Archive pour juin, 2014

30 giugno: Santi protomartiri della Chiesa di Roma

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NEI CONFRONTI DEL CREATO SERVE UN « ANTROPOCENTRISMO RELATIVO »

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NEI CONFRONTI DEL CREATO SERVE UN « ANTROPOCENTRISMO RELATIVO »

I Vescovi ungheresi esortano a un rapporto responsabile con l’ambiente

12 Novembre 2009

di Roberta Sciamplicotti

ROMA, giovedì, 12 novembre 2009 (ZENIT.org).- Nei confronti del creato, l’atteggiamento dei cristiani deve essere basato su un « antropocentrismo relativo », che si discosti sia dal considerare solo l’essere umano non curandosi di ciò che lo circonda che dal pensiero che nega le differenze ontologiche tra l’uomo e l’ambiente.
La Conferenza dei Vescovi Cattolici Ungheresi lo ricorda in una Lettera circolare sulla Difesa del Mondo Creato, alla cui stesura hanno collaborato per vari anni diversi membri dell’Accademia delle Scienze d’Ungheria, docenti universitari, teologi e gli stessi Vescovi.
Nella lettera, i presuli sottolineano che « il degrado in rapida accelerazione dell’ambiente naturale e i cambiamenti climatici a livello globale sono diventati al giorno d’oggi una realtà ».
Per ridurre « e, se possibile, evitare un comportamento che danneggia l’ambiente e impoverisce il clima » servono « sforzi significativi » e « strategie efficienti per adattarsi alle circostanze dei cambiamenti climatici ».
« Perché l’umanità possa superare questo test, dobbiamo partecipare tutti – ricordano -. La sfida che affrontiamo è sostanziale, ma la nostra azione guidata dai valori e l’autolimitazione possono influire positivamente sulla situazione ».
Difendere l’ambiente, ricordano i Vescovi ungheresi, « significa più che assicurare semplicemente condizioni di vita degne alle generazioni presenti e future », perché è fondamentale per « la protezione e la promozione del bene comune e della dignità umana ».

L’ »antropocentrismo relativo »
I presuli ricordano quindi l’ »ecoteologia » e l’ »ecoetica » cristiane, sottolineando che queste prendono le distanze dall’ »antropocentrismo radicale », che considera l’ambiente naturale solo in funzione dei « benefici diretti per la generazione attuale ».
Questo comportamento, infatti, « contraddice la responsabilità affidata agli uomini dal Creatore ».
Allo stesso modo, la posizione cristiana si differenzia nettamente dal « pensiero ecocentrico », che non considera le « fondamentali differenze ontologiche tra gli uomini e la parte dell’ambiente naturale che è esterna all’uomo ».
Il comportamento dei cristiani nei confronti della natura deve quindi basarsi su « un ‘antropocentrismo relativo’ in termini di modello filosofico di pensiero e di teocentrismo se guardato dal punto di vista della fede, che riconosce anche il valore intrinseco della natura ».
Spiegando la definizione « antropocentrismo relativo », i presuli sottolineano che si parla di antropocentrismo perché l’uomo « è l’unica creatura sulla Terra che Dio ha desiderato di per sé », mentre l’aggettivo « relativo » si riferisce al fatto che, anche se l’uomo si differenzia dalla parte non umana dell’ambiente dal punto di vista « ontologico, etico e biologico », allo stesso tempo « forma un’unità con esso, tenendo conto della natura di ogni essere e del suo collegamento reciproco in un sistema ordinato, che è il cosmo ».
In questo senso, il concetto di teocentrismo si riferisce al senso del valore intrinseco della natura, in base al quale questa non è a somiglianza di Dio, « ma una realtà dipendente da Dio – e non dall’uomo ».
Preservare il creato, riconoscono i Vescovi ungheresi, ha un significato di riconoscimento e di lode, perché « possiamo preservare in modo credibile solo ciò che riconosciamo come buono e che vale la pena di lodare ».
L’etica cristiana relativa all’ambiente, aggiungono, si basa su tre valori collegati tra loro: il « valore strumentale della natura » in quanto « parte del bene pubblico, che serve la protezione e l’evoluzione della dignità umana »; il « valore simbolico della creazione », perché si riferisce direttamente a Dio e permette quindi di approfondire il rapporto con Lui; la nozione teologica di « nuova creazione », che indica il « futuro escatologico » dell’ambiente, « che ci fornisce una comprensione più profonda, religiosa del futuro del mondo che ci circonda ».

Un nuovo ordine economico
Per i Vescovi ungheresi, « difendere l’ambiente e il clima è anche parte della promozione del bene comune, che si può realizzare solo attraverso un ordine economico che serva l’interesse credibile dell’uomo ».
I presuli citano quindi gli elementi fondamentali di questo ordine, sottolineando la « limitazione dell’obiettivo dell’economia di mercato al cosiddetto utile » e il cambiamento del ruolo del profitto.
Se l’economica utilitaristica contemporanea ha fissato l’obiettivo della sua massimizzazione, sostengono, nell’economia di servizio il profitto è « uno strumento che aiuta a realizzare valori e il bene comune ».
In questo contesto, i presuli concludono esortando ad « adottare un atteggiamento universale, globale, in cui Dio e l’ordine morale e naturale da Lui creato raggiungano la preminenza ».

CHRISTIAN CANNUYER: DIO È NEI CIELI? (2002)

http://www.disf.org/AltriTesti/Cannuyer.asp

CHRISTIAN CANNUYER: DIO È NEI CIELI? (2002)

Partendo dall’affermazione della più nota preghiera cristiana, “Padre nostro che sei nei cieli…”, l’Autore, docente alla Facoltà di teologia dell’Università di Lille e Presidente della Società Belga di Studi orientali, esamina il significato biblico dell’espressione “cielo”, in quanto sede di Dio. Quali rapporti vi sono fra Dio e il cielo, e di quale cielo sta parlando il testo sacro? Per rispondere a queste domande si espone un sintetico quadro delle varie accezioni di questo termine nella Scrittura e dei suoi significati.

Come molte religioni, la Bibbia fa del cielo il dominio di Dio, il suo santuario, il suo regno. Questa collocazione ha attraversato tutto l’immaginario ebraico e cristiano sino a lasciare tracce profonde nella nostra religiosità attuale, malgrado il «disincanto» del cielo cui hanno portato la scienza e l’esegesi moderna: come i cristiani dei primi secoli, non continuiamo a pregare ogni giorno «Padre nostro, che sei nei cieli»?

