Archive pour mai, 2014

Mosaïque d’une des chapelles de la Basilique Notre-Dame du Rosaire (niveau inférieur) : l’Ascension.

Mosaïque d'une des chapelles de la Basilique Notre-Dame du Rosaire (niveau inférieur) : l'Ascension. dans immagini sacre ND_Rosaire_mosa%C3%AFque_03

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Publié dans:immagini sacre |on 30 mai, 2014 |Pas de commentaires »

ASCENSIONE DEL NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO – CHIESA ORTODOSSA

http://chiesaortodossainabruzzoemolise.blogspot.it/2012/05/ascensione-del-nostro-signore-gesu.html

Chiesa Ortodossa in Abruzzo e Molise

ASCENSIONE DEL NOSTRO SIGNORE GESU’ CRISTO – CHIESA ORTODOSSA

Kontachio
Dopo aver compiuto l’economia in nostro favore e unito le creature celesti alle terrestri, sei asceso al cielo in gloria, o Cristo Dio nostro, senza separarti da nessuna parte, ma rimanendo sempre unito e dicendo a coloro che ti amano: Io sono con voi e nessuno contro di voi.

Nella festa di Pasqua la risurrezione del Signore è stata per noi motivo di grande letizia. Così ora è causa di ineffabile gioia la sua ascensione al cielo. Oggi infatti ricordiamo e celebriamo il giorno in cui la nostra povera natura è stata elevata in Cristo fino al trono di Dio Padre, al di sopra di tutte le milizie celesti, sopra tutte le gerarchie angeliche, sopra l’altezza di tutte le potestà. L’intera esistenza cristiana si fonda e si eleva su una arcana serie di azioni divine per le quali l’amore di Dio rivela maggiormente tutti i suoi prodigi. Pur trattandosi di misteri che trascendono la percezione umana e che ispirano un profondo timore riverenziale, non per questo vien meno la fede, vacilla la speranza e si raffredda la carità.

Credere senza esitare a ciò che sfugge alla vista materiale e fissare il desiderio là dove non si può arrivare con lo sguardo, è forza di cuori veramente grandi e luce di anime salde. Del resto, come potrebbe nascere nei nostri cuori la carità, come potrebbe l’uomo essere giustificato per mezzo della fede, se il mondo della salvezza dovesse consistere solo in quelle cose che cadono sotto i nostri sensi?
Perciò quello che era visibile del nostro Redentore è passato nei riti sacramentali. Perché poi la fede risultasse più autentica e ferma, alla osservazione diretta è succeduto il magistero, la cui autorità avrebbero ormai seguito i cuori dei fedeli, rischiarati dalla luce suprema.
Questa fede si accrebbe con l’ascensione del Signore e fu resa ancor più salda dal dono dello Spirito Santo. Non riuscirono ad eliminarla con il loro spavento né le catene, né il carcere, né l’esilio, né la fame o il fuoco, né i morsi delle fiere, né i supplizi più raffinati, escogitati dalla crudeltà dei persecutori. Per questa fede in ogni parte del mondo hanno combattuto fino a versare il sangue, non solo uomini, ma anche donne; non solo fanciulli, ma anche tenere fanciulle. Questa fede ha messo in fuga i demoni, ha vinto le malattie, ha risuscitato i morti.

Credere senza esitare a ciò che sfugge alla vista materiale e fissare il desiderio là dove non si può arrivare con lo sguardo, è forza di cuori veramente grandi e luce di anime salde. Del resto, come potrebbe nascere nei nostri cuori la carità, come potrebbe l’uomo essere giustificato per mezzo della fede, se il mondo della salvezza dovesse consistere solo in quelle cose che cadono sotto i nostri sensi?
Perciò quello che era visibile del nostro Redentore è passato nei riti sacramentali. Perché poi la fede risultasse più autentica e ferma, alla osservazione diretta è succeduto il magistero, la cui autorità avrebbero ormai seguito i cuori dei fedeli, rischiarati dalla luce suprema.
Questa fede si accrebbe con l’ascensione del Signore e fu resa ancor più salda dal dono dello Spirito Santo. Non riuscirono ad eliminarla con il loro spavento né le catene, né il carcere, né l’esilio, né la fame o il fuoco, né i morsi delle fiere, né i supplizi più raffinati, escogitati dalla crudeltà dei persecutori. Per questa fede in ogni parte del mondo hanno combattuto fino a versare il sangue, non solo uomini, ma anche donne; non solo fanciulli, ma anche tenere fanciulle. Questa fede ha messo in fuga i demoni, ha vinto le malattie, ha risuscitato i morti.
Gli stessi santi apostoli, nonostante la conferma di numerosi miracoli e benché istruiti da tanti discorsi, s’erano lasciati atterrire dalla tremenda passione del Signore ed avevano accolto, non senza esitazione, la realtà della sua risurrezione. Però dopo seppero trarre tanto vantaggio dall’ascensione del Signore, da mutare in letizia tutto ciò che prima aveva causato loro timore. La loro anima era tutta rivolta a contemplare la
divinità del Cristo, assiso alla destra del Padre. Non erano più impediti, per la presenza visibile del suo corpo, dal fissare lo sguardo della mente nel Verbo, che, pur discendendo dal Padre, non l’aveva mai lasciato, e, pur risalendo al Padre, non si era allontanato dai discepoli.
Proprio allora, o dilettissimi, il Figlio dell’uomo si diede a conoscere nella maniera più sublime e più santa come Figlio di Dio, quando rientrò nella gloria della maestà del Padre, e cominciò in modo ineffabile a farsi più presente per la sua divinità, lui che, nella sua umanità visibile, si era fatto più distante da noi.
Allora la fede, più illuminata, fu in condizione di percepire in misura sempre maggiore l’identità del Figlio con il Padre, e cominciò a non aver più bisogno di toccare nel Cristo quella sostanza corporea, secondo la quale è inferiore al Padre. Infatti, pur rimanendo nel Cristo glorificato la natura del corpo, la fede dei credenti era condotta in quella sfera in cui avrebbe potuto toccare l’Unigenito uguale al Padre, non più per contatto fisico, ma per la contemplazione dello spirito.

Publié dans:feste del Signore, Ortodossia |on 30 mai, 2014 |Pas de commentaires »

BENEDETTO XVI : ASCENSIONE DEL SIGNORE – 2005

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2005/documents/hf_ben-xvi_hom_20050507_san-giovanni-laterano_it.html

ASCENSIONE DEL SIGNORE

CELEBRAZIONE EUCARISTICA E INSEDIAMENTO SULLA CATHEDRA ROMANA DEL VESCOVO DI ROMA BENEDETTO XVI

OMELIA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI

Basilica di San Giovanni in Laterano

Sabato, 7 maggio 2005

Questo giorno, nel quale posso per la prima volta insediarmi sulla Cattedra del Vescovo di Roma quale successore di Pietro, è il giorno in cui in Italia la Chiesa celebra la Festa dell’Ascensione del Signore. Al centro di questo giorno, troviamo Cristo. E solo grazie a Lui, grazie al mistero del suo ascendere, riusciamo a comprendere il significato della Cattedra, che è a sua volta il simbolo della potestà e della responsabilità del Vescovo. Cosa ci vuol dire allora la Festa dell’Ascensione del Signore? Non vuol dirci che il Signore se ne è andato in qualche luogo lontano dagli uomini e dal mondo. L’Ascensione di Cristo non è un viaggio nello spazio verso gli astri più remoti; perché, in fondo, anche gli astri sono fatti di elementi fisici come la terra. L’Ascensione di Cristo significa che Egli non appartiene più al mondo della corruzione e della morte che condiziona la nostra vita. Significa che Egli appartiene completamente a Dio. Egli – il Figlio Eterno – ha condotto il nostro essere umano al cospetto di Dio, ha portato con sé la carne e il sangue in una forma trasfigurata. L’uomo trova spazio in Dio; attraverso Cristo, l’essere umano è stato portato fin dentro la vita stessa di Dio. E poiché Dio abbraccia e sostiene l’intero cosmo, l’Ascensione del Signore significa che Cristo non si è allontanato da noi, ma che adesso, grazie al Suo essere con il Padre, è vicino ad ognuno di noi, per sempre. Ognuno di noi può darGli del tu; ognuno può chiamarLo. Il Signore si trova sempre a portata di voce. Possiamo allontanarci da Lui interiormente. Possiamo vivere voltandoGli le spalle. Ma Egli ci aspetta sempre, ed è sempre vicino a noi.
Dalle letture della liturgia odierna impariamo anche qualcosa in più sulla concretezza con cui il Signore realizza questo Suo essere vicino a noi. Il Signore promette ai discepoli il Suo Spirito Santo. La prima lettura ci dice che lo Spirito Santo sarà « forza » per i discepoli; il Vangelo aggiunge che sarà guida alla Verità tutt’intera. Gesù ha detto tutto ai Suoi discepoli, essendo Egli stesso la Parola vivente di Dio, e Dio non può dare più di sé stesso. In Gesù, Dio ci ha donato tutto sé stesso – cioè – ci ha donato tutto. Oltre a questo, o accanto a questo, non può esserci nessun’altra rivelazione in grado di comunicare maggiormente o di completare, in qualche modo, la Rivelazione di Cristo. In Lui, nel Figlio, ci è stato detto tutto, ci è stato donato tutto. Ma la nostra capacità di comprendere è limitata; perciò la missione dello Spirito è di introdurre la Chiesa in modo sempre nuovo, di generazione in generazione, nella grandezza del mistero di Cristo. Lo Spirito non pone nulla di diverso e di nuovo accanto a Cristo; non c’è nessuna rivelazione pneumatica accanto a quella di Cristo – come alcuni credono – nessun secondo livello di Rivelazione. No: « prenderà del mio », dice Cristo nel Vangelo (Gv 16, 14). E come Cristo dice soltanto ciò che sente e riceve dal Padre, così lo Spirito Santo è interprete di Cristo. « Prenderà del mio ». Non ci conduce in altri luoghi, lontani da Cristo, ma ci conduce sempre più dentro la luce di Cristo. Per questo, la Rivelazione cristiana è, allo stesso tempo, sempre antica e sempre nuova. Per questo, tutto ci è sempre e già donato. Allo stesso tempo, ogni generazione, nell’inesauribile incontro col Signore – incontro mediato dallo Spirito Santo – impara sempre qualcosa di nuovo.
Così, lo Spirito Santo è la forza attraverso la quale Cristo ci fa sperimentare la sua vicinanza. Ma la prima lettura dice anche una seconda parola: mi sarete testimoni. Il Cristo risorto ha bisogno di testimoni che Lo hanno incontrato, di uomini che Lo hanno conosciuto intimamente attraverso la forza dello Spirito Santo. Uomini che avendo, per così dire, toccato con mano, possono testimoniarLo. È così che la Chiesa, la famiglia di Cristo, è cresciuta da « Gerusalemme… fino agli estremi confini della terra », come dice la lettura. Attraverso i testimoni è stata costruita la Chiesa – a cominciare da Pietro e da Paolo, e dai Dodici, fino a tutti gli uomini e le donne che, ricolmi di Cristo, nel corso dei secoli hanno riacceso e riaccenderanno in modo sempre nuovo la fiamma della fede. Ogni cristiano, a suo modo, può e deve essere testimone del Signore risorto. Quando leggiamo i nomi dei santi possiamo vedere quante volte siano stati – e continuino ad essere – anzitutto degli uomini semplici, uomini da cui emanava – ed emana – una luce splendente capace di condurre a Cristo.
Ma questa sinfonia di testimonianze è dotata anche di una struttura ben definita: ai successori degli Apostoli, e cioè ai Vescovi, spetta la pubblica responsabilità di far sì che la rete di queste testimonianze permanga nel tempo. Nel sacramento dell’ordinazione episcopale vengono loro conferite la potestà e la grazia necessarie per questo servizio. In questa rete di testimoni, al Successore di Pietro compete uno speciale compito. Fu Pietro che espresse per primo, a nome degli apostoli, la professione di fede: « Tu sei il Cristo, il Figlio del Dio vivente » (Mt 16, 16). Questo è il compito di tutti i Successori di Pietro: essere la guida nella professione di fede in Cristo, il Figlio del Dio vivente. La Cattedra di Roma è anzitutto Cattedra di questo credo. Dall’alto di questa Cattedra il Vescovo di Roma è tenuto costantemente a ripetere: Dominus Iesus – « Gesù è il Signore », come Paolo scrisse nelle sue lettere ai Romani (10, 9) e ai Corinzi (1 Cor 12, 3). Ai Corinzi, con particolare enfasi, disse: « Anche se vi sono cosiddetti dèi sia nel cielo sia sulla terra… per noi c’è un solo Dio, il Padre…; e un solo Signore Gesù Cristo, in virtù del quale esistono tutte le cose e noi esistiamo per lui » (1 Cor 8, 5). La Cattedra di Pietro obbliga coloro che ne sono i titolari a dire – come già fece Pietro in un momento di crisi dei discepoli – quando tanti volevano andarsene: « Signore, da chi andremo? Tu hai parole di vita eterna; noi abbiamo creduto e conosciuto che tu sei il Santo di Dio » (Gv 6, 68ss). Colui che siede sulla Cattedra di Pietro deve ricordare le parole che il Signore disse a Simon Pietro nell’ora dell’Ultima Cena: « ….e tu, una volta ravveduto, conferma i tuoi fratelli…. » (Lc 22, 32). Colui che è il titolare del ministero petrino deve avere la consapevolezza di essere un uomo fragile e debole – come sono fragili e deboli le sue proprie forze – costantemente bisognoso di purificazione e di conversione. Ma egli può anche avere la consapevolezza che dal Signore gli viene la forza per confermare i suoi fratelli nella fede e tenerli uniti nella confessione del Cristo crocifisso e risorto. Nella prima lettera di san Paolo ai Corinzi, troviamo il più antico racconto della risurrezione che abbiamo. Paolo lo ha fedelmente ripreso dai testimoni. Tale racconto dapprima parla della morte del Signore per i nostri peccati, della sua sepoltura, della sua risurrezione, avvenuta il terzo giorno, e poi dice: « Cristo apparve a Cefa e quindi ai Dodici… » (1 Cor 15, 4), Così, ancora una volta, viene riassunto il significato del mandato conferito a Pietro fino alla fine dei tempi: essere testimone del Cristo risorto.
Il Vescovo di Roma siede sulla sua Cattedra per dare testimonianza di Cristo. Così la Cattedra è il simbolo della potestas docendi, quella potestà di insegnamento che è parte essenziale del mandato di legare e di sciogliere conferito dal Signore a Pietro e, dopo di lui, ai Dodici. Nella Chiesa, la Sacra Scrittura, la cui comprensione cresce sotto l’ispirazione dello Spirito Santo, e il ministero dell’interpretazione autentica, conferito agli apostoli, appartengono l’una all’altro in modo indissolubile. Dove la Sacra Scrittura viene staccata dalla voce vivente della Chiesa, cade in preda alle dispute degli esperti. Certamente, tutto ciò che essi hanno da dirci è importante e prezioso; il lavoro dei sapienti ci è di notevole aiuto per poter comprendere quel processo vivente con cui è cresciuta la Scrittura e capire così la sua ricchezza storica. Ma la scienza da sola non può fornirci una interpretazione definitiva e vincolante; non è in grado di darci, nell’interpretazione, quella certezza con cui possiamo vivere e per cui possiamo anche morire. Per questo occorre un mandato più grande, che non può scaturire dalle sole capacità umane. Per questo occorre la voce della Chiesa viva, di quella Chiesa affidata a Pietro e al collegio degli apostoli fino alla fine dei tempi.
Questa potestà di insegnamento spaventa tanti uomini dentro e fuori della Chiesa. Si chiedono se essa non minacci la libertà di coscienza, se non sia una presunzione contrapposta alla libertà di pensiero. Non è così. Il potere conferito da Cristo a Pietro e ai suoi successori è, in senso assoluto, un mandato per servire. La potestà di insegnare, nella Chiesa, comporta un impegno a servizio dell’obbedienza alla fede. Il Papa non è un sovrano assoluto, il cui pensare e volere sono legge. Al contrario: il ministero del Papa è garanzia dell’obbedienza verso Cristo e verso la Sua Parola. Egli non deve proclamare le proprie idee, bensì vincolare costantemente se stesso e la Chiesa all’obbedienza verso la Parola di Dio, di fronte a tutti i tentativi di adattamento e di annacquamento, come di fronte ad ogni opportunismo. Lo fece Papa Giovanni Paolo II, quando, davanti a tutti i tentativi, apparentemente benevoli verso l’uomo, di fronte alle errate interpretazioni della libertà, sottolineò in modo inequivocabile l’inviolabilità dell’essere umano, l’inviolabilità della vita umana dal concepimento fino alla morte naturale. La libertà di uccidere non è una vera libertà, ma è una tirannia che riduce l’essere umano in schiavitù. Il Papa è consapevole di essere, nelle sue grandi decisioni, legato alla grande comunità della fede di tutti i tempi, alle interpretazioni vincolanti cresciute lungo il cammino pellegrinante della Chiesa. Così, il suo potere non sta al di sopra, ma è al servizio della Parola di Dio, e su di lui incombe la responsabilità di far sì che questa Parola continui a rimanere presente nella sua grandezza e a risuonare nella sua purezza, così che non venga fatta a pezzi dai continui cambiamenti delle mode.
La Cattedra è – diciamolo ancora una volta – simbolo della potestà di insegnamento, che è una potestà di obbedienza e di servizio, affinché la Parola di Dio – la sua verità! – possa risplendere tra di noi, indicandoci la strada. Ma, parlando della Cattedra del Vescovo di Roma, come non ricordare le parole che Sant’Ignazio d’Antiochia scrisse ai Romani? Pietro, provenendo da Antiochia, sua prima sede, si diresse a Roma, sua sede definitiva. Una sede resa definitiva attraverso il martirio con cui legò per sempre la sua successione a Roma. Ignazio, da parte sua, restando Vescovo di Antiochia, era diretto verso il martirio che avrebbe dovuto subire in Roma. Nella sua lettera ai Romani si riferisce alla Chiesa di Roma come a « Colei che presiede nell’amore », espressione assai significativa. Non sappiamo con certezza che cosa Ignazio avesse davvero in mente usando queste parole. Ma per l’antica Chiesa, la parola amore, agape, accennava al mistero dell’Eucaristia. In questo Mistero l’amore di Cristo si fa sempre tangibile in mezzo a noi. Qui, Egli si dona sempre di nuovo. Qui, Egli si fa trafiggere il cuore sempre di nuovo; qui, Egli mantiene la Sua promessa, la promessa che, dalla Croce, avrebbe attirato tutto a sé. Nell’Eucaristia, noi stessi impariamo l’amore di Cristo. E’ stato grazie a questo centro e cuore, grazie all’Eucaristia, che i santi hanno vissuto, portando l’amore di Dio nel mondo in modi e in forme sempre nuove. Grazie all’Eucaristia la Chiesa rinasce sempre di nuovo! La Chiesa non è altro che quella rete – la comunità eucaristica! – in cui tutti noi, ricevendo il medesimo Signore, diventiamo un solo corpo e abbracciamo tutto il mondo. Presiedere nella dottrina e presiedere nell’amore, alla fine, devono essere una cosa sola: tutta la dottrina della Chiesa, alla fine, conduce all’amore. E l’Eucaristia, quale amore presente di Gesù Cristo, è il criterio di ogni dottrina. Dall’amore dipendono tutta la Legge e i Profeti, dice il Signore (Mt 22, 40). L’amore è il compimento della legge, scriveva San Paolo ai Romani (13, 10).
Cari Romani, adesso sono il vostro Vescovo. Grazie per la vostra generosità, grazie per la vostra simpatia, grazie per la vostra pazienza! In quanto cattolici, in qualche modo, tutti siamo anche romani. Con le parole del salmo 87, un inno di lode a Sion, madre di tutti i popoli, cantava Israele e canta la Chiesa: « Si dirà di Sion: L’uno e l’altro è nato in essa… » (v. 5). Ugualmente, anche noi potremmo dire: in quanto cattolici, in qualche modo, siamo tutti nati a Roma. Così voglio cercare, con tutto il cuore, di essere il vostro Vescovo, il Vescovo di Roma. E tutti noi vogliamo cercare di essere sempre più cattolici – sempre più fratelli e sorelle nella grande famiglia di Dio, quella famiglia in cui non esistono stranieri. Infine, vorrei ringraziare di cuore il Vicario per la Diocesi di Roma, il Cardinale Camillo Ruini, e anche i Vescovi ausiliari e tutti i suoi collaboratori. Ringrazio di cuore i parroci, il clero di Roma e tutti coloro che, come fedeli, offrono il loro contributo per costruire qui la casa vivente di Dio. Amen.

