero dei discepoli, sorse un malcontento fra gli ellenisti verso gli Ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana. 2 Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: «Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense. 3 Cercate dunque, fratelli, tra di voi sette uomini di buona reputazione, pieni di Spirito e di saggezza, ai quali affideremo quest’incarico.
4 Noi, invece, ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola». 5 Piacque questa proposta a tutto il gruppo ed elessero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Pròcoro, Nicànore, Timòne, Parmenàs e Nicola, un proselito di Antiochia. 6 Li presentarono quindi agli apostoli i quali, dopo aver pregato, imposero loro le mani.
7 Intanto la parola di Dio si diffondeva e si moltiplicava grandemente il numero dei discepoli a Gerusalemme; anche un gran numero di sacerdoti aderiva alla fede.

COMMENTO
Atti 6,1-7
I sette «diaconi»

Nella prima parte degli Atti (1,15- 8,4) si narra la prima espansione del cristianesimo in Gerusalemme. Essa termina con il racconto delle vicende che hanno come protagonista Stefano, la cui morte violenta darà l’avvio all’annunzio del vangelo al di fuori della città santa. Il racconto si apre con l’elezione di sette uomini deputati al servizio delle mense (At 6,1-7). Uno di costoro, Stefano, si dà alla predicazione e viene arrestato dal sinedrio (6,8-15). In questa occasione egli pronunzia un duro discorso di condanna nei confronti dei suoi accusatori (7,1-53) e alla fine del quale viene lapidato (7,54-60). La liturgia propone qui il racconto della nomina dei sette incaricati. L’autore descrive anzitutto la situazione (v. 1), indica poi la presa di posizione dei Dodici (vv. 2-4) e infine rende nota la decisione della comunità (vv. 5-7).

La situazione (v. 1)
Il nuovo racconto si apre con la descrizione di una situazione nuova che si era verificata nella comunità di Gerusalemme: «In quei giorni, mentre aumentava il numero dei discepoli, sorse un malcontento fra gli ellenisti verso gli ebrei, perché venivano trascurate le loro vedove nella distribuzione quotidiana.» (v. 1). L’episodio viene situato nel tempo mediante una formula temporale piuttosto vaga: «In quei giorni» (cfr. 1,15). Compare qui per la prima volta il termine «discepoli», usato poi una trentina di volte nel corso del libro per indicare coloro che aderiscono al movimento di Gesù. Il numero dei discepoli continua ad aumentare, ma la vita della comunità è minacciata da una grave tensione fra due gruppi che si sono formati al suo interno.
Il primo di questi gruppi viene designato con l’appellativo di «ellenisti» (hellênistai). Questo termine riappare in At 9,29 dove designa un gruppo di giudei residenti a Gerusalemme, senza dubbio gli stessi che frequentavano «la sinagoga detta dei “liberti” comprendente anche i cirenei, gli alessandrini e altri della Cilicia e dell’Asia» (cfr. 6,9): si tratta dunque di giudei originari di questi paesi, i quali nelle loro sinagoghe leggevano la Scrittura nella loro lingua nativa, il greco, secondo la versione detta dei Settanta. Proprio da questo ambiente provenivano coloro che erano presenti in occasione della pentecoste (cfr. 2,5). Aderendo alla comunità dei discepoli di Gesù costoro avevano formato un gruppo a sé. Il secondo gruppo è quello degli «ebrei» (hebraioi): in contrasto con gli ellenisti, costoro non possono essere che i primi seguaci di Gesù, i quali erano sempre vissuti in Palestina, leggevano la Scrittura in ebraico e parlavano questa lingua (in realtà si trattava piuttosto dell’aramaico, che aveva sostituito l’ebraico come lingua parlata).
Il contrasto tra questi due gruppi viene alla luce nel campo della «assistenza (diakonia) quotidiana» che veniva prestata alle vedove (chêrai). L’assistenza a queste persone diseredate faceva parte del programma della comunità, che si era posta l’obiettivo della condivisione dei beni (At 4,32.34). È probabile che le vedove fossero più numerose fra coloro che erano venuti dai paesi della diaspora per trascorrere gli ultimi anni della loro vita a Gerusalemme: forse proprio per la loro origine straniera esse ricevevano meno attenzione delle altre. Di conseguenza gli ellenisti protestano perché ritengono che le vedove del loro gruppo siano trascurate.