Prima della creazione Dio Padre circondato da angeli, ms. fr. 50, fol. 13 dello Specchio della storia di Vincent de Beauvais, XV secolo. Parigi, Biblioteca Nazionale di Francia, dipartimento dei Manoscritti.
Nel 1922, il grande storico delle religioni Raffaele Pettazzoni (1883-1959) pubblicò L’essere celeste nelle credenze dei popoli primitivi, in cui metteva in evidenza che, nella maggior parte delle «visioni del mondo» definite primitive, l’immensità del cielo, la sua influenza sulla fertilità del suolo, la sua luce splendente, la sua inaccessibilità avevano portato alla sua personificazione mitica, identificandolo insomma con quell’Essere supremo di cui l’etnologo tedesco Wilhelm Schmidt (1868-1954) aveva creduto di riconoscere l’importanza alle origini del pensiero religioso di una quantità di popoli arcaici.
All’origine del sentimento religioso c’è lo stupore di fronte al cielo?
Mircea Eliade (1907-1986), nel suo Trattato di storia delle religioni, ha cercato di perfezionare questi approcci, mostrando che il cielo, per la sua grandezza, la sua forza, la sua immutabilità, ha potuto all’inizio essere per l’uomo il luogo di un’espressione simbolica della trascendenza, una rivelazione del sacro o del divino (ierofania) offerta allo spirito stupito in modo immediato, non in seguito ad una riflessione speculativa., come avrebbe voluto Schmidt, né di un’affabulazione mitica e prelogica, come affermava Pettazzoni. Per Eliade, questa potenza simbolica della ierofania uranica è un dato primordiale della religiosità. È il motivo per cui gli dèi buoni, eterni, immutabili, e, al di sopra di loro, il più grande, il Creatore, demiurgo o Essere supremo, sono collocati nel cielo, ovvero identificati con esso. Paradossalmente, questi dèi o Essere celesti supremi, onnipotenti e onniscienti. sembrano tanto distanti da scomparire dalla vita quotidiana, dal culto comune, dalla consapevolezza immediata: sono degli dèi «ritirati» o «inattisi» (dei otiosi), in riposo nell’eterno splendore dell’empireo; persino il Dio della Bibbia non si riposa dopo tutta la fatica dei «Sette giorni» della creazione? In numerose religioni «arcaiche», come in Australia o nell’Africa nera, i grandi dèi celesti primordiali cedono il posto a dèi più accessibili, più vicini agli umani, anche più dinamici, attori di una mitologia in crescita e multiforme. Indipendentemente dalla pertinenza delle con conclusioni di Eliade – alle quali certamente oggi si rimprovera un eccesso di dogmatismo e di generalizzazioni affrettate – esse sembrano aver messo il dito su un aspetto dell’esperienza «arcaica» del sentimento «religioso»: il fascino abbagliante di fronte alla bellezza, all’immensità, alla luce incomparabile dell’azzurro. Ciascuno di noi non prova questo a partire dalla sua prima infanzia?

Il Cielo-dio: una credenza universalmente diffusa
Sulle rocce della Val Camonica, in Lombardia, a nord di Brescia, dei graffiti rupestri risalenti al 5000-3000 a.C. rappresentano uomini in preghiera, con le braccia alzate verso il cielo. Non è che un esempio tra gli altri dell’importanza del cielo nelle religioni della preistoria. Parecchie religioni conservano almeno la traccia di un culto antichissimo al Dio cielo o a un Essere supremo che vi risiede: così presso le popolazioni turco-mongoliche dell’Asia centrale, il grande dio nazionale e imperiale Tengri non è altro che il Köke Möngke Tenri, «Eterno Cielo Blu», che è elevato (uze) sovrano e forte (kütch), ma allo stesso tempo inaccessibile e spesso ozioso, al quale solo il khan e i grandi rendono culto. Il caso più conosciuto è quello della Cina dove, a partire dall’VII secolo a.C., la dinastia dei Chou ha formalizzato la religione del «Sovrano dell’ Alto del vasto cielo» (Hao-t’ien Chang-ti), cioè del Cielo stesso (t’ien), di cui l’imperatore era considerato come il Figlio, solo abilitato a venerare il Padre nella capitale, su una collinetta a forma di volta celeste. La nostra stessa parola per dio, dal latino deus, viene dalla radice diu-, dei-, «brillare», che traduce la natura celeste del grande dio comune a tutti gli Indoeuropei e ha dato origine anche al nome del giorno (latino dies, di dove, in italiano, «diurno», o le finali in -di dei nomi dei giorni della settimana); presso i Greci Zeus (al genitivo Dios), e in indo Dyauh-Pitâ (Dio padre), analogo al Dius-pater («dio padre», cioè Jupiter) dei Romani, il dio celeste Diêvas o Dievs delle antiche religioni lituana e lettone, e sino al dio Tyr degli Scandinavi. Georges Dumézil ha ben dimostrato che gli dèi sovrani Varuna e Mitra, che occupano il primo posto nella trifunzionalità del pantheon indoeuropeo, sono in origine degli dèi del cielo. La stessa considerazione vale per il dio supremo degli Iranici, Ahura Mazda, al quale la riforma monoteista di Zarathustra (Zoroastro) conserverà gli attributi di un dio uranico, luminoso, sapiente e bello.

Dei del cielo nel mondo biblico
Più vicino al mondo biblico, c’è bisogno di ricordare che il sumerico dingir, corrispondente all’akkadico ellu, «dio», significa fondamentalmente «ciò che è chiaro, brillante»? Il segno cuneiforme che descrive queste parole rappresenta una stella e ritorna anche nel termine an, «cielo». Il capo supremo del pantheon babilonese, Anu, non è altro che il cielo e il suo tempio principale di Uruk portava il nome di E-an-na, «casa del Cielo».
Presso i Cananei, i Fenici e gli Aramei il titolo di Baal-Šamêm, «signore dei cieli», che appare dal II millennio prima della nostra era, fu attribuito a partire dal IX secolo a.C. ad una divinità suprema considerata sempre più come il Creatore per eccellenza. È probabilmente per lui che Gezabele di Tiro, sposa del re Acab di Israele (874-853), aveva introdotto un culto sul monte Carmelo (1 Re 18). concorrenza che suscitò, come è noto, la feroce opposizione della nobile figura del profeta Elia. In epoca ellenistica questo Baal fu identificato dai Greci con Zeus Hypsistos (Altissimo), e sotto l’epiteto di Theos Hagios Ouranios, «Dio Santo Celeste», fu venerato sino al III secolo della nostra era nel tempio tirio di Qadeš, all’estremo nord della Galilea (Tell Qedeš, 10 chilometri a nord del sito di Hazor).
Certo, il Dio d’Israele ha creato il cielo (Gn 1,1), che testimonia la sua gloria (Sal 19), e l’Antico Testamento abolisce l’uranolatria. D’altra parte, anche i cieli dovranno essere rinnovati dal Creatore alla fine dei tempi (Is 65,17; Ap 21,1; 6,14). Il cielo, nella maggioranza dei testi, rimane considerato come la dimora di Dio o il suo santuario, di dove egli osserva gli uomini (Sal 33,13-14; 102,20; Is 63,15). Dio è il Dio del cielo (Ne 1,4). verso il quale si alzano le braccia quando si prega (Es 9,29; cf anche 2 Cr 30,27). «Io ho visto il Signore seduto sul trono; tutto l’esercito del cielo gli stava intorno, a destra e a sinistra», proclama il profeta Michea, figlio di Yimla, al re Acab, predicendogli la disfatta contro gli Aramei (1 Re 22, 19): alla pari dei Baal cananei, il Dio dell’Antico Testamento è un re celeste circondato da una corte e da un esercito.
Il cielo giunge anche a designare allusivamente Dio in persona: «Levano la loro bocca fino al cielo», dice il salmo 73,9, dei malvagi… E Daniele (4,23) ingiunge al re Nabucodonosor, se vuole conservare la sua regalità, di riconoscere la sovranità del Cielo, cioè quella del Dio Altissimo. A partire dal libro dei Maccabei (scritto verso il 100 a.C.) questa immagine diventerà molto frequente e s’imporrà nel giudaismo (cf 1 Mac 12,15).