1 GIUGNO 2014 | 7A DOMENICA DI PASQUA: ASCENSIONE : MT 28, 16-20

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/01-annoA/Anno_A-2014/4-Pasqua-A-2014/Omelie/07-Domenica-Ascensione-A-/03-7a-Domenica-Ascensione-A-2014-JB.htm

1 GIUGNO 2014 | 7A DOMENICA DI PASQUA: ASCENSIONE A | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : MT 28, 16-20

La scena che chiude il vangelo, narra l’apparizione di Gesù ai suoi discepoli: il monte in Galilea, campo di missione, è il posto dell’ultima istruzione del Risuscitato; il potere nuovo che Gesù ha ricevuto, l’esercita, in primo luogo, inviando al mondo i suoi con una precisa missione: battezzare quelli che credono ed insegnare a compiere la sua volontà. Coloro che si sanno destinati ad arrivare fino ai confini del mondo con questo doppio compito, non rimarranno trascurati dal loro Signore Risuscitato, nemmeno un giorno. Nasce così una comunità di discepoli che dovrà riempire i suoi giorni di obbedienza, compiendo l’ultima volontà del suo Signore: l’ubbidiente che insegna obbedienza conta sull’assistenza permanente del suo Signore. Benché il Signore li abbia lasciati nel mondo, non li ha lasciati senza far niente: il comandamento di quanto insegnò loro Gesù, senza più frontiere da rispettare che il limite del mondo, assicura loro la permanente presenza del Risuscitato.

In quel tempo, 16 Gli undici discepoli, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato.
17 Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono. 18 Gesù si avvicinò e disse loro:
- »A me è stato dato ogni potere in cielo e sulla terra.
19 Andate dunque e fate discepoli tutti i popoli, battezzandoli nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo, 20 insegnando loro a osservare tutto ciò che vi ho comandato.
Ed ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo ».
1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
Matteo termina il suo vangelo di forma solenne: il Risuscitato invia i suoi discepoli nel mondo istituendo la missione universale della chiesa. Dopo la pasqua, la comunità dei discepoli non rimane oziosa, ha il mondo come missione. Essendo la cronaca di questa ‘nascita’ tanto breve, i dettagli diventano più significativi.
Prima di ricevere i popoli come missione, i discepoli devono andare in Galilea. Dove era iniziata la missione di Gesù, deve iniziare anche quella dei suoi inviati. E saranno inviati, perché sono stati prima ubbidienti: sono andati dove fu indicato loro, precisamente sul monte. Come Mosè un giorno, Gesù riunisce il nuovo popolo, gli undici missionari, per dar loro una legge, il vangelo. E per essere stati là dove è stato ordinato loro, lo vedranno e lo riconosceranno immediatamente. Per essere stati ubbidienti, si sono dissipati antiche i dubbi ed adorarono chi poco prima non credevano risuscitato.
Adorato, Gesù si avvicina ad essi. Ma non come maestro conosciuto, bensì come adorabile Signore. Il Risuscitato, cosciente della sua autorità, si mostra loro come sovrano. Non perde tempo a confortarli, dà ordini, perché ha, e l’esercita inviandoli, ogni autorità sopra tutto il creato. La primitiva convinzione cristiana che, essendo risuscitato, Gesù è stato fatto signore universale è messa in bocca allo stesso Cristo. La missione apostolica risulta essere così esercizio di quel potere ricevuto: il mandato, di obbligato compimento, è finalizzato nel fare del mondo una ‘scuola’ cristiana, andate e fate, sono imperativi; al mandato va legata la conferma: rimarrà sempre con essi. Finché essi si fanno discepoli per il mondo, Egli starà con loro. Dalla loro obbedienza dipende che Gesù li accompagni sempre. Gesù dice loro non solo che vadano al mondo e lo trasformino in discepolo, gli prescrive anche come devono realizzare ciò: battezzandoli nel nome del Dio Trino ed insegnando loro ad ubbidirgli in tutto. Alla comunità di missionari non le è gratis avere sempre con sé il suo Signore: dovranno andare al mondo per insegnargli ad ubbidire.
2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita

Per estraneo che ci sembri, il vangelo ci parla dell’assenza di Gesù dal nostro mondo. Il significato dell’ascensione del Signore al cielo è, in effetti, il suo abbandono di questa terra e la separazione di quanti, diritti, rimasero impalati, guardando al cielo.
Che la sparizione fisica di Gesù sia motivo di festa deve farci riflettere: dobbiamo domandarci quali ragioni avranno portato la comunità cristiana per trasformare la nostra attuale mancanza di Gesù in causa di allegria e centro della nostra celebrazione. Che cosa c’è di gradevole nel sapersi soli in un mondo dove ogni volta è meno presente Dio? Come sentirsi bene in un tempo, in cui tanti, ogni giorno di più, si impegnano a darlo per scomparso? La Parola di Dio viene in nostro aiuto e ci ricorda che, perfino se ci sentiamo lasciati dalla mano di Dio in questo mondo attuale, ci rimangono ragioni per non disperare e, soprattutto, dobbiamo portare avanti la nostra missione, fino a che il Signore ritorni.
Dopo la resurrezione Gesù si intrattenne coi suoi per qualche tempo; aveva bisogno di ciò per convincerli che viveva realmente; ed approfittò per convivere con essi e spiegar loro quello che gli era successo alla luce delle promesse di Dio; condividendo il pane ed il suo sapere, condusse i suoi discepoli alla convinzione che era vivo; con Gesù Risuscitato riuscirono a superare le loro paure e loro incertezze: è facile immaginarsi l’allegria e la consolazione che sperimentarono. Ma l’entusiasmo e l’euforia di contare di nuovo sul loro Signore andava a durare ben poco. Quando appena si erano abituati ad averlo risuscitato vicino ad essi, Gesù li avvisa che pensa di lasciarli soli; promette che ritornerà, ma non dice quando né come. L’allegria dei discepoli di avere Gesù durò solo alcuni giorni. La sua assenza è prolungati da secoli, e forse ci siamo dimenticati già che un giorno ritornerà: venti secoli sono troppi perché i suoi discepoli non abbiano motivi per sentirsi abbandonati!
Come comunità cristiana, continuiamo a vivere la situazione che inaugurò l’ascensione di Gesù al cielo. È, realmente, motivo per celebrare la nostra solitudine o, meglio, abbiamo ragioni per rimanere fedeli ad un Signore che sta ‘seduto alla destra del Padre?’
Certamente, si. Il vangelo ce ne offre due: ci ha lasciato, sì, ma, ben occupati. E l’ha fatto, inaugurando quella sovranità assoluta che Dio gli ha concesso risuscitandolo tra i morti. Chi ha il mondo come missione, non dispone di tempo per dispiacersi della sua solitudine. Finché c’è un solo paese che non abbia ascoltato ed imparato quello che Egli insegnò, è motivo, ed urgenza, per ubbidirgli. Perché, bisogna accettarlo, la missione non è attività che noi scegliamo, perché vogliamo occupare il tempo e la nostra vita; l’evangelizzazione del mondo fu, e continua ad essere oggi, pratica dell’obbedienza che dobbiamo al nostro Signore. Il discepolo di Cristo non si trova nel mondo per contemplarlo, bensì per conquistarlo, non è casa dove abitare, bensì scuola di apprendistato. Non dobbiamo, pertanto, restare sulla terra con gli occhi rivolti al cielo, senza interessarci per niente di quanto accade, come se non avesse niente a che vedere con la nostra speranza. Serve a poco fissare l’attenzione al cielo, dove oggi sta Gesù Resuscitato, se ci disinteressiamo della terra, dove Gesù ritornerà per ritrovarci un giorno: il rimprovero che i primi discepoli di Gesù ricevettero il giorno dell’Ascensione continua sfortunatamente oggi ad essere valido per noi; restiamo lì impalati, guardando il cielo, senza fare niente sulla terra per migliorarla. Non è così che si aspetta il Signore che deve venire. Gesù non fece solo promesse, quando ascese al cielo; si impegnò a ritornare e lasciò un compito a coloro che l’aspettano: « andate e fate discepoli di tutti i paesi. » Gesù non ci lasciò soli, trascurati, perché è andato via dalla terra, bensì perché ci lasciò un compito da fare: ci ha lasciato il mondo per evangelizzarlo, ci ha fatto fare del mondo una scuola della sua volontà e dei popoli i suoi discepoli.
C’è ancora tanto da fare, due mila anni dopo il suo mandato, non risulta scusabile continuare a perder tempo, quantunque lo riempissimo guardando il cielo: fissare mente e cuore, occhi ed attenzione, al cielo, dove Dio sta, non ci farà migliori discepoli di Gesù; dobbiamo guardare in avanti, agli uomini che condividono la nostra vita e la terra, ma non condividono la nostra fortuna né la nostra fede, agli uomini che troviamo giornalmente e che non trovano un senso alla loro vita, ai giovani dei quali diffidiamo solo perché non siamo riusciti ad ottenere la loro fiducia, ai bambini ai quali, oltre la vita e l’educazione, dobbiamo dare la fede e i motivi per la loro fedeltà a Dio.
Finché Gesù non ritorna, non abbiamo diritto a cercare di salvarci noi soli, fissandoci al nostro cielo particolare e disinteressandoci della terra; Gesù che si è impegnato a ritornare, ci ha prescritto il modo di aspettarlo: il tempo dell’attesa bisogna riempirlo di lavoro missionario; solo gli occhi di coloro che si sforzano per guadagnare la terra a Cristo meriteranno di vedere il suo Signore quando ritornerà. Il discepolo di Gesù non vive per sé stesso, e neanche solo per Dio; finché sta nel mondo, avrà il mondo come missione, dovrà farlo discepolo del suo Signore affinché il Signore possa considerarlo discepolo fedele; non è la fede che si è conservata solo perché non si sono corsi rischi, bensì quella che si è moltiplicata, facendo nuovi discepoli, quella che conterà sull’approvazione del Signore che deve ritornare.
Non c’è un’altra forma di essere oggi suoi testimoni. Poiché Gesù ci manca molto, può essere che sentiamo a volte nostalgia di lui; ma non dobbiamo disertare dalla missione che ci ha confidato, dandoci il mondo come limite del nostro sforzo evangelizzatore, Egli ha impegnato la sua parola che è presente tra noi; abbiamo Cristo impegnato a non abbandonarci, purché viviamo impegnati della sua missione. Dovremmo tenerlo in conto.
3 – PREGARE : Prega il testo e desidera la volontà di Dio: cosa dico a Dio?
Curioso, Signore, che hai mandato al mondo come tuoi inviati i discepoli che andarono dove tu dicesti loro. Prima di essere apostoli, dovettero essere ubbidienti. Non sarà per quel motivo che io non riesco a sentirmi tuo inviato? Non sarà che non mi trovi dove ti aspettavi che stessi e perciò non mi invii col tuo potere ed il tuo vangelo al mondo? Dammi l’obbedienza che mi chiedi per potere andare dove tu mi invii.
Curioso mi risulta anche, Signore, che ti decidi ad inviare al mondo i tuoi rappresentanti perché sai che hai quel potere. I tuoi apostoli sparsi per il mondo sono la prova del tuo dominio. Sapermi inviato da te è saperti Signore mio e del mondo. Se la mia missione è frutto del tuo potere, perché avere tanta paura del mondo? Se grazie al tuo mandato devo fare del mondo la ‘scuola del tuo vangelo’, perché metto tanta resistenza? Non è che non credo che conti su di me o non ti credo che tu sia Signore di tutto il creato?

JUAN JOSE BARTOLOME sdb

Jesus Christ – the King of Glory,

 Jesus Christ – the King of Glory, dans immagini sacre Christ-enthroned

http://stjosaphat.ab.ca/about-us/church-tours/sanctuary/

Publié dans:immagini sacre |on 29 mai, 2014 |Pas de commentaires »

LA MORTE SECONDO LA CHIESA CATTOLICA

http://www.claudiopenna.it/terze/morte.html

LA MORTE SECONDO LA CHIESA CATTOLICA

(questa mattina è morta una mia amica)

COSA C’E’ DOPO LA MORTE?
Che domanda!!! Meglio chiedersi: « Cosa c’è dopo la vita terrena? » Si tratta di una delle domande più antiche che l’uomo si sia posto.
Un filosofo greco, giocando con le parole, diceva: « Finché io ci sono, la morte non c’è! Quando la morte ci sarà, non ci sarò io! Perché preoccuparmi? »
Quando parliamo di questi temi, non abbiamo paragoni nella vita di ogni giorno, non riusciamo a fare esempi chiari che possano aiutarci a capire. Anzi, spesso gli esempi confondono le idee, soprattutto quando sono presi da alcuni film televisivi o cinematografici (o addirittura dai cartoni animati!)
Morte, paradiso, inferno, aldilà… sono esperienze chiare soltanto a chi le vivrà, per gli altri si tratta solo di provare a parlarne, ma rimanendo sempre con qualche dubbio irrisolto. Ma non potrà essere diversamente!
Le varie tradizioni religiose hanno descritto l’aldilà con una grande varietà di simboli e con sfumature diverse anche all’interno della stessa tradizione. Dante Alighieri, uno dei massimi rappresentanti medioevali della tradizione cristiana e grande conoscitore della Bibbia, si è sforzato moltissimo di immaginare e di descrivere l’aldilà cristiano proprio attraverso tantissime simbologie e metafore, nel suo capolavoro « La Divina Commedia ».
Il Cristianesimo lega, in modo indissolubile, la morte alla risurrezione. Anzi, per san Paolo sarebbe vana, inutile, assurda la nostra fede se non ci fosse la risurrezione. Non avrebbe quindi senso il Cristianesimo se non ci fosse alla base la risurrezione. Noi, infatti, risorgeremo perché Cristo è già risorto.
San Paolo è stato il primo ad occuparsi della dottrina cristiana sulla morte e sulla risurrezione. Tale risurrezione riguarda tutta la persona, corpo compreso. Ma con una importante precisazione: la risurrezione, infatti, sarà l’inizio di una vita perfetta; non ci saranno più sofferenze, fatiche, dolori, tutto sarà trasformato, anche il corpo. Ovviamente il corpo di adesso ed il corpo risorto non saranno totalmente simili. San Paolo fa l’esempio di un seme e di un albero: il seme sotto terra marcisce, solo allora darà vita ad un albero. Così sarà il corpo risorto: il corpo attuale è come il seme, il corpo risorto è il grande albero che nascerà da quel seme e punterà verso l’alto. Nella prima lettera ai Corinzi, san Paolo scrive: « Si è sepolti mortali, si risorge immortali. Si è sepolti miseri, si risorge gloriosi. Si è sepolti deboli, si risorge pieni di forza. Si seppellisce un corpo materiale, ma risusciterà un corpo animato dallo Spirito. »
Spesso, parlando della morte, dimentichiamo la vita! La morte appartiene alla vita, fa parte della vita. E’ l’unica certezza che abbiamo. Se vogliamo sapere come sarà l’aldilà, il paradiso, l’inferno… guardiamo questa vita. A volte sia il paradiso che l’inferno iniziano in questa vita. Il paradiso è la scelta di Dio, è lo stare con Dio (che, ormai lo sappiamo, è legato indissolubilmente allo « stare » con gli altri!). L’inferno è la scelta di voler stare senza Dio, è la mancanza di Dio nelle azioni, nei valori, nei comportamenti.
La morte è il passaggio, misterioso, tra questa e l’altra vita. Questo non toglie nulla all’immenso dolore che si prova quando qualcuno che ci è caro muore. Ma la speranza deve prendere il posto del dolore e della risurrezione; la speranza che colui che è morto è già alla presenza di Dio in una vita che non morirà mai più; la speranza che il seme sta morendo per dare vita ad un enorme albero che sale verso l’alto: non più un fuscello o una canna al vento, ma una maestosa quercia.

Dal Catechismo della CHIESA CATTOLICA (parte prima – La professione di fede)
IL SENSO DELLA MORTE CRISTIANA (paragrafo V – La comunione dei santi)
1010 Grazie a Cristo, la morte cristiana ha un significato positivo. « Per me il vivere è Cristo e il morire un guadagno » ( Fil 1,21 ). « Certa è questa parola: se moriamo con lui, vivremo anche con lui » ( 2Tm 2,11 ). Qui sta la novità essenziale della morte cristiana: mediante il Battesimo, il cristiano è già sacramentalmente « morto con Cristo », per vivere di una vita nuova; e se noi moriamo nella grazia di Cristo, la morte fisica consuma questo « morire con Cristo » e compie così la nostra incorporazione a lui nel suo atto redentore.
Per me è meglio morire per (eis ») Gesù Cristo, che essere re fino ai confini della terra. Io cerco colui che morì per noi; io voglio colui che per noi risuscitò. Il momento in cui sarò partorito è imminente… Lasciate che io raggiunga la pura luce; giunto là, sarò veramente un uomo [Sant'Ignazio di Antiochia, Epistula ad Romanos, 6, 1-2].
1011 Nella morte, Dio chiama a sé l’uomo. Per questo il cristiano può provare nei riguardi della morte un desiderio simile a quello di san Paolo: « il desiderio di essere sciolto dal corpo per essere con Cristo » ( Fil 1,23 ); e può trasformare la sua propria morte in un atto di obbedienza e di amore verso il Padre, sull’esempio di Cristo [Cf Lc 23,46 ]. Il mio amore è crocifisso;…un’acqua viva mormora dentro di me e mi dice: »Vieni al Padre! » [Sant'Ignazio di Antiochia, Epistula ad Romanos, 7, 2].
Voglio vedere Dio, ma per vederlo bisogna morire [Santa Teresa di Gesù, Libro della mia vita, 1].
Non muoio, entro nella vita [Santa Teresa di Gesù Bambino, Novissima verba].
1012 La visione cristiana della morte [Cf 1Ts 4,13-14 ] è espressa in modo impareggiabile nella liturgia della Chiesa:
Ai tuoi fedeli, Signore, la vita non è tolta, ma trasformata; e mentre si distrugge la dimora di questo esilio terreno, viene preparata un’abitazione eterna nel cielo [Messale Romano, Prefazio dei defunti, I].
1013 La morte è la fine del pellegrinaggio terreno dell’uomo, è la fine del tempo della grazia e della misericordia che Dio gli offre per realizzare la sua vita terrena secondo il disegno divino e per decidere il suo destino ultimo. Quando è « finito l’unico corso della nostra vita terrena », [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 48] noi non ritorneremo più a vivere altre vite terrene. « E’ stabilito per gli uomini che muoiano una sola volta » ( Eb 9,27 ). Non c’è « reincarnazione » dopo la morte.
1014 La Chiesa ci incoraggia a prepararci all’ora della nostra morte (Dalla morte improvvisa, liberaci, Signore »: antica Litania dei santi), a chiedere alla Madre di Dio di intercedere per noi « nell’ora della nostra morte » (Ave Maria) e ad affidarci a san Giuseppe, patrono della buona morte:
In ogni azione, in ogni pensiero, dovresti comportarti come se tu dovessi morire oggi stesso; se avrai la coscienza retta, non avrai molta paura di morire. Sarebbe meglio star lontano dal peccato che fuggire la morte. Se oggi non sei preparato a morire, come lo sarai domani?
[Imitazione di Cristo, 1, 23, 1]

Laudato si, mi Signore,
per sora nostra Morte corporale,
da la quale nullo omo vivente po’ scampare.
Guai a quelli che morranno ne le peccata mortali!;
beati quelli che trovarà
ne le tue sanctissime voluntati,
ca la morte seconda no li farrà male [San Francesco d'Assisi, Cantico delle creature].

In sintesi
1015 « La carne è il cardine della salvezza » [Tertulliano, De resurrectione carnis, 8, 2]. Noi crediamo in Dio che è il Creatore della carne; crediamo nel Verbo fatto carne per riscattare la carne; crediamo nella risurrezione della carne, compimento della creazione e della redenzione della carne.
1016 Con la morte l’anima viene separata dal corpo, ma nella risurrezione Dio tornerà a dare la vita incorruttibile al nostro corpo trasformato, riunendolo alla nostra anima. Come Cristo è risorto e vive per sempre, così tutti noi risusciteremo nell’ultimo giorno.
1017 « Crediamo nella vera risurrezione della carne che abbiamo ora » [Concilio di Lione II: Denz. -Schönm., 854]. Mentre, tuttavia, si semina nella tomba un corpo corruttibile, risuscita un corpo incorruttibile , [Cf 1Cor 15,42 ] un « corpo spirituale » ( 1Cor 15,44 ).
1018 In conseguenza del peccato originale, l’uomo deve subire « la morte corporale, dalla quale sarebbe stato esentato se non avesse peccato » [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 18].
1019 Gesù, il Figlio di Dio, ha liberamente subìto la morte per noi in una sottomissione totale e libera alla volontà di Dio, suo Padre. Con la sua morte ha vinto la morte, aprendo così a tutti gli uomini la possibilità della salvezza.