Le direttive degli apostoli (vv. 2-4)
I Dodici vengono a conoscenza dello scontento che serpeggia nella comunità e lo affrontano apertamente: «Allora i Dodici convocarono il gruppo dei discepoli e dissero: Non è giusto che noi trascuriamo la parola di Dio per il servizio delle mense» (v. 2). Queste parole lasciano intendere che indirettamente la critica riguardasse proprio loro, in quanto amministratori dei beni che venivano messi in comune (cfr. 4,35). Essi perciò dichiarano che non ritengono giusto dedicarsi al servizio delle mense, con il rischio di trascurare la parola di Dio. Il «servizio delle mense» (diakonein trapezais) era un incarico religioso importante nelle confraternite farisaiche, essene o battiste; esso consisteva sia nell’organizzazione delle agapi fraterne sia nell’equa distribuzione del cibo ai poveri.
Per risolvere il problema alla radice i Dodici propongono una divisione dei compiti. A tal fine incaricano la comunità di scegliere sette uomini di buona reputazione, «pieni di Spirito e di saggezza», ai quali affidare il servizio delle mense (v. 3). Il loro ragionamento si ispira a quello di Mosè il quale, di fronte alla crescita del popolo, chiede di essere coadiuvato nel compito di giudice dai capi (Dt 1,9-18). Si noti che proprio la saggezza aveva abilitato Giuseppe a svolgere una funzione amministrativa di importanza vitale nel paese d’Egitto (Gn 41,33.39); la stessa virtù doveva qualificare i capi delle tribù designati da Mosè come giudici (Dt 1,15). I Dodici esprimono l’intenzione di riservare a sé la preghiera (proseuchê) e il «servizio della parola» (diakonia tou logou) (v. 4), cioè il ruolo di «testimoni» della risurrezione di Cristo (cfr. 1,22).

La decisione comunitaria (vv. 5-6)
L’assemblea accoglie la proposta dei Dodici e procede all’elezione del gruppo dei Sette: «Piacque questa proposta a tutto il gruppo ed elessero Stefano, uomo pieno di fede e di Spirito Santo, Filippo, Procoro, Nicanore, Timone, Parmenas e Nicola, un proselito di Antiochia» (v. 5). Stranamente tutti i prescelti portano un nome greco: si ritiene quindi che appartenessero al gruppo degli ellenisti. Nella lista dei «Sette», il primo e l’ultimo meritano una menzione particolare: Stefano, «uomo pieno di fede e di Spirito santo», cioè un uomo eccezionale dal punto di vista della fede e del vigore missionario di cui si parlerà subito dopo. Nicola invece è presentato come un «proselite», cioè un gentile che si era convertito al giudaismo prima di abbracciare la fede cristiana. Questi inoltre è originario di Antiochia, una città ellenistica, che avrà un posto molto importante nel seguito del racconto, perché lì si formerà una comunità aperta ai gentili (cfr. 11,19).
L’investitura dei Sette si svolge in un clima liturgico, con la preghiera e l’imposizione delle mani (v. 6): nel testo greco non è chiaro se questo rito sia compiuto dagli apostoli o da tutta la comunità. Luca non fornisce nessuna spiegazione sul significato specifico di tale gesto, ma sembra evidente che si tratti di una benedizione e di un conferimento di autorità per compiere il loro ruolo specifico.
Al termine del brano appare di nuovo il ritornello della crescita, che accosta la diffusione della parola di Dio all’incremento numerico dei membri della chiesa (v. 7). Luca riprende qui la stessa espressione del v. 1, lasciando intendere che la felice soluzione di una crisi interna apre la strada a un nuovo progresso nell’evangelizzazione. Viene detto inoltre che fra i convertiti figurano molti «sacerdoti» (hiereis), cioè esponenti del sacerdozio giudaico. Luca non spiega il motivo di questo fatto, ma la logica del racconto lascia supporre che queste conversioni abbiano il loro peso nel conflitto che scoppierà subito dopo.