Il Dio del cielo nel Nuovo Testamento
La maggior parte di questi concetti sono ripresi nel Nuovo Testamento (cf At 7,49). Dio è il Dio del cielo (ho Theòs lou ouranou: Ap 11,13). «Chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l’abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso», dice Gesù agli scribi e ai farisei ipocriti (Mt 23,22). L’uso di sostituire il nome del cielo a quello di Dio si generalizza; là dove Matteo parla di «regno dei cieli», Luca e Marco usano «regno di Dio» (es. Mc 1,15 e Mt 4,17). Gesù stesso intrattiene col cielo una relazione molto stretta. Figlio del Padre che è nei cieli (Mt 12,50; 18,19), da lì è venuto e li ritornerà. «Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Eppure nessuno è mai salito al cielo, fuorché il Figlio dell’uomo che è disceso dai cielo», egli confida al fariseo Nicodemo (Gv 3,12-13). È il motivo per cui il cielo stesso riconosce autentica la missione di Cristo aprendosi per lui (Mt 3,6) e mandandogli lo Spirito (Gv 1,32). La risurrezione esalta Gesù nel più alto dei cieli (Eb 4,14; 7,26), dove gli è affidata ogni autorità (Mt 28,1 8), nella Gerusalemme celeste incastonata in uno scrigno cosmico rischiarato da un cielo rinnovato (Ap 3,12; 21,5). Alla fine dei tempi, il Signore «discenderà dal cielo. E prima risorgeranno i morti in Cristo; quindi noi, i vivi, i superstiti. saremo rapiti insieme con loro tra le nuvole, per andare incontro al Signore nell’aria» (1Ts 4,16-17).
Tuttavia abbastanza presto l’insistenza del monoteismo di Israele sulla trascendenza divina portò a riflettere sui limiti provocati da un’associazione troppo stretta di Dio con lo spazio celeste, soprattutto il «nostro» cielo visibile. Il «cielo di Dio» doveva, evidentemente, trovarsi al di là del firmamento, in altri «cieli» che il nostro. Invitava a concludere in questo senso il fatto che nell’ebraico biblico la parola «cielo» si presenta in genere sotto una forma di plurale irregolare (šâmayim, «i cieli»). Forse sotto l’influsso dell’astronomia babilonese, si giunse a concepire una molteplicità di cieli, l’esistenza di un «cielo dei cieli» (Ne 9,6; Dt 10,14); il salmo 108,5-6 sviluppa l’idea di una grandezza di Dio che sorpassa ampiamente i cieli: «La tua bontà è grande fino ai cieli e la tua verità fino alle nubi. Innalzati, Dio, sopra i cieli, su tutta la terra la tua gloria». E in 1 Re 8,27, la straordinaria preghiera di Salomone, che afferma l’onnipotenza e la trascendenza di Dio, arriva a mettere in discussione qualsiasi «localizzazione» del Creatore, che sia nel Tempio di Gerusalemme o in questi «spazi ultrasiderali»: «Ma è proprio vero che Dio abita sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruita!».

Dio più alto del cielo, Dio fuori del cielo
L’immagine di una molteplicità di cieli per tradurre la trascendenza divina ha conosciuto un grande favore nella letteratura apocalittica ebraica tardiva. Nell’Apocalisse e di Albramo (scritta in ebraico verso la fine del I secolo d.C., ma conservata in antico slavo e in rumeno), il patriarca trasportato al settimo cielo, contempla Dio che vi dirige la creazione, «immagine del cielo e di ciò che contiene». Nella seconda lettera ai Corinzi (12,2). Paolo dice a sua volta di avere conosciuto l’esperienza di un’elevazione sino al «terzo» cielo, immagine del paradiso. Così il cielo in cui Dio sta in trono non è il «nostro» cielo immediato «il più scuro, poiché vede tutte le ingiustizie degli uomini (Testamento di Levi, 3, 1).

Per gli gnostici il cielo è male e non vi si trova Dio
Tra i primi ad aver lanciato un’offensiva ben più radicale contro una collocazione di Dio in cielo si pongono probabilmente gli gnostici. Lo gnosticismo, corrente religiosa nata nel II secolo d.C. in Siria-Palestina e in Egitto, alla periferia del giudaismo e del cristianesimo, si caratterizza per una posizione violentemente anticosmica: il mondo materiale, visibile, è male, è opera di un demiurgo pericoloso, di un falso dio nato da una tragica decadenza in seno al divino stesso. Questo dio ingannatore e malvagio, identificato da numerosi gnostici col Dio ebraico, quello dell’Antico Testamento, è all’origine della chiusura delle anime, particelle della luce divina, nei corpi. Egli abita nel cielo che ha creato e dal quale comanda il cosmo empio per mezzo di «Potenze», gli Arconti, la cui tirannide ricorda l’impietosa autorità delle divinità celesti dell’astrologia mesopotamica. Anche il cielo, che appartiene al creato. non è per gli gnostici che un grottesco surrogato della dimora luminosa del vero Padre, del Pro-principe, del vero Dio di cui il demiurgo nasconde all’uomo l’esistenza presentandosi come il solo Creatore. È in se stesso che l’uomo, grazie alla conoscenza (gnosi) di sé rivelata da un inviato della luce, troverà la propria salvezza, non alzando gli occhi verso il cielo. Nel Vangelo secondo Tommaso, trovato a Nag Harnmadi (Alto Egitto) nel 1946, Gesù presentato in questa qualità di inviato della luce (un Gesù doceta, in apparenza d’uomo, non incarnato, perché l’incarnazione non potrebbe essere che una ripugnante commistione del divino con la materia malvagia), afferma con forza: «Se coloro che vi guidano vi dicono: “Ecco, il regno è nei cieli !“. allora gli uccelli del cielo vi precederanno. Se vi dicono che è nel mare, allora vi precedono i pesci. Ma il regno è dentro e al di fuori di voi. Quando voi vi conoscerete, allora sarete conosciuti e saprete che siete i figli del Padre Vivente» (logion 2). Inoltre, aggiunge il Salvatore, «questo cielo passerà e passeranno quelli che sono al di sopra di lui» (logion 11). In modo che lo spazio celeste accessibile allo sguardo dell’uomo non può in alcun caso essere considerato come dimora del divino. E, tutt’al più, la stamberga dell’aborto demiurgico, il tugurio del Creatore geloso e terribile della Scrittura ebraica.
Rivelando il «Padre nostro che è nei cieli», Gesù, per gli gnostici, invita dunque a scoprire il vero Padre che vive nella luce, che non abita il cielo cosmico, ma nei cieli dei cieli, gli eoni degli eoni che sono evidentemente al di fuori dello spazio. E il motivo per cui taluni testi gnostici. che evocano la liberazione dell’anima che ritorna verso la luce da cui proviene, descrivono questo processo come un’ascensione non verso il «cielo», ma verso una serie di cieli successivi (sino al decimo nell’Apocalisse di Paolo), la cui moltiplicazione tradisce il discredito gettato sul cielo siderale, cosmico, assolutamente lontano dalla trascendenza divina, Vi è in questo una svolta ed un chiaro superamento del tema della pluralità dei cieli dell’apocalittica ebraica. Nemmeno il «settimo» cielo trova grazia agli occhi degli gnostici e L’ipostasi degli Arconti (un altro testo di Nag Hammadi) vi colloca il trono del false «dio delle forze», Sabaoth Per loro, il cielo è decisamente spogliato del prestigio di essere la casa di Dio e il luogo della salvezza dell’uomo.

Oggi, il disincanto verso il cielo?
In questo modo gli gnostici annunciano il «disincanto» o la «demitizzazione» con cui l’esegesi esistenziale del luterano Rudolf Bultmann (1884- 1976) purgherà il cielo cristiano, non vedendovi altro che un’immagine della trascendenza divina legata alle strette costrizioni delle rappresentazioni cosmiche proprie al mondo antico. Gesù, «disceso dal cielo», secondo il simbolo niceno (cf anche Gv 3,13 e 6,51), vi «risale» all’Ascensione per sedere alla destra del Padre (cf Gv 3,13; 6,62; 20,17; Ef 4,9-10): per la fede moderna, si comprende questa affermazione della fede della Chiesa come una metafora che indica l’ingresso di Gesù nella gloria del Padre, un mistero indicibile di cui gli apostoli ebbero un’esperienza che può essere espressa soltanto in maniera simbolica. Il rapimento (analépsis, cf Lc 24,5) o la salita (anábasis, cf Gv 20,17) di Gesù «al cielo», evidente ricordo del viaggio celeste di Elia o di Enoch nell’Antico Testamento, di Esdra, di Baruc, di Mosè, d’Abramo o di Levi negli scritti intertestamentari, è indissociabile dal mistero della sua risurrezione. Esso esprime la sua vittoria sulla morte, la sua intimità col Padre, la promessa all’uomo della vita eterna. Come scrive Leone Magno (papa dal 440 al 461), «L’ascensione di Cristo è dunque la nostra propria elevazione e, là dove in precedenza è andata la gloria del capo, là è chiamata anche la speranza del corpo». Così il cielo, dimora di Dio, diventa per i cristiani speranza e luogo simbolico della salvezza.
Se la scienza moderna ha largamente contribuito a disincantare il cielo, essa ha nello stesso tempo rivelato l’immensità prima impensabile degli spazi intersiderali, dell’universo intergalattico che, oggi forse più ancora di ieri, attraverso la sua misteriosa relazione col tempo, con l’Essere, col divenire, appare come il santuario simbolico del Creatore. È là, nel cuore del mistero dell’essere di cui l’universo conserva la lunga memoria, che noi continuiamo, se non a collocare, perlomeno ad imparare a conoscere il «Padre nostro che è nei cieli».

da “Il cielo nella Bibbia”, ne Il mondo della bibbia, 61 (2002), n. 1, pp. 13-17, tr. dal francese di R. Bertazzoli.