Articolo 12
« CREDO LA VITA ETERNA »
1020 Per il cristiano, che unisce la propria morte a quella di Gesù, la morte è come un andare verso di lui ed entrare nella vita eterna. Quando la Chiesa ha pronunciato, per l’ultima volta, le parole di perdono dell’assoluzione di Cristo sul cristiano morente, l’ha segnato, per l’ultima volta, con una unzione fortificante e gli ha dato Cristo nel viatico come nutrimento per il viaggio, a lui si rivolge con queste dolci e rassicuranti parole:
Parti, anima cristiana, da questo mondo, nel nome di Dio Padre onnipotente che ti ha creato, nel nome di Gesù Cristo, Figlio del Dio vivo, che è morto per te sulla croce, nel nome dello Spirito Santo, che ti è stato dato in dono; la tua dimora sia oggi nella pace della santa Gerusalemme, con la Vergine Maria, Madre di Dio, con san Giuseppe, con tutti gli angeli e i santi. . . Tu possa tornare al tuo Creatore, che ti ha formato dalla polvere della terra. Quando lascerai questa vita, ti venga incontro la Vergine Maria con gli angeli e i santi. . . Mite e festoso ti appaia il volto di Cristo e possa tu contemplarlo per tutti i secoli in eterno [Rituale romano, Rito delle esequie, Raccomandazione dell'anima].

I. Il giudizio particolare
1021 La morte pone fine alla vita dell’uomo come tempo aperto all’accoglienza o al rifiuto della grazia divina apparsa in Cristo [Cf 2Tm 1,9-10 ]. Il Nuovo Testamento parla del giudizio principalmente nella prospettiva dell’incontro finale con Cristo alla sua seconda venuta, ma afferma anche, a più riprese, l’immediata retribuzione che, dopo la morte, sarà data a ciascuno in rapporto alle sue opere e alla sua fede. La parabola del povero Lazzaro [Cf Lc 16,22 ] e la parola detta da Cristo in croce al buon ladrone [Cf Lc 23,43 ] così come altri testi del Nuovo Testamento [Cf 2Cor 5,8; Fil 1,23; Eb 9,27; Eb 12,23 ] parlano di una sorte ultima dell’anima [Cf Mt 16,26 ] che può essere diversa per le une e per le altre.
1022 Ogni uomo fin dal momento della sua morte riceve nella sua anima immortale la retribuzione eterna, in un giudizio particolare che mette la sua vita in rapporto a Cristo, per cui o passerà attraverso una purificazione, [Cf Concilio di Lione II: Denz.-Schönm., 857-858; Concilio di Firenze II: ibid., 1304-1306; Concilio di Trento: ibid., 1820] o entrerà immediatamente nella beatitudine del cielo, [Cf Benedetto XII, Cost. Benedictus Deus: Denz.-Schönm., 1000-1001; Giovanni XXII, Bolla Ne super his: ibid., 990] oppure si dannerà immediatamente per sempre [Cf Benedetto XII, Cost. Benedictus Deus: Denz.-Schönm., 1002].
Alla sera della vita, saremo giudicati sull’amore [Cf San Giovanni della Croce, Parole di luce e di amore, 1, 57].

II. Il Cielo
1023 Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio e che sono perfettamente purificati, vivono per sempre con Cristo. Sono per sempre simili a Dio, perché lo vedono « così come egli è » ( 1Gv 3,2 ), faccia a faccia: [Cf 1Cor 13,12; Ap 22,4 ]
Con la nostra apostolica autorità definiamo che, per disposizione generale di Dio, le anime di tutti i santi morti prima della passione di Cristo. . . e quelle di tutti i fedeli morti dopo aver ricevuto il santo Battesimo di Cristo, nelle quali al momento della morte non c’era o non ci sarà nulla da purificare, oppure, se in esse ci sarà stato o ci sarà qualcosa da purificare, quando, dopo la morte, si saranno purificate. . ., anche prima della risurrezione dei loro corpi e del giudizio universale – e questo dopo l’Ascensione del Signore e Salvatore Gesù Cristo al cielo – sono state, sono e saranno in cielo, associate al Regno dei cieli e al Paradiso celeste con Cristo, insieme con i santi angeli. E dopo la passione e la morte del nostro Signore Gesù Cristo, esse hanno visto e vedono l’essenza divina in una visione intuitiva e anche a faccia a faccia, senza la mediazione di alcuna creatura [ Benedetto XII, Cost. Benedictus Deus: Denz. -Schönm., 1000; cf Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 49].
1024 Questa vita perfetta, questa comunione di vita e di amore con la Santissima Trinità, con la Vergine Maria, gli angeli e tutti i beati è chiamata « il cielo ». Il cielo è il fine ultimo dell’uomo e la realizzazione delle sue aspirazioni più profonde, lo stato di felicità suprema e definitiva.
1025 Vivere in cielo è « essere con Cristo » [Cf Gv 14,3; Fil 1,23; 1Ts 4,17 ]. Gli eletti vivono « in lui », ma conservando, anzi, trovando la loro vera identità, il loro proprio nome: [Cf Ap 2,17 ]
Vita est enim esse cum Christo; ideo ubi Christus, ibi vita, ibi regnum – La vita, infatti, è stare con Cristo, perché dove c’è Cristo, là c’è la vita, là c’è il Regno [Sant'Ambrogio, Expositio Evangelii secundum Lucam, 10, 121: PL 15, 1834A].
1026 Con la sua morte e la sua Risurrezione Gesù Cristo ci ha « aperto » il cielo. La vita dei beati consiste nel pieno possesso dei frutti della Redenzione compiuta da Cristo, il quale associa alla sua glorificazione celeste coloro che hanno creduto in lui e che sono rimasti fedeli alla sua volontà. Il cielo è la beata comunità di tutti coloro che sono perfettamente incorporati in lui.
1027 Questo mistero di comunione beata con Dio e con tutti coloro che sono in Cristo supera ogni possibilità di comprensione e di descrizione. La Scrittura ce ne parla con immagini: vita, luce, pace, banchetto di nozze, vino del Regno, casa del Padre, Gerusalemme celeste, paradiso: « Quelle cose che occhio non vide, né orecchio udì, né mai entrarono in cuore di uomo, queste ha preparato Dio per coloro che lo amano » ( 1Cor 2,9 ).
1028 A motivo della sua trascendenza, Dio non può essere visto quale è se non quando egli stesso apre il suo Mistero alla contemplazione immediata dell’uomo e gliene dona la capacità. Questa contemplazione di Dio nella sua gloria celeste è chiamata dalla Chiesa la « la visione beatifica »:
Questa sarà la tua gloria e la tua felicità: essere ammesso a vedere Dio, avere l’onore di partecipare alle gioie della salvezza e della luce eterna insieme con Cristo, il Signore tuo Dio, . . . godere nel Regno dei cieli, insieme con i giusti e gli amici di Dio, le gioie dell’immortalità raggiunta [San Cipriano di Cartagine, Epistulae, 56, 10, 1: PL 4, 357B].
1029 Nella gloria del cielo i beati continuano a compiere con gioia la volontà di Dio in rapporto agli altri uomini e all’intera creazione. Regnano già con Cristo; con lui « regneranno nei secoli dei secoli » ( Ap 22,5 ) [Cf Mt 25,21; Mt 25,23 ].

III. La purificazione finale o Purgatorio
1030 Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio, ma sono imperfettamente purificati, sebbene siano certi della loro salvezza eterna, vengono però sottoposti, dopo la loro morte, ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia del cielo.
1031 La Chiesa chiama Purgatorio questa purificazione finale degli eletti, che è tutt’altra cosa dal castigo dei dannati. La Chiesa ha formulato la dottrina della fede relativa al Purgatorio soprattutto nei Concilii di Firenze [Cf Denz. -Schönm., 1304] e di Trento [Cf ibid. , 1820; 1580]. La Tradizione della Chiesa, rifacendosi a certi passi della Scrittura, [Cf ad esempio, 1Cor 3,15; 1031 1Pt 1,7 ] parla di un fuoco purificatore:
Per quanto riguarda alcune colpe leggere, si deve credere che c’è, prima del Giudizio, un fuoco purificatore; infatti colui che è la Verità afferma che, se qualcuno pronuncia una bestemmia contro lo Spirito Santo, non gli sarà perdonata né in questo secolo, né in quello futuro ( Mt 12,31 ). Da questa affermazione si deduce che certe colpe possono essere rimesse in questo secolo, ma certe altre nel secolo futuro [San Gregorio Magno, Dialoghi, 4, 39].
1032 Questo insegnamento poggia anche sulla pratica della preghiera per i defunti di cui la Sacra Scrittura già parla: « Perciò [Giuda Maccabeo] fece offrire il sacrificio espiatorio per i morti, perché fossero assolti dal peccato » ( 2Mac 12,45 ). Fin dai primi tempi, la Chiesa ha onorato la memoria dei defunti e ha offerto per loro suffragi, in particolare il sacrificio eucaristico, [Cf Concilio di Lione II: Denz. -Schönm., 856] affinché, purificati, possano giungere alla visione beatifica di Dio. La Chiesa raccomanda anche le elemosine, le indulgenze e le opere di penitenza a favore dei defunti:
Rechiamo loro soccorso e commemoriamoli. Se i figli di Giobbe sono stati purificati dal sacrificio del loro padre, [Cf Gb 1,5 ] perché dovremmo dubitare che le nostre offerte per i morti portino loro qualche consolazione? Non esitiamo a soccorrere coloro che sono morti e ad offrire per loro le nostre preghiere [San Giovanni Crisostomo, Homiliae in primam ad Corinthios, 41, 5: PG 61, 594-595].

IV. L’inferno
1033 Non possiamo essere uniti a Dio se non scegliamo liberamente di amarlo. Ma non possiamo amare Dio se pecchiamo gravemente contro di lui, contro il nostro prossimo o contro noi stessi: « Chi non ama rimane nella morte. Chiunque odia il proprio fratello è omicida, e voi sapete che nessun omicida possiede in se stesso la vita eterna » ( 1Gv 3,15 ). Nostro Signore ci avverte che saremo separati da lui se non soccorriamo nei loro gravi bisogni i poveri e i piccoli che sono suoi fratelli [Cf Mt 25,31-46 ]. Morire in peccato mortale senza essersene pentiti e senza accogliere l’amore misericordioso di Dio, significa rimanere separati per sempre da lui per una nostra libera scelta. Ed è questo stato di definitiva auto-esclusione dalla comunione con Dio e con i beati che viene designato con la parola « inferno ».
1034 Gesù parla ripetutamente della « Geenna », del « fuoco inestinguibile », [Cf Mt 5,22; Mt 5,29; 1034 Mt 13,42; Mt 13,50; Mc 9,43-48 ] che è riservato a chi sino alla fine della vita rifiuta di credere e di convertirsi, e dove possono perire sia l’anima che il corpo [Cf Mt 10,28 ]. Gesù annunzia con parole severe che egli « manderà i suoi angeli, i quali raccoglieranno. . . tutti gli operatori di iniquità e li getteranno nella fornace ardente » ( Mt 13,41-42 ), e che pronunzierà la condanna: « Via, lontano da me, maledetti, nel fuoco eterno! » ( Mt 25,41 ).
1035 La Chiesa nel suo insegnamento afferma l’esistenza dell’inferno e la sua eternità. Le anime di coloro che muoiono in stato di peccato mortale, dopo la morte discendono immediatamente negli inferi, dove subiscono le pene dell’inferno, « il fuoco eterno » [Cf Simbolo "Quicumque": Denz. -Schnöm., 76; Sinodo di Costantinopoli: ibid., 409. 411; 274]. La pena principale dell’inferno consiste nella separazione eterna da Dio, nel quale soltanto l’uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira.
1036 Le affermazioni della Sacra Scrittura e gli insegnamenti della Chiesa riguardanti l’inferno sono un appello alla responsabilità con la quale l’uomo deve usare la propria libertà in vista del proprio destino eterno. Costituiscono nello stesso tempo un pressante appello alla conversione: « Entrate per la porta stretta, perché larga è la porta e spaziosa la via che conduce alla perdizione, e molti sono quelli che entrano per essa; quanto stretta invece è la porta e angusta la via che conduce alla Vita, e quanto pochi sono quelli che la trovano! » ( Mt 7,13-14 ).
Siccome non conosciamo né il giorno né l’ora, bisogna, come ci avvisa il Signore, che vegliamo assiduamente, affinché, finito l’unico corso della nostra vita terrena, meritiamo con lui di entrare al banchetto nuziale ed essere annoverati tra i beati, né ci si comandi, come a servi cattivi e pigri, di andare al fuoco eterno, nelle tenebre esteriori dove « ci sarà pianto e stridore di denti » [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 48].
1037 Dio non predestina nessuno ad andare all’inferno; [ Cf Concilio di Orange II: Denz. -Schönm. , 397; Concilio di Trento: ibid. , 1567] questo è la conseguenza di una avversione volontaria a Dio (un peccato mortale), in cui si persiste sino alla fine. Nella liturgia eucaristica e nelle preghiere quotidiane dei fedeli, la Chiesa implora la misericordia di Dio, il quale non vuole « che alcuno perisca, ma che tutti abbiano modo di pentirsi » ( 2Pt 3,9 ):
Accetta con benevolenza, o Signore, l’offerta che ti presentiamo noi tuoi ministri e tutta la tua famiglia: disponi nella tua pace i nostri giorni, salvaci dalla dannazione eterna, e accoglici nel gregge degli eletti [Messale Romano, Canone Romano].

V. Il Giudizio finale
1038 La risurrezione di tutti i morti, « dei giusti e degli ingiusti » ( At 24,15 ), precederà il Giudizio finale. Sarà « l’ora in cui tutti coloro che sono nei sepolcri udranno la sua voce [del Figlio dell'Uomo] e ne usciranno: quanti fecero il bene per una risurrezione di vita e quanti fecero il male per una risurrezione di condanna » ( Gv 5,28-29 ). Allora Cristo « verrà nella sua gloria, con tutti i suoi angeli. . . E saranno riunite davanti a lui tutte le genti, ed egli separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra. . . E se ne andranno, questi al supplizio eterno, e i giusti alla vita eterna » ( Mt 25,31; Mt 25,32; Mt 25,46 ).
1039 Davanti a Cristo che è la Verità sarà definitivamente messa a nudo la verità sul rapporto di ogni uomo con Dio [Cf Gv 12,49 ]. Il Giudizio finale manifesterà, fino alle sue ultime conseguenze, il bene che ognuno avrà compiuto o avrà omesso di compiere durante la sua vita terrena:
Tutto il male che fanno i cattivi viene registrato a loro insaputa. Il giorno in cui Dio non tacerà ( Sal 50,3 ). . . egli si volgerà verso i malvagi e dirà loro: « Io avevo posto sulla terra i miei poverelli, per voi. Io, loro capo, sedevo nel cielo alla destra di mio Padre, ma sulla terra le mie membra avevano fame. Se voi aveste donato alle mie membra, il vostro dono sarebbe giunto fino al capo. Quando ho posto i miei poverelli sulla terra, li ho costituiti come vostri fattorini perché portassero le vostre buone opere nel mio tesoro: voi non avete posto nulla nelle loro mani, per questo non possedete nulla presso di me [Sant'Agostino, Sermones, 18, 4, 4: PL 38, 130-131].
1040 Il Giudizio finale avverrà al momento del ritorno glorioso di Cristo. Soltanto il Padre ne conosce l’ora e il giorno, egli solo decide circa la sua venuta. Per mezzo del suo Figlio Gesù pronunzierà allora la sua parola definitiva su tutta la storia. Conosceremo il senso ultimo di tutta l’opera della creazione e di tutta l’Economia della salvezza, e comprenderemo le mirabili vie attraverso le quali la Provvidenza divina avrà condotto ogni cosa verso il suo fine ultimo. Il Giudizio finale manifesterà che la giustizia di Dio trionfa su tutte le ingiustizie commesse dalle sue creature e che il suo amore è più forte della morte [Cf Ct 8,6 ].
1041 Il messaggio del Giudizio finale chiama alla conversione fin tanto che Dio dona agli uomini « il momento favorevole, il giorno della salvezza » ( 2Cor 6,2 ). Ispira il santo timor di Dio. Impegna per la giustizia del Regno di Dio. Annunzia la « beata speranza » ( Tt 2,13 ) del ritorno del Signore il quale « verrà per essere glorificato nei suoi santi ed essere riconosciuto mirabile in tutti quelli che avranno creduto » ( 2Ts 1,10 ).

VI. La speranza dei cieli nuovi e della terra nuova
1042 Alla fine dei tempi, il Regno di Dio giungerà alla sua pienezza. Dopo il Giudizio universale i giusti regneranno per sempre con Cristo, glorificati in corpo e anima, e lo stesso universo sarà rinnovato:
Allora la Chiesa. . . avrà il suo compimento. . . nella gloria del cielo, quando verrà il tempo della restaurazione di tutte le cose e quando col genere umano anche tutto il mondo, il quale è intimamente unito con l’uomo e per mezzo di lui arriva al suo fine, sarà perfettamente ricapitolato in Cristo [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 48].
1043 Questo misterioso rinnovamento, che trasformerà l’umanità e il mondo, dalla Sacra Scrittura è definito con l’espressione: « i nuovi cieli e una terra nuova » ( 2Pt 3,13 ) [Cf Ap 21,1 ]. Sarà la realizzazione definitiva del disegno di Dio di « ricapitolare in Cristo tutte le cose, quelle del cielo come quelle della terra » ( Ef 1,10 ).
1044 In questo nuovo universo, [Cf Ap 21,5 ] la Gerusalemme celeste, Dio avrà la sua dimora in mezzo agli uomini. Egli « tergerà ogni lacrima dai loro occhi; non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno perché le cose di prima sono passate » ( Ap 21,4 ) [Cf Ap 21,27 ].
1045 Per l’uomo questo compimento sarà la realizzazione definitiva dell’unità del genere umano, voluta da Dio fin dalla creazione e di cui la Chiesa nella storia è « come sacramento » [Conc. Ecum. Vat. II, Lumen gentium, 1]. Coloro che saranno uniti a Cristo formeranno la comunità dei redenti, la « Città santa » di Dio ( Ap 21,2 ), « la Sposa dell’Agnello » ( Ap 21,9 ). Essa non sarà più ferita dal peccato, dalle impurità, [Cf Ap 21,27 ] dall’amor proprio, che distruggono o feriscono la comunità terrena degli uomini. La visione beatifica, nella quale Dio si manifesterà in modo inesauribile agli eletti, sarà sorgente perenne di gaudio, di pace e di reciproca comunione.
1046 Quanto al cosmo, la Rivelazione afferma la profonda comunione di destino fra il mondo materiale e l’uomo:
La creazione stessa attende con impazienza la rivelazione dei figli di Dio. . . e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione. . . Sappiamo bene infatti che tutta la creazione geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto; essa non è la sola, ma anche noi, che possediamo le primizie dello Spirito, gemiamo interiormente aspettando l’adozione a figli, la redenzione del nostro corpo ( Rm 8,19-13 ).
1047 Anche l’universo visibile, dunque, è destinato ad essere trasformato, « affinché il mondo stesso, restaurato nel suo stato primitivo, sia, senza più alcun ostacolo, al servizio dei giusti », partecipando alla loro glorificazione in Gesù Cristo risorto [Sant'Ireneo di Lione, Adversus haereses, 5, 32, 1].
1048  » Ignoriamo il tempo in cui avranno fine la terra e l’umanità, e non sappiamo il modo in cui sarà trasformato l’universo. Passa certamente l’aspetto di questo mondo, deformato dal peccato. Sappiamo, però, dalla Rivelazione che Dio prepara una nuova abitazione e una terra nuova, in cui abita la giustizia, e la cui felicità sazierà sovrabbondantemente tutti i desideri di pace che salgono nel cuore degli uomini » [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 39].
1049 « Tuttavia l’attesa di una terra nuova non deve indebolire, bensì piuttosto stimolare la sollecitudine nel lavoro relativo alla terra presente, dove cresce quel corpo dell’umanità nuova che già riesce a offrire una certa prefigurazione che adombra il mondo nuovo. Pertanto, benché si debba accuratamente distinguere il progresso terreno dallo sviluppo del Regno di Cristo, tuttavia, nella misura in cui può contribuire a meglio ordinare l’umana società, tale progresso è di grande importanza » [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 39].
1050 « Infatti. . . tutti i buoni frutti della natura e della nostra operosità, dopo che li avremo diffusi sulla terra nello Spirito del Signore e secondo il suo precetto, li ritroveremo poi di nuovo, ma purificati da ogni macchia, illuminati e trasfigurati, allorquando Cristo rimetterà al Padre il Regno eterno e universale » [Conc. Ecum. Vat. II, Gaudium et spes, 39]. Dio allora sarà « tutto in tutti » ( 1Cor 15,28 ), nella vita eterna:
La vita, nella sua stessa realtà e verità, è il Padre, che attraverso il Figlio nello Spirito Santo, riversa come fonte su tutti noi i suoi doni celesti. E per la sua bontà promette veramente anche a noi uomini i beni divini della vita eterna [ San Cirillo di Gerusalemme, Catecheses illuminandorum, 18, 29: PG 33, 1049, cf Liturgia delle Ore, III, Ufficio delle letture del giovedì della diciassettesima settimana. [Paolo VI, Credo del popolo di Dio, 28.]