Linee interpretative
Il racconto di Luca non appare del tutto verosimile. Anzitutto è strano che i nomi dei prescelti siano tutti greci. Si può certo supporre che per un eccesso di buona volontà sia stato affidato proprio agli ellenisti il compito di provvedere a tutte le vedove, per evitare alla radice il pericolo che essi si sentissero discriminati. Ma è più probabile che questo dettaglio sia un indizio che in realtà i Sette esistevano già prima come gruppo a sé stante e svolgevano un ruolo direttivo nell’ala ellenista della comunità. Ciò sembra trovare conferma nel fatto che certe comunità della diaspora giudaica erano rette da sette «giudici». Di fatti almeno due di essi, Stefano e Filippo, si dedicheranno subito dopo non al servizio delle mense ma alla predicazione. Infine è strano che la persecuzione scoppiata dopo la morte di Stefano colpisca solo gli ellenisti, i quali devono lasciare Gerusalemme, mentre gli apostoli, e presumibilmente il loro gruppo (gli «ebrei»), vi restano indisturbati (cfr. 8,1).
Si può dunque supporre che in realtà molto presto si fosse verificata nella comunità di Gerusalemme, composta quasi esclusivamente di giudeo-cristiani, una scissione tra coloro che parlavano aramaico, i quali erano guidati dai Dodici, e quelli di lingua greca rappresentati dai Sette. La ragione remota di questa separazione era certamente di origine linguistica. Si può anche supporre che, come apparirà nel discorso di Stefano, gli ellenisti abbiano preso una posizione critica nei confronti del tempio di Gerusalemme e della legge mosaica (cfr. 6,13-14; 7,48-53), mentre gli apostoli e il loro gruppo erano fedeli osservanti della legge e partecipavano al culto del tempio (cfr. 2,46). O forse gli ellenisti erano più audaci nel proclamare l’imminente ritorno di Gesù e l’instaurazione del regno di Dio.
Il trattamento riservate alle vedove potrebbe essere stato quindi semplicemente l’occasione che ha fatto esplodere il dissidio, ma questo aveva ragioni più remote. Ai fini di presentare in modo armonico lo sviluppo della chiesa primitiva, Luca nasconde di proposito la rottura che si era già prima verificata all’interno della comunità. Anzi, pur non chiamando mai i Sette con il nome tecnico di «diaconi», li presenta come i primi incaricati di un ministero, quello del diaconato, che si svilupperà nelle comunità paoline alla fine del I secolo (cfr. 1Tm 3,8-13). Facendoli diventare diaconi prima del tempo, egli ha voluto far capire che anche i dissidenti non hanno rotto il legame di comunione con il resto della comunità, la quale invece li ha accolti come fratelli. Ciò è importante per lui perché saranno proprio loro i primi missionari che porteranno il vangelo ai gentili (cfr. 8,4; 11,20).
La vicenda degli ellenisti, così come è stata raccontata da Luca, può essere letta come esempio delle modalità con cui una comunità deve superare il rischio della scissione, che minaccia ogni gruppo umano, anche e soprattutto quello che appare più unito intorno ad una “verità” ritenuta assoluta e indiscutibile. Il fatto che i dissidenti non vengano espulsi ma ricevano un incarico di responsabilità nella comunità stessa mostra che i diversi punti di vista devono essere considerati non come occasione di divisione, ma piuttosto come espressione di una ricchezza che dà origine a compiti e servizi diversi.