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SS. Pietro e Paolo

SS. Pietro e Paolo dans immagini sacre jpg_Pierre-_-Paul-avec-une-ame-
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Publié dans:immagini sacre |on 27 juin, 2014 |Pas de commentaires »

COSÌ PAPA PIO XII NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI E MARTIRI PIETRO E PAOLO DEL 1941

http://www.30giorni.it/articoli_supplemento_id_22115_l1.htm

NELLA TEMPESTA, LA TENEREZZA DEL SIGNORE PER I SUOI FANCIULLI – COSÌ PAPA PIO XII NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI E MARTIRI PIETRO E PAOLO DEL 1941

«Il Padre celeste continua e continuerà a guidare i loro passi di fanciulli con fermezza e tenerezza, solo che si lascino condurre da Lui e confidino nella potenza e nella saggezza del suo amore per loro». Così papa Pio XII nella solennità dei santi apostoli e martiri Pietro e Paolo del 1941

In questa solennità dei santi apostoli Pietro e Paolo, il vostro devoto pensiero e affetto, diletti figli della Chiesa cattolica universa, si rivolge a Roma con la strofa trionfale: «O Roma felix, quae duorum Principum – es consecrata glorioso sanguine! / O Roma felice, che sei stata consacrata dal sangue glorioso di questi due Principi!». Ma la felicità di Roma, che è felicità di sangue e di fede, è pure la vostra; perché la fede di Roma, qui sigillata sulla destra e sulla sinistra sponda del Tevere col sangue dei Principi degli apostoli, è la fede che fu annunziata a voi, che si annunzia e si annunzierà nell’universo mondo. Voi esultate nel pensiero e nel saluto di Roma, perché sentite in voi il balzo della universale romanità della vostra fede.
Da diciannove secoli nel sangue glorioso del primo Vicario di Cristo e del Dottore delle Genti la Roma dei Cesari fu battezzata Roma di Cristo, a eterno segnale del principato indefettibile della sacra autorità e dell’infallibile magistero della fede della Chiesa; e in quel sangue si scrissero le prime pagine di una nuova magnifica storia delle sacre lotte e vittorie di Roma.
Vi siete voi mai domandati quali dovevano essere i sentimenti e i timori del piccolo gruppo di cristiani sparsi nella grande città pagana, allorché, dopo aver frettolosamente sepolti i corpi dei due grandi martiri, l’uno al piede del Vaticano e l’altro sulla via Ostiense, si raccolsero i più nelle loro stanzette di schiavi o di poveri artigiani, alcuni nelle loro ricche dimore, e si sentirono soli e quasi orfani in quella scomparsa dei due sommi apostoli? Era il furore della tempesta poco prima scatenata sulla Chiesa nascente dalla crudeltà di Nerone; davanti ai loro occhi si levava ancora l’orribile visione delle torce umane fumanti a notte nei giardini cesarei e dei corpi lacerati palpitanti nei circhi e nelle vie. Parve allora che l’implacabile crudeltà avesse trionfato, colpendo e abbattendo le due colonne, la cui sola presenza sosteneva la fede e il coraggio del piccolo gruppo di cristiani. In quel tramonto di sangue, come i loro cuori dovevano provare la stretta del dolore al trovarsi senza il conforto e la compagnia di quelle due voci potenti, abbandonati alla ferocia di un Nerone e al formidabile braccio della grandezza imperiale romana!
Ma contro il ferro e la forza materiale del tiranno e dei suoi ministri essi avevano ricevuto lo Spirito di forza e di amore, più gagliardo dei tormenti e della morte. E a Noi sembra di vedere, alla susseguente riunione, nel mezzo della comunità desolata, il vecchio Lino, colui che per primo era stato chiamato a sostituire Pietro scomparso, prendere fra le sue mani tremanti di emozione i fogli che conservavano preziosamente il testo della Lettera già inviata dall’apostolo ai fedeli dell’Asia Minore e rileggervi lentamente le frasi di benedizione, di fiducia e di conforto: «Benedetto Dio, Padre del Signore Nostro Gesù Cristo, il quale secondo la sua grande misericordia ci ha rigenerati a una viva speranza, mediante la risurrezione di Gesù Cristo… Allora voi esulterete, se per un poco adesso vi conviene di essere afflitti con varie tentazioni… Umiliatevi dunque sotto la potente mano di Dio… gettando in Lui ogni vostra sollecitudine, poiché Egli ha cura di voi… Il Dio di ogni grazia, il quale ci ha chiamati all’eterna sua gloria in Cristo Gesù, con un po’ di patire vi perfezionerà, vi conforterà e vi renderà saldi. A Lui la gloria e l’impero per i secoli dei secoli!» (1Pt 1, 3.6; 5, 6-7.10-11).
Anche Noi, cari figli, che per un inscrutabile consiglio di Dio, abbiamo ricevuto, dopo Pietro, dopo Lino e cento altri santi pontefici, la missione di confermare e consolare i nostri fratelli in Gesù Cristo (cfr. Lc 22, 32), Noi, come voi, sentiamo il nostro cuore stringersi al pensiero del turbine di mali, di sofferenze e di angosce, che imperversa oggi sul mondo. […]

Davanti a un tale cumulo di mali, di cimenti di virtù, di prove di ogni sorta, pare che la mente e il giudizio umano si smarriscano e si confondano, e forse nel cuore di più d’uno tra voi è sorto il terribile pensiero di dubbio, che per avventura già, dinanzi alla morte dei due apostoli, tentò o turbò alcuni cristiani meno fermi: Come può Dio permettere tutto questo? Come è possibile che un Dio onnipotente, infinitamente saggio e infinitamente buono, permetta tanti mali a Lui così facili a impedire? E sale alle labbra la parola di Pietro, ancora imperfetto, all’annunzio della passione: «Non sia mai vero, o Signore» (Mt 16, 22). No, mio Dio – essi pensano –, né la vostra sapienza, né la vostra bontà, né il vostro stesso onore possono lasciare che a tal segno il male e la violenza dominino nel mondo, si prendano giuoco di Voi, e trionfino del vostro silenzio. Dov’è la vostra potenza e provvidenza? Dovremo dunque dubitare o del vostro divino governo o del vostro amore per noi?
«Tu non hai la sapienza di Dio, ma quella degli uomini» (Mt 16, 23), rispose Cristo a Pietro, come aveva fatto dire al popolo di Giuda dal profeta Isaia: «I miei pensieri non sono i vostri pensieri, e le vostre vie non sono le mie vie» (Is 55, 8).
Tutti gli uomini sono quasi fanciulli dinanzi a Dio, tutti, anche i più profondi pensatori e i più sperimentati condottieri dei popoli.
Essi vorrebbero la giustizia immediata e si scandalizzano dinanzi alla potenza effimera dei nemici di Dio, alle sofferenze e alle umiliazioni dei buoni; ma il Padre celeste, che nel lume della sua eternità abbraccia, penetra e domina le vicende dei tempi, al pari della serena pace dei secoli senza fine, Dio, che è Trinità beata, piena di compassione per le debolezze, le ignoranze, le impazienze umane, ma che troppo ama gli uomini, perché le loro colpe valgano a stornarlo dalle vie della sua sapienza e del suo amore, continua e continuerà a far sorgere il suo sole sopra i buoni e i cattivi, a piovere sui giusti e sugli ingiusti (Mt 5, 45), a guidare i loro passi di fanciulli con fermezza e tenerezza, solo che si lascino condurre da Lui e confidino nella potenza e nella saggezza del suo amore per loro.
Che significa confidare in Dio?
Aver fiducia in Dio significa abbandonarsi con tutta la forza della volontà sostenuta dalla grazia e dall’amore, nonostante tutti i dubbi suggeriti dalle contrarie apparenze, all’onnipotenza, alla sapienza, all’amore infinito di Dio. È credere che nulla in questo mondo sfugge alla sua Provvidenza, così nell’ordine universale, come nel particolare; che nulla di grande o di piccolo accade se non previsto, voluto o permesso, diretto sempre da Essa ai suoi alti fini, che in questo mondo sono sempre fini di amore per gli uomini. […]

