Archive pour mai, 2014

IMPOLVERARSI CON LA TERRA

http://web.tiscali.it/pulchritudo/page174/page211/page211.html

IMPOLVERARSI CON LA TERRA

En archè en o Logos, «In principio era la Parola»: è stata questa la frase biblica che la scorsa settimana abbiamo presentato cercando di svelarne la bellezza, celata sotto l’apparente povertà. Noi ora continueremo a seguire l’inno che fa da prologo al vangelo di Giovanni, un testo di straordinaria suggestione e poesia, oltre che di grande densità e intensità teologica. «La voce dell’aquila spirituale risuona all’interno della Chiesa…». Sappiamo che la tradizione ho raffigurato Giovanni con l’immagine dell’aquila che vola nei campi infiniti del cielo. Questa immagine è ripresa nella frase introduttorio, appena citata, di un antico commento all’inno giovonneo. A comporlo è stato un teologo irlandese di nome Giovanni Scoto Eriugena, vissuto alla corte del re-filosofo Carlo il Calvo. Egli scrisse tra l’865 e l’870 un Prologo di Giovanni che è considerato un capolavoro della lingua latina medievale e comincia proprio con l’appello sopra evocato. Si tratta di una gemma filosofico-teologica e poetica che, in forma di omelia, segue l”aquila spirituale”, cioè l’evangelista, che vola con ali veloci verso l’Inconoscibile, cioè il mistero divino. In questo folle volo si approda alla scoperta spirituale che è anche il vertice dell’inno giovanneo. Esso, infatti, ha come picco la celebre frase «Il Logos divenne carne» (1,14). Una dichiarazione scandalosa per il mondo greco perché il purissimo Logos divino, la Parola suprema e trascendente, non poteva impolverarsi con la terra né tanto meno imprigionarsi nella fragilità della nostra carne ed essere lambita dal dolore e colpita dalla morte. Il cristianesimo, invece, afferma che Dio non ha esitato a entrare nel ventre di una donna per diventare carne e sangue, corpo e tempo. Lo scrittore antico Scoto Eriugena, allora, affermava che — con l’ingresso di Dio nel mondo degli uomini — anche «questa pietra e questo legno per me sono luce».
A questo punto vorremmo lasciare la parola a un altro scrittore più vicino a noi, l’argentino Jorge Luis Borges (1899-1986), che, pur essendo agnostico, ha voluto cantare a suo modo il mistero dell’Incarnazione. E l’ha fatto con una poesia pubblicata nel 1969 nella raccolta Elogio dell’ombra con un titolo significativo, Giovanni 1,14 (il versetto da noi citato). Si tratta di una specie di “autobiografia” che Cristo, il Verbo incarnato, narra. Forse il testo non risulterà facile: invitiamo a seguirlo con pazienza, verso perverso. E il tentativo di mostrare l’ingresso di Colui che è eterno (E’, Fu, Sarà») nel tempo, nelle piccole realtà quotidiane e nella morte.
«lo che sono l’E’, il Fu e il Sarà / accondiscendo ancora al linguaggio, / che è tempo successivo e simbolo… / Appresi la veglia, il sonno, i sogni, / l’ignoranza, la carne, / i tardi labirinti della mente, / l’amicizia degli uomini / e la misteriosa dedizione dei cani. / Fui amato, compreso, esaltato e sospeso a una croce».

Santi Filippo e Giacomo – link alla storia

Santi Filippo e Giacomo - link alla storia  dans immagini sacre santi%20filippo%20e%20giacomo
http://ocarm.org/it/content/lectio/lectio-santi-filippo-e-giacomo-apostoli

Link alla storia

http://www.paginecattoliche.it/modules.php?name=News&file=article&sid=1566

Publié dans:immagini sacre |on 3 mai, 2014 |Pas de commentaires »