18 MAGGIO 2014 | 5A DOMENICA DI PASQUA A – LECTIO DIVINA : GV 14,1-12

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18 MAGGIO 2014 | 5A DOMENICA DI PASQUA A | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : GV 14,1-12

Nelle parole di Gesù si riflette la situazione che vivevano i discepoli dopo Pasqua: sapevano che Cristo era risuscitato, ma erano ancora addolorati per la sua assenza. Li riempiva un triste sentimento di sentirsi orfani, rubando l’allegria recuperata di sapere che Gesù era vivo. Incoraggiandoli, Gesù spiega loro la sua apparente assenza: sta preparando loro un posto nella casa del Padre; la sua apparente lontananza attuale è dovuta alla preoccupazione che viene dai suoi; dovrebbero saperlo ed avere coraggio: la fede in Dio deve viversi da ora in poi come fede in Gesù; che, risuscitato, deve stare con suo Padre. Le domande dei discepoli esprimono il loro sconcerto: non sanno bene dove sta andando il loro Signore, non conoscono la strada per seguirlo. Gesù non insiste sul suo nuovo destino personale, Dio Padre; per i suoi discepoli è Lui la via, la verità, la vita: senza passare per lui nessuno arriva a Dio. E, pertanto, risponde a chi desidera vedere Dio che vedere Lui è contemplare il Padre: Gesù Resuscitato è il volto umano di Dio, dal quale Dio ci guarda e nel quale contempliamo Dio. Non è impressionante, e significativo che Gesù debba pregare i suoi discepoli perché gli credano?.

In quel tempo, disse Gesù ai suoi discepoli:
1 « Non sia turbato il vostro cuore. Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me.
2 Nella casa del Padre mio vi sono molti posti. Se no, ve l’avrei detto. Io vado a prepararvi un posto;
3 quando sarò andato e vi avrò preparato un posto, ritornerò e vi prenderò con me, perché siate anche voi dove sono io.
4 E del luogo dove io vado, voi conoscete la via ».
5 Gli disse Tommaso: « Signore, non sappiamo dove vai e come possiamo conoscere la via? ».
6 Gli disse Gesù: « Io sono la via, la verità e la vita. Nessuno viene al Padre se non per mezzo di me.
7 Se conoscete me, conoscerete anche il Padre: fin da ora lo conoscete e lo avete veduto ».
8 Gli disse Filippo: « Signore, mostraci il Padre e ci basta ».
9 Gli rispose Gesù: « Da tanto tempo sono con voi e tu non mi hai conosciuto, Filippo? Chi ha visto me ha visto il Padre. Come puoi dire: Mostraci il Padre?
10 Non credi che io sono nel Padre e il Padre è in me? Le parole che io vi dico, non le dico da me; ma il Padre che è con me compie le sue opere.
11 Credetemi: io sono nel Padre e il Padre è in me; se non altro, credetelo per le opere stesse.
12 In verità, in verità vi dico: anche chi crede in me, compirà le opere che io compio e ne farà di più grandi, perché io vado al Padre.