Per la fede che si è illanguidita nei cuori umani, per l’edonismo che informa e affascina la vita, gli uomini sono portati a giudicare come mali, e mali assoluti, tutte le sventure fisiche di questa terra. Hanno dimenticato che il dolore sta all’albore della vita umana come via ai sorrisi della culla; hanno dimenticato che il più delle volte esso è una proiezione della Croce del Calvario sul sentiero della risurrezione; hanno dimenticato che la croce è spesso un dono di Dio, dono necessario per offrire alla divina giustizia anche la nostra parte di espiazione; hanno dimenticato che il solo vero male è la colpa che offende Dio; hanno dimenticato ciò che dice l’Apostolo: «I patimenti del tempo presente non hanno proporzione con la futura gloria che si manifesterà in noi» (Rm 8, 18); che dobbiamo mirare all’autore e consumatore della fede, Gesù, il quale, propostosi il gaudio, sostenne la croce (cfr. Eb 12, 2).
A Cristo crocifisso sul Golgota, virtù e sapienza che converte a sé l’universo, guardarono nelle immense tribolazioni della diffusione del Vangelo, vivendo confitti alla croce con Cristo, i due Principi degli apostoli, morendo Pietro crocifisso, Paolo curvando il capo sotto il ferro del carnefice, quali campioni, maestri e testimoni che nella croce è conforto e salvezza e che nell’amore di Cristo non si vive senza dolore. A questa croce, fulgente di via, di verità e di vita, guardarono i protomartiri romani e i primi cristiani nell’ora del dolore e della persecuzione. Guardate anche voi, o diletti figli, così nelle vostre sofferenze; e troverete la forza non solo di accettarle con rassegnazione, ma di amarle, ma di gloriarvene, come le amarono e se ne gloriarono gli apostoli e i santi, nostri padri e fratelli maggiori, che pure furono plasmati della medesima vostra carne e vestiti della stessa vostra sensibilità. Guardate le vostre sofferenze e gli affanni vostri attraverso i dolori del Crocifisso, attraverso i dolori della Vergine, la più innocente delle creature e la più partecipe della divina Passione, e saprete comprendere che la conformità all’immagine del Figlio di Dio, Re dei dolori, è la più augusta e sicura via del cielo e del trionfo. Non guardate solo le spine, onde il dolore vi affligge e vi fa soffrire, ma ancora il merito che dal vostro soffrire fiorisce come rosa di celeste corona; e troverete allora con la grazia di Dio il coraggio e la fortezza di quell’eroismo cristiano, che è sacrificio e insieme vittoria e pace superante ogni senso; eroismo, che la vostra fede ha il diritto di esigere da voi.
«Finalmente [ripeteremo con le parole di san Pietro] siate tutti unanimi, compassionevoli, amanti dei fratelli, misericordiosi, modesti, umili: non rendendo male per male, né maledizione per maledizione, ma al contrario benedicendo…: affinché in tutto sia onorato Dio per Gesù Cristo: a cui è gloria e impero nei secoli dei secoli» (1Pt 3, 8-9; 4, 11).

BENEDETTO XVI: SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO (2010)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/homilies/2010/documents/hf_ben-xvi_hom_20100629_pallio_it.html

CAPPELLA PAPALE NELLA SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO

SANTA MESSA E IMPOSIZIONE DEL PALLIO AI NUOVI METROPOLITI

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica Vaticana Martedì, 29 giugno 2010

Cari fratelli e sorelle!