LITURGIA TERRENA E LITURGIA CELESTE

http://www.clerus.org/clerus/dati/2001-03/17-2/14LITURGIAELES.html

LITURGIA TERRENA E LITURGIA CELESTE

Essendo azione eminentemente « ecclesiale », anche la Liturgia partecipa di quelle che sono le prerogative della Chiesa: “è umana e divina, visibile ma dotata di realtà invisibili, fervente nell’azione ma dedita alla contemplazione, presente nel mondo e, tuttavia, pellegrina; e tutto questo, però, in modo tale che quanto in essa è umano sia ordinato e subordinato al divino, il visibile all’invisibile, l’azione alla contemplazione, il presente alla città futura alla quale tendiamo” (SC 2).
Ecco perché nella Liturgia che noi celebriamo qui sulla terra già partecipiamo, pregustandola, alla Liturgia celeste che viene celebrata nella santa Gerusalemme dove il Cristo siede alla destra di Dio quale ministro del santuario e del vero tabernacolo (cf Ap 21,2; Col 3,1; Eb 8,2).
Il Sommo Sacerdote sempre vivente.
Pur restando vero che il Signore Risorto per realizzare nel nostro tempo la sua opera perenne di salvezza, si fa sempre presente nella sua Chiesa ed in modo speciale nelle azioni liturgiche (SC 7; 35: praesens semper adest et operatur), tuttavia non dobbiamo dimenticare che la vera Liturgia è quella che Egli celebra quale nostro Sommo Sacerdote « sempre vivente » in una perenne intercessione presso il Padre in nostro favore (Eb 7,25; Rm 8,34). Congiuntamente allo Spirito Santo, che intercede presso Dio in favore dei santi (Rm 8,27), anche Cristo, Sacerdote eterno, esercita nel cielo l’ufficio di mediatore e di intercessore a favore di coloro che per mezzo suo si accostano a Dio: «Egli, poiché resta per sempre, possiede un sacerdozio che non tramonta. Perciò può salvare perfettamente quelli che per mezzo di lui si accostano a Dio, essendo egli sempre vivo per intercedere a loro favore» (Eb 7,24-25).
La letteratura neotestamentaria su questo tema è piuttosto abbondante. Si possono intravedere, alla base di questi testi, almeno due grandi riferimenti a «figure» (typoi: Col 2,17) già ben conosciute nella tradizione veterotestamentaria:
a. quella del sommo sacerdote levitico che, una volta all’anno, aveva accesso al santo dei santi nel giorno solenne della festa dell’espiazione (kippur; cf Lev 16); egli portava del sangue tratto dal sacrificio del capro espiatorio e lo versava sul coperchio dell’arca dell’alleanza quale espiazione di tutti i peccati degli Israeliti (Lev 16,16). Nella pienezza del tempo si è manifestata la «realtà» di queste figure, Cristo, (cf Col 2,17); Egli non con il «sangue esterno» di capri o di vitelli, ma con il proprio sangue, ha offerto se stesso senza macchia a Dio con uno Spirito eterno per purificarci dalle opere morte e permetterci di servire il Dio vivente (Eb 9,11-14);
b. quella del Servo del Signore descritta nel secondo carme del profeta Isaia (Is 49). Dice il Signore: «Si dimentica forse una donna del suo bambino, così da non commuoversi per il figlio delle sue viscere? Anche se queste donne si dimenticassero, io invece non ti dimenticherò mai. Ecco, ti ho disegnato sulle palme delle mie mani, le tue mura sono sempre davanti a me» (Is 49,15-16). Nella pienezza del tempo Cristo Signore Risorto sta sempre Vivente dinanzi al Padre in una perenne Liturgia di intercessione a nostro favore. Nelle sue mani non c’è il disegno di una città, Gerusalemme, ma c’è il segno della trafittura dei chiodi, il segno del suo grande amore per noi.
In Cristo le «figure» si sono dunque realizzate. Noi «abbiamo un avvocato (parakletos) presso il Padre: Gesù Cristo giusto» (1 Gv 2,1). Egli è «il Vivente», colui che, morto, ora vive per sempre (Ap 1,18). «Cristo infatti non è entrato in un santuario fatto da mani d’uomo, figura di quello vero, ma nel cielo stesso, per comparire al cospetto di Dio in nostro favore» (Eb 9,24).
Accostiamoci con fiducia.
Avendo noi un sacerdote grande sopra la casa di Dio, possiamo accostarci con cuore sincero nella pienezza della fede e con i cuori purificati al santuario celeste dove Cristo è entrato inaugurando una via nuova e vivente per noi attraverso il velo della sua carne (Eb 10,19-22) per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno (Eb 4,14-16). Anche noi possiamo avere accesso a questa Liturgia celeste: per mezzo di Cristo possiamo presentarci, gli uni e gli altri, al Padre in un solo Spirito (Ef 2,18); per la fede in Lui noi abbiamo il coraggio di avvicinarci in piena fiducia a Dio (Ef 3,12). Noi che eravamo stranieri e nemici, siamo stati riconciliati per mezzo della morte del suo corpo di carne e possiamo presentarci santi, immacolati e irreprensibili al suo cospetto.
La Liturgia diventa così dono divino di grazia gratuita. Nell’antica alleanza vigeva la legge per cui «nessun uomo può vedere Dio e restare vivo» (Es 33,20). Mosè sul monte della teofania ha dovuto togliersi i sandali dai piedi (Es 3,5) e coprirsi il volto; ha potuto vedere Dio solo di spalle, perché il suo volto non lo si può vedere (Es 33,23).
Ma, da quando il Verbo eterno del Padre ha piantato la sua tenda in mezzo a noi (Gv 1,14), ci ha reso possibile l’incontro e la visione del Dio invisibile, senza per questo venire annientati dalla sua «gloria». «Dio nessuno l’ha mai visto: proprio il Figlio unigenito, che è nel seno del Padre, lui lo ha rivelato» (Gv 1,18). Concedendoci la caparra del suo Spirito (2 Cor 1,22; Ef 1,13; 1 Gv 2,20.27), il Signore Risorto ha permesso anche a noi di poter accedere alla visione della divina gloria, dal momento che la nostra patria è nei cieli (Fil 3,20): «Ora vediamo come i uno specchio, in maniera confusa; ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto» (1 Cor 13,12: cf Mt 5,8; 1 Gv 3,2).
Con una sola voce.
La funzione dell’attuale Liturgia, quella della Gerusalemme peregrinante, ha come funzione di metterci fin da ora in comunione con la Liturgia perenne che si celebra nel santuario celeste, dinanzi alla gloria di Dio e all’Agnello (Ap 5,12-13).
Non vi sono quindi due liturgie, una celeste e una terrena, ma un’unica Liturgia partecipata da noi qui ora in maniera assetata e da pellegrini sotto il peso « delle sofferenze del momento presente » (Rm 8,18), e dai Santi in maniera saziata e da cittadini dei cieli già « partecipi della gloria futura » (Rm 8,18); noi qui mediante il velo dei « segni » sacramentali, loro ormai « faccia a faccia » nel santuario celeste (1 Cor 13,12).
Questa visione della Liturgia terrena già partecipe della Liturgia celeste viene ben espressa in ogni prefazio da quello che si chiama «protocollo conclusivo» che dice: «Per questo mistero di salvezza, uniti agli Angeli e ai Santi, cantiamo a una sola voce la tua gloria».
Partecipi del sacerdozio di Cristo, possiamo dunque affermare che mentre siamo incamminati come pellegrini (Eb 13,14) verso la Patria celeste, già ora il Signore Risorto ci fa partecipare della sua Liturgia perenne in modo che il nostro canto di lode sia unito a quello degli Angeli e dei Santi formando con loro un’unica voce nella speranza di essere un giorno con loro nella Liturgia celeste senza fine nella casa del Padre.
Tra Liturgia terrena e Liturgia celeste vi è pertanto un duplice legame:
teologico, a motivo della presenza dell’unico Signore e Liturgo (Eb 8,2.6), il Signore Risorto (cf SC 7); a motivo della medesima appartenenza a Cristo e alla carità di Dio e del prossimo che ci permette di cantare, sia pure in grado e modo diverso, lo stesso inno di gloria; tutti infatti quelli che sono di Cristo, avendo la comunione nel medesimo Spirito, formano una sola Chiesa e sono pertanto tra loro uniti in Lui (Ef 4,16; LG 49);