1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
L’annuncio del tradimento di Giuda (Gv 13,21-30) e del rinnegamento di Pietro (Gv 13,36-38) ha riempito di turbamento il coraggio di alcuni discepoli. Il testo, incorniciato sul tema della fede (14,1.10.11.12), non ha uno sviluppo chiaro: dopo aver spiegato ai suoi discepoli perché si è assentato e che cosa fa mentre essi si sentono soli (14,1-4), Tommaso, in primo luogo, e dopo Filippo domandano a Gesù la strada per arrivare al Padre (14,5.8). Gesù adotta un tono magistrale (14,1.9.11), mentre i discepoli si sforzano per capirlo, senza troppo successo.
Il discepolo che si sente abbandonato, ha la fede come aiuto. Ma una cosa è credere in Dio ed un’altra, ben distinta e più difficile, è credere in un uomo che è stato tradito e rinnegato da essi e che, ora, restituito alla vita, non convive con essi. Vissuta nella solitudine, la fede non dispera: la solitudine non è il destino ultimo del credente, poiché l’assenza è mezzo per costruire una nuova casa con Dio. Casa è qui immagine di accoglienza e familiarità, posto dove il credente è ricevuto da Dio, stato di salvezza escatologica: avendo la casa di Dio molte dimore uno può essere accolto in diversi modi (14,2a). Gesù li ha lasciati, affinché essi trovino accoglienza in Dio, dove è il Figlio. Che i discepoli avranno accesso a Dio è opera del Figlio. Nella loro solitudine devono ritrovare la serenità. « Vada, dunque, il Signore a prepararci il posto » commentò Sant’ Agostino – « va e non lo vediamo; nasconditi affinché crediamo. Si prepara il posto vivendo nella fede. Desideriamolo per la fede per averlo per il desiderio, perché il desiderio di amare anticipa il fare. Prepara, dunque, Signore, quello che stai preparando: ci prepari per te e te per noi ». La sua partenza non è definitiva: ritornerà ai suoi affinché stiano con Lui. Più che lasciarli abbandonati, Gesù lascia i suoi speranzosi; la sua solitudine è puramente apparente. Quando ritorna, conosceranno dove è andato e la strada per arrivare.
La domanda di Tommaso (14,5; 11,16) introduce un nuovo sviluppo (14,5-11): chi ha fatto il cammino verso Dio, in Lui trova strada e meta, via e accesso, mezzo e fine (14,6). Gesù è la strada, l’unico, che conduce a Dio. E lo è senza altri concorrenti, in esclusività: nessuno può pensare altre vie o proporre altri sentieri per andare dal Padre che quella che Lui è e realizza. Conoscendolo, l’accesso a Dio è garantito: solo Lui, le sue parole e le sue opere, manifestano Dio pienamente. In quanto mediatore esclusivo dell’incontro col Padre, è verità definitiva (1,14.17; 5,33; 8,32.40.44-46); accolto come tale, si fa vita (1,4; 6,33.35.48.63.68; 8,12; 10,10; 11,25).
Con sorprendente audacia, Gesù arriva a dire che la conoscenza vitale della sua persona è già visione del Padre, conoscenza di Dio senza intermediari né segni (14,7): diventare amico di Gesù, conoscerlo, è la condizione per accedere al Padre. Come discepoli, lo hanno già conosciuto e, perciò, ora possono conoscere e vedere il Padre, compito impossibile all’uomo (1,18. Is 45,15).
Filippo, incomprensibilmente, chiede a Gesù che manifesti il Padre (14,8. Es 33,18) e rimanere così soddisfatto. Per il credente di tutti i tempi costituisce una tentazione perenne la sentita necessità di uno svelamento definitivo del suo Dio; vedere Dio è la suprema aspirazione dei suoi fedeli (Es 33,12-23; Sal 27,8.9.13; 24,6; 43,3.4.19; 105,6; Mt 5,7; 1 Gv 3,2). Gesù esautora quella speranza vana e si lamenta; il malessere di Gesù va diretto a tutti i suoi discepoli: sarebbe dovuto bastare il tempo di convivenza affinché fosse sorto in essi il riconoscimento che in Gesù si vede il Padre (10,38). Gesù è la definitiva teofania di Dio, la sua migliore definizione e la sua più completa esegesi: chi lo vede, vede il Padre (14,9); per chi crede (12,44-45), non desidera prove né dimostrazioni ulteriori. La fede che vede Gesù come Figlio fa vedere suo Padre, non perché si contempla Dio bensì perché si accetta il Figlio; in presenza del Figlio si sta in presenza di Dio.
Gesù motiva la sua affermazione (14,11-12): è il mediatore che risiede nel Padre ed il Padre in lui. La coabitazione di Gesù ed il Padre, l’abitare reciproco, si realizza nelle parole di Gesù che sono opere del Padre (14,10). L’intimità di Gesù con Dio è la prova che Gesù porta affinché il discepolo passi dalla sua ignoranza alla fede dell’amico (14,11). La legittimità della rivelazione che Gesù fa di Dio riposa sulla mutua relazione che esiste tra tutti e due: quello che fa Gesù sono azioni di Dio. Se non servono le sue parole che, almeno, valgano le opere che fa il Padre in lui.