In sintesi
1051 Ogni uomo riceve nella sua anima immortale la propria retribuzione eterna fin dalla sua morte, in un giudizio particolare ad opera di Cristo, giudice dei vivi e dei morti.
1052 « Noi crediamo che le anime di tutti coloro che muoiono nella grazia di Cristo. . . costituiscono il Popolo di Dio nell’al di là della morte, la quale sarà definitivamente sconfitta nel giorno della risurrezione, quando queste anime saranno riunite ai propri corpi » .
1053 « Noi crediamo che la moltitudine delle anime, che sono riunite attorno a Gesù e a Maria in Paradiso, forma la Chiesa del cielo, dove esse nella beatitudine eterna vedono Dio così com’è e dove sono anche associate, in diversi gradi, con i santi angeli al governo divino esercitato da Cristo glorioso, intercedendo per noi e aiutando la nostra debolezza con la loro fraterna sollecitudine » [Paolo VI, Credo del popolo di Dio, 29].
1054 Coloro che muoiono nella grazia e nell’amicizia di Dio, ma imperfettamente purificati, benché sicuri della loro salvezza eterna, vengono sottoposti, dopo la morte, ad una purificazione, al fine di ottenere la santità necessaria per entrare nella gioia di Dio.
1055 In virtù della « comunione dei santi », la Chiesa raccomanda i defunti alla misericordia di Dio e per loro offre suffragi, in particolare il santo Sacrificio eucaristico.
1056 Seguendo l’esempio di Cristo, la Chiesa avverte i fedeli della « triste e penosa realtà della morte eterna » , [Congregazione per il Clero, Direttorio catechistico generale, 69] chiamata anche « inferno ».
1057 La pena principale dell’inferno consiste nella separazione eterna da Dio; in Dio soltanto l’uomo può avere la vita e la felicità per le quali è stato creato e alle quali aspira.
1058 La Chiesa prega perché nessuno si perda: « Signore, non permettere che sia mai separato da te ». Se è vero che nessuno può salvarsi da se stesso, è anche vero che Dio « vuole che tutti gli uomini siano salvati » ( 1Tm 2,4 ) e che per lui « tutto è possibile » ( Mt 19,26 ).
1059 « La santissima Chiesa romana crede e confessa fermamente che nel giorno del Giudizio tutti gli uomini compariranno col loro corpo davanti al tribunale di Cristo per rendere conto delle loro azioni » [Concilio di Lione II: Denz. -Schönm., 859; cf Concilio di Trento: ibid., 1549].
1060 Alla fine dei tempi, il Regno di Dio giungerà alla sua pienezza. Allora i giusti regneranno con Cristo per sempre, glorificati in corpo e anima, e lo stesso universo materiale sarà trasformato. Dio allora sarà « tutto in tutti » ( 1Cor 15,28 ), nella vita eterna.

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Il MAESTRO NELLA PATRISTICA E NELLA TRADIZIONE ECCLESIALE

http://www.stpauls.it/studi/maestro/italiano/pierini/itapie03.htm

Il MAESTRO NELLA PATRISTICA E NELLA TRADIZIONE ECCLESIALE

(in particolare nel « De Magistro » di S. Agostino e di S. Tommaso d’Aquino)

Atti del Seminario internazionale
su « Gesù, il Maestro »
(Ariccia, 14-24 ottobre 1996)

di Franco Pierini ssp

2. l’antichità pre-costantiniana (fino al 313)

2.1. Sguardo generale
L’impero romano, fin dall’epoca della sua fondazione, si presentò come vera e propria istituzione pedagogica, volta ad ottenere con i mezzi più diversi il consenso o almeno la sottomissione da parte dei sudditi (Virgilio, Eneide, 6, 851-853: «Tu regere imperio populos, romane, memento – hae tibi erunt artes – pacique imponere morem, parcere subiectis et debellare superbos»). Furono pedagogici gli arcaismi di Augusto, Claudio, Adriano, Decio, ecc.; gli atteggiamenti paternalistici o filosofici di Vespasiano e Tito, di Nerva, Antonino Pio, Marco Aurelio, Caligola, Nerone, Commodo; la politica degli imperatori Severi.
L’atmosfera culturale dell’epoca, d’altra parte, spingeva nella direzione di un pedagogismo generalizzato: nella filosofia, nella letteratura, nell’arte.(22)

Nulla di strano, perciò, se le espressioni paideia di Dio, paideia di Cristo si trovino non solo negli scritti del Nuovo Testamento (specialmente nelle lettere deuteropaoline e pastorali) ma anche già nel primo, cronologicamente parlando, degli scritti patristici, ossia nella Lettera ai Corinzi di Clemente di Roma, risalente al 96 circa, specialmente negli ultimi capitoli.(23)
Se nell’ambito del giudeo-cristianesimo Cristo Maestro si presenta soprattutto come Cristo-legge (nomos),(24) nel cristianesimo ellenistico e romano assume sempre maggiore importanza (dietro l’esempio di Filone di Alessandria) Cristo Maestro come Cristo-logos.
Cristo Maestro inteso come legge è utile nella polemica con gli ebrei; Cristo Maestro inteso come logos lo è nella polemica con i pagani. Il filosofo-apologista Giustino li usa infatti entrambi, il primo nel Dialogo di Trifone, il secondo nelle Apologie (soprattutto nella forma di logos spermatikòs). In entrambi i casi, Cristo appare come il protagonista della paideia di Dio rivolta rispettivamente agli ebrei e ai pagani.(25)
Dato che l’eresia si presenta soprattutto come gnosticismo, Ireneo di Lione, nella sua opera Contro gli eretici, è in grado di contrapporre agli eoni gnostici Cristo-logos, al dualismo tipico dello gnosticismo l’unità della paideia divina nella storia della salvezza unica per tutti, nell’unico Cristo Maestro e nell’unica Chiesa maestra.(26)
Tutti i Padri della Chiesa di quest’epoca, naturalmente, sottolineano l’esigenza della imitazione di Cristo. In un’epoca che è anche caratterizzata da persecuzioni continuamente incombenti, il martire risulta, d’altra parte, l’imitatore più perfetto del Maestro Divino.(27)
La paideia di Cristo e della Chiesa, nei primi tre secoli di storia cristiana, giunge alla più significativa espressione, però, nell’esperienza dell’ambiente alessandrino. Qui esisteva già da vari secoli il Mouseion pagano, ossia la casa delle nove muse rappresentanti dei vari settori del sapere; esisteva la Casa della ricerca (o Bet-midrash) ebraica, dove Filone aveva condotto alla perfezione l’interpretazione allegorica della Torah. In questo centro culturale di primaria importanza, era inevitabile che sorgesse più precocemente che altrove una istituzione pedagogica cristiana, e fu il famoso Didaskaleion, fondato agli inizi del secolo III.(28)
Dall’ambiente alessandrino emergono due nomi: Clemente e Origene. Sono essi i protagonisti dello sforzo più impegnativo e più vasto volto a creare una vera e propria paideia cristiana, in grado di stare all’altezza di quella ebraica e di quella pagana anche dal punto di vista culturale. (torna al sommario)

2.2. Il pedagogo e la paideia cristiani di Clemente e Origene
Clemente di Alessandria (150-215 circa), pur non avendo insegnato ufficialmente nel Didaskaleion, è considerato uno degli esponenti più caratteristici dell’ambiente culturale cristiano di Alessandria d’Egitto. Fu lui a progettare una specie di enciclopedia cristiana intorno alla figura del Maestro Divino, il Logos incarnato, Dio fatto uomo.
Seguendo lo schema didattico in voga presso le filosofie religiose dell’epoca, egli probabilmente svolse una prima parte, di tipo persuasivo e propagandistico (l’attuale opera intitolata Protrettico); una seconda parte, in cui Cristo appare come il Maestro rivolto a tutti, essoterico (Il Pedagogo); una terza parte, in cui vengono approfonditi i temi dei rapporti fra cultura e rivelazione, ragione e fede, ecc. (l’attuale opera Stromati, che forse avrebbe dovuto intitolarsi Il Didascalo), in funzione dell’insegnamento di tipo esoterico.
La teologia di Clemente è una vera e propria pedagogia cristologica. Ispirata da un sottofondo filosofico di tipo eclettico, manca ancora di sistematicità, ma, nella sua sterminata erudizione, offre una quantità di prospettive preziose sia per lo studio della tradizione cristiana antica, sia per i confronti con la cultura classica greca e romana.(29) È comunque il primo tentativo di costruire una strategia propagandistica, una cultura elementare e una conoscenza superiore (gnosi) per la comunicazione del cristianesimo a tutti i livelli e in tutte le direzioni.(30)
Origene di Alessandria (185-254) svolge in maniera ancora più vasta e sistematica la paideia cristiana messa in cantiere per la prima volta da Clemente. Mentre però costui si era limitato a costruire il processo della propria indagine intorno al centro focale costituito da Cristo maestro come protrettico, come pedagogo e come didascalo, Origene adotta la totalità della metodologia dei dotti del suo tempo, dando vita ad una paideia vasta e articolata, da lui messa in opera prima ad Alessandria (fra il 203 e il 231), poi a Cesarea di Palestina (fra il 232 e il 253).
La descrizione della paideia cristiana di Origene si trova nel Discorso a Origene, composto nel 238 dallo studente Gregorio il Taumaturgo. Come si desume da questo documento, abbiamo qui quello che è stato giustamente definito « il primo abbozzo di università cristiana ».
Il piano di studi promosso da Origene è lo stesso delle scuole superiori pagane, ispirate soprattutto dal medio platonismo di Albino, Massimo di Tiro, Numenio, dallo stoicismo di Cornuto e Cheremone, dal neopitagorismo di Filostrato, ecc. Le materie sono la logica, la fisica, l’etica e la metafisica; la metodologia prevalente l’allegorismo. Ma naturalmente lo spirito e lo scopo sono diversi: lo spirito è quello cristiano-ecclesiale, lo scopo è l’intelligenza sempre più profonda dell’insegnamento divino incarnato nella persona di Cristo Maestro e presente nella parola della Bibbia.(31)
Con le opere di Clemente e Origene si compie così una prima assimilazione complessiva sia della rivelazione cristiana, sia della cultura antica. E questo come paideia, ossia come prima espressione dell’umanesimo cristiano. (torna al sommario)

3. l’antichità post-costantiniana (313-450 circa)
3.1. Sguardo generale
Terminate le persecuzioni, riconosciuta la libertà al cristianesimo, si passa ben presto ad una trasformazione di portata epocale: l’impero romano-pagano diventa impero romano-cristiano. Le esigenze pedagogiche dello Stato rimangono le stesse: procurarsi il consenso. Ma cambiano le modalità. Nonostante i tentativi cesaropapisti di vari imperatori, che si illudono di poter strumentalizzare il cristianesimo come avevano fatto con le religioni pagane, il compito pedagogico, ossia di egemonia spirituale e culturale, passa sempre di più nelle mani della Chiesa.
Neppure il neo-platonismo, l’ultima grande filosofia religiosa del paganesimo, riesce a far tornare indietro la storia, nonostante la breve reazione anti-cristiana di Giuliano l’Apostata (361-363).
Nell’ambito del cristianesimo, d’altra parte, il venir meno della testimonianza del sangue (il martirio propriamente detto) viene compensato dalla nascita e dalla diffusione rapida e strepitosa di una nuova forma di testimonianza: quella dell’ascetismo monastico, sia nella forma eremitica, sia in quella cenobitica. L’imitazione di Cristo Maestro, che prima guardava soprattutto al martire, ora guarda soprattutto a Cristo asceta, cercando già di riprodurlo sotto ogni aspetto descritto dal Vangelo. Tutto questo è già evidente nella biografia di Antonio l’egiziano scritta da Atanasio (356 circa), ma diventa ancor più sistematico nella teorizzazione del monachesimo operata dai Padri Cappadoci, specialmente da Gregorio di Nissa (cf gli scritti Il fine cristiano, La professione cristiana, La perfezione cristiana, del 390-394 circa).
Pochi decenni prima, Ambrogio di Milano aveva sviluppato un’analoga operazione, propagandando la verginità, come imitazione di Maria, madre di Gesù.
La congiuntura favorevole suscita la seconda grande epoca di scolarizzazione cristiana, dopo quella avvenuta nei secoli II-III e culminata nel Didaskaleion di Alessandria. Ora nascono anche le scuole catechetiche di Antiochia (iniziata al principio del sec. IV ma giunta al suo acme nella seconda metà del secolo), di Edessa (fiorita nel medesimo periodo) ed altre minori, come Cesarea di Cappadocia, Milano, ecc., oltre quelle collegate con i primi grandi monasteri. E queste istituzioni scolastiche, seguendo i consigli di un Basilio di Cesarea (Ammonimento ai giovani sull’uso dei classici pagani) e di un Girolamo (in varie lettere), non respingono ma cercano di rianimare con spirito cristiano l’eredità culturale greca e romana, che ormai va sistemandosi nelle arti liberali del trivio e del quadrivio.
La scuola cristiana è rivolta, naturalmente, a educare l’uomo nuovo. Il fenomeno è evidente nella predicazione, tipicamente pedagogica, di Giovanni Crisostomo (344-407), che è anche autore della più antica esposizione di pedagogia cristiana sistematica (La vanità e l’educazione dei figli, del 380 circa), parallela, in certo senso, all’unico trattatello pedagogico giuntoci dall’antichità pagana, quello dello Pseudo Plutarco (Come educare i propri figli, risalente al II secolo d.C.), anche se ben diversa sia nella forma che nella sostanza e nello spirito.
In questa fase storica della paideia cristiana, importanza ben maggiore ebbero, tuttavia, le controversie teologiche e cristologiche con le relative definizioni conciliari (a Nicea contro l’arianesimo nel 325, a Costantinopoli contro il macedonianismo nel 381, a Efeso contro il nestorianesimo nel 431, a Calcedonia contro il monofisismo nel 451), e le contemporanee controversie sulla Chiesa (condanne del donatismo ad Arles nel 314 e a Cartagine nel 411) e sulla grazia (condanne del pelagianesimo a Cartagine e a Milevi nel 416).
Gli approfondimenti dottrinali che ne emersero diedero modo di comprendere meglio lo spessore e la fisionomia più autentica del magistero di Cristo. Prima attraverso le opere di Atanasio, Ilario, i Cappadoci, Cirillo di Alessandria, Leone I; poi soprattutto attraverso quelle di Agostino.
Ne risulta, in sostanza: Cristo, riconosciuto nella sua divinità preesistente l’incarnazione (Nicea); riconosciuto nella distinzione e completezza delle sue due nature, divina e umana, dopo l’incarnazione (Efeso e Calcedonia); riconosciuto come operante nella Chiesa attraverso il suo Spirito, terza persona della Trinità (Costantinopoli); questo Cristo è sempre garantito, nelle debite condizioni, a tutti i suoi fedeli (contro il donatismo), e non è un Maestro puramente esteriore, ma vera grazia di trasformazione radicale e di divinizzazione (contro il pelagianesimo). Insomma, Cristo Maestro non è solo il rabbì storico vissuto in Palestina con il suo insegnamento, col suo esempio, con i suoi miracoli, con la sua morte e risurrezione, ma è anche e soprattutto, nella attuale fase della storia della salvezza, il Maestro esistente e operante in tutti con la sua grazia, ossia lo Spirito di Cristo, lo Spirito Santo.(32)
Agostino, quando si accinge a scrivere il suo De Magistro nel 389, è già in grado di intuire quest’orientamento della paideia cristiana. Egli, così, nel periodo post-costantiniano, può assolvere, ad un livello assai più alto, il compito assolto nel periodo precedente da Clemente e Origene insieme. (torna al sommario)

3.2. Il « De Magistro » di Agostino di Ippona (389)
Si può affermare con sicurezza che Agostino di Ippona (354-430) scrisse quello che prima personalmente sperimentò, perché egli stesso si è preoccupato di ricordarlo, descriverlo nelle opere autobiografiche, spiegarlo e approfondirlo in ogni occasione.
Anche il De Magistro, che può sembrare a prima vista un discorso fortemente speculativo e astratto nonostante la forma di dialogo, è l’eco di esperienze vissute. Questo risulta chiaramente, se l’opera viene contestualizzata come si deve nella vita di Agostino e nel complesso delle altre opere che la precedono e la seguono.
Agostino, nato a Tagaste nel 354, subisce un forte disorientamento intellettuale e morale all’età di sedici anni. Ne esce fuori una prima volta, con una conversione alla « passione della verità » nel 373 attraverso la lettura dell’Hortensius di Cicerone. Nuovi sbandamenti morali e ideologici. Una seconda conversione, la « conversione della mente », avviene a 32 anni, nel 386, quando si accosta alla filosofia neoplatonica e riesce a scoprire che la verità tanto cercata si trova nell’interiorità dello spirito. La terza conversione, la « conversione del cuore e della volontà », segue poco dopo, quando, con animo ben diverso, torna a leggere la Bibbia e soprattutto le lettere di S. Paolo, e viene a conoscenza di alcune esperienze ascetiche e monastiche.
La maturazione decisiva, comunque, avviene nel corso del 386 e 387, prima e dopo il battesimo, ricevuto nella notte di Pasqua, 24/25 aprile, del 387. Nelle opere scritte in questo periodo, soprattutto nel De ordine (novembre-dicembre 386), è evidente il progetto agostiniano di fondare su nuove basi non solo la propria vita e quella dei propri parenti e amici ma l’intera paideia, l’intera Weltanschauung antica, sulla base del cristianesimo, di Cristo Maestro.
Il De Magistro, dialogo fra Agostino e il figlio Adeodato (che muore l’anno dopo, nel 390), anche nella forma letteraria di tipo platonico, è il manifesto del nuovo « socratismo cristiano ». Vi si parla, infatti, socraticamente, delle condizioni per la ricerca e l’attingimento della verità e delle condizioni per la comunicazione della verità. La riflessione è perciò sullo strumento essenziale per la ricerca e la comunicazione della verità, ossia il linguaggio, più in generale il segno.
Lo stoicismo aveva già insegnato a distinguere nel segno (sémeion) il significante (semàinon) e il significato (semainòmenon). In che rapporto – si chiedono Agostino e Adeodato – significante e significato stanno con le cose (oggi diremmo, i referenti), per arrivare a conoscere la verità e comunicarla?
Il De Magistro non tratta, perciò, problemi di pedagogia spicciola (come il trattatello di Giovanni Crisostomo), ma temi di pedagogia fondamentale, di teoria della conoscenza e del metodo. La pedagogia è intesa non tanto come didattica, quanto piuttosto come teoria generale dei segni (semiotica: nn. 1-18) e dei significati (semantica: nn. 19-35) e solo dopo come teoria della didattica, ossia della comunicazione (didattica o pragmatica: nn. 36-46).
La tesi di fondo è che i segni (soprattutto il linguaggio) ma anche i non segni (come le azioni e le cose stesse) sono inevitabili per cercare la verità e comunicarla, ma nello stesso tempo sono insufficienti, dato che la verità vera ognuno la intuisce nel proprio intimo, in virtù della presenza non delle idee platoniche già contemplate e ora riemergenti attraverso la memoria, ma in virtù della presenza del « Maestro interiore », la luce del Verbo, la grazia dello Spirito.
Il principio agostiniano di verità, di conoscenza, di comunicazione è, in sostanza, quello dell’intuizione. Esso viene enunciato così nell’opera De vera religione, composta pochi mesi dopo, sempre nel 389: «Non uscir fuori, torna in te stesso: è nell’uomo interiore che abita la verità. E se avrai trovato mutabile la tua natura, trascendi anche te stesso. Ma ricordati, quando ti trascendi, che trascendi un’anima che ragiona. Dirigiti, dunque, laddove viene accesa la luce stessa della ragione» (n. 39).
La nuova paideia agostiniana è perciò una didattica basata sulla semiotica, ma più ancora basata sulla teologia del Maestro interiore, ossia sulla cristologia pneumatica, sullo Spirito Santo. In Agostino, infatti, natura e soprannatura non sono mai separate.
In termini di comunicazione, per Agostino, non ci può essere rapporto fra l’io e il tu, il mittente e il destinatario, se non c’è sempre in qualche maniera anche Dio. Quindi: io – (Dio) – tu.
In termini di significazione, ossia di acquisizione della verità da comunicare, il significante e il significato esigono un costante rapporto con le cose, ossia con i referenti interni ed esterni. Ma tale rapporto non può essere garantito che dal collante della grazia divina, ossia dalla presenza dello Spirito di Cristo, del « Maestro interiore ». Perciò, per Agostino, il triangolo segnico tra significante, significato e referente deve essere necessariamente un quadrato dove sia presente anche la grazia, o meglio un circuito ermeneutico dove questi quattro elementi convivano in perfetta funzionalità e armonia.
La paideia agostiniana si perfezionerà poi con le opere sulla didattica vera e propria, come De doctrina christiana (396-397, 427) e De catechizandis rudibus (405). Ma si esprimerà anche attraverso la descrizione della paideia vissuta, sia sul piano personale (Confessionum libri, 397-401), sia sul piano storico-sociale (De Civitate Dei, 413-426).(33) (torna al sommario)