cronologico, a motivo del già che noi abbiamo (Gal 5,25) in rapporto al non ancora che deve compiersi (1 Gv 3,2; Fil 3,21); ci è data infatti la caparra dello Spirito (Ef 1,14; 2 Cor 1,22; 5,5) che, principio di risurrezione (Rom 8,11), già ora ci abilita ad un vero culto spirituale (Rm 12,1), ad un sacrificio vivente a Dio gradito (Ef 5,2; Eb 9,14).
Il Vaticano II ha detto che « Mediante l’assemblea liturgica la Chiesa manifesta più pienamente l’indole escatologica della sua vocazione » (LG 48) ed « attua già su questa terra, in maniera nobilissima, la sua unione con la Chiesa celeste » (LG 50).
Se dalla Liturgia noi attingiamo la ricchezza della grazia divina, non dobbiamo tuttavia dimenticare che le «sorgenti» di questa vita soprannaturale sono «lassù, dove Cristo siede alla destra di Dio, dove la vita della Chiesa è nascosta con Cristo in Dio, fino a che col suo Sposo, comparirà rivestita di gloria (cf Col 3,1-4)» (Lumen gentium 6).
Nel tempo della Chiesa, lo Spirito Santo è all’opera. Soprattutto mediante la predicazione del Vangelo (attività missionaria) ed il ricorso ai mezzi della grazia sacramentale (attività liturgica), lo Spirito fa ringiovanire la Chiesa, la rinnova continuamente, la fa partecipare fin da ora alla cittadinanza (politeuma) «nei cieli» (Fil 3,20; LG 13.48), essendo «la Gerusalemme di lassù nostra madre» (Gal 4,26; LG 6).
Nella comunione dei Santi.
L’espressione comunione dei Santi la troviamo già nel Simbolo apostolico e poi nel Credo Niceno-Costantinopolitano quando si fa la professione di fede dicendo «credo la comunione dei Santi». Con questa espressione si vogliono esprimere almeno tre significati: anzitutto la comunione ai beni spirituali della Chiesa (Sancta = le cose sante); in secondo luogo la comunione che esiste tra le membra del corpo di Cristo, siano esse in situazione di pellegrinaggio su questa terra, o di purificazione nel purgatorio, o di beatitudine nel Paradiso (Sanctorum = i Santi); infine la comunione allo Spirito Santo (Sancti = il Santo Spirito).
La Liturgia permette la realizzazione di questo misterioso e reale vincolo di comunione. La Chiesa crede infatti che l’unione in Cristo dei fratelli, la quale consiste in vincoli di carità, non s’interrompe con la morte, anzi, secondo la perenne fede della Chiesa, è consolidata dalla comunicazione dei beni spirituali. La fede dona ai cristiani che vivono sulla terra la possibilità di comunicare in Cristo con i propri cari già strappati dalla morte (GS 18). Questa comunicazione avviene attraverso diverse forme di preghiera basate sulla fede della comunione-continuità tra Liturgia terrena e Liturgia celeste.
Nella Liturgia terrena, soprattutto quando celebriamo il sacrificio eucaristico, ci uniamo in sommo grado al culto della Chiesa celeste, comunicando con essa e venerando la memoria soprattutto della gloriosa Vergine Maria, ma anche del beato Giuseppe e dei beati apostoli e martiri e di tutti i santi (LG 50). Realmente, quando si celebra la Liturgia terrena, si manifesta la volontà di unirla con quella celeste. Così, nel Canone Romano, questa volontà appare non solo nell’orazione «In comunione con tutta la Chiesa», ma anche nel passaggio dal prefazio al canone e nell’orazione del canone «Ti supplichiamo, Dio onnipotente», nella quale si chiede che l’offerta terrena sia portata sull’altare sublime del cielo, al cospetto della maestà divina, per le mani dell’angelo santo del divin sacrificio; da questo «admirabile commercium» tra Liturgia celeste e Liturgia terrena viene a noi la certezza che «su tutti noi che partecipiamo di questo altare… scenda la pienezza di ogni grazia e benedizione del cielo».
Ma questa Liturgia celeste non consiste solo nella lode. Il suo centro è l’Agnello che sta in piedi, come immolato (cf. Ap 5,6), cioè «Cristo Gesù, che è morto, anzi, che è risorto, sta alla destra di Dio e intercede per noi» (Rm 8,34; cf. Eb 7,25). Poiché le anime dei beati partecipano a questa Liturgia d’intercessione, in essa hanno cura anche di noi e del nostro pellegrinaggio, «poiché intercedono per noi e con la loro fraterna sollecitudine aiutano grandemente la nostra debolezza». Poiché in questa unione della Liturgia celeste e terrena diventiamo coscienti che i beati pregano per noi, «è quindi sommamente giusto che amiamo questi amici e coeredi di Gesù Cristo e anche nostri fratelli e insigni benefattori e che per essi rendiamo le dovute grazie a Dio» (LG 50).
Inoltre, la Chiesa ci esorta con impegno a invocarli umilmente e ricorrere alle loro preghiere, al loro potere e aiuto per ottenere benefici da Dio, per mezzo del Figlio suo Gesù Cristo, nostro Signore, che è l’unico Redentore e Salvatore. Questa invocazione dei Santi è un atto per cui il fedele si affida fiduciosamente alla loro carità. Poiché Dio è la fonte dalla quale si diffonde tutta la carità (cf. Rm 5,5), ogni invocazione dei Santi è riconoscimento di Dio, quale fondamento supremo della loro carità, e tende, come ultimo termine, a lui.
Concludendo possiamo dire che tutta la vita cristiana è da vedere come una processione liturgica di peregrinanti (cf la panegyrìa di Eb 12, 22) il cui scopo è, arrivando al termine dove è la perfezione, di avvicinarci a Dio nel santuario celeste, e comparire dinanzi a Lui. In questa Liturgia celeste ed in questo santuario, già ci hanno preceduto coloro che «sono morti nel segno della fede» (Canone Romano). La nostra Liturgia terrena, pur nella sua limitatezza e debolezza umana, già è partecipazione reale di quella realtà celeste, grazie alla divina presenza, là e qui, dell’unico Sommo Sacerdote, il Signore Risorto. Egli ci asperge col suo sangue purificandoci dai nostri peccati, ci nutre col suo corpo per la Risurrezione finale, ci da già il pegno della gloria futura
Sant’Agostino esprime questa nostra peregrinazione verso la Liturgia celeste, con il celebre Discorso che si intitola «Canta e cammina».
«Cantiamo qui l`alleluia, mentre siamo ancora privi di sicurezza, per poterlo cantare un giorno lassù, ormai sicuri. Perché qui siamo nell`ansia e nell`incertezza […] Ora infatti il nostro corpo è nella condizione terrestre, mentre allora sarà in quella celeste. O felice quell`alleluia cantato lassù! O alleluia di sicurezza e di pace! Là nessuno ci sarà nemico, là non perderemo mai nessun amico. Ivi risuoneranno le lodi di Dio. Certo risuonano anche ora qui. Qui però nell`ansia, mentre lassù nella tranquillità. Qui cantiamo da morituri, lassù da immortali. Qui nella speranza, lassù nella realtà. Qui da esuli e pellegrini, lassù nella patria. Cantiamo pure ora, non tanto per goderci il riposo, quanto per sollevarci dalla fatica. Cantiamo da viandanti. Canta, ma cammina. Canta per alleviare le asprezze della marcia, ma cantando non indulgere alla pigrizia. Canta e cammina. Che significa camminare? Andare avanti nel bene, progredire nella santità. Vi sono infatti, secondo l`Apostolo, alcuni che progrediscono si, ma nel male. Se progredisci è segno che cammini, ma devi camminare nel bene, devi avanzare nella retta fede, devi avanzare nella retta fede, devi progredire nella santità. Canta e cammina». (Dai «Discorsi» di sant`Agostino, vescovo, Disc. 256, 1. 2. 3; PL 38, 1191-1193 [Ufficio delle Letture, sabato XXIV per annum])