2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
Oggi il vangelo ci mostra Gesù, che saluta i suoi discepoli alla vigilia della sua morte violenta e consolandoli anticipatamente per la sua precoce sparizione. I cristiani tornarono a ricordare questa scena e le parole di Gesù, quando, dopo la sua resurrezione, si sentirono soli e sconsolati: Gesù era vivo, certamente, ma non stava oramai con essi. Non era oramai come prima, quando camminavano predicando il regno di Dio, godendo della sua presenza e delle sue attenzioni; ora, benché lo sapessero risuscitato, non tutti potevano vederlo, alcuni non riuscivano a riconoscerlo e tutti temevano dover vivere senza di lui. Superata la prima sorpresa ed appena guadagnata l’allegria, si andarono rendendo conto che Gesù Resuscitato non apparteneva loro oramai come prima. Il godimento della sua presenza non doveva durare molto; Gesù aveva recuperato la vita, ma i discepoli non recuperarono il loro Signore: il Risuscitato tornava a Dio ed essi si dovevano sentire, sempre di più, orfani di Gesù.
La resurrezione di Gesù fu, senza dubbio, il trionfo di Dio sulla morte, ma, momentaneamente, suppose anche la sparizione fisica di Gesù tra i vivi: i discepoli, appena superato il trauma della morte violenta del loro maestro, non molto sicuri ancora di averlo vivo, dovettero abituarsi a non contare su di lui per tutto; a cosa poté servirgli che il Signore recuperasse la vita, se essi non recuperavano il loro Signore? Se Gesù risuscitato non ritornava con essi, che beneficio otterrebbero della sua gloriosa resurrezione?
Non è anche quella la nostra situazione? Non ci sentiamo anche noi abbandonati alla nostra sorte nei confronti di Gesù? Abbiamo celebrato la resurrezione di Gesù e sappiamo – è il cuore stesso della nostra fede e la ragione della nostra speranza – che egli vive per sempre e per noi. Ma ciò non ci basta per sentirci sicuri, per liberarci dalla sensazione di abbandono, per recuperare la fiducia in lui. Incapaci di poter vedere e palpare Dio nel nostro mondo, senza sentire le sue attenzioni né sentirsi oggetto della sua preoccupazione, dubitiamo del suo interesse per noi e si accrescono le nostre paure. Sembra che viviamo, come i primi apostoli, senza dubitare che Gesù sia realmente vivo e con Dio, ma senza poter credere che non ci ha abbandonati. Come ad essi, oggi Gesù ci ripete: « Non sia turbato il vostro cuore, abbiate fede in Dio e abbiate fede in me. »
Ed il motivo convince, perché, ben mirato, è tanto consolante! Recuperata la vita, Gesù non ci recupera immediatamente. Deve prima prepararci un posto nella casa del Padre, la nostra casa vicino a Dio. E si allontana, fisicamente da noi; non rimane neanche a portata delle nostre mani, come qualche volta abbiamo desiderato, del nostro cuore. Ma non ci abbandona: si sta occupando di convincere Dio affinché vicino a Lui ci faccia un posto nel suo cuore e ci dia un luogo a portata delle sue mani, mani di Dio e cuore di Padre. La sua sparizione, benché faccia male al discepolo di Gesù il non vedere il suo Signore né sentirlo vicino, è ben motivata: sta facendoci posto vicino a Dio, sta allargando il cuore di Dio, affinché dove Egli è già, staremo anche noi. Non staremmo all’altezza della sua bontà, se interpretassimo la sua sparizione come disinteresse o dimenticanza, se ci lamentassimo di essere stati abbandonati a noi stessi: credere oggi in Cristo Risuscitato suppone accettare che non sta totalmente con noi, perché vuole stare per sempre con noi vicino a Dio. Potevamo aspettare qualcosa di meglio? Abbiamo fede in lui, per più abbandonati che ci sentiamo; non disperiamo di lui, benché tutto ci dica che ci ha lasciato.