Dio Padre Onnipotente

Dio Padre Onnipotente dans immagini sacre dio20padre2001a

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LA SPERANZA TIENE L’UOMO IN CAMMINO – E. Bianchi,

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LA SPERANZA TIENE L’UOMO IN CAMMINO

E. Bianchi, Le parole della spiritualità, Milano 2004

Ilario di Poitiers, nel suo Commento ai Salmi (118,15,7), riporta la domanda di molti che gridano ai cristiani: «Dov’è, cristiani, la vostra speranza?». Questa domanda deve essere assunta dai cristiani e dalle chiese di oggi come indirizzata direttamente a loro. Poco importa che in essa possano esservi toni di sufficienza o di scetticismo: il cristiano sa che per lui la speranza è una responsabilità! Di essa egli è chiamato a rispondere a chiunque gliene chieda conto (1 Pietro 3,15: «siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi chieda della speranza che è in voi»). Questa responsabilità oggi è drammatica ed è una delle sfide decisive della chiesa: è in grado di aprire orizzonti di senso? Sa vivere della speranza del Regno dischiusale dal Cristo? E sa donare speranza a vite concrete, aprire il futuro a esistenze personali, mostrare che valla pena di vivere e di morire per Cristo? Sa chiamare alla vita bella e felice, buona e piena perché abitata dalla speranza, sull’esempio della vita di Gesù di Nazaret??Queste domande non possono essere eluse, soprattutto oggi che gli orizzonti culturali mostrano una profonda asfitticità ed è difficile formulare speranze a lunga durata, capaci di reggere una vita. Nella «società dell’incertezza» (ben descritta da Zygmunt Bauman), nell’epoca posta sotto il segno della «fine» (di secolo, di millennio, della modernità, delle ideologie, della cristianità), nel tempo della frantumazione del tempo, in cui anche le poche speranze che si aprono faticosamente un varco nella storia sono irrimediabilmente di breve durata, non hanno tempo a consolidarsi, ma sono esposte a imminente smentita, suona ormai in modo drammatico la domanda: «Che cosa possiamo sperare?». E colpisce che l’insistenza sull’avvento del nuovo millennio si accompagni nella chiesa a questa paurosa incapacità di aprire varchi verso il futuro, di mostrare concrete e vivibili strade di speranza e di progettualità, di dare speranza e di essere presenza significativa soprattutto per coloro che nel futuro hanno il loro orizzonte prossimo: i giovani.?L’impressione è che oggi il nemico della speranza sia l’indifferenza, il non-senso o quanto meno l’irrilevanza del senso. La stessa insistenza della pastorale cattolica sulla carità e sul volontariato ha, oltre ai tanti aspetti positivi, anche l’aspetto del ripiegamento sul presente, sull’oggi, sull’azione da compiere nei confronti del bisognoso; il tutto all’interno di una scelta che è a tempo e può sempre essere ritirata, che non impegna il futuro. Di fronte a tutto questo si situa la domanda: «Dov’è, cristiani, la vostra speranza?». Perché la virtù teologale della speranza deve essere visibile, vissuta, trovare un dove, un luogo: altrimenti è illusione e retorica! Un bel testo di Agostino dice che «è solo la speranza che ci fa propriamente cristiani» (La città di Dio 6,9,5). Cioè, il cristiano non vive cose e realtà altre e nuove, ma sostanzia di un senso nuovo e altro le cose e le realtà, e anche tutti i rapporti. Né il problema è definire la speranza, ma viverla. Certo, possiamo dire che la speranza è «un’attiva lotta contro la disperazione» (G. Marcel), è «la capacità di un’attività intensa ma non ancora spesa» (E. Fromm), ma soprattutto è ciò che consente all’uomo di camminare sulla strada della vita, di essere uomo: non si può vivere senza sperare! Homo viator, spe erectus: è la speranza che tiene l’uomo in cammino, in posizione eretta, lo rende capace di futuro.?Il cristiano trova in Cristo la propria speranza («Cristo Gesù, nostra speranza», 1 Timoteo 1,1), cioè il senso ultimo che illumina tutte le realtà e le relazioni. In questo senso, la speranza cristiana è un potente serbatoio di energie spirituali, è elemento dinamizzante che si fonda sulla fede nel Cristo morto e risorto. La vittoria di Cristo sulla morte diviene la speranza del credente che il male e la morte, in tutte le forme in cui si possono presentare all’uomo, non hanno l’ultima parola. Il cristiano narra perciò la propria speranza con il perdono, attestando che il male commesso non ha il potere di chiudere il futuro di una vita; narra la speranza plasmando la sua presenza tra gli uomini sulla fede che l’evento pasquale esprime la volontà divina di salvezza di tutti gli uomini (1 Timoteo 2,4; 4,10; Tito 2,11); soprattutto narra la speranza vivendo la logica pasquale. Quella «logica» che consente al credente di vivere nella fraternità con persone che non lui ha scelto; che lo rende capace di amare anche il nemico, l’antipatico, colui che gli è ostile; che lo porta a vivere nella gioia e nella serenità anche le tribolazioni, le prove e le sofferenze; che lo guida al dono della vita, al martirio. Se dobbiamo vedere oggi nella chiesa delle autorevoli narrazioni della speranza cristiana è proprio alle situazioni di martirio e di persecuzione che dobbiamo guardare. Lì la speranza della vita eterna, della vita in Cristo oltre la morte, trova una sua misteriosa, inquietante, ma concretissima e convincente narrazione. Lì appare credibile ciò che ancora Agostino ha scritto: «La nostra vita, adesso, è speranza, poi sarà eternità» (Commento ai Salmi 103,4,17)

E. Bianchi, Le parole della spiritualità, Milano 2004

IL MISTERO DEL DOLORE NELLA LUCE DELLA REDENZIONE

http://www.mediatrice.net/modules.php?name=News&file=article&sid=1891

IL MISTERO DEL DOLORE NELLA LUCE DELLA REDENZIONE

di P. Stefano M.Manelli

Il dolore e la sofferenza rimangono ancora oggi degli interrogativi profondi, a volte angoscianti. Si è davanti ad uno dei misteri della vita. Molto spesso il dolore è così scandaloso – vorremmo solo il bene, la salute e invece si sperimenta spesso il loro contrario – che ci porta alla negazione di Dio. Ma ancora una volta si è testimoni, così facendo, che il dolore è un mistero grande che ci conduce a Dio, almeno a porcene il problema.
Magari lo si ingiuria, lo si combatte, ma pur sempre si è convinti che il dolore è un interrogarsi su Dio. Non si darà allora una risposta soddisfacente a questo mistero se non partendo dal mistero di Dio, dal mistero della vita come dono di Dio. Oggi capita spesso, a volte a livello teologico, a volte pastorale, d’essere troppo frettolosi nell’assolvere Dio dal mistero della sofferenza e così facendo non ci si accorge che si banalizza il problema facendolo ricadere solo sull’uomo. Quello che poteva essere un nexus per ritrovare il Dio della vita e dell’amore, diventa invece un assurdo ancora più as-surdo. Nel 1998, l’allora Card. Ratzinger, in un colloquio critico col teologo Johann Baptist Metz, sottolineava proprio che dimenticare la presenza attiva ed operante di Dio nella storia, sempre, alla fin fine riconduce ad un’idea deista di Dio con le conseguenze atroci di un ripiegamento sull’uomo solo, soggetto assoluto di una storia orribile: «…se alla fine – diceva – non avvertiamo più che Dio entra real-mente nella storia e che, malgrado tutte le leggi di natura e tutto quello che noi possiamo sapere e fare, rimane il soggetto della storia e agisce in essa, se lo trasformiamo in un orizzonte indeterminato che in qualche modo fa fare una bella fine al tutto, allora siamo soltanto noi i soggetti della storia. Allora il peso intero del bene e del male pesa interamente sulle nostre spalle» (in P. TIEMO RAINERS – U. CLAUS [a cura di], La provocazione del discorso su Dio, Queriniana, Brescia 2005, p. 77, orig. ted. Ende der Zeit? Die Provokation der Rede von Gott, Matthias–Grünewald Verlag, Mainz 1999).
Il dolore non può sfuggire a Dio perché Dio lo ha redento. La nostra risposta ad esso è Cristo redentore e Maria corredentrice. Il dolore può redimere perché è stato redento. Solo in Gesù e Maria il dolore acquista un senso bello anche se pur sempre terribile: diventa sofferenza redentrice per la vita eterna.
————
Sempre inquietanti si presentano gli interrogativi sul mistero del dolore e sulla problematica della sofferenza che agita perenne-mente gli uomini su questa terra di «triboli e spine» (Gn 3,18).
Se Dio è buono, perché permette la sofferenza? Se Dio è onni-potente, perché non distrugge il dolore? Se Dio ama gli uomini, perché li lascia soffrire?
Sono questi gli interrogativi che si pone l’uomo della strada di ogni tempo e luogo. Non c’è bisogno di essere pensatore o filosofo, socio-logo o psicologo, giovane o adulto, per porsi questi interrogativi.
Ma quale può o deve essere la risposta a questi interrogativi? Al di là delle possibili e ipotetiche risposte, noi diciamo subito che l’unica risposta valida e sicura a questi interrogativi ci viene dalla visione cristiana della vita. È la fede cristiana la grande Maestra della vita, e il suo insegnamento è questo: l’uomo è fatto per la fe-licità eterna, la vita terrena è preparazione alla felicità eterna, la grazia e le virtù sono i valori autentici per la realizzazione del fine, ossia della beatitudine nell’eternità del Regno dei cieli, con Cristo e per Cristo Crocifisso.
Illuminante può essere questo significativo episodio doloroso: «Il ministro di Dio, Milton Galimason, negro, racconta che un gior-no il figlio d’uno dei suoi parrocchiani andò a finire sotto le ruote di un veicolo, morendo fra atroci sofferenze. In preda alla più viva di-sperazione, il padre del giovinetto si precipitò all’ufficio parrocchiale, singhiozzando: “Ecco cosa fa il tuo Dio tanto buono! Come ha potu-to lasciar morire così un figlio caro come il mio? Come Dio può es-sere tanto misericordioso e giusto, come tu affermi? Dov’era questo tuo Dio nel momento della disgrazia?”.
La risposta venne dolce e triste: “Egli era là, dove si trovava, quando il Figliuolo suo fu ucciso sulla Croce!”» .
Questa è la visione cristiana della vita e del dolore dell’uomo. Senza questa visione cristiana, al problema angoscioso del dolore e ai suoi laceranti interrogativi non resta altra risposta che la dispe-razione dell’ateo e dell’esistenzialista, non resta altra soluzione che l’indifferentismo dei libertini e degli scettici, con il loro atteg-giamento teoretico e pratico in balia, di fatto, dell’incoscienza e dell’irriflessione senza sbocco alcuno .
Il “mistero intangibile” della sofferenza
La sofferenza, infatti, è un «mistero intangibile» della vita uma-na; un mistero presente e operante sul cammino di ogni uomo. La realtà del male, della sofferenza, del dolore, in effetti, è esperienza concreta nella vita di ogni uomo sulla terra. I mali fisici (malattia, morte), i mali intellettuali (ignoranza, errore), i mali morali (peccato, corruzione), sono patrimonio stabile dell’umanità, purtroppo.
Secondo la visione cristiana, però, i mali fisici, intellettuali e mo-rali sono legati al peccato voluto e commesso dall’uomo. «Di que-sta connessione – ha scritto Franco Amerio – abbiamo, se non una prova, certo almeno un’illustrazione anche nell’esperienza quotidiana: quanti mali sono conseguenza dei peccati, dei nostri singoli peccati attuali! Le cronache nere e meno nere dei nostri giornali sono il documento inoppugnabile e spaventoso della triste fecondità della colpa: quante sofferenze per tutti nascono da am-bizioni, egoismi, crudeltà, lussurie… quante sofferenze per il pec-catore: sofferenze di corpo e di anima: alterazioni del fisico, malat-tie, deperimenti, morte…; alterazioni psicologiche fino all’ine¬beti¬mento, all’insensibilità che conduce ai più assurdi delitti, matricidio, infanticidio… In fondo, basterebbe togliere il peccato dal mondo, perché l’umana convivenza venisse profondamente risanata» .
Qual è, tuttavia, la radice “prima” di tutti i peccati degli uomini, e quindi di tutte le sofferenze dell’umanità? Sappiamo già la risposta dal Catechismo e dalla Teologia: è il peccato originale dei nostri progenitori, Adamo ed Eva (cf. Gn 3,1–7). È quella colpa primige-nia che fin dagli inizi ha ridotto l’intera umanità nella condizione di peccato e di peccabilità, rovinando quella felicità originaria che Dio aveva donato ai nostri progenitori, Adamo ed Eva, e che, senza la rovinosa caduta nella colpa originale, sarebbe stata trasmessa per via di generazione a tutta la discendenza umana.
«L’atto di nascita del dolore – ha scritto in bella e rapida sintesi il Pederzini – si identifica con quello delle origini dell’uomo. Il primo uomo, creato libero di accettare o non, la sua dipendenza dal Cre-atore, liberamente si rifiutò, preferendo perdere per sé e per i suoi discendenti l’ordine fisico e morale legato a questa sottomissione.
Questo atto di superbia, suggerito e condiviso da Satana, fu un peccato che coinvolse tutta la discendenza. Fu un peccato univer-sale, cioè esteso nel tempo e nello spazio e nessuno ne fu o ne sarà esente, tranne la Vergine immacolata» .

La Redenzione e le nostre sofferenze
Viene da chiedersi, tuttavia: ma se Dio poteva creare un’uma¬nità libera e senza peccato, perché non lo fece? E ancora: perché l’umanità si è venuta a trovare con la terribile responsabilità del peccato che pesa su di essa e inesorabilmente la ferisce? E non po-teva la Redenzione essere tale da risparmiarci poi ogni sofferenza?
Non abbiamo la risposta a questi interrogativi. Nessuno potreb-be darla, perché è molto al di sopra delle nostre facoltà. Anche il papa Benedetto XVI, nella sua prima Enciclica Deus caritas est, per rispondere alla domanda sul dolore rivolta a Dio, si rifà a sant’Agostino il quale «dà a questa nostra sofferenza la risposta della fede: “Si comprehendis, non est Deus” – Se tu lo comprendi, allora non è Dio» . La vera risposta sta racchiusa interamente nel mistero di Dio: e il mistero di Dio, lo sappiamo, è luce abbagliante che costringe a tenere chiusi gli occhi .
La luce di questo doloroso mistero, tuttavia, traluce, potrebbe dirsi, da un volto divino, ossia da quel mistico Volto di Cristo soffe-rente, dal Volto di colui che è stato definito «l’Uomo dei dolori» (Is 53,3), Gesù Cristo, del quale, a nostro particolare conforto e so-stegno, conosciamo i tratti del Volto dalla vetusta e preziosa reli-quia della santa Sindone (che si conserva e si venera a Torino) .
Nel Volto sofferente di Cristo Crocifisso, infatti, contemplato nel-la santa Sindone, a noi è dato di leggere qualcosa del mistero del peccato e del dolore dell’umanità intera, del peccato e del dolore di ogni singolo uomo segnato dalla colpa adamitica. Nella sua com-postezza, nella sua dolorosa ma nobile espressione, l’immagine della sofferenza che si guarda e si contempla nel Volto di Gesù della santa Sindone sembra richiamare d’un subito alla realtà del peccato e della morte che all’uomo si presentano ogni volta con il loro sinistro potere di turbamento e di dolore.
Nella visione cristiana del dolore si può scoprire una sorta di al-chimia della grazia divina che sa operare la trasformazione della sofferenza e della penitenza nel valore positivo della purificazione dalle passioni e dalle colpe degli uomini, e nel valore ancor più po-sitivo della elevazione degli uomini sugli altipiani delle vette asceti-che e mistiche che avvicinano a quel Regno dei cieli nel quale sol-tanto si trova la piena e perenne felicità secondo il progetto d’a¬more di Dio che aspetta tutti i “redenti” nel Regno dei risorti e che fece esclamare a san Pietro d’Alcantara, apparso, dopo la sua be-ata morte, alla sua grande figlia spirituale, santa Teresa d’Avila: «Oh felice penitenza che mi ha meritato tanta gloria!» .
E proprio la nobiltà austera e serena del Volto sindonico di Gesù Crocifisso sembra illuminarci e dirci con forza che la comunione dell’uomo con Dio si restaura molto meglio, si ricompone più age-volmente, si armonizza e si corona in pieno con la beatitudine della risurrezione nell’aldilà del Paradiso, in nessun’altra maniera che at-traverso la sofferenza accettata e offerta, voluta e amata nel suo sa-lutare mistero. Per questo, dai veri cristiani, come dice il papa Paolo VI, il dolore «non è più respinto come un assurdo nemico della no-stra vita, ma stoicamente, eroicamente, accolto come un fattore di perfezionamento morale e come un valore di mistico significato» .

L’esperienza di Giobbe
Non è forse questa, infatti, la sostanziosa e convincente con-clusione del libro di Giobbe, un testo biblico dell’Antico Testamento che ha fatto versare fiumi di inchiostro nei più vasti commentari bi-blici di ieri (quello di san Gregorio Magno, ad esempio) e di oggi (quelli di D. Ruotolo e di G. Ravasi)?
L’errore fondamentale di Giobbe sofferente, infatti, non consi-stette nel valutare e reagire negativamente al dolore che si presen-tava come ingiusto e che sembrava colpirlo senza ragione alcuna, ma consistette nel non comprendere «come il dolore fosse un mezzo per entrare in una comunione più intima con Dio» , secon-do un disegno divino che trascende l’uomo chiuso nei limiti ristretti del suo creaturale pensare e ragionare.
Le parole finali di Giobbe, infatti, sono queste: «Ho esposto dunque senza discernimento cose troppo superiori a me, che io non comprendo… Io ti conosco per sentito dire, ma ora i miei occhi ti vedono. Perciò mi ricredo e ne provo pentimento sopra polvere e cenere» (Gb 42,3,5–6). E «con le sue parole finali – è stato scritto – Giobbe riconosce all’Altissimo la possibilità di avere un disegno che sorpassa le capacità umane di comprensione. Disegno che l’uomo deve accettare con fiducia, speranza e adorazione» .
Ovviamente ciò non può e non deve significare supina accetta-zione del dolore tout–court. Non si può mai dimenticare che il dolo-re, in effetti, è, entitativamente, privazione di un bene, e quindi ne-gativo, da rimuovere dunque (come fa il medico che, asportando un ascesso, ridona la sanità al corpo che geme) .
D’altra parte, però, è vero che oggi la società del consumismo e la civiltà del benessere sono schiavizzate dall’edonismo a piano inclina-to, dall’edonismo in ogni cosa e a tutti i costi, respingendo qualsiasi disagio e rammollendosi nello strame dei piaceri al punto tale da mi-sconoscere e anche annullare la capacità dell’uomo «di affrontare impegni difficili, privandolo così delle soddisfazioni più autentiche e durature» . La società del consumismo e la civiltà del benessere, in questo senso e a tal proposito, meritano soltanto disprezzo, e da es-se bisogna stare in guardia e difendersi lottando .
Come ha bene scritto l’Amerio, «Sembra proprio che senza dolo-re nulla di grande si produca nel mondo. Lo stigma del genio sembra essere il dolore, tanto esso suole accompagnarne la vita, le vicende, i trionfi. Nel dolore si maturano gli uomini. [… ] Piacere e gioia troppo spesso rendono egoisti e crudeli. Dolore e sofferenza invece aprono l’animo verso gli altri ed affratellano» . E lo Chaffanion scriveva a sua volta: «Nulla di grande che non sia sormontato dalla Croce. È la nostra storia, la storia di tutte le nazioni, di tutti i secoli; sia delle na-zioni e dei secoli cristiani, che hanno vere creazioni sublimi; sia delle nazioni e dei secoli non cristiani, che alle sublimità cristiane non han-no nulla da contrapporre, nulla che neppur lontanamente le rivaleggi. La grande linea di demarcazione tra i popoli della terra non è fatta dai mari o dai monti, dalle foreste o dai fiumi. [… ] La vera luce della civil-tà intima del pensiero, della educazione, dell’anima dei popoli, è de-terminata dall’ombra della Croce» .
Per questo il papa Giovanni Paolo II esorta tutti, e specialmente i giovani, ad allenarsi al regime austero per affrontare la vita che comporta lotte e rinunce, «coscienti che il valore dell’uomo – com-menta padre Zangheratti – non si colloca in ciò che ha, ma in ciò che è. Tale coscienza viene completata proprio dalla sofferenza, che trae il proprio valore principale dall’essere “luogo” privilegiato (almeno uno dei luoghi) in cui l’uomo può trascendersi, sino ad in-contrare Dio, causa e fine del nostro essere ed esistere» .