Prof. Paolo Giglioni
Marzo 2000

Publié dans:liturgia, LITURGIA: STUDI |on 3 mai, 2014 |Pas de commentaires »

Sant’Atanasio

Sant'Atanasio dans immagini sacre St.-Athanasius-The-Great-$28d.C.295$29

Publié dans:immagini sacre |on 2 mai, 2014 |Pas de commentaires »

2 MAGGIO – SANT’ ATANASIO VESCOVO E DOTTORE DELLA CHIESA

http://www.santiebeati.it/dettaglio/23100

2 MAGGIO – SANT’ ATANASIO VESCOVO E DOTTORE DELLA CHIESA

295-373

Vescovo di Alessandria d’Egitto, fu l’indomito assertore della fede nella divinità di Cristo, negata dagli Ariani e proclamata dal Concilio di Nicea (325). Per questo soffrì persecuzioni ed esili. Narrò la vita di Sant’Antonio abate e divulgò anche in Occidente l’ideale monastico. (Mess. Rom.)

Etimologia: Atanasio = immortale, dal greco

Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Memoria di sant’Atanasio, vescovo e dottore della Chiesa, di insigne santità e dottrina, che ad Alessandria d’Egitto dai tempi di Costantino fino a quelli dell’imperatore Valente combattè strenuamente per la retta fede e, subite molte congiure da parte degli ariani, fu più volte mandato in esilio; tornato infine alla Chiesa a lui affidata, dopo aver lottato e sofferto molto con eroica pazienza, nel quarantaseiesimo anno del suo sacerdozio riposò nella pace di Cristo.
Questo Padre e Dottore della Chiesa è il più celebre dei vescovi alessandrini e il più intrepido difensore della fede nicena contro l’eresia di Ario. Costui, siccome faceva del Verbo un essere di una sostanza diversa da quella del Padre e un semplice intermediario tra Dio e il mondo, praticamente negava il mistero della SS. Trinità.
S. Atanasio nacque verso il 295 ad Alessandria d’Egitto da genitori cristiani i quali gli fecero impartire un’educazione classica. Discepolo di S. Antonio abate nella gioventù, si consacrò per tempo al servizio della Chiesa, Nel 325 accompagnò come diacono e segretario il suo vescovo Alessandro al Concilio di Nicea radunato dall’imperatore Costantino, nel quale fu solennemente definita la consostanzialità del Figlio con il Padre. S. Atanasio nel 328 fu acclamato dagli alessandrini loro pastore. Di lui dicevano: « E un uomo probo, virtuoso, buon cristiano, un asceta, un vero vescovo ».
La chiesa di Alessandria si trovava divisa dallo scisma non solo di Ario, ma anche di Melezio di Licopoli. Durante la persecuzione di Diocleziano (305-306), costui, approfittando dell’assenza del vescovo Pietro di Alessandria, si era arrogato il diritto di ordinare e scomunicare secondo il suo arbitrio. Nonostante fosse stato deposto da un sinodo, buona parte del clero lo aveva seguito nello scisma. In mezzo a tante divisioni il compito del giovane Atanasio si presentava quanto mai difficile.
Ben presto cominciarono difatti gli intrighi contro di lui dei vescovi di corte ariani, capeggiati da Eusebio di Cesarea, per indurlo a ricevere nella sua comunione i vescovi amici di Ario. Atanasio vi si oppose energicamente. I meleziani a loro volta l’accusarono presso Costantino di aver imposto agli egiziani un tributo di pezze di lino e di aver fatto rompere il calice di un loro vescovo. Citato al tribunale dell’imperatore a Nicomedia, non fu difficile al santo discolparsi. Accusato ancora di aver fatto assassinare Arsente, vescovo meleziano di Ipsele, non fu difficile al medesimo accrescere lo scorno dei suoi nemici facendoglielo comparire davanti vivo.
L’accusato fu di nuovo riabilitato, ma gli ariani non si diedero per vinti. Essi persuasero Ario a sottoscrivere una formula di fede equivoca. Costantino se ne accontentò e intimò a tutti i vescovi di riceverlo nella loro comunione. Essendosi Atanasio ancora una volta rifiutato, fu deposto dal concilio di Tiro (335) e relegato a Treviri, nelle Gallie, dove rimase fino alla morte dell’imperatore (337). Gli eusebiani non potendo per allora sperare nulla dal potere civile, portarono davanti al papa Giulio I l’affare di Atanasio. Furono citate le due parti ad un concilio plenario, ma gli ariani, sicuri dell’appoggio di Costanzo II, imperatore d’Oriente, invece di presentarsi, posero sulla sede di Alessandria Gregorio di Cappadocia. Il secondo esilio di Atanasio durò sei anni. A Roma (341) e a Sardica (343) fu riconosciuta la sua innocenza. Durante il soggiorno romano egli viaggiò molto, e iniziò la chiesa latina alla vita monastica quale si praticava in Egitto. Nella Pasqua del 345 si recò ad Aquileia presso Costante, imperatore d’occidente, che gli ottenne dal fratello Costanzo il permesso di tornare alla sua sede dopo la morte del vescovo intruso (345).
Seguirono per il santo dieci anni di pace relativa, di cui approfittò non solo per comporre opere dogmatiche, o di apologia personale, ma per proseguire una politica di vigile controllo e di prudente conciliazione, i cui effetti furono disastrosi per il partito ariano. Difatti, due o tre anni dopo, egli era in comunione con più di 400 vescovi, e seguito dalla massa dei fedeli. In questo periodo egli consacrò vescovo di Etiopia S. Frumenzio, vero fondatore della chiesa cristiana in quel paese.
Alla morte del suo protettore Costante (350) e del papa Giulio I (352), i nemici di Atanasio tanto brigarono da riuscire a sollevargli contro anche l’episcopato d’Occidente nel Concilio di Arles (354) e in quello di Milano (355).
L’intrepido vescovo, ripieno di amarezza, fuggì allora nel deserto, dove i monaci per otto anni lo sottrassero con cura a tutte le ricerche. Dalla solitudine egli continuò a governare la sua chiesa e scrisse i Discorsi contro gli Ariani e le 4 Lettere a Serapione che formano la sua gloria come dottore della SS. Trinità. Poté ritornare in sede nel 362 dopo la morte di Costanzo, il massacro del vescovo intruso Giorgio dì Cappadocia e la salita al trono di Giuliano, il cui primo atto fu di richiamare i vescovi esiliati dal suo predecessore.
Fu cura di Atanasio ristabilire l’ortodossia nicena e combattere l’arianesimo ufficiale che aveva trionfato nei concili di Seleucia e di Rimini (359). Riunito un concilio, prese decisioni improntate a misericordia verso coloro che si erano dati all’eresia per ignoranza, e anche sul terreno dogmatico fu largo e tollerante per quello che potevano sembrare quisquiglie o pura terminologia. Tanta attività diretta a consolidare l’unità cattolica non tornò gradita a Giuliano, intento solo a ristabilire il paganesimo. Nel 363 S. Atanasio per la quarta volta lasciò la sua sede, ma solo per pochi mesi perché, morto l’imperatore nella spedizione contro i persiani, gli successe il cristiano Gioviano, che lo richiamò. Nel 365 il Santo dovette eclissarsi alla periferia della città per la sesta volta, perseguitato dall’imperatore d’Oriente, Valente, amico degli ariani. Dopo soli quattro mesi però fu richiamato perché gli egiziani minacciavano rivolte. Non lasciò più la sua fede fino alla morte avvenuta il 2-5-373 dopo 45 anni di governo forte e alle volte anche duro contro i suoi avversari.
Egli meritò a buon diritto il titolo di « grande » per l’indomabile fermezza di carattere dimostrata contro gli ariani e la potenza imperiale, sovente ad essi eccessivamente ligia. A ragione fu detto che in lui, « padre dell’ortodossia », combatteva tutta la Chiesa.
Finché visse sostenne ovunque con un’attività traboccante i propugnatori della vera fede. Così impedì che i vescovi dell’Africa latina sostituissero il simbolo compilato a Nicea con quello di Rimini; spinse papa Damaso ad agire contro Ausenzio, vescovo ariano di Milano, e incoraggiò S. Basilio, che cercava un appoggio per la pacificazione religiosa dell’oriente.
Della produzione letteraria di Atanasio non esiste ancora un’edizione critica. Nelle sue opere si nota limpidezza e acutezza di pensiero, ma la materia trattata manca di ordine ed è resa pesante dalle frequenti ripetizioni e dalla prolissità.

Autore: Guido Pettinati

Publié dans:Santi |on 2 mai, 2014 |Pas de commentaires »

ATTI 2,14.22-33 COMMENTO

http://www.nicodemo.net/NN/ms_pop_vedi1.asp?ID_festa=37

ATTI 2,14.22-33 COMMENTO

Nel giorno di Pentecoste, 14 Pietro, levatosi in piedi con gli altri Undici, parlò a voce alta così:
22 « Uomini d’Israele, ascoltate queste parole: Gesù di Nazaret — uomo accreditato da Dio presso di voi per mezzo di miracoli, prodigi e segni, che Dio stesso operò fra di voi per opera sua, come voi ben sapete — 23 dopo che, secondo il prestabilito disegno e la prescienza di Dio, fu consegnato a voi, voi l’avete inchiodato sulla croce per mano di empi e l’avete ucciso.
24 Ma Dio lo ha risuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere. 25 Dice infatti Davide a suo riguardo: « Contemplavo sempre il Signore innanzi a me; poiché egli sta alla mia destra, perché io non vacilli. 26 Per questo si rallegrò il mio cuore ed esultò la mia lingua; ed anche la mia carne riposerà nella speranza, 27 perché tu non abbandonerai l’anima mia negli inferi, né permetterai che il tuo Santo veda la corruzione. 28 Mi hai fatto conoscere le vie della vita, mi colmerai di gioia con la tua presenza » .
29 Fratelli, mi sia lecito dirvi francamente, riguardo al patriarca Davide, che egli morì e fu sepolto e la sua tomba è ancora oggi fra noi. 30 Poiché però era profeta e sapeva che Dio gli aveva giurato solennemente di far sedere sul trono un suo discendente, 31 previde la risurrezione di Cristo e ne parlò: « questi non fu abbandonato negli ìnferi, né la sua carne vide corruzione ».
32 Questo Gesù, Dio l’ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni. 33 Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito Santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire ».

COMMENTO
Atti 2,14.22-33
L’annunzio missionario di Pietro

La discesa dello Spirito santo sui discepoli rappresenta la cornice in cui Luca situa il primo dei discorsi kerygmatici di Pietro (2,14-41; cfr. 3,12-26; 4,8-12; 5,29-32; 10,34-43). Sebbene sia rivolto primariamente a un pubblico giudaico, esso assume, esattamente come quello pronunziato da Gesù a Nazareth (Lc 4,16-19), il ruolo di discorso programmatico, in cui sono fissati per sempre i contenuti dell’annunzio cristiano. La Pentecoste appare così come l’occasione in cui i discepoli di Gesù escono allo scoperto e danno inizio all’evangelizzazione di Gerusalemme.
Nell’introduzione (vv. 14-21) Pietro esordisce riferendosi ai fatti che hanno provocato l’assembramento della folla. Egli smentisce che gli apostoli siano ubriachi e spiega che quanto è accaduto non è altro che l’attuazione di ciò che era stato detto dal profeta Gioele (Gl 3,1-5a), il quale aveva preannunziato per la fine del mondo una grandiosa effusione dello Spirito. È significativo il fatto che la citazione di Gioele arrivi fino al v. 5a, dove la salvezza è presentata in chiave universalistica, mentre nella seconda parte del versetto viene limitata ai superstiti del popolo di Israele; inoltre si afferma che, per ottenerla, è necessario «invocare il nome del Signore». E di fatti al termine del discorso Pietro affermerà che la salvezza è offerta anche ai lontani e si ottiene mediante il battesimo nel nome di Gesù Cristo, il quale prenderà così il ruolo che in Gl 3,5a spetta al «Signore» (cfr. At 2,38-39).
Dopo questa introduzione, tralasciata nel testo liturgico, l’apostolo sviluppa cinque punti fondamentali del kerygma: vita terrena di Gesù (v. 22), la sua morte e risurrezione (vv. 23-24), argomentazione scritturistica (vv. 25-31), testimonianza apostolica (v. 32), esaltazione di Gesù (33-36).