Come Tommaso, non riusciamo sempre a capire Gesù, che, se ci lascia momentaneamente, ci ha trasmesso anche la sua promessa di ritornare; e se ciò fosse poco, si è impegnato personalmente ad essere via verso Dio, c’è stato offerto come la strada da percorrere: chi si sente lontano dal suo Signore, può ricorrere a lui percorrendo la sua strada; vivere come egli lo fece è il modo di recuperarlo, è la forma per renderlo presente. Il discepolo che si sente solo che gli dolga l’allontanamento di Dio, trova la via del suo recupero, se prende la vita di Gesù come cammino da percorrere, come verità per i suoi dubbi, come vita per le sue morti.
Avere Cristo Gesù come cammino non è ideale lontano né meta irraggiungibile; significa sforzarsi giorno per giorno per ripetere i suoi gesti, realizzare le sue esigenze e camminare dietro le sue orme; rifare quello che ha fatto Gesù può essere faticoso e perfino eroico, inusuale e oggi perfino impopolare, ma ottiene la meta, la familiarità con Dio: Gesù è l’unico che non ci assicura trionfi perituri, bensì un fine davvero felice: « solo Lui ci mostra il Padre. » E quello lo fa meritevole della nostra fiducia e di qualunque sforzo.
È vero: accettare Gesù come via, verità e vita non è sempre facile; molte volte, neanche lo desideriamo; lo pensiamo, ma lo temiamo. Perché significa mettere Cristo Gesù al centro della nostra vita, farlo ragione delle nostre decisioni e giudice dei nostri sentimenti. E ciò può risultare complicato e perfino pericoloso: supporrebbe avere un’altra persona, con le sue idee e le sue esigenze, coi suoi valori e le sue necessità, come ispiratore e motore della nostra vita personale. E per non osar dare a Cristo ciò che gli corrisponde, scegliamo di vivere una vita che non è cattiva, ma che neanche è troppo buona, senza fare male ma omettendo il bene. Non ci distinguiamo per i nostri peccati, ma neanche brilliamo per la nostra santità; senza smettere di essere uomini buoni durante tutta la nostra vita, non riusciamo ad essere buoni discepoli di Cristo.
Ci manca di fare un passo, il decisivo, collocare Cristo al centro dei nostri pensieri ed affetti, del nostro volere e del nostro fare; solo quando Egli sarà il nostro Signore, sarà la nostra strada verso Dio; è per paura di perderci noi stessi, se prendiamo sul serio Dio, che ci perdiamo la casa che Cristo ci prepara vicino a Dio e ci sentiamo abbandonati, soli durante il tragitto della vita. Non è che Cristo Risuscitato ci abbia lasciato soli; è che persistiamo a percorrere altre vie più piacevoli ed a seguire altri signori meno esigenti. E non otteniamo, logicamente, di trovarci con Cristo né sapere che ci dirigiamo a Dio.
Quando nella nostra vita non vi è niente che lasci vedere che siamo di Cristo, niente ci sarà in lei che assomigli a Dio. Come Filippo, abbiamo potuto stare tutta la vita con Gesù e non conoscerlo realmente. Sarebbe un grave equivoco ed un gran fallimento. Se vogliamo evitarli, dobbiamo dare a Cristo il posto che gli spetta: sia Lui la nostra via, la verità e la nostra vita. Saremo vincitori: smetteremo di sentirci soli ed avremo guadagnato Dio.
3 – PREGARE : Prega il testo e desidera la volontà di Dio: cosa dico a Dio?
Signore Gesù, mi rallegra saperti già, vicino a Dio Padre, vincitore della morte, ma mi fa paura vedermi tanto abbandonato. Dammi quella fede che mi chiedi affinché calmi la mia ansietà e riempia i miei vuoti di te. Mi dà molta fiducia saperti occupato a prepararmi una casa, un posto di riposo e di intimità in Dio. Non sai quanto mi consola sapere che dove ora stai, non vuoi stare senza di me, che ritornerai per me e che, affinché possa raggiungerti, tu sarai la mia strada. Se santo, mio Signore, grande amico e meglio, fratello.
Ora che ti riconosco già come la mia strada e la meta, la mia verità e la vita, lasciami vedere in te il Padre. Mi basterebbe per trovare la pace ed il coraggio di potere contemplarlo come Padre e contemplarmi come figlio. Lasciami vederlo in te, permettimi che ti veda affinché lo veda e rimanga soddisfatto.
Che stupendo sei con me! Come stimoli la mia povera fede quando mi prometti, come a Filippo un giorno, di fare opere maggiori che le tue, se mi mantengo fedele e fiducioso!

JUAN JOSE BARTOLOME sdb

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