I testi biblici di questa Liturgia eucaristica della solennità dei santi Apostoli Pietro e Paolo, nella loro grande ricchezza, mettono in risalto un tema che si potrebbe riassumere così: Dio è vicino ai suoi fedeli servitori e li libera da ogni male, e libera la Chiesa dalle potenze negative. E’ il tema della libertà della Chiesa, che presenta un aspetto storico e un altro più profondamente spirituale.
Questa tematica attraversa tutta l’odierna Liturgia della Parola. La prima e la seconda Lettura parlano, rispettivamente, di san Pietro e di san Paolo sottolineando proprio l’azione liberatrice di Dio nei loro confronti. Specialmente il testo degli Atti degli Apostoli descrive con abbondanza di particolari l’intervento dell’angelo del Signore, che scioglie Pietro dalle catene e lo conduce fuori dal carcere di Gerusalemme, dove lo aveva fatto rinchiudere, sotto stretta sorveglianza, il re Erode (cfr At 12,1-11). Paolo, invece, scrivendo a Timoteo quando ormai sente vicina la fine della vita terrena, ne fa un bilancio consuntivo da cui emerge che il Signore gli è stato sempre vicino, lo ha liberato da tanti pericoli e ancora lo libererà introducendolo nel suo Regno eterno (cfr 2 Tm 4, 6-8.17-18). Il tema è rafforzato dal Salmo responsoriale (Sal 33), e trova un particolare sviluppo anche nel brano evangelico della confessione di Pietro, là dove Cristo promette che le potenze degli inferi non prevarranno sulla sua Chiesa (cfr Mt 16,18).
Osservando bene si nota, riguardo a questa tematica, una certa progressione. Nella prima Lettura viene narrato un episodio specifico che mostra l’intervento del Signore per liberare Pietro dalla prigione; nella seconda Paolo, sulla base della sua straordinaria esperienza apostolica, si dice convinto che il Signore, che già lo ha liberato “dalla bocca del leone”, lo libererà “da ogni male” aprendogli le porte del Cielo; nel Vangelo invece non si parla più dei singoli Apostoli, ma della Chiesa nel suo insieme e della sua sicurezza rispetto alle forze del male, intese in senso ampio e profondo. In tal modo vediamo che la promessa di Gesù – “le potenze degli inferi non prevarranno” sulla Chiesa – comprende sì le esperienze storiche di persecuzione subite da Pietro e da Paolo e dagli altri testimoni del Vangelo, ma va oltre, volendo assicurare la protezione soprattutto contro le minacce di ordine spirituale; secondo quanto Paolo stesso scrive nella Lettera agli Efesini: “La nostra battaglia infatti non è contro la carne e il sangue, ma contro i Principati e le Potenze, contro i dominatori di questo mondo tenebroso, contro gli spiriti del male che abitano nelle regioni celesti” (Ef 6,12).
In effetti, se pensiamo ai due millenni di storia della Chiesa, possiamo osservare che – come aveva preannunciato il Signore Gesù (cfr Mt 10,16-33) – non sono mai mancate per i cristiani le prove, che in alcuni periodi e luoghi hanno assunto il carattere di vere e proprie persecuzioni. Queste, però, malgrado le sofferenze che provocano, non costituiscono il pericolo più grave per la Chiesa. Il danno maggiore, infatti, essa lo subisce da ciò che inquina la fede e la vita cristiana dei suoi membri e delle sue comunità, intaccando l’integrità del Corpo mistico, indebolendo la sua capacità di profezia e di testimonianza, appannando la bellezza del suo volto. Questa realtà è attestata già dall’epistolario paolino. La Prima Lettera ai Corinzi, ad esempio, risponde proprio ad alcuni problemi di divisioni, di incoerenze, di infedeltà al Vangelo che minacciano seriamente la Chiesa. Ma anche la Seconda Lettera a Timoteo – di cui abbiamo ascoltato un brano – parla dei pericoli degli “ultimi tempi”, identificandoli con atteggiamenti negativi che appartengono al mondo e che possono contagiare la comunità cristiana: egoismo, vanità, orgoglio, attaccamento al denaro, eccetera (cfr 3,1-5). La conclusione dell’Apostolo è rassicurante: gli uomini che operano il male – scrive – “non andranno molto lontano, perché la loro stoltezza sarà manifesta a tutti” (3,9). Vi è dunque una garanzia di libertà assicurata da Dio alla Chiesa, libertà sia dai lacci materiali che cercano di impedirne o coartarne la missione, sia dai mali spirituali e morali, che possono intaccarne l’autenticità e la credibilità.
Il tema della libertà della Chiesa, garantita da Cristo a Pietro, ha anche una specifica attinenza con il rito dell’imposizione del Pallio, che oggi rinnoviamo per trentotto Arcivescovi Metropoliti, ai quali rivolgo il mio più cordiale saluto, estendendolo con affetto a quanti hanno voluto accompagnarli in questo pellegrinaggio. La comunione con Pietro e i suoi successori, infatti, è garanzia di libertà per i Pastori della Chiesa e per le stesse Comunità loro affidate. Lo è su entrambi i piani messi in luce nelle riflessioni precedenti. Sul piano storico, l’unione con la Sede Apostolica assicura alle Chiese particolari e alle Conferenze Episcopali la libertà rispetto a poteri locali, nazionali o sovranazionali, che possono in certi casi ostacolare la missione della Chiesa. Inoltre, e più essenzialmente, il ministero petrino è garanzia di libertà nel senso della piena adesione alla verità, all’autentica tradizione, così che il Popolo di Dio sia preservato da errori concernenti la fede e la morale. Il fatto dunque che, ogni anno, i nuovi Metropoliti vengano a Roma a ricevere il Pallio dalle mani del Papa va compreso nel suo significato proprio, come gesto di comunione, e il tema della libertà della Chiesa ce ne offre una chiave di lettura particolarmente importante. Questo appare evidente nel caso di Chiese segnate da persecuzioni, oppure sottoposte a ingerenze politiche o ad altre dure prove. Ma ciò non è meno rilevante nel caso di Comunità che patiscono l’influenza di dottrine fuorvianti, o di tendenze ideologiche e pratiche contrarie al Vangelo. Il Pallio dunque diventa, in questo senso, un pegno di libertà, analogamente al “giogo” di Gesù, che Egli invita a prendere, ciascuno sulle proprie spalle (cfr Mt 11,29-30). Come il comandamento di Cristo – pur esigente – è “dolce e leggero” e, invece di pesare su chi lo porta, lo solleva, così il vincolo con la Sede Apostolica – pur impegnativo – sostiene il Pastore e la porzione di Chiesa affidata alle sue cure, rendendoli più liberi e più forti.
Un’ultima indicazione vorrei trarre dalla Parola di Dio, in particolare dalla promessa di Cristo che le potenze degli inferi non prevarranno sulla sua Chiesa. Queste parole possono avere anche una significativa valenza ecumenica, dal momento che, come accennavo poc’anzi, uno degli effetti tipici dell’azione del Maligno è proprio la divisione all’interno della Comunità ecclesiale. Le divisioni, infatti, sono sintomi della forza del peccato, che continua ad agire nei membri della Chiesa anche dopo la redenzione. Ma la parola di Cristo è chiara: “Non praevalebunt – non prevarranno” (Mt 16,18). L’unità della Chiesa è radicata nella sua unione con Cristo, e la causa della piena unità dei cristiani – sempre da ricercare e da rinnovare, di generazione in generazione – è pure sostenuta dalla sua preghiera e dalla sua promessa. Nella lotta contro lo spirito del male, Dio ci ha donato in Gesù l’“Avvocato” difensore, e, dopo la sua Pasqua, “un altro Paraclito” (cfr Gv 14,16), lo Spirito Santo, che rimane con noi per sempre e conduce la Chiesa verso la pienezza della verità (cfr Gv 14,16; 16,13), che è anche la pienezza della carità e dell’unità. Con questi sentimenti di fiduciosa speranza, sono lieto di salutare la Delegazione del Patriarcato di Costantinopoli, che, secondo la bella consuetudine delle visite reciproche, partecipa alle celebrazioni dei Santi Patroni di Roma. Insieme rendiamo grazie a Dio per i progressi nelle relazioni ecumeniche tra cattolici ed ortodossi, e rinnoviamo l’impegno di corrispondere generosamente alla grazia di Dio, che ci conduce alla piena comunione.
Cari amici, saluto cordialmente ciascuno di voi: Signori Cardinali, Fratelli nell’Episcopato, Signori Ambasciatori e Autorità civili, in particolare il Sindaco di Roma, sacerdoti, religiosi e fedeli laici. Vi ringrazio per la vostra presenza. I santi Apostoli Pietro e Paolo vi ottengano di amare sempre più la santa Chiesa, corpo mistico di Cristo Signore e messaggera di unità e di pace per tutti gli uomini. Vi ottengano anche di offrire con letizia per la sua santità e la sua missione le fatiche e le sofferenze sopportate per la fedeltà al Vangelo. La Vergine Maria, Regina degli Apostoli e Madre della Chiesa, vegli sempre su di voi, in particolare sul ministero degli Arcivescovi Metropoliti. Col suo celeste aiuto possiate vivere e agire sempre in quella libertà, che Cristo ci ha guadagnato. Amen.

Sacro Cuore di Gesù

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J. V. BAINVEL – LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ LA SUA DOTTRINA E LA SUA STORIA – 2007

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J. V. BAINVEL – LA DEVOZIONE AL S. CUORE DI GESÙ LA SUA DOTTRINA E LA SUA STORIA – 2007

INTRODUZIONE

Il culto del sacro Cuore di Gesù, quale è riconosciuto e praticato dalla Chiesa, non si fonda né riposa sulle rivelazioni di santa Margherita Maria, così come la festa del Corpus Domini non si fonda su quelle della beata Giuliana di Mont-Cornillon.
Nell’uno, come nell’altro caso, la Chiesa ha riguardato il culto in se stesso e nella sua diffusione ed Essa si è pronunziata sul culto, senza però pronunziarsi sulle rivelazioni. Tuttavia, le rivelazioni hanno influito molto sul movimento verso la devozione. Santa Margherita Maria, come la beata Giuliana, è stata certamente lo strumento provvidenziale. La devozione al sacro Cuore, quale la Chiesa l’ha accolta e fatta sua, è la stessa che la santa dice di esserle stata rivelata da Gesù, quella ch’essa ebbe missione di propagare.
È questo un fatto evidente.
La constatazione del fatto, per se stessa, non implica un giudizio fermo e decisivo sulle visioni della santa. Ma obbliga a studiarle da vicino, perché esse dominano tutta la storia della devozione, e perché la devozione si presenta come un fatto storico, quanto e forse più che come una verità teologica. Santa Margherita Maria ha, per dir così, come accesa la fiaccola: questa ha alimentato la devozione, e l’ha trasmessa agli altri. Di mano in mano, il culto si è diffuso, fino a divenire un culto cattolico, un culto pubblico nella Chiesa, avente le sue feste e le sue pratiche autorizzate. Altri, prima di lei, avevano avuto la devozione al sacro Cuore ed avevano lavorato per propagarla. Ma il culto, che è divenuto il culto pubblico del sacro Cuore, ha avuto il suo primo focolare nel cuore della santa.
Dunque, per ben conoscere la questione, è necessario, innanzi tutto, di sapere ciò che è la devozione secondo la santa, e come essa ce la presenta. Solamente dopo aver fatto questo, si può farne la teologia e studiarne lo sviluppo storico. Il nostro lavoro comprenderà dunque tre parti, e cioè:
I. – La devozione al sacro Cuore, secondo santa Margherita Maria.
II. – La teologia della devozione al sacro Cuore.
III. – Lo sviluppo storico della devozione al sacro Cuore.