Vita terrena di Gesù (v. 22)
Pietro inizia il corpo del discorso con un breve accenno all’esperienza storica di Gesù. A questo proposito egli ricorda solo le opere straordinarie che l’hanno caratterizzata. Queste vengono designate col termine «miracoli» (dynameis, potenze), spesso usato nei vangeli (cfr. Mc 6,2.5.14; Mt 7,22; 11,20-23; 13,54.58; 14,2) e con il binomio «prodigi (terata) e segni (sêmeia)». Questo binomio si trova nei vangeli solo in Gv 4,48 e in Mt 24,24; Mc 13,22: in questi ultimi due testi però si tratta dei miracoli compiuti dai falsi cristi e dai falsi profeti prima della parusia. Negli Atti invece è usato spesso per indicare le opere straordinarie compiute dai primi predicatori cristiani (At 2,43; 4,30; 5,12; 6,8; 14,3; 15,12). È chiaro dunque che per Luca i miracoli compiuti da Gesù sono all’origine di quelli della prima comunità cristiana.
I miracoli di Gesù sono presentati da Pietro come opere compiute da Dio stesso, il quale se ne è servito per mostrare che egli era da lui «accreditato» (apodedeigmenon), cioè per presentarlo come suo rappresentante presso gli uomini. Pietro non insiste ulteriormente sull’attività di Gesù durante la sua vita terrena perché suppone che essa sia conosciuta dai suoi ascoltatori. Maggiori dettagli sono contenuti nel discorso a Cornelio (At 10,36-38) il quale, essendo un gentile e vivendo lontano da Gerusalemme, non era forse del tutto al corrente della vita e dell’opera di Gesù.

Morte e risurrezione di Gesù (vv. 23-24)
Pietro passa poi immediatamente al ricordo della morte di Gesù (v. 23). Egli la presenta come un crimine di cui sono responsabili i suoi stessi ascoltatori, i quali lo hanno compiuto con la collaborazione di uomini empi, cioè dei romani. Si noti che Pietro non vuole addossare la responsabilità della morte di Gesù a tutti i giudei, ma solo agli abitanti di Gerusalemme, ai quali è rivolto il discorso (cfr. v. 14). L’apostolo sottolinea che la morte di Gesù non è stata qualcosa di imprevisto, ma è avvenuta in base ad un progetto prestabilito da Dio. Le ragioni di questa affermazione non sono indicate, ma il participio «consegnato» (ékdoton), con cui viene fatta allusione al tradimento di Giuda, sembra riferirsi a Is 53,12 e più generalmente ai carmi del Servo di JHWH. Alla luce di questi testi appare chiaro che Dio stesso ha voluto la morte di Gesù per esprimere l’amore infinito che lo spingeva a salvare uomini violenti e peccatori. Il fatto di essere stati inconsciamente strumenti del piano di Dio non esclude però la piena responsabilità degli abitanti di Gerusalemme.
Senza soffermarsi ulteriormente sulla morte di Gesù, Pietro passa immediatamente all’annunzio della sua risurrezione (v. 24). Egli si limita ad enunciare il fatto, spiegandolo con l’espressione «sciogliendolo dai dolori della morte». Questa espressione è presa dal Sal 18,6 dove il salmista esalta Dio poiché lo ha liberato «dai lacci dello Sheol», cioè dai pericolo di morte a cui era sottoposto; nei LXX si parla invece di «dolori dell’Ade». Ispirandosi a questa versione, Pietro legge nel salmo la liberazione non da un semplice pericolo di morte, ma da una morte già avvenuta. Egli prosegue affermando che «non era possibile» (ouch ên dynaton) che la morte tenesse Gesù in suo potere: Dio aveva infatti deciso in partenza che le cose andassero diversamente. Secondo la mentalità dei giudei, ai quali l’apostolo si rivolge, nulla ha valore salvifico se non è stato già voluto e preannunziato da Dio nelle sacre Scritture. Perciò Pietro, dopo aver fatto allusione al piano divino, passa a darne una più dettagliata illustrazione.

Argomentazione scritturistica (vv. 25-31)
Pietro interpreta la risurrezione di Gesù alla luce del Sal 16,8-11 (vv. 25-28). In esso il salmista, in un momento di grande pericolo, si dichiara sicuro che Dio non lo lascerà andare nel sepolcro e non gli lascerà vedere la fossa. Si tratta dunque della fiducia di sfuggire con l’aiuto di Dio un pericolo mortale. Ma la traduzione dei LXX sostituisce nei vv. 9-10 il termine «sicurezza» con «speranza», «sepolcro» con «Ade» e «fossa» con «corruzione», dando così l’impressione che il salmista parli della propria liberazione da una morte già avvenuta. In tal modo il testo, che Pietro legge appunto nella traduzione greca, può venire facilmente usato per indicare la risurrezione di Gesù.
Alla citazione biblica Pietro fa seguire il suo commento (vv. 29-30). Davide, ritenuto autore del salmo, è morto e ha visto la corruzione, come risulta dal fatto che esiste ancora la sua tomba. Egli perciò non poteva parlare di se stesso, ma doveva riferirsi ad un altro. Ora, in forza della profezia di Natan (2Sam 7,12 citato nella forma di Sal 132,11-12), Dio aveva promesso con giuramento a Davide che un suo lontano discendente si sarebbe seduto sul suo trono. Da ciò egli conclude che la Scrittura aveva preannunziato la risurrezione del Cristo (v. 31), il messia discendente di Davide, che per Pietro è chiaramente Gesù. Pietro lo afferma rileggendo in chiave cristologica la finale del salmo appena citato (Sal 16,10): questi (Cristo) non fu abbandonato negli inferi, né la sua carne (invece di «anima», per sottolineare la corporeità della risurrezione) «vide» (nuovamente al passato) la corruzione.
Questo modo di argomentare presuppone l’interpretazione messianica del Sal 16, che risulta solo in modo indiretto nella versione greca dei LXX e la convinzione che Gesù sia veramente il Cristo. Più che dare una vera prova biblica, Pietro rilegge il concetto di risurrezione in un testo che aveva originariamente un significato diverso, presentando così questo evento come il compimento del piano salvifico di Dio.

Testimonianza apostolica (v. 32)
Dopo aver dimostrato che la risurrezione di Gesù è stata preannunziata dalle Scritture, Pietro riprende l’affermazione iniziale (cfr. v. 24) e la convalida mediante la testimonianza sua e degli altri apostoli: «Questo Gesù, Dio lo ha risuscitato e noi tutti ne siamo testimoni» (v. 32). Questa testimonianza diretta è il vero argomento in favore della risurrezione (cfr. Lc 24,48; At 1,8.22; 3,15; 5,32 ecc.). Gli apostoli annunziano ciò che hanno visto e sperimentato. Avendo provato che ciò corrisponde al piano divino delineato nell’AT, Pietro è ora sicuro che nessuno potrà negare o mettere in questione la sua testimonianza.