Conformità a Cristo Crocifisso
Il Volto sindonico di Gesù Crocifisso – ma anche il Volto appas-sionato di Gesù Crocifisso del Velasquez e quello trasfigurato della “Pietà” di Michelangelo – si presenta già a prima vista come un vetto-re alla grandezza del valore della sofferenza colta quale “mistero” che trasfigura l’uomo nel passaggio doloroso dall’essere un semplice uo-mo all’essere un uomo santificato, divinizzato, cristificato.
Nel Volto di Cristo, infatti, scopriamo la luce, mite e soffusa, del mistero della sofferenza che fa entrare l’uomo in Dio attraverso la conformita all’umanità deificata di Cristo Crocifisso, Uomo–Dio. E solo nella conformità piena all’immagine del Figlio di Dio fatto car-ne crocifissa, l’uomo può realizzare la propria felicità, secondo il progetto voluto da Dio, per tutti e per ciascuno, in Cristo Morto e Risorto.
Nel Volto sindonico di Gesù Crocifisso si può dire che risplenda in altezza e profondità il mistero del dolore più radicale e acuto che trans–umanizza, trasfigura e divinizza l’uomo. Fu chiesto un giorno a sant’Ignazio di Loyola quale fosse il cammino più breve per arriva-re a Dio e unirsi a Dio, e il Santo rispose con voce grave ma decisa: «È il cammino nel quale si soffrono molte e grandi avversità» .
Nella vita cristiana vissuta in pienezza di conformità a Cristo, quin-di, dolore e divinizzazione fanno unità in sinergia di dinamismi analo-ghi a quelli che avvengono fra il seme e la terra che lo accoglie nel suo grembo: il sotterramento e la macerazione del seme ad opera della terra, infatti, è immagine del dolore che si presenta, all’appa¬renza, come una disfatta del seme, mentre opera la sua trasmutazio-ne, invece, e lo porta, dinamicamente, alla trans–elevazione in una spiga dorata, in una rosa di Engaddi, in un cedro del Libano . Quale processo segreto di trasformazione avviene in esso!
Con una bella e delicata immagine, il Pederzini spiega come la sofferenza possa trasformarsi in una salutare e preziosa realtà, scrivendo che l’uomo «è come l’incenso: deve essere bruciato per far sentire il suo profumo» . Anche l’ardente santa Caterina da Siena – colei che fu vista avere talvolta l’identico Volto di Gesù – ha lasciato scritto un pensiero che ha la vaghezza della poesia più alta del dolore in chiave tutta mistica: «Nel dolore l’anima mia gode perché, fra le spine, sente l’odore della rosa che sta per schiuder-si»; e san Francesco Saverio, l’intrepido missionario nelle terre dell’Asia, arrivò a battezzare con il nome di Isola delle Consolazio-ni l’isola di Noro, perché ivi egli aveva molto patito .
Il Calvario e il Tabor
Si potrebbe pensare anche al suggestivo richiamo dei due mon-ti biblici, di cui ci parla il Vangelo: il Calvario e il Tabor. Su questi due monti Gesù è stato protagonista dei due fatti straordinari, os-sia della sua Crocifissione e morte, e della sua Trasfigurazione. Unico era il Volto di Gesù sul monte Calvario e sul monte Tabor: ma sul monte Calvario era il Volto dell’umanità sfigurata e crocifis-sa; sul monte Tabor era il volto dell’umanità trasfigurata e diviniz-zata. Crocifissione e trasfigurazione: il rapporto è stretto, è intrin-seco. La crocifissione prepara e garantisce la trasfigurazione, e perciò non può darsi trasfigurazione se non come frutto e gloria della crocifissione.
Nella Teologia spirituale vastissimo è il campo dell’agiografia in cui si ritrova la compresenza attiva e feconda di sofferenza e santi-tà. In questa compresenza si scopre che il dolore apre alla santità, mentre la santità cresce e si potenzia nel dolore. In termini di Teo-logia ascetica, il dolore si chiama purificazione (con i suoi termini equivalenti: rinnegamento, mortificazione, penitenza); in termini di Teologia mistica, la santità si chiama cristificazione o unione pie-na, sponsale con Dio (con i suoi termini equivalenti : trasfigurazio-ne, conformità, identificazione con Cristo, matrimonio mistico).
La Teologia spirituale, nel suo impianto fondamentale, tratta della sofferenza che santifica e trasforma attraverso le fasi cruciali delle cosiddette “purificazioni”, nei riguardi di ogni uomo che voglia santificarsi, rinnegando «l’uomo vecchio con la condotta di prima, l’uomo che si corrompe dietro le passioni ingannatrici» (Ef 4,22). Le “purificazioni attive” dei sensi esterni, dei sensi interni e dello spirito, e le “purificazioni passive” dei sensi e dello spirito, sono una scuola di sofferenza trasformatrice e santificatrice che, per gradi, ascende sempre più in alto, fino alla kenosis dell’io, potreb-be dirsi, nella “notte” dello spirito, da san Giovanni della Croce de-finita la “notte orrenda”, ma nello stesso tempo la “notte” più fe-conda della santità, più sublime nell’unione trasformante e consu-mante .
San Paolo di Tarso e san Francesco d’Assisi, santa Caterina da Siena e santa Veronica Giuliani, santa Gemma Galgani e san Pio da Pietrelcina: sono alcuni fra i molti Santi nei quali, lungo i due millenni di Cristianesimo, s’è avuta l’evidenza solare, potrebbe dir-si, del valore ascetico–mistico della sofferenza di Cristo che, ac-cettata e condivisa volontariamente, purifica e santifica la creatura umana, riuscendo ad elevarla e a trasfigurarla fino alla più sublime cristificazione, anche fisica .

«Chi è costui?… È Francesco d’Assisi?…»
Questo è il mistero di grazia del Volto di Cristo Crocifisso, che si rinnova nelle membra più elette del Corpo Mistico, che si prolunga nella vita dei Santi, a volte anche in maniera così straordinaria che nelle cronache dei primi tempi del francescanesimo, ad esempio, ci è stata tramandata la relazione del frate minore che fu presente, in visione, all’entrata di san Francesco d’Assisi in Paradiso.
Racconta il frate che quando san Francesco d’Assisi, subito dopo la morte, si presentò nell’aldilà ed entrò in Paradiso, gli abitanti del cielo, Angeli e Santi, nell’accoglierlo, lo guardavano stupiti e si do-mandavano l’un l’altro: «Ma chi è costui?… È frate Francesco d’Assisi… No, è il nostro Signore Gesù… No, è frate Francesco d’Assisi…». Non si accordavano tra di loro, perché era davvero diffici-le distinguere il volto di san Francesco d’Assisi dal Volto di Gesù, per la perfetta conformità di amore e di dolore che li aveva plasmati am-bedue .
È molto significativo, poi, che la più piena somiglianza del Volto di Gesù si abbia nei Santi più sofferenti, più piagati e sanguinanti, come i martiri, gli stimmatizzati, le vittime. È una conferma superla-tiva, questa, della preziosità della sofferenza di Cristo che, vissuta e amata dai Santi, diventa vettore di grazia alla più totale trasfor-mazione in Cristo, alla somiglianza più suggestiva con il Volto di Cristo, alla cristificazione più piena e perfetta, che è l’ideale arden-te e appassionato di tutti i Santi. «Sono anime elette, – scrive il beato Colomba Marmion – sono anime–vittime, vittime di espia-zione e di lode. Queste anime fanno molto per la gloria di Dio e per la salute delle anime, e sono care a Gesù più assai di quanto pos-siamo immaginare. Egli fa la sua delizia il trovarsi in esse» .
È un vero peccato, per questo, che pressoché tutti gli uomini, cir-condati e colpiti da tante sofferenze, anziché valorizzarle, abbrac-ciandole con l’amore di Cristo, le fuggano, con fretta e premura, le respingano, le disprezzino, le maledicano… Ignorano, e vogliono ignorare, che ogni croce, se all’esterno è di legno duro, all’interno è di oro puro. Ed è soltanto sulla Croce che si può scorgere il Volto d’amore doloroso del Redentore, come affermava la grande anima di Leon Bloy scrivendo che «Solo l’oscurità di un Calvario spirituale diffonde sulle nostre anime, la soave chiarezza del volto del nostro mirabile Salvatore!» .
San Giovanni Bosco, ad esempio, sapeva ben dimostrare il va-lore delle sofferenze che aveva e che erano tali da mettere a dura prova la virtù della fortezza: emottisi frequenti, artritismo costante e doloroso, vene varicose che rendevano faticoso il camminare, malattia agli occhi fino a ridurlo alla cecità, nevralgie così lancinan-ti ai denti da sentirsi scoppiare la testa: eppure, egli era sempre «il prete sorridente e amabile con tutti – scrive il Vivoda – come se godesse la più florida salute. Sorrideva, perché mentre il mondo ammirava la grandezza delle sue opere, egli pensava, con san Bonaventura, esservi maggior perfezione nel sopportare con pazienza le avversità» .

Santa Liduina, beata Alexandrina, venerabile Giacomo GaglioneColoro che compresero e vissero fino in fondo il valore prezioso della sofferenza, fra i molti “eletti” di Dio che l’agiografia ricorda, furono certamente, tre grandi vittime, di cui una è vissuta a cavallo tra XIV e XV secolo, le altre due del secolo ventesimo: santa Li-duina da Schiedam, olandese, la beata Alexandrina Da Costa, spagnola, il venerabile Giacomo Gaglione, italiano. Tutti e tre, per cause e modi diversi, sono stati paralizzati per decenni. Basti qui riferire soltanto qualche particolare significativo della loro vita di martirio continuo.
Santa Liduina da Schiedam si può dire che sia passata alla sto-ria come un “emblema” per la sua vita di vittima davvero straordi-naria nel soffrire tali e tanti travagli da stupire quanti ne venivano a conoscenza e la avvicinavano. A vederla, non si poteva non rico-noscere che per quella vittima c’era un disegno tutto particolare di Dio, un piano di immolazione che la ridusse a un mosaico di malat-tie e di sofferenze strazianti, senza poter spiegare come ella po-tesse ancora vivere e non morire dall’età di quindici anni, per ven-totto anni di seguito. Ma ella accettò di diventare vittima espiatrice per le cattiverie degli uomini, e chiedeva ella stessa al Signore le malattie più terribili per espiare, sapendo soffrire in modo edifican-te, sostenuta da esperienze mistiche eccezionali (particolarmente con gli Angeli) che la animavano a liberare il prossimo dalle soffe-renze trasferendole su di sé .
La beata Alexandrina Da Costa, nella sua paralisi, soffriva dolo-ri lancinanti e trafiggenti ad ogni minimo movimento anche solo del capo. Aveva il volto stremato dal dolore, e chiunque la vedeva non poteva trattenere le lacrime di commozione e di compassione. Ma alla Beata dispiaceva moltissimo che i visitatori dovessero andare via piangendo, e pregò quindi Gesù di donarle la forza di sorridere, pur tra quei dolori lancinanti. Gesù l’esaudì e, senza toglierle i do-lori, le diede la forza di sorridere ai visitatori, così che questi anda-vano via consolati, pensando che Alessandrina, sorridente, davve-ro non soffrisse molto. Alexandrina, silenziosamente, chiamava quei sorrisi i “sorrisi traditori”: erano i sorrisi dell’amore crocifisso .
Il venerabile Giacomo Gaglione era talmente paralizzato che poteva muovere soltanto le dita di una mano: ed egli si servì di queste dita, fino alla morte, per recitare incessantemente la corona del santo Rosario, da solo e con gli altri, di giorno e di notte, sem-pre sulla croce della sua paralisi totale. Egli appariva realmente come un crocifisso, e quella corona fra le dita della mano era il ri-chiamo vivo della Madonna vicina a Gesù Crocifisso e vicina a questo novello “crocifisso”. Ma non era affatto triste, questa vitti-ma! Al contrario, aveva sempre il volto sereno e con la vivacità de-gli occhi esprimeva anche la sua gioia per la preziosità del dolore offerto con amore. Tra l’altro, egli arrivò a voler festeggiare ogni anno il giorno anniversario della sua paralisi, fra la commozione di tutti. Anche in lui il Volto redentore di Cristo irradiava dolore e a-more inseparabili .

«Non peccare perché non ti capiti di peggio»
Che cosa dire, invece, di quanti fanno del dolore soltanto un ve-leno di morte, una sciagura senza scampo, una iattura da maledi-re? Nessuno sembra volersi rendere conto che se si valorizzasse, in Cristo Crocifisso, l’immenso peso della sofferenza nel mondo, i cristiani finirebbero col gridare con san Paolo: «Sovrabbondo di gioia nella mia tribolazione» (2Cor 7,4), esultando come gli Apo-stoli, i quali, imprigionati, malmenati e flagellati dai sinedristi, «se ne andavano dal sinedrio lieti di essere stati oltraggiati per amore del nome di Gesù» (At 5,41).
D’altra parte è purtroppo vero che agli uomini riesce anche diffi-cile saper cogliere la connessione interna che quasi sempre inter-corre fra le proprie sofferenze e i propri peccati; connessione da Gesù stesso manifestata e insegnata quando al paralitico guarito miracolosamente disse la severa ammonizione: «Non peccare più, perché non ti abbia ad accadere qualcosa di peggio» (Gv 5,14).
Su questo punto, in realtà, c’è da dire che la nostra natura, con il suo innato istinto di conservazione, reagisce sempre con imme-diatezza respingendo ogni dolore come inaccettabile, bloccando anche, con facilità, ogni riflessione dello spirito che pur dovrebbe rendersi conto delle proprie miserie e peccati, da cui proviene quel dolore che serve appunto alla giusta riparazione ed espiazione delle colpe.
Esempio luminoso scritto nel Vangelo, su questo punto, è quel-lo dei due “ladroni” crocifissi con Gesù sul Calvario, di cui uno si rende chiaramente conto del suo dover patire, giustamente, la pe-na meritata per le innumerevoli colpe e delitti, e si affida, per que-sto, alla misericordia di Gesù; l’altro ladrone, invece, comincia solo a imprecare con la cecità e la rabbia dell’odio, senza affatto rico-noscere le colpe e i delitti con cui ha meritato quella giusta pena (cf. Lc 23,39–43).
Ogni peccato, infatti, è una violazione dell’ordine stabilito da Dio, e per questo si contrae un debito con la giustizia divina. Lo di-ceva bene, con una sola espressione Napoleone Bonaparte, allor-ché, sconfitto e condannato, dovette intraprendere l’umiliante viag-gio verso l’esilio di sant’Elena: «Tutto si paga!» . In tal modo, la giustizia ristabilisce l’ordine delle cose, perché «chi ha cercato il peccato attraverso il piacere – spiega l’Amerio – attraverso il dolo-re espierà il peccato» .
Ed è il Signore che vuole farci pagare il fio delle nostre colpe perché siamo suoi figli. Come ha scritto molto bene il Pederzini, infatti, «Nella Bibbia si legge che il Signore corregge coloro che gli sono cari e usa la sferza con ogni figlio che riconosce come suo. Ci castiga per le nostre ingiustizie e ci conserva per la sua bontà (cf. Tb 13,16)» .

Una pagina mirabile del papa Pio XII
C’è una celebre pagina scritta dal Sommo Pontefice Pio XII, in uno dei suoi magnifici discorsi agli ammalati, nel quale egli ha tratteggiato con raffinata maestria, unita a estrema delicatezza, lo stato d’animo drammatico di chi si autocostringe a soffrire ama-ramente e ciecamente, non aprendosi alla luce della fede che, sola, può illuminare sul perché del dolore e può sostenere quindi nel travaglio.
«Ci pare di vedere là, in quella corsia – dice il papa Pio XII –, un giovane che soffre, e soffrendo impreca. Un giorno era forte, era bello; formava l’orgoglio dei genitori, i quali ora hanno lo schianto nel cuore, perché temono di perderlo, minato da un male che non perdona. E il giovane sente quasi sfuggire da lui la vita: addio salute, addio vigore; addio fremiti di speranza; addio progetti accarezzati con l’entusiasmo di un fanciullo; addio amore. E il gio-vane si ribella: “Perché, perché? Non ha anch’io diritto alla vita? E può un Dio buono lasciarmi tanto soffrire, lasciarmi morire? Che ho fatto di male?”.
Quanti siete, o figliuoli, o figliuole? Quanti avete contraffatto il volto e fremete con l’ira nel cuore e avete l’imprecazione sulle lab-bra? A voi specialmente vorremmo accostarci, vorremmo posare dolcemente la Nostra mano sulle fronti bruciate dalla febbre. Vor-remmo, con infinita tenerezza, sussurrare a ciascuno di voi: O a-nima angosciata, perché ti ribelli? Lascia cadere nel tetro mistero del dolore i raggi di luce che promanano dalla Croce di Gesù! Che aveva fatto Egli di male? Vedi, forse sul tuo lettuccio, nella tua cor-sia vi è l’immagine della Madonna. Che male aveva Ella fatto? “O anima desolata, perché oppressa dal male, ascolta: Gesù e la sua Madre hanno sofferto, certamente non per propria colpa; ma vo-lenterosamente e con piena conformità al disegno divino. Ti sei mai chiesto perché?
Forse ti è accaduto di fare il male. Ripensaci. Forse hai offeso Dio tante volte e in tante maniere. Tu sai che una colpa grave fa meritare alle anime l’eterna dannazione; tu invece sei ancora in vi-ta, sotto lo sguardo misericordioso di Dio, tra le braccia amorevoli di Maria”» .
Se si riflettesse, guardando e pregando Gesù Crocifisso, si po-trebbe tutti scoprire che nella sofferenza è presente, sia pure na-scosta, la Grazia di Dio che fa espiare e purifica, che ripara e rin-nova, che sostiene e conforta. E allora, come ammoniva sapien-temente sant’Anselmo, dovremmo saper ricevere tutti i dolori di questa vita con la stessa devozione con la quale riceviamo i Sa-cramenti .
Se i Sacramenti, infatti, ci configurano a Gesù, anche «le malat-tie, sopportate con pazienza per la salvezza delle anime, – scrive il Vivoda – ci rendono simili a Gesù Crocifisso. Quelle febbri che ci logorano, quelle sofferenze che ci opprimono, quegli spasimi che ci straziano, quelle operazioni che ci tormentano, quello stato d’inazione che ci annoia sono gli strumenti di cui si serve Iddio per scolpire in noi l’immagine del suo Divin Figliuolo in Croce» .
Per questo sarà sempre vero che chi non ha la visione della fe-de cristiana, se si trova davanti al letto di un canceroso incurabile, dirà che sarebbe meglio la sua morte per cessare di soffrire e di far soffrire, ragionando solo umanamente (come fanno oggi, del resto, i sostenitori dell’eutanasia); chi è Santo, al contrario, consi-glierà al malato di continuare a soffrire per conformarsi a Gesù, per dimostrargli il suo amore, per salvare le anime, ragionando so-prannaturalmente, alla luce della fede in Cristo Crocifisso.

Guardare Gesù Crocifisso
Guardare il Crocifisso, dunque. Gesù, infatti, è sulla Croce per-ché volontariamente ha voluto che Dio lo trattasse «da peccato in nostro favore» (2Cor 5,21). Si potrebbe anche dire, forse, che sulla Croce Gesù ha voluto avere il volto del “peccato” e del “dolore” per noi peccatori da salvare, espiando per amore nostro tutte le offese fatte da noi al Padre. Per amor nostro: così dice espressamente san Paolo scrivendo che «Egli mi ha amato e ha immolato se stesso per me» (Gal 2,20) . E tutto Egli ha voluto soffrire per ob-bedienza e amore al Padre, il quale «ha tanto amato il mondo da mandare il suo Figlio unigenito» (Gv 3,16). Gesù stesso, del resto, al tempo stabilito, disse agli apostoli di voler andare al luogo della passione perché «bisogna che il mondo sappia che io amo il Pa-dre e faccio quello che il Padre mi ha comandato» (Gv 14,31).
La Croce si eleva in verticale e si allarga in orizzontale: in verti-cale si può dire che la Croce simboleggi l’amore di Gesù per il Pa-dre e «le cose di lassù» (Col 3,1); in orizzontale, invece, la Croce simboleggia l’amore di Gesù per gli uomini, l’amore che fa aprire le braccia a Gesù Crocifisso per abbracciare tutti gli uomini da salva-re, spingendoli a portare la loro croce.
Nella vita di san Giovanni Maria Vianney, il Santo Curato d’Ars, leggiamo che, in un periodo in cui egli «si sentì perseguitato da più violente contraddizioni, decise di scrivere al Vescovo per mettere in chiaro varie cose, e dare le dimissioni da parroco. Difatti si se-dette al suo scrittoio, prese un foglio e vergò una riga dopo l’altra. Ma, giunto al punto di mettere la firma, alzò la penna, stette un po’ pensieroso, e poi si disse: «Ma oggi è venerdì! È il giorno in cui Nostro Signore ha portato la sua croce!…». Allora stracciò la lette-ra in mille pezzetti, e concluse: «Anch’io, dunque, debbo portare la mia croce. Accanto a Lui mi sarà meno pesante e meno amara» .
Nell’arte statuaria dei Crocifissi vi sono due diversi e significativi particolari riguardanti il Volto di Gesù Crocifisso. In alcuni crocifissi il Volto di Gesù è rivolto verso l’alto; in altri crocifissi è rivolto verso il basso. Nei primi si può contemplare Gesù che muore per amore del Padre; nei secondi si contempla Gesù che muore per amore degli uomini.
È soltanto l’amore, in effetti, che può sagomare gli atteggiamen-ti del Volto di Cristo, coniugando tutte le sofferenze della sua Pas-sione e Morte, realizzando quindi quel «più grande amore», da Gesù stesso proclamato nel Vangelo: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (Gv 15,13). La crocifissione è l’amore più grande per la gloria massima che il Verbo Incarnato e Redentore offre al Padre salvando le anime, e che Lui solo può offrire in misura tutta infinita perché Lui è Dio.
«La Croce è dunque – scrive Massimiliano Zangheratti – la massima e perfetta glorificazione che l’universo può dare a Dio, in quanto Colui che su di essa amorosamente soffre è il Verbo fatto uomo» .