PARTE PRIMA
LA DEVOZIONE AL SACRO CUORE
SECONDO SANTA MARGHERITA MARIA

CAPITOLO PRIMO
GLI SCRITTI DI SANTA MARGHERITA MARIA E LE GRANDI APPARIZIONI
Si può dire con tutta verità che, sia negli scritti, come nella vita della santa, tutto converge direttamente o indirettamente, verso il sacro Cuore. È molto bene perciò di farsene una idea chiara e precisa. Due questioni ci si presentano: l) Che cosa abbiamo in fatto di scritti della santa? – 2) Quanta sicurezza abbiamo, di possedere realmente il testo della santa?

I. – GLI SCRITTI
Gli scritti sono raccolti quasi tutti in Vie et Oeuvres. Qualcuno si trova nel primo tomo delle Contemporaines, altri occupano il tomo secondo, altri, finalmente, non sono stati conosciuti e identificati che dal 1876, e hanno dovuto aspettare, per trovare il loro posto, la terza edizione della Vie et Oeuvres di Mons. Gauthey.
Prescindendo da un esame strettamente analitico e dalle questioni relative alla pubblicazione degli scritti di Santa Margherita Maria, è necessario e conveniente ricordare per sommi capi, gli editori delle opere della santa.
Le editrici di Paray hanno riprodotto con cura (la parte qualche leggero errore o correzione di dettaglio) gli autografi, quando sono stati conosciuti. Per il resto, hanno dovuto ricorrere ai testi stampati o alle copie manoscritte. Il P. di Galliffet aveva pubblicato la Mémoire della santa; Languet aveva dato molti testi forniti dalle Contemporaines; Croiset aveva inserito nel suo Abregé lunghi frammenti di lettere: gli editori del B. de la Colombière, avevano unito, alle note di ritiro spirituale, un biglietto della santa, e il racconto della grande apparizione che il Padre aveva trascritto.
Ma in quel tempo non venne a nessuno l’idea di pubblicare, gli scritti della santa, tali come sono, mancanti di ortografia e di stile letterario. Ciascuno ritoccava il testo che pubblicava. Si ritoccava perfino copiando; le Contemporaines, accomodavano, a piacer loro, i testi che trascrivevano per le suore o per Mons. Languet; Mons. Languet faceva lo stesso in vista del pubblico. Quando non si faceva per incoscienza, si ritoccavano quasi per istinto[1].
E ciò si rileva confrontando i testi stampati con gli autografi e anche confrontando i testi stampati fra di loro; non se ne trovano due che si somiglino esattamente.
In compenso però, questo confronto ci prova che i ritocchi non sono che nella forma. Vi si riscontrano delle soppressioni spiacevoli, e delle trasposizioni infelici; ma il pensiero non è stato mai falsato. In sostanza, non sono stati fatti che dei ritocchi di grammatica o di stile.
In quanto alle lettere, scritte al P. Croiset, il manoscritto d’Avignone è esatto, meno qualche soppressione. Fra le altre garanzie, abbiamo l’autografo della seconda lettera. L’edizione di Tolosa è imperfetta, ma ci dà il testo del manoscritto. Quando se ne allontana, lo indica spesso, ma non sempre[2].
La lettera, o frammento di lettera, CXXXII (CXXXIV)[3] dà maggiore incertezza. Lo stile ha una fermezza virile, il tono è di una decisione e una sicurezza molto rare nella santa; lo sviluppo ha una portata e una impronta tutta oratoria. Questi dati e altri ancora fanno pensare al B. de la Colombière. Di più, fra le diverse edizioni si riscontra con qualche cambiamento di parole, una differenza nell’ordine dei paragrafi e a tutto questo si unisce il vago della designazione del destinatario. Così siamo condotti a domandarci se non avessimo là un’eco della santa, visibilmente fedele, piuttosto che il suono stesso della sua voce.
Si vorrebbe ritrovare in questa lettera quella che il B. de la Colombière dice avere scritto a uno dei suoi amici di Francia, per raccomandargli l’amabile devozione del sacro Cuore e per spingerlo a farsene l’apostolo. Certo, e su quel tono che dovette parlargli. Però le promesse sono di una ampiezza, di una precisione che non s’incontrano in altri scritti della santa avanti gli ultimi anni della sua vita. Di più, il P. Croiset le dà come di Margherita Maria, ciò che non permette più di dubitare. In ogni modo, risulta evidente che le cose espresse e le espressioni medesime, nell’insieme, sono della santa.
Questa conclusione, che s’impone per il più dubbio dei documenti, presentatici dalle editrici di Paray, a parte sempre l’eccezione già segnalata della lettera CXXXI (CXXXIII), s’impone a più forte ragione per tutto il resto. Noi abbiamo negli scritti editi di Margherita Maria, il suo pensiero e, salvo qualche dettaglio secondario, le espressioni sue proprie.
Senza far tante critiche, basta leggere per esserne convinti. Vi sono delle cose che non s’inventano né si imitano. Ogni lettore non prevenuto è invaso da quella unzione penetrante, e soave dell’ardente carità del Salvatore, che Margherita Maria prometteva agli apostoli del sacro Cuore, in nome di Gesù medesimo. È una delle ragioni, che ce la farà citare largamente. A chi, infatti, a chi chiederemo il racconto di queste esperienze intime, se non a quella che le ha provate? Chi può meglio iniziarci alla devozione del sacro Cuore di lei, che l’apprese dallo stesso Gesù, che l’ha vissuta nella sua pienezza, che ha ricevuto missione di propaganda?
***
Le visioni di Margherita Maria non si contano. In più d’una si riscontrano dei tratti utili per conoscere la devozione al sacro Cuore; ce ne serviremo all’occasione.
Ma non è la devozione privata di Margherita Maria che ci preme di studiare principalmente, né le sue relazioni personali col sacro Cuore; così ci fermeremo, senz’altro, alle grandi rivelazioni che le furono fatte in vista del culto pubblico che nostro Signore voleva stabilire per mezzo suo-