Esaltazione di Gesù (vv. 33-36)
L’annunzio della morte e risurrezione di Gesù lascia ora il posto alla proclamazione della sua gloria attuale: «Innalzato pertanto alla destra di Dio e dopo aver ricevuto dal Padre lo Spirito santo che egli aveva promesso, lo ha effuso, come voi stessi potete vedere e udire» (v. 33). In questo versetto si intrecciano alcune importanti allusioni all’AT. Il participio «innalzato» (hypsôtheis) si rifà a Is 52,13, dove si parla dell’esaltazione del Servo di JHWH dopo la sua esperienza di dolore e di morte; con l’accenno al dono dello Spirito Pietro si rifà al testo di Gl 3,1-2, già citato all’inizio del discorso. L’espressione «alla destra (têi dexiâi) di Dio» allude, nel contesto specifico, a due testi biblici. Il primo è il Sal 68,19, dove si dice: «Sei salito in alto conducendo prigionieri, hai ricevuto uomini in tributo: anche i ribelli abiteranno presso il Signore Dio»; il secondo è il Sal 118,16 dove, in riferimento all’azione meravigliosa di Dio, si dice: «La destra del Signore si è innalzata»; ma i LXX traducono: «La destra del Signore mi ha esaltato». Alla luce di questo testo è probabile che secondo Luca Pietro volesse affermare che Gesù è stato esaltato, non «alla destra» ma «dalla destra» di Dio, perché potesse dare lo Spirito a quelli che credevano in lui.
La glorificazione di Gesù viene infine convalidata con un’ulteriore citazione: «Disse il Signore al mio signore: siedi alla mia destra, finché io ponga i tuoi nemici come sgabello ai tuoi piedi» (vv. 34-35 = Sal 110,1). In questo testo spesso utilizzato dai primi cristiani (cfr. per es. Mc 12,35-37 e par.), il salmista descrive l’intronizzazione del re di Giuda («il mio signore») come una partecipazione al potere regale di Dio («Signore» = JHWH), e vede in essa una garanzia di vittoria sui suoi nemici. Pietro applica questo brano alla glorificazione di Gesù, ricavandone una prova della sua sovranità universale e della vittoria sulle potenze avverse a Dio, prolungata nella storia mediante l’opera dei suoi discepoli. Il discorso termina con un invito a tutta la casa di Israele perché riconosca che Dio ha costituito Signore e Cristo quel Gesù che essi hanno crocifisso (v. 36).

Linee interpretative
L’annunzio di Pietro prende le mosse dalla vita terrena di Gesù e dalla sua predicazione, mettendo però al primo posto l’evento della sua morte e risurrezione, convalidato quest’ultima dalla testimonianza degli apostoli e dalla prova scritturistica. La lunghezza del discorso e il contesto in cui è posto mostra chiaramente che Luca ha voluto presentarlo come la sintesi più completa della fede cristiana, come il messaggio che sta alla base dell’annunzio evangelico in tutte le generazioni e in tutti i popoli. La chiesa è legata per sempre non solo ai contenuti, ma anche alla forma di questo discorso. Essa è tenuta ad annunziare non un sistema filosofico o teologico, ma un insieme di eventi che hanno operato e ancora operano per la salvezza di tutto l’uomo e di tutti gli uomini.
Nelle parole di Pietro la preoccupazioni fondamentale è quella di affermare la continuità della fede cristiana con l’esperienza storico-salvifica del popolo di Israele. I testi biblici che sono citati a questo scopo non hanno quel carattere probativo che Pietro attribuisce loro. Egli infatti non ha timore di rileggere un’idea, che sente in sintonia con tutto il messaggio dell’AT, in un testo particolare, attribuendogli un significato che originariamente non aveva. Questo procedimento era largamente diffuso nel mondo giudaico, per il quale la Bibbia era un testo vivo, che bisogna rileggere continuamente in funzione delle nuove situazioni in cui la comunità viene a trovarsi (midrash). Per i primi cristiani ciò risultava più facile in quanto la traduzione greca della Bibbia, detta dei Settanta (LXX), da essi comunemente utilizzata, rifletteva già una mentalità più evoluta e sensibile ai temi che costituivano il fondamento dell’annunzio evangelico. Per Luca il collegamento con le sue radici giudaiche è dunque essenziale per capire e annunziare il vangelo. L’esperienza di duemila anni ha dimostrato come la perdita di questo aggancio abbia portato a volte la teologia cristiana sulla via di grossi malintesi che ancora oggi pesano sulla comprensione e sull’annunzio del vangelo.
Il discorso programmatico di Pietro, così profondamente radicato nel mondo biblico-giudaico, è chiaramente rivolto a un pubblico giudaico. Ciò non è per nulla casuale. Luca infati vuole sottolineare che il vangelo, la buona notizia del regno, che scaturisce dall’esperienza religiosa di Israele, è rivolto in primo luogo a questo popolo che ha tutti i numeri per capirlo e accoglierlo. Ciò non valeva soltanto per la chiesa delle origini, ma è valido anche oggi. Il confronto con Israele, anche se non tutto questo popolo ha accettato Gesù come il messia promesso dai profeti, resta essenziale per la comprensione che la chiesa ha di se stessa e del proprio ruolo nel mondo. In altre parole una chiesa che non verifica continuamente il suo messaggio, pur nell’ottica di Cristo, sull’esperienza religiosa di Israele, deve dubitare fortemente della sua autenticità: per questo le Scritture di Israele sono anche le Scritture cristiane. Volente o nolente, la chiesa non può fare a meno di Israele, che resta nei secoli la pietra di paragone dell’esistenza cristiana e della sua fedeltà al rabbi di Nazareth, riconosciuto e proclamato come Messia dai suoi discepoli.

4 MAGGIO 2014 | 3A DOMENICA DI PASQUA A – LECTIO DIVINA : LC 24,13-35

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/Anno_A-2014/4-Pasqua-A-2014/Omelie/03-Domenica-Pasqua-A-2014/03-3a-Domenica-A-2014-JB.htm

4 MAGGIO 2014 | 3A DOMENICA DI PASQUA A | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : LC 24,13-35

Il cammino dei due discepoli ad Emmaus è l’esempio dell »iter’ di fede da percorrere per quelli che non videro personalmente il Risuscitato e dovettero ricorrere alla mediazione ecclesiale per arrivare all’esperienza pasquale. Come tutti noi. Allontanandosi da Gerusalemme, i discepoli abbandonavano per sempre le illusioni che erano nate in loro nel seguire Gesù e che si accrebbero nelle ultime settimane a Gerusalemme; la morte cruenta del Maestro aveva seppellito la fede e l’entusiasmo per la sua causa. Lo sconosciuto che cammina con loro come un finto tonto, non sa, apparentemente, niente di ciò; informandolo di quello che era successo, lo informano della loro delusione e della loro pena; Gesù non perde tempo e spiega il senso di quanto è successo in quei giorni, aprendoli alla comprensione del piano di Dio. Imbruniva già il giorno come la stessa loro fede, ma osarono offrirgli ospitalità, e condividendo la mensa e il pane in casa, come prima pena e Scrittura durante il cammino, riconoscono il Signore. Una volta che sanno che vive, ricordano come ardeva loro il cuore nella sua presenza e ritornano, quella stessa giornata, alla comunità: gli devono la loro esperienza e la loro fede. Chi ha visto il Signore vivo, vive in comune la sua esperienza.

13 Ed ecco in quello stesso giorno due di loro erano in cammino per un villaggio distante circa sette miglia da Gerusalemme, di nome Emmaus, 14e conversavano di tutto quello che era accaduto.
15 Mentre discorrevano e discutevano insieme, Gesù in persona si accostò e camminava con loro. 16Ma i loro occhi erano incapaci di riconoscerlo.
17 Ed egli disse loro: « Che sono questi discorsi che state facendo fra voi durante il cammino? ». Si fermarono, col volto triste; 18uno di loro, di nome Clèopa, gli disse: « Tu solo sei così forestiero in Gerusalemme da non sapere ciò che vi è accaduto in questi giorni? ».
19 Domandò: « Che cosa? ». Gli risposero: « Tutto ciò che riguarda Gesù Nazareno, che fu profeta potente in opere e in parole, davanti a Dio e a tutto il popolo; 20come i sommi sacerdoti e i nostri capi lo hanno consegnato per farlo condannare a morte e poi l`hanno crocifisso. 21Noi speravamo che fosse lui a liberare Israele; con tutto ciò son passati tre giorni da quando queste cose sono accadute.
22 Ma alcune donne, delle nostre, ci hanno sconvolti; recatesi al mattino al sepolcro 23e non avendo trovato il suo corpo, son venute a dirci di aver avuto anche una visione di angeli, i quali affermano che egli è vivo. 24Alcuni dei nostri sono andati al sepolcro e hanno trovato come avevan detto le donne, ma lui non l`hanno visto ».
25 Ed egli disse loro: « Sciocchi e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti! 26Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria? ».
27 E cominciando da Mosè e da tutti i profeti spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui.
28 Quando furon vicini al villaggio dove erano diretti, egli fece come se dovesse andare più lontano. 29Ma essi insistettero: « Resta con noi perché si fa sera e il giorno già volge al declino ». Egli entrò per rimanere con loro. 30Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro.
31 Allora si aprirono loro gli occhi e lo riconobbero. Ma lui sparì dalla loro vista. 32Ed essi si dissero l`un l`altro: « Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture? ».
33 E partirono senz`indugio e fecero ritorno a Gerusalemme, dove trovarono riuniti gli Undici e gli altri che erano con loro, 34i quali dicevano: « Davvero il Signore è risorto ed è apparso a Simone ». 35Essi poi riferirono ciò che era accaduto lungo la via e come l`avevano riconosciuto nello spezzare il pane.

1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Dietro la scoperta della tomba vuota da parte delle donne ed il primo annuncio, non creduto, della resurrezione di Gesù (24,1-11), Luca ci ricorda, caso unico nella tradizione evangelica, l’episodio di Emmaus. Non bisogna tralasciare la situazione che fa da punto di partenza: Gesù già è vivo, ma i suoi non possono crederlo; ostinati nel cercarlo tra i morti, si sorprendono di trovare aperta e vuota la sua tomba; nessuno prende sul serio la testimonianza di alcune donne col lavoro di seppellitrici (24,1.6.9.11).
Il racconto, uno dei più riusciti di tutto il NT, ha una struttura formale facile da scoprire: la narrazione si apre con la presentazione dei personaggi, verso Emmaus, e la datazione del fatto nel giorno di Pasqua (24,13-14). Durante il viaggio conversano su quello che è successo a Gerusalemme (24,15-29): appare un sconosciuto, il dialogo domina il racconto (24,17-27.29b); con ciò, il narratore cede la parola ai suoi personaggi: identifica il suo messaggio con la conversazione dei viandanti; non basta sapere quello che è successo a Gerusalemme, se non lo si vede alla luce del piano di Dio. Arrivati ad Emmaus, e già in casa, durante la cena (24,30-32), riconoscono colui che spezza loro il pane e che sparisce immediatamente: un gesto ‘senza commenti’ fa ricordare il Signore ed il pane spezzato apre gli occhi che nemmeno aprirono la sua presenza né le Scritture spiegate. L’episodio si chiude brevemente, narrando il ritorno a Gerusalemme dei due nuove testimoni (24,33-35): l’incontro col Signore Risuscitato deve finire reincontrando la comunità dei testimoni.
L’incredulità allontana da Gerusalemme due di quei discepoli; la strada verso Emmaus la trascorrono conversando su quanto era successo a Gerusalemme: quanto più parlano tanto più si allontanano, effettivamente ed affettivamente, da Gerusalemme e da quanto era successo lì. Testimoni di tutto quello che era successo non potevano essere ancora testimoni del Risuscitato.
Gesù, senza essere riconosciuto, condivide la strada con essi perché vuole entrare nella loro conversazione: si occupa di quanto stava preoccupando loro (24,15). Non lo riconobbero, perché non potevano: i loro occhi erano inabili (24,16): come è possibile che chi tanto sperava su Gesù (cf 24,18-24) non riuscissero a sapersi vicino a lui? Occhi che lo videro vivo e lo sanno morto non bastano per crederlo risuscitato; dovranno vedere qualcosa di più, di nuovo (cf 24,31).
Lo sconosciuto sembra non conoscere il tema della conversazione ma si rende conto che la tristezza riempie i suoi interlocutori (24,17). La sua ignoranza risulta inspiegabile a Cleofa (24,18) che prende la parola e lo informa: Gesù di Nazareth che avevano creduto autentico uomo di Dio (24,19), era stato giustiziato (24,20); la sua morte aveva seppellito ogni speranza (24,21). Certo, alcune donne continuavano a dire di aver trovato la sua tomba vuota (24,22-23). Ma nessuno l’ha visto ancora vivo; e che nessuno può crederselo (24,24).
Per non vedere quello che è successo alla luce del volere divino, dice lo sconosciuto, non capiscono col cuore quello che sanno dire con la bocca (24,25). E continuando il viaggio verso Emmaus, fa loro percorrere una nuova strada attraverso le Scritture; in esse era già predetto il destino di Gesù, la sua via di passione verso la gloria (24,27). Arrivati ad Emmaus, con una nuova comprensione di quello che era successo e con un cuore nuovo (cf 24,32), invitano lo sconosciuto che li accompagnava a rimanere con essi: il giorno è declinato (24,29). Gesù, ancora sconosciuto, non può lasciarli soli, perché non l’hanno riconosciuto ancora. Il viandante si fa ospite (24,30a); il compagno di passaggio, commensale (24,30b): il pane benedetto e ripartito è il gesto che apre loro gli occhi ed il cuore: chi, se non il loro Signore poté dar loro il pane benedetto (24,31)!.
Una volta riconosciuto, il Risuscitato disparve; saperlo vivo rende non necessaria la sua presenza. Ma quelli che lo sanno devono tornare, di notte e con fretta, alla città che era stata la tomba della loro fede ed alla comunità che avevano abbandonato (24,33): lì, quando sono ricevuti, riceveranno l’annuncio della fede comune: « Realmente il Signore è risorto ed è apparso a Simone » (24,34).

2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
Il testo evangelico, una delle pagine più belle di tutta il Bibbia, offre un ritratto della nostra vita cristiana di sorprendente attualità. Tutti possiamo vederci rappresentati in quei due discepoli che, nello stesso giorno della Resurrezione, quando già Gesù era vivo e si era lasciato vedere da alcuni, ritornavano delusi alle loro case e le occupazioni di prima. La sensazione di fallimento, la delusione che li dominava mentre camminavano soli e senza speranza, è oggi simbolo della situazione attuale di molti cristiani: abbiamo celebrato il trionfo di Gesù sulla morte, sappiamo che vive per sempre vicino a Dio, crediamo che intercede a nostro favore e sta preparando la nostra dimora; e tuttavia, continuiamo ad occuparci nel moltiplicare le nostre paure, nell’accrescere i nostri dubbi, nell’alimentare la nostre delusioni.
Come quei due discepoli di Emmaus, portiamo la tristezza nel cuore e le tenebre negli occhi, perché la vita, e mi riferisco alla vita cristiana, non ha soddisfatto tutte le speranze che ci siamo fatti quando abbiamo deciso di seguire Gesù, e perché la morte c’è stata vicina troppe volte, tante, e viviamo temendola sempre. Ci risulta tanto facile comprendere quei due discepoli che, disillusi di Gesù, che davano per morto, ritornavano alla loro casa e alle occupazioni familiari, perché così scusiamo meglio la nostra stanchezza nel vissuto giornaliero della fede ed il nostro abbandono della sua sequela.
Tutto sommato, non è per niente male se ci riconoscessimo in quei due discepoli addolorati. Poiché, allora, potremmo alimentare la speranza che il Risuscitato sta per un po’ passeggiando per essere vicino a noi e per farsi nostro compagno. Non ci sarebbe necessario riconoscerlo immediatamente per sentire ardere il nostro cuore di nuovo, come successe a quelli di Emmaus; basterebbe comprendere che quanto ci è accaduto nella vita e quanto sta ancora per succederci, risponde ad un piano previsto e voluto da Dio. Sforzandoci di capire la nostra vita e la sua alla luce della Parola di Dio, ci saranno possibili l’allegria e la pace, il ritorno alla vita comune e alla testimonianza.
Il fatto è che, come quei discepoli, anche noi possiamo passare ore parlando di Gesù, senza sentirci entusiasmati da lui; come loro, sappiamo raccontare la sua vita ed i miracoli, senza che ciò conti realmente per noi. È promettente che il Risuscitato, ieri ad Emmaus ed oggi con noi, non esiga di essere riconosciuto per incominciare ad accompagnarci: né si scoraggia per i nostri scoraggiamenti, né ci abbandona quando lo stiamo abbandonando; non gli importa che siamo tardi a capire o freddi di cuore: se gli diamo un’opportunità, tornerà ad avvicinarsi e, spiegandoci quello che non capimmo, ci restituirà l’entusiasmo perso e la fede. Se il Risuscitato accompagna chi sta lasciandolo, abbiamo allora ragioni per sperare che un giorno ha fatto il finto tonto e si è prodigato ad entusiasmarci.
Senza riconoscerlo ancora, quei discepoli osarono invitarlo perché rimanesse con essi. Imbruniva il giorno e la loro fede non si svegliava ancora; ma offrirono la casa allo sconosciuto, condivisero tavolo e pane con chi avevano condiviso, cammino e conversazione; e mentre cenava con essi, spezzando il pane, si resero conto che il loro invitato era il Signore: il viandante sconosciuto era in realtà Gesù Resuscitato. L’avevano visto, era vero che era vivo. Ieri come oggi, l’Eucaristia, convivenza casuale tra viandanti e memoria obbligata del Signore per conoscerlo, è il posto privilegiato del riconoscimento del Risuscitato: per saperlo vivo già ed ora vicino, non è necessario sapere altro che condividere il suo tavolo e ricevere il suo pane.
Saperlo vivo rese non necessaria la sua presenza: l’esperienza del Risuscitato non è un godimento di un istante, bensì una convinzione da proclamare. Riconoscente, Cristo diventa invisibile: saperlo vivo è più decisivo di tenerlo per mano; percepire la sua presenza rende inutile la sofferenza per la sua assenza. Chi, una volta tanto almeno, si sia trovato col Risuscitato, e per di più addolorato e disorientato che si sarebbe sentito, non potrà smettere di ricordare sempre la sua buona sorte: camminare con Gesù riempie di calore il cuore, ci fa comprendere le strade di Dio.
Dato che non poterono tacere la loro gioia né tacere la loro comune esperienza, ritornarono, di notte, a Gerusalemme per comunicare ai fratelli la meravigliosa avventura. Di lei possiamo scegliere oggi le tappe basilari dell’itinerario che dovremmo percorrere, se desideriamo recuperare la certezza che Cristo vive e la gioia di saperlo vicino a noi.
1. Quelli di Emmaus non lasciarono andare il compagno, benché fosse sconosciuto: gli offrirono la casa e l’alimento. Benché con ciò non hanno fatto niente che fosse fuori dell’ordinario, hanno vissuto una esperienza straordinaria: l’invitato risultò essere il loro Signore. Chissà se perdiamo Dio, non già perché non lo sentiamo sufficientemente, né perché non riusciamo a riconoscerlo mentre cammina al nostro fianco per la strada, bensì perché non osiamo ospitarlo nella nostra casa; per non fargli posto nella nostra vita di famiglia, per non offrirgli la nostra casa e la nostra intimità, Gesù continua a passare da noi. Dovrebbe farci pensare che Gesù non si fece conoscere durante il tragitto, mentre spiegava le Scritture, bensì in casa, attorno ad un tavolo: la lezione è evidente; preghiamo Dio che rimanga con noi, chiediamogli che non scenda la sera sulle nostre case e la nostra fede senza che Egli condivida la mensa con noi. Chi non potrà mai riconoscere Dio è perché non gli ha permesso di entrare nella sua intimità, nella sua famiglia, nella sua casa; per conoscere Dio, bisogna invitarlo a passare per la nostra vita e pregarlo che rimanga con noi. Forse sta già imbrunendo?
2. Quelli di Emmaus riconobbero Gesù nel suo ospite ‘spezzando il pane’. Ebbero lento il cuore e chiusa l’intelligenza fino a che videro il gesto proprio di Gesù: la distribuzione del pane li fece uscire dalla loro ignoranza e recuperarono l’entusiasmo della fede; lo ricordavano molto bene, perché fu l’ultima cosa che aveva fatto con loro prima di morire; seppero allora che il maestro viveva realmente; nessuno come lui sapeva benedire e spezzare il pane, prima di offrirlo. Finché ha chi, nel suo nome e al tempo debito, ci parta il pane benedetto, Gesù continuerà a mostrarsi vivo ai suoi, aprendo gli occhi all’intelligenza e riempiendo di fervore i cuori: basta vedere come spezza il pane davanti a noi per non potere dubitare che sta tra noi. Chi non voglia perdere Cristo Resuscitato, non dovrà perdersi il momento quando Cristo divide il suo pane.
3. Quelli di Emmas, quando seppero che il Signore era vivo, tornarono a Gerusalemme: abbandonarono la cena senza finirla e la casa senza abitarla. Non vollero dormire quella notte fino a che tutti conoscessero quello che era successo: coloro che si erano allontanati, disillusi di tutto, ritornarono a gran velocità per raccontare la loro esperienza. Nessuno che ha visto il Signore può tacerlo: chi sa che Gesù vive, perché davanti a lui è diviso il pane, non ha altro da fare che condividere la sua esperienza con tutti gli invitati; ciò obbliga a vivere in comune la propria fede; la casa del testimone del Risuscitato non è la sua propria casa, bensì la comunità cristiana. Impegnarsi ad essere cristiano per sé o nella più stretta intimità vuol dire rischiare di perdere di vista Cristo e smettere di saperlo vivo. Né più né meno.
Non ci lamentiamo, dunque, di non avere visto il Signore; non abbiamo nessun diritto di sentirci defraudati da lui, se non abbiamo percorso personalmente il nostro cammino verso Emmaus. Gesù, e questi Risuscitato, può aspettarci in qualunque strada per farsi finto tonto, spiegarci la Scrittura e restituirci la fede ed il coraggio. Ma non lo dimentichiamo: fino a che non ritorniamo alla comunità ed alla testimonianza, incantati da Gesù, non sapremo realmente che l’abbiamo trovato.
3 – PREGARE : Prega il testo e desidera la volontà di Dio: cosa dico a Dio?
Dammi, Signore, un compagno di viaggio che condivida la delusione e la stanchezza che la mia vita di sequela mi ha prodotto. La tua croce continua a seppellire la mia fede primitiva. Dammi, Signore, un confidente per andare con lui verso Emmaus… e che mi trovi durante il tragitto. E’ troppo, lo so, sapere su di te e non riuscire a saperti con me. Spiegami di nuovo la tua vita ed il progetto di Dio, leggimi le Scritture ed apri il mio cuore, prima che i miei occhi, alla tua Parola.
Riuscirò solo così, già all’imbrunire del giorno della tua Resurrezione, invitarti, ancora senza conoscerti, a casa mia e farti commensale al mio tavolo. Solo così, ti riconoscerò quando, nella mia casa, benedici e dividi il pane. Vederti presiedendo al mio tavolo e alla mia vita, vederti facendomi mangiare il tuo pane e la tua vita, mi condurrà a saperti vivo. E vivrò per dire la mia gioia e la tua vita a tutti. E ritornerò alla vita comune con un cuore che arde e gli occhi che ti hanno visto e non possono dimenticarti.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb

1...34567

PUERI CANTORES SACRE' ... |
FIER D'ÊTRE CHRETIEN EN 2010 |
Annonce des évènements à ve... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | Vie et Bible
| Free Life
| elmuslima31