I sentimenti e le fattezze di Cristo Crocifisso
Se i redenti sono stati da Dio «predestinati a diventare conformi all’immagine del Figlio» (Rm 8,29), la conformità sarà tanto più piena e perfetta quanto più riproduce al vivo “l’immagine del Fi-glio”, sul quale e per il quale i redenti sono stati voluti e fatti da Dio. E l’”immagine del Figlio” è appunto Gesù, Verbo Incarnato e Re-dentore, il quale «solo dà al Padre la “gloria” proporzionata alla di-vinità e a lui assolutamente necessaria» .
Le stesse fattezze e sembianze del Volto di Cristo, che fanno unità con «gli stessi sentimenti di Cristo» (Fil 2,5), debbono quindi configurare la “conformità” a Cristo di ogni vero redento. E in que-sta “conformità”, precisamente, non può non essere presente la Croce, «mediante la quale – insegna il papa Giovanni Paolo II – si è compiuta la redenzione». Riflettendoci, si comprende bene come ogni redento «è chiamato a partecipare a quella sofferenza, per mezzo della quale ogni umana sofferenza è stata redenta» , per mezzo della quale viene eliminata la separazione dell’uomo da Dio, che è stata opera del peccato, e tutto può diventare, – spiega con chiarezza il Papa – «fonte di gioia, innestata armonicamente in quel messaggio di gioia che è il Vangelo» .
La Croce diventa, in tal modo, tutta la filosofia e la teologia del cristiano, diventa la sua etica e la sua politica, come si espresse il papa san Pio X, agli inizi del suo pontificato, quando ci fu chi gli chiese quale sarebbe stata la sua “politica” nel governo della Chie-sa, e il papa, alzando gli occhi e tendendo la mano ad un Crocifis-so che gli stava dinanzi, rispose senza esitazione: «Questo è la mia politica!» . E la vitalità piena della parola salvifica della Croce si attua concretamente nella vita di ogni redento, come insegna ancora il papa Giovanni Paolo II, «man mano che egli stesso di-venta partecipe delle sofferenze di Cristo», il quale, appunto, «in-dica all’uomo sofferente un posto vicino a sé» .
Questa vicinanza a Cristo Redentore tende poi a diventare sempre più unione e assimilazione del redento con Lui, e può cre-scere al punto tale che il redento arriverà a chiedere, a desiderare e a bramare la Croce e la crocifissione di Lui. Così si legge, con commozione, del serafico Padre san Francesco d’Assisi, il quale, pochi anni prima della sua morte, stando in ritiro quaresimale sul monte della Verna, nell’intensità crescente della sua meditazione ardente sulla Passione e Morte di Gesù, arrivò a chiedere a Gesù Crocifisso, con passione incontenibile, due grazie speciali: «La prima, che in vita mia io senta nell’anima e nel corpo mio, quanto è possibile, quel dolore che tu, dolce Gesù, sostenesti nell’ora del tua acerbissima passione; la seconda, si ch’io senta nel cuor mio, quanto è possibile, quello eccessivo amore del quale tu, Figliuolo di Dio, eri acceso a sostenere volentieri tanta passione per noi peccatori» . E venne esaudito con il dono mistico della stimmatizzazione.

Una pagina dei “Fioretti” di san Francesco
Non si può non leggere con edificazione e commozione, inoltre, la mirabile pagina dei “Fioretti” nella quale san Francesco d’Assisi insegna come il vero redento non soltanto non respinge nè rifugge la sofferenza, ma, al contrario, sa apprezzarla, sa desiderarla e sa chiederla trasformandola e trasfigurandola in “perfetta letizia” per amore di Cristo Crocifisso. Suggestivo è anche il linguaggio antico del celebre racconto della “perfetta letizia”, che rende più genuino e significativo il contenuto dell’episodio a edificazione, istruzione e sostegno di quanti hanno da superare difficoltà e amarezze di ogni genere nella vita di ogni giorno, per nulla avara di incomprensioni e contrasti .
«Venendo una volta santo Francesco da Perugina a santa Ma-ria degli Angioli con frate Lione a tempo di verno, e ‘l freddo gran-dissimo fortemente il crucciava, chiamò frate Lione il quale andava innanzi, e disse così: “Frate Lione, avvegnadiochè li frati Minori in ogni terra dieno grande esempio di santità e di buona edificazione; nientedimeno scrivi e nota diligentemente che non è quivi perfetta letizia”.
E andando più oltre santo Francesco, il chiamò la seconda vol-ta: “O frate Lione, benché il frate Minore allumini li ciechi e disten-da gli attratti, iscacci le simonia, renda l’udire alli sordi e l’andare alli zoppi, il parlare alli mutoli e, ch’è maggiore cosa, risusciti li morti di quattro dì; iscrivi che non è ciò perfetta letizia”.
E andando un poco, santo Francesco grida forte: “O frate Lio-ne, se ‘l frate Minore sapesse tutte le lingue e tutte scienze e tutte le scritture, sì che sapesse profetare e rivelare, non solamente le cose future, ma eziandio li segreti delle coscienze e delli uomini; iscrivi che non è in ciò perfetta letizia”. […]
E andando ancora un pezzo, santo Francesco chiamò forte: “O frate Lione, benché ‘l frate Minore sapesse sì bene predicare, che convertisse tutti gli infedeli alla fede di Cristo; iscrivi che non è ivi perfetta letizia”.
E durando questo modo di parlare bene di due miglia, frate Lio-ne con grande ammirazione il domandò e disse: “Padre, io ti prie-go dalla parte di Dio che tu mi dica dove è perfetta letizia”. E santo Francesco sì gli rispose: “Quando noi saremo a santa Maria degli Agnoli, così bagnati per la piova e agghiacciati per lo freddo e in-fangati di loto e afflitti di fame, e picchieremo la porta dello luogo, e ‘l portinaio verrà adirato e dirà: Chi siete voi e noi diremo: Noi sia-mo due de’ vostri frati; e colui dirà: Voi non dite vero, anzi siete due ribaldi ch’andate ingannando il mondo e rubando le limosine de’ poveri; andata via; e non ci aprirà, e faracci stare di fuori alla neve e all’acqua, col freddo e colla fame infino alla notte; allora se noi tanta ingiuria e tanta crudeltà e tanti commiati sosterremo pa-zientemente senza turbarcene e senza mormorare di lui, e pense-remo umilmente che quello portinaio veramente ci conosca, che Iddio il fa parlare contra a noi; o frate Lione, iscrivi che qui è perfet-ta letizia.
E se anzi perseverassimo picchiando, ed egli uscirà fuori turba-to, e come gaglioffi importuni ci caccerà con villanie e con gotate dicendo: Partitevi quinci, ladroncelli vivissimi, andate allo spedale, chè qui non mangerete voi, né albergherete; se noi questo soster-remo pazientemente e con allegrezza e con buono amore; o frate Lione, iscrivi che quivi è perfetta letizia.
E se noi pur costretti dalla fame, dal freddo e dalla notte più pic-chieremo e chiameremo e pregheremo per l’amore di Dio con gran-de pianto che ci apra e mettaci pure dentro, e quelli più scandolez-zato dirà: Costoro sono gaglioffi importuni, io li pagherò bene come son degni; e uscirà fuori con un bastone nocchieruto, e piglieracci per lo cappuccio e gitteracci in terra e involgeracci nella neve e batteracci a nodo a nodo con quello bastone: se noi tutte queste cose sosterremo pazientemente e con allegrezza, pensando le pene di Cristo benedetto, le quali dobbiamo sostenere per suo amore; o fra-te Lione, iscrivi che qui e in questo è perfetta letizia» .

L’amore del buon Samaritano
Nei Santi, in ogni Santo, all’unione d’amore con Cristo Crocifisso fa seguito, connaturalmente, potrebbe dirsi, la dedizione al bene dei fratelli che costituiscono il “Corpo di Cristo”, come si esprime san Paolo quando scrive ai Colossesi: «Sono lieto nelle sofferenze che sopporto per voi e completo nella mia carne quello che manca ai pa-timenti di Cristo, in favore del suo corpo che è la Chiesa» (Col 1,24).
Come spiega bene il papa Giovanni Paolo II, «la redenzione operata in forza dell’amore soddisfattorio, rimane costantemente aperta ad ogni amore che si esprime nell’umana sofferenza. In questa dimensione – nella dimensione dell’amore – la redenzione già compiuta fino in fondo, si compie, in un certo senso, costante-mente» . Su questa onda dell’amore doloroso, infatti, che “costan-temente” espia per i fratelli e redime le anime si pongono i Santi con l’offerta volontaria delle loro sofferenze di ogni genere (males-seri e fatiche, incomprensioni e maltrattamenti, insuccessi e per-secuzioni…) per ottenere la conversione e la salvezza eterna dei fratelli peccatori, degli uomini senza Dio .
Infatti, come scrive l’Amerio, «bene spesso quel dolore, quell’in¬successo, quella malattia, per cui gli altri ti giudicano infelice sono stati invece l’inizio della tua salvezza, la ragione delle tue vittorie, la benedetta occasione di arricchimento spirituale e religioso. Non si tratta certo di successi esteriori, di vittorie o di trionfi documentabili con le statistiche dei calcoli umani» . Ma è proprio vero che l’amore dei Santi, imitatori dell’evangelico “Buon Samaritano”, ha riempito volumi e volumi di agiografia, di secolo in secolo, a edifi-cazione della santa Chiesa, a sostegno e conforto dei sofferenti di ogni specie.
Basterebbe ricordare qui gli ultimi grandiosi esempi dei Santi mirabili che si chiamano san Giuseppe Benedetto Cottolengo, san Luigi Orione, i beati Don Guanella e Bartolo Longo, san Massimi-liano Maria Kolbe, la beata Alexandrina Da Costa, e molti altri; e che cosa dire di san Pio da Pietrelcina e della beata Teresa di Calcutta? San Pio da Pietrelcina, oltre l’offerta delle lancinanti sof-ferenze personali patite nella cinquantennale e sanguinosa stim-matizzazione, ha voluto creare un’opera grandiosa per chi soffre, l’Opera chiamata appunto, molto significativamente, “Casa sollievo della sofferenza”; la beata Teresa di Calcutta, poi, ha fondato un intero istituto religioso con un esercito di consacrate, votate all’assistenza dei più poveri e sofferenti, le Suore Missionarie della carità, sparse già in tutto il mondo in aiuto dei più miseri accattoni e “narboni”. Ma si sa bene che tutta la bimillenaria Storia della Chiesa è una galleria di questi Santi che hanno fatto dell’espe¬rienza del Buon Samaritano la loro forma di vita edificante e labo-riosa, luminosa di carità e di sacrificio senza misura.
Essi hanno voluto vivere in solido, potrebbe dirsi, la virtù della carità descritta nella mirabile parabola evangelica del buon Sama-ritano, praticando concretamente e su misura gigante l’amore di-sinteressato, come ricorda ancora la Salvifici doloris , ossia quell’amore provocato appunto dalla sofferenza che illumina tutta la realtà del dolore in maniera tale «da poter dire – scrive lo Zan-gheratti – che essa è giustificata anche per questa capacità di far sbocciare tale amore dal cuore dell’uomo» . E in questo senso, la sofferenza offerta diventa «un bene, – continua il papa Giovanni Paolo II – dinanzi al quale la Chiesa si inchina con venerazione in tutta la profondità della sua fede nella redenzione» .

La regina nel giudizio finale: la carità
Lo scenario della sofferenza redentiva che assimila a Cristo, configurando direttamente al suo Volto, diventa infine grandioso in quel Giudizio finale di tutti e di ciascuno che ci sarà alla fine dei tempi nella «Valle di Giosafat» (Gl 3,12) e che si svolgerà alla luce radiante delle parole divine di Gesù, Giudice supremo, il quale chiamerà tutti i salvati nel Regno dei Cieli, giudicandoli direttamen-te sulla carità e dicendo loro così: «Venite, benedetti del Padre mio, ricevete in eredità il regno preparato per voi fin dalla fonda-zione del mondo. Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visi-tato, carcerato e siete venuti a trovarmi. […] In verità vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,34–36,40).
Io, Gesù: ero affamato, assetato, forestiero, nudo, malato, car-cerato. Gesù ha dunque un volto particolare per essere riconosciu-to: ha il volto dell’affamato, dell’assetato, del forestiero, del nudo, del malato, del carcerato. È possibile a tutti, quindi, vedere il Volto redentore di Gesù in chi soffre, anche se peccatore (“carcerato”). Perciò, non abbiamo da ricercare chissà dove il Volto di Cristo per poterlo vedere. Gesù ha assimilato il suo Volto redentore a quello stesso dei poveri e sofferenti, dei diseredati ed emarginati. La con-clusione che si trae dalla mirabile parabola evangelica è appunto questa: il Volto redentore di Gesù è davanti a noi soprattutto nel sofferente, nell’affamato, nell’assetato, nel forestiero, in chi è nudo, in chi è ammalato e carcerato.
A noi cristiani, dunque, è stato concesso questo potere, è stato affidato questo dovere: possiamo e dobbiamo saper vedere il Volto di Gesù in tutti i poveri e sofferenti che incontriamo. E non era for-se questa la visione di fede che i Santi avevano nel guardare ai poveri e ai sofferenti? Non era forse questo lo sguardo del Serafi-co Padre san Francesco rivolto ai lebbrosi, trattandoli come imma-gini viventi di Cristo Crocifisso? E il beato Damiano Veuster, mera-viglioso apostolo dei lebbrosi, non guardava forse così i suoi leb-brosi nell’isola–lebbrosario dove visse e operò da missionario, mo-rendo anch’egli, alla fine, da lebbroso? E la beata Teresa di Cal-cutta, ai nostri giorni, con quali occhi guardava i suoi poveri accat-toni in fin di vita, i “barboni” derelitti e abbandonati da tutti, i mille e mille poveri, ammalati e disperati che incontrava e curava in ogni luogo della terra?
Questi sono gli occhi della carità cristiana che vedremo splendentissimi nel giudizio finale in tutti coloro che hanno saputo guar-dare con amore il Volto dolorante di Cristo nei fratelli, specialmen-te nei più poveri e sofferenti, leggendo il mistero del dolore alla lu-ce radiante della fede, divina maestra della verità nell’insegnare che la sofferenza trasfigura il povero e derelitto in Cristo, lo confi-gura misteriosamente a Lui, lo fa partecipe del suo Volto divino–umano, del suo Volto mite e sofferente, di quel Volto che è tutto dolore perché è tutto amore.

Coniugare l’amore con il dolore
Questo discorso di fede si presenta sublime agli occhi dei veri credenti, facendo capire e vedere che il mistero del dolore si co-niuga con il mistero dell’amore divino e fa quindi unità con il miste-ro della salvezza eterna. Ma per i non credenti, per il mondo ateo e pagano, per i libertini e i dissoluti, il dolore resta solo un mistero–orrore che sconvolge e opprime senza scampo, così come il miste-ro della Croce è soltanto un assurdo tetro, una vera follia, contro la quale si scatena la reazione con la ricerca avida del piacere di qualsiasi genere e del godimento a qualunque prezzo, magari an-che fino al prezzo del suicidio (leggi overdose…) .
Tutto ciò è stato già detto e scritto a lettere di fuoco anche da san Paolo apostolo quando afferma, appunto, che il mistero della Croce è «scandalo per i giudei, follia per i pagani» (1Cor 1,23). Non si poteva e non si può comprendere, e ancor meno accettare, la verità e la real-tà della Croce su cui Cristo è stato crocifisso, che si presenta, agli oc-chi profani, soltanto come un supplizio orrendo e una morte così in-famante da ridurre realmente l’essere umano a «un verme e non più uomo» (Sal 21,7) e da giustificare quel versetto biblico che dice: «Ma-ledetto colui che pende dal legno» (Dt 21,23) .
Ed è vero il contrario, invece, come spiega ancora san Paolo con le sue parole di luce: «per coloro che sono stati eletti», il mi-stero della Croce «è potenza e sapienza di Dio» (1Cor 1,24), per-ché la Croce, di fatto, è la chiave che apre la porta del Paradiso ai Santi, avendo Dio «nascosto per noi, in una Croce, davanti alla quale tremiamo, tutta la luce del Paradiso», come ha ben scritto il cardinale Journet .
Quanto Gesù Crocifisso rispose al buon Ladrone – anch’egli crocifisso sul Calvario – : «Oggi, tu sarai con me in Paradiso» (Lc 23,43), fa ben intravedere, che, pur fra gli strazi della crocifissione, c’è già, in semine, la presenza e il possesso del Paradiso, a con-ferma sicura e garanzia precisa che se il legno della croce all’esterno è legno duro e aspro, all’interno, invece, è tutto oro che brilla prezioso e splendente.
Qui è la Teologia più solida che ci aiuta a scoprire la radice più segreta da cui germoglia, in Gesù Crocifisso, la gioia paradisiaca coniugata con la sofferenza più atroce della Passione e Morte; ci aiuta a scoprire, cioè, la verità secondo cui, in Gesù Crocifisso, sono misteriosamente compresenti la Visione beatifica e gli strazi amarissimi della crocifissione e morte sul Calvario, come insegna il Dottore Angelico, san Tommaso d’Aquino , e con lui tutta la sana e perenne Teologia della Chiesa.
Per questo, a buon diritto, si può dire, con lo Zangheratti, che «la sofferenza, pur in tutta la sua crudezza, ha già nel suo cuore il paradiso, come testimoniano le esperienze di molti cristiani, sia santi canonizzati che non» .
«Tanto è il bene che mi aspetto…»
Riflettendo in profondità su queste verità che sono patrimonio della nostra fede, si può comprendere da tutti quell’espressione così semplice e vivace del Serafico Padre san Francesco d’Assisi che dice: «Tanto è il bene che mi aspetto, che ogni pena mi è di-letto», come è riportato nel libro dei “Fioretti” .
Queste parole molto significative acquistano un valore eccezio-nale se si riflette che chi le pronuncia, san Francesco d’Assisi, sof-ferente e piagato dalle cinque stimmate sanguinanti, oltre che da una serie impressionante di malattie fisiche, si presenta come il Santo più conforme a Gesù in tutta la sua vita , configurato anche nel volto al Volto di Cristo (così da essere confuso con Cristo, al suo ingresso in Paradiso) , l’unico, fra tutti i Santi, che la Chiesa stessa, nella Liturgia della santa Messa, definisce espressamente come «perfetta immagine di Gesù Crocifisso» .
È chiaro che il Santo, ogni Santo, nell’assimilarsi a Cristo, vuole assimilarsi alla sua gioia ineffabile così come al suo dolore marti-rizzante. Ma sappiamo anche, dall’agiografia, che la più vitale gioia del Santo consiste proprio nell’assimilarsi a Gesù puntando parti-colarmente alla partecipazione viva dei suoi dolori, giacché è sem-pre vero che chi ama sino in fondo potrebbe forse non curarsi mol-to delle gioie dell’amato, ma è impossibile che non si curi e non voglia sempre condividere ogni sofferenza dell’amato.
Così diceva e faceva, ad esempio santa Gemma Galgani, ver-gine lucchese, dolce e serafica, stimmatizzata, morta agli inizi del secolo ventesimo. Per lei tutta la gioia più vera e più pura consi-steva nello scoprire il Volto e il Cuore di Gesù, nel farlo regnare nella propria anima, e soprattutto nel partecipare misticamente e fisicamente a tutti i suoi dolori, assimilandosi al vivo alla sua cro-cifissione e nascondendosi interamente in Lui “Crocifisso”. Ella stessa, difatti, così si esprime appassionatamente e sublimemen-te in questa sua preghiera estatica di assimilazione totale al Cro-cifisso: «Signore mio Gesù, quando le mie labbra si avvicineran-no alle tue per baciarti, fammi sentire il tuo fiele. Quando le mie spalle si appoggeranno alle tue, fammi sentire i tuoi flagelli. Quando la carne tua si comunicherà alla mia, fammi sentire la tua Passione. Quando la mia testa si avvicinerà alla tua, fammi sentire le tue spine. Quando il mio costato si accosterà al tuo, fammi sentire la tua lancia» .
Bisogna davvero arrivare sugli altipiani dell’amore estatico cro-cifisso per poter dire cose come queste che trasfigurano il dolore più acuto nelle note più alte e sublimi di quell’amore ardente che si fa incontenibile nell’unificare l’amante alle sofferenze dell’amato. Questa è anche la testimonianza di tanti mistici di ogni tempo e luogo, che hanno arricchito la Chiesa lasciando un patrimonio di scritti mirabili e di esperienze preziosissime.
Si comprende, allora, donde scaturisce l’amore appassionato dei Santi rivolto all’immagine del Crocifisso, da essi venerato e a-dorato. E molti di essi volevano il Crocifisso di grandi proporzioni. Grandi, infatti, erano «i Crocifissi di S. Tommaso d’Aquino, di S. Franceco d’Assisi, di S. Bernardo, di S. Filippo Neri, di S. Giovanni della Croce, di S. Camillo de Lellis, di S. Girolamo Emiliani, di S. Gemma Galgani… Specie nel ‘600 troviamo grandiosi Crocifissi, in cui il Cristo è raffigurato nel tormento spasmodico della sua stra-ziante agonia, grondante sangue. Così bisogna guardare Gesù Appassionato, come veramente fu sul Calvario, morente per i pec-cati nostri, per la nostra Redenzione!» .