II. – LA PRIMA DELLE GRANDI APPARIZIONI
Margherita Maria nella sua lettera al p. Croiset, in data 3 novembre 1689, segnala come « prima grazia speciale » avente un rapporto diretto con la sua missione e col culto del sacro Cuore, quella che ricevette nel giorno di San Giovanni Evangelista. Ella non ce ne indica l’anno, ma dovette essere il 1673.
A somiglianza di Santa Gertrude, fu ammessa, in simile giorno, a «riposare per più ore su quel sacro petto» e ricevé da quest’amabile Cuore delle grazie così preziose che il solo ricordo bastava, come ella dice, a «metterla fuori di sé».
La santa, aggiunge che non stima «necessario lo specificarle», ma ne ha conservato molto vivamente «il ricordo e l’impressione».
Ne parla pure in questi termini alla Madre de Saumaise, in una lettera scritta nel gennaio 1685[4]. «Lo Sposo divino, dice ella, mi fece la grazia incomprensibile e di cui sono così indegna, di farmi riposare sul suo seno, col suo discepolo prediletto e di darmi il suo cuore, la sua croce e l’amar suo». Ma, fortunatamente, abbiamo ancora qualcosa di meglio di queste allusioni e impressioni personali in cui, infine, niente indica una missione speciale. La Mémoire scritta per ordine del P. Rolin, ci dà dei dettagli preziosi e precisi.
Margherita Maria si trovava innanzi al Santissimo Sacramento. Nostro Signore la fece riposare molto a lungo sul suo petto divino; le scoprì le meraviglie del suo amore e i segreti inesplicabili del suo sacro Cuore, «segreti, dice ella, che Gesù le aveva tenuto nascosti sino allora». Egli le mostrò il suo Cuore e le disse: «Il mio Cuore è sì appassionato d’amore per gli uomini, e in particolare per te, che, non potendo più contenere in sé le fiamme della sua ardente carità, bisogna che le espanda per mezzo tuo e che si manifesti a loro, per arricchirli dei suoi preziosi tesori. Nel mio Cuore vi è tutto quello che abbisogna per ritrarli dalla perdizione. «Io ti ho scelta, soggiunse, per il compimento di questo gran disegno, siccome un abisso d’indegnità e d’ignoranza,affinché tutto sia fatto da me». Segue qui una di quelle scene simboliche frequenti nelle vite dei santi. Gesù prese il cuore della sua serva e lo mise nel suo adorabile. Lo ritrasse poi come una fiamma ardente, in forma di cuore e lo rimise al suo posto, dicendo fra le altre cose: «Sino ad ora tu non ti sei chiamata che mia schiava; ma io ti do il nome di diletta discepola del mio sacro Cuore».
Così il sacro Cuore si rivela, si mostra appassionato d’amore per gli uomini; vuol manifestarsi loro e arricchirli dei suoi tesori di santificazione e di salute. Margherita Maria è lo strumento che egli ha scelto per i suoi disegni.

III. – LA SECONDA GRANDE APPARIZIONE
Dopo aver detto al P. Croiset, nella lettera suaccennata, che non stima necessario di specificare cosa alcuna, aggiunge subito: «Dopo questo, il divin Cuore mi si presentò etc…» e segue una descrizione dettagliata e il racconto d’una visione.
Ci siamo domandati se si trattasse di una scena distinta dalla precedente, o solamente di nuovi dettagli della stessa scena. Le maggiori verosimiglianze sono per una scena distinta, perché qui la santa specifica e perché le circostanze sono tutt’altre.
Ma poco importa la circostanza del tempo, purché si osservi e si noti il progresso nella manifestazione del sacro Cuore.
Noi abbiamo adesso una visione simbolica dello stesso Cuore, al di fuori del corpo che non apparisce. Egli era «come su di un trono di fiamme, più risplendente del sole, trasparente come il cristallo e con la sua piaga adorabile. Era circondato da una corona di spine sormontato da una croce». Dopo avere spiegato 1′emblema delle spine e della croce, la santa aggiunge: «Egli mi fece vedere che il suo ardente desiderio, d’essere amato dagli uomini e di ritrarli dalla via della perdizione dove Satana li precipita in gran numero, gli aveva fatto formare il disegno di manifestare agli uomini il suo Cuore, con tutti i tesori di amore, di misericordia, di grazia, di santificazione e salute che contiene».
Ma che cosa ci vuole, per aver parte a tutti questi tesori del cuore di Dio? «Onorarlo sotto la figura di questo cuore di carne». Seguono delle promesse di grazie e di benedizione per coloro che avrebbero onorato anche l’immagine di questo sacro Cuore. Questa devozione, continua la santa, ripetendo le parole di nostro Signore, è come un ultimo sforzo del suo amore, che voleva favorire gli uomini in questi ultimi secoli di una specie di redenzione amorosa, per ritrarli dall’impero di Satana e per metterli, nella dolce libertà del regno dell’amor suo. «Ecco, concluse nostro Signore, ecco i disegni per i quali ti ho scelta».
Non abbiamo qui solamente il sacro Cuore scoperto; vi è il desiderio, chiaramente manifestato, di un culto speciale, con delle promesse magnifiche, per una delle forme di questo culto (l’onore reso alla immagine); vi è lo scopo indicato da Gesù medesimo, con la missione di Margherita Maria, annunziata e specificata. Tutto questo sta per delinearsi sempre più.

IV. – LA TERZA GRANDE APPARIZIONE
Sino ad ora le grandi apparizioni ci hanno mostrato il sacro Cuore pieno di amore e di grazie, desideroso di spanderle e chiedendo un culto di amore e di onore. Noi vedremo ora questo amore come sconosciuto e implorante un culto di amore e di riparazione. È ancora la Mémoire che ci fa conoscere questa nuova apparizione.
Nessuna data. Il contesto, però, sembra indicare un primo venerdì del mese e viene notata espressamente la circostanza che il Santissimo Sacramento era esposto. Qualche autore la fissa in un giorno dell’ottava del Corpus Domini; altri il 2 luglio, festa della Visitazione, l’anno 1674 Secondo il nostro punto di vista, per altro, la data precisa importa poco.
Un giorno dunque, che il Santissimo Sacramento era esposto, nostro Signore si presentò a lei, «tutto risplendente di gloria, con le cinque piaghe che scintillavano come cinque soli… Da questa sacra umanità si sprigionavano come delle fiamme da ogni parte, ma soprattutto dal suo petto adorabile, sì che rassomigliava una fornace». Il petto si aprì, lasciando scoperto «l’amantissimo e amabilissimo Cuore, che era la viva sorgente di quelle fiamme». Nostro Signore le fece vedere le «meraviglie inesplicabili del suo puro amore, e sino a quale eccesso egli aveva amato gli uomini»; ma che, purtroppo, non riceveva in compenso che «ingratitudine e sconoscenza e ciò, le disse il divin Maestro, essergli molto più sensibile di tutto quello che aveva sofferto nella sua passione». «Se essi, aggiungeva Egli, mi dessero qualche corrispondenza di amore, stimerei poco tutto quello che ho fatto per loro e, se fosse possibile, vorrei fare ancora di più; ma essi non hanno che della freddezza e della repulsione per tutte le mie sollecitudini nel far loro del bene».
Questo amore sconosciuto domanda una riparazione, e la domanda, per primo, alla sua serva diletta. «Tu almeno, le dice, tu dammi questa consolazione, di supplire alla loro ingratitudine, per quanto puoi esserne capace». Margherita Maria gli espose allora umilmente la sua impotenza, ma: «Tieni, diss’egli, ecco con che supplire a tutto quello che ti manca». E ciò dicendo, dischiuse il suo cuore e né uscì una fiamma sì ardente, che ella credé rimanerne consunta. Non potendo più sostenerne l’ardore, gli chiese di aver pietà della sua debolezza, al che Egli rispose: «Io sarò la tua forza». Allora le indicò delle pratiche speciali, da farsi in questo spirito di amore riparatore. « In primo luogo mi riceverai nel Santo Sacramento, quante più volte ti sarà permesso dall’obbedienza… di più farai la Comunione ogni primo venerdì del mese ». Nostro Signore vuole di più che ella partecipi alla mortale tristezza a cui si sottomise nel giardino degli Ulivi, tutte le notti dal giovedì al venerdì. « Per accompagnarmi nell’umile preghiera ch’io rivolsi al Padre mio, fra tutte le mie angosce, ti alzerai fra le undici e mezzanotte, e ti prostrerai in unione a me, per un’ora, con la faccia contro terra, sia per placare la collera divina, implorando misericordia pei peccatori, sia per addolcire, in qualche modo, l’amarezza ch’io risentii per l’abbandono dei miei apostoli. Durante quel1′ ora, farai quello che io ti insegnerò « .
Qui, come ben si vede, la devozione si