Volto di Gesù, Volto di Maria
Se può esser vero che il volto di un figlio riflette sempre, molto o poco, lo stesso volto della madre che lo ha generato, per Gesù ciò non potè non esser vero in maniera davvero superlativa e del tutto straordinaria. Perché? Perché Gesù è figlio esclusivo della verginità della Madre Maria, con l’assenza totale del padre terreno. Di fatto, sappiamo che è stata Lei, Maria, la Vergine di Nazaret, che, verginalmente, ha concepito, ha fatto e ha generato Gesù. Vergine sempre intatta nell’anima e nel corpo, Ella, resa divina-mente “vergine feconda” dallo Spirito Santo, ha concepito e parto-rito Gesù: «factum ex muliere», scrive san Paolo, quasi scolpendo l’origine terrena del Verbo Incarnato da Maria Vergine (Gal 4,4).
Il Volto di Gesù, dunque, è stato fatto da Lei, da Maria Vergine; è stato tornito con il sangue verginale di Lei, ed è diventato il ri-flesso diretto del Volto di Lei, della Semprevergine. Il Volto di Ge-sù, quindi, non poteva non essere un volto tutto verginale, tutto materno, tutto mariano. E chiunque riproduce il Volto di Gesù, – ossia i Santi – non può non riprodurre quello stesso Volto tutto di Maria, tutto mariano. Ogni cristiano che si santifica, perciò, acqui-sta via via la stessa fisionomia del Volto tutto mariano di Cristo.
E anche il Volto sofferente di Cristo Redentore non può non a-vere il suo riflesso più radioso nel Volto di Maria Corredentrice. Si può anzi dire con sicurezza che il Volto di Gesù Redentore e il Vol-to di Maria Corredentrice apparivano come un unico e identico Vol-to, paragonabile in certo modo al volto dei gemelli monovulari. La dimensione mariana del Volto di Gesù affonda le sue radici nella genetica soprannaturale che ha reso Maria di Nazaret sua genitri-ce unica, tutta immacolata e semprevergine.
Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, come mai Maria San-tissima abbia dovuto patire l’incommensurabile sofferenza della redenzione universale, dal momento che, predestinata Madre di Dio e concepita per questo immacolata, si è ritrovata nello stato della giustizia originale, arricchita, ancor più, di una tale sovrab-bondanza di doni e carismi celesti da non poter avere l’eguale né in una né in tutte le creature celesti e terrestri messe insieme: non avrebbe ella dovuto vivere già sulla terra, come scrive il Vivoda, «perennemente avvolta in un nembo di gioia celeste?» Ma la vita di Maria era legata a quella del Verbo Incarnato, suo Figlio, in forza di «un unico e identico decreto» di Dio, come ha scritto il papa Pio IX nella Bolla di definizione dogmatica dell’Im¬macolata Concezione . Insieme a Gesù, Ella fu predestinata al compimento della redenzione universale per la salvezza di tutti. Per questo anch’Ella ha vissuto i suoi anni di vita terrestre nell’a¬marezza continua dell’immolazione, salendo infine sul monte Cal-vario insieme al Figlio per essere immolata con Lui. «Per decreto divino – scrive ancora il Vivoda – come un uomo e una donna ci hanno perduti, così un Uomo e una Donna ci hanno salvati. Non l’Uomo solo, né la Donna sola: l’Uno con l’Altra. L’umanità è stata redenta dal sangue di Cristo e dal pianto di Maria. Con il cerchio di sangue redentore, che splende dalla Croce per lavare tutti i pecca-ti del mondo, splende anche l’onda di questo pianto verginale. […] Quando il nostro sguardo si incontra con quello della Vergine Cor-redentrice noi sentiamo meno ripugnanza a bere il calice di salute che contiene l’amara pozione del dolore» .
Ma se Maria ha dato il suo Volto a Gesù, che è il «Primogenito fra molti fratelli» (Rm 8,29), vuol dire che lo ha donato anche ai “fratelli” del Primogenito, che siamo noi, i “secondogeniti”, da Lei concepiti misticamente all’Annunciazione perchè costituiamo quel “Corpo” di cui Cristo è il “Capo”. La dimensione mariana del Volto redentore di Cristo, dunque, non può non ritrovarsi anche nelle membra del “Corpo Mistico” di Cristo che costituisce la Chiesa di cui Maria è la “Madre amantissima” .
Il Volto sofferente di Gesù Redentore e il Volto sofferente dell’Addolorata Corredentrice, poi, sono lo specchio del volto del cristiano che è chiamato a santificarsi, ossia a cristificarsi nel grem-bo e nel cuore della Divina Madre. Ciò avviene particolarmente per mezzo della consacrazione “illimitata” all’Immacolata, insegnata da san Massimiliano Maria Kolbe, il quale afferma splendidamente che «nel grembo di Maria l’anima rinasce nella forma di Gesù Cristo» : è soprattutto in Lei, nella divina Madre, quindi, che si può arrivare ad avere la stessa «faccia ch’a Cristo più si somiglia», secondo il celebre verso dantesco , perché Lei è la divina “matrice” del Verbo Incarnato, il “Primogenito”, e dei suoi fratelli.

L’unico “Volto” amato da Dio
È sempre questo il cammino ascetico–mistico del cristiano che vuole diventare Santo, conforme a Cristo. Egli, figlio di Maria, at-traverso le diverse tappe del dolore purgativo, illuminativo e uniti-vo, è chiamato a scalare coraggiosamente il Calvario per raggiun-gere il Tabor, configurandosi prima a Gesù sofferente per assimi-larsi quindi a Gesù Crocifisso; trasfigurandosi, poi, in Gesù Risor-to, per raggiungere infine il Regno dei Cieli e la beatitudine della visione eterna di Dio Amore. Dal Volto sofferente di Gesù Crocifis-so al Volto trasfigurato di Gesù Risorto: in questo passaggio è sempre il Volto di Gesù la carta d’identità del vero cristiano.
E se è vero che il Volto sofferente di Gesù, per primo, si impri-me nel volto di ogni sofferente che lo accetti per cristificarsi, confi-gurandosi quindi gradualmente a Lui, lo sviluppo e la maturazione di tale configurazione cristica, tuttavia, sta nelle mani di Colei che è la Madre di Cristo e dell’umanità, che è la Tesoriera e la Media-trice di tutte le grazie necessarie alla salvezza e alla santificazione degli uomini. Ella, infatti, è la Madre dei Santi, è la formatrice, quindi, dell’immagine luminosa di Cristo in ogni redento che tenda alla perfezione cristiana nella Chiesa che è “una, santa, cattolica e apostolica”, come ci insegna il Catechismo .
E dall’esperienza non comune di un mistico francescano come il beato Jacopone da Todi possiamo tutti imparare che la via «più breve, più rapida e più sicura» , come diceva san Massimiliano M. Kolbe, per conformarsi perfettamente a “Cristo povero e crocifis-so” , come voleva san Francesco d’Assisi, è l’assimilazione ai do-lori di Maria Santissima Madre e Corredentrice nostra .
Questa immagine, questo Volto di Cristo – si rifletta bene – è di fatto l’ideale che ogni cristiano deve realizzare e avere in sè per compiere la Volontà di Dio, come insegna l’Apostolo: «Que-sta è la volontà di Dio: la vostra santificazione» (1Ts 4,3). Soltan-to realizzando questa Volontà di Dio, infatti, si può arrivare a vi-vere quelle parole di san Paolo che dicono: «Vivo io, sì, ma non sono più io che vivo, ma è Cristo che vive in me» (Gal 2,20). E questo ideale – è necessario saperlo – è appunto l’ideale di Dio stesso, come spiega bene il padre Royo Marin scrivendo così: «Non dimentichiamo che l’Eterno Padre, in realtà, non ha che un solo amore e una sola preoccupazione eterna – se così è lecito esprimerci – : il suo Verbo. Nulla lo interessa fuori di lui, e se ci ama infinitamente, è «perché noi amiamo Cristo e abbiamo cre-duto che è uscito da Dio». Cristo stesso ce l’ha detto: «Ipse enim Pater amat vos quia vos me amasti set credidisis quia ego a Deo exivi» (Gv 16,27). Sublime mistero che dovrebbe fare del nostro amore a Cristo l’unica vera preoccupazione della nostra vita, co-me lo è dell’eterno Padre e come lo fu e lo sarà sempre di tutti i Santi!» .
È fondamentale questo pensiero–ideale, questo progetto–vita dell’eterno Padre. Da esso si può capire come il Volto di Cristo, in sostanza, sia l’unico Volto che Dio Padre conosce ed ama. Quanto più ci si identifica con questo Volto, dunque, – come Maria Santis-sima, prima di tutti e sopra tutti, senza confronto; come i Santi die-tro di Lei, e come tutti i poveri e gli infermi, i sofferenti e i tribolati – tanto più si entra nell’amore del Padre, nel Suo interesse e nella Sua preoccupazione eterna. È grandiosa questa visione di grazia del Volto di Cristo nel quale certamente non si ritrovano i benpen-santi e gli autosufficienti, i gaudenti e i possidenti, ma soltanto i bi-sognosi e i sofferenti di ogni razza e qualità, nei quali il Volto di Cristo è presente in prima persona: Io, Gesù, ero affamato, Io ero assetato, Io ero nudo, Io ero ammalato, Io ero forestiero, Io ero carcerato…

Il Crocifisso e il Cero pasquale
Per questo la devozione al Volto sofferente di Gesù Crocifisso, nell’antica e salutare devozione al Crocifisso, resta di primaria im-portanza e di eccezionale valore per i cristiani che vogliano impa-rare a donarsi, nel sacrificio di se stessi, ai fratelli più bisognosi e sofferenti, nei quali rivive il Volto doloroso di Cristo. Giustamente il padre Bevilacqua esorta soprattutto i pastori delle anime a farsi promotori della devozione al Crocifisso, scrivendo con premura e vigore: «Facciamoci apostoli del Crocifisso, dei grandi Crocifissi medioevali dei nostri altari, nelle nostre chiese e cattedrali. La do-lorosa mancanza di spirito di sacrificio nel nostro popolo cristiano, anche nei piccoli paesi una volta tanto religiosi e pii, lo si deve al fatto che, noi sacerdoti, abbiamo sostituito la devozione al Croci-fisso con altre devozioni belle e sante, ma non efficaci come quella che emana dal Cristo agonizzante. Mettiamo ancora sugli altari i nostri grandi e paurosi Crocifissi; guardando quelli, il nostro popolo ricomincerà a capire che la vita cristiana è, principalmente, vita di sacrificio» .
Uno degli errori più devastanti della fede ai nostri giorni, infatti, è certamente l’errore teologico e sociologico di quei tali – non pochi purtroppo – che, fuori e dentro la Chiesa, non solo hanno neutraliz-zato il valore della Croce esautorandone ogni potere per la salvezza degli uomini, ma vogliono cancellarla del tutto dalla vita cristiana (togliendo il Crocifisso anche dagli ospedali, scuole, fabbriche, indu-strie ed enti pubblici…), giacché l’inferno ormai “è chiuso”, si dice, o non esiste affatto! – dicono – e non c’è più nessun bisogno di sacri-fici e di rinnegamenti, dunque, per vivere da cristiani e andare in Pa-radiso: ormai, si è già tutti … condannati inesorabilmente al Paradi-so, buoni e cattivi, santi e assassini, onesti e disonesti, corrotti e corruttori, cacciando eventualmente all’inferno solo la… giustizia!
Eppure si dovrebbe ben sapere che Gesù attira e attirerà tutti a sé proprio dalla Croce e sulla Croce, come Egli disse espressa-mente ai discepoli: «Quando sarò elevato da terra, attirerò tutti a me» (Gv 12,32); e per questo la Croce è la chiave di volta dell’universo che in Cristo e per Cristo si trasfigura nella salvezza dell’umanità per la somma ed eterna gloria di Dio Uno e Trino. La Croce è sempre fissa, mentre il globo continua a girare, dice un’antica scritta sul portale di una Certosa: «Stat Crux dum volvitur orbis terrarum».
Per questo il Crocifisso è anche il compagno inseparabile del sofferente che a Lui ricorre, sorgente perenne di aiuto e di conforto ai tribolati che a Lui si rivolgono, unico pegno di speranza viva per la salvezza eterna ai moribondi che molto spesso restano soli e ab-bandonati, come ci fanno sapere le cronache nere di ogni tempo.
Nella vita di san Giuseppe Cafasso si legge che «una ragazza povera, chiudendo nel fiore degli anni una vita di disordini, non riu-sciva a darsi pace dell’abbandono in cui era lasciata in quelle e-streme ore, da quanti un giorno l’avevano illusa, sfruttandola.
“No, non è sola; un altro amico le rimane al mondo” – le disse san Giuseppe Cafasso, presentandole il Crocifisso –. “Mentre gli altri fuggono, questo si fa avanti, e non l’abbandonerà; ma sarà con lei finchè la vedrà salva in Paradiso”.
L’infelice ragazza fissò gli occhi sul Volto sofferente di Gesù, diede in uno scoppio di pianto, coprì di baci il Crocifisso, lo strinse al petto, e spirò nel suo amplesso» .
Un altro dei segni liturgici più espressivi della nostra morte e resurrezione in Cristo Crocifisso e Risorto, inoltre, è certamente il Cero pasquale. Bello e luminoso, posto sul presbiterio, accanto all’altare, il Cero pasquale ci parla del mistero della morte di Cristo, consumandosi; ci parla della vita risorta di Cristo, ardendo della fiamma viva e radiosa. Consumarsi e ardere: tale dovrebbe esse-re, in effetti, la più vera vita cristiana che si consuma nel sacrificio di sé, ardendo perennemente viva per Cristo e con Cristo morto e risorto.
«Un santo sacerdote novarese – scrive Fratel Remo di Gesù – Don Silvio Gallotti, amava ripetere ai suoi discepoli: «Vedete come è bello il Cero Pasquale! Dovremmo essere tutti d’un pezzo: bru-ciare così, nella letizia della Risurrezione.
Ma – aggiungeva –, non facciamo come si usa oggi: lasciare in-tatto il cero, e far bruciare un moccolo, un rimasuglio che viene in-filato con finzione alla sommità del largo cero, inghirlandato e ben dipinto, che non si consuma mai…
Immagine parlante delle anime che danno a Dio un moccolo, un rimasuglio della vita, che cerca altrove il suo ideale, la sua fe-licità…» .

Il Volto del dolore salvifico per amore
C’è una pagina magistrale del papa Paolo VI che può degna-mente concludere queste riflessioni sul “Mistero del dolore nella luce della Redenzione”, sintetizzando splendidamente i contenuti di valore primario del Volto sofferente di Cristo, che capovolge i poveri criteri di valutazione umana della sofferenza, presentando l’ideale della “vocazione” al dolore che salva e santifica. Il vero ideale santo e sublime della vocazione cristiana, soprattutto delle “vittime”, dei sofferenti e dei tribolati di ogni specie, è quello di ar-rivare alla configurazione di sé e di ogni anima al Volto redentore di Cristo, a quel Volto divino che è il Volto del dolore salvifico per amore.
Scrive il papa Paolo VI: «…Una volta – e ancora, per chi di-mentica di essere cristiano – la sofferenza appariva pura disgrazia, pura inferiorità, più degna di disprezzo e di ripugnanza, che meri-tevole di comprensione, di compassione, di amore. Chi ha dato al dolore dell’uomo il suo carattere sovrumano, oggetto di rispetto, di cura e di culto, è Cristo paziente, il grande fratello di ogni povero, di ogni sofferente. Vi è di più: Cristo non mostra soltanto la dignità del dolore, Cristo lancia una vocazione al dolore. Questa voce è tra le più misteriose e le più benefiche che abbiano attraversato il quadro della vita umana. Gesù chiama il dolore a uscire dalla sua disperata immobilità e a diventare, se unito al suo, fonte positiva di bene, fonte non solo delle più sublimi virtù che vanno dalla pazien-za all’eroismo alla sapienza, ma altresì alla capacità espiatrice, re-dentrice, beatificante propria della Croce di Cristo.
Il potere salvifico della passione del Signore può diventare uni-versale e immanente in ogni nostra sofferenza, se – ecco la condi-zione – accettata e sopportata in comunione con la sua sofferenza. La compassione da passiva si fa attiva: idealizza e santifica il dolore umano, lo rende complementare a quello del Redentore…» .
A conferma delle parole del papa Paolo VI possiamo richiama-re alla memoria, qui, il capitolo ammirabile della vita apostolica di san Giovanni Crisostomo, uno dei Santi Padri dei primi secoli († 407), ritenuto “grande” nell’agiografia per la sua opera compiuta fra le più amare sofferenze. In lui fu davvero ardente la brama di assimilarsi a Cristo Crocifisso senza riserve né misure, ritenendo ogni sofferenza un tesoro d’inestimabile valore per configurarsi a Lui. Egli stesso scrisse questi sublimi pensieri nei quali sembrano scolpite la sua anima e la sua vita: «Io non stimo tanto Paolo per il rapimento al terzo cielo, quanto per la dura prigionia che patì. E, se mi venisse proposto: Vuoi essere collocato in cielo, tra gli Angeli, o stare in carcere con Paolo? Io eleggerei piuttosto que-sto che quello. Se dovessi scegliere di essere Pietro in catene o l’Angelo che lo sciolse, io, sinceramente, eleggerei più volentieri di essere il primo che il secondo» .
Questa è la visione cristiana della sofferenza scolpita nel Volto divino di Gesù Redentore e nel volto umano di ogni sofferente che voglia vivere santamente la vocazione di membro del Corpo Misti-co di Cristo, inserito in Gesù vitalmente come il tralcio alla vite (cf. Gv 15,5), a Lui unito strettamente nel portare con generosità la croce quotidiana lungo il cammino e l’erta che menano al Regno dei Cieli (cf. Mt 7,14).
Un altro modello esemplare, a noi più vicino, in questo “cristifi-carsi”, è stato certamente san Pio da Pietrelcina, il santo stigma-tizzato del Gargano, vittima di sangue per cinquant’anni (dal 1918 al 1968), che nella sua anima e nel suo corpo ha prolunga-to la Passione di Cristo mostrandone alle moltitudini di gente il volto di dolore e di amore, quel volto sofferente segnato, non ra-ramente, da bagliori di resurrezione. Molto bene ha detto di lui il papa Giovanni Paolo II con queste parole dell’Omelia durante la Messa della Beatificazione di Padre Pio: «Chi si recava a San Giovanni Rotondo per partecipare alla sua Messa, per chiedergli consiglio o confessarsi, scorgeva in lui un’im¬magine viva del Cri-sto sofferente e risorto. Il suo corpo segnato dalla “stimmate” mostrava l’intima connessione tra morte e resurrezione, che ca-ratterizza il mistero pasquale. Per il Santo di Pietrelcina la condi-visione della Passione ebbe toni di speciale intensità: i singolari doni che gli furono concessi assieme alle sofferenze interiori e mistiche che li accompagnavano gli consentirono di vivere un’esperienza coinvolgente e costante dei patimenti del Signore, nell’immutabile consapevolezza che “il Calvario è il monte dei Santi”».

Publié dans:DOLORE E SOFFERENZA, Teologia |on 28 mai, 2014 |Pas de commentaires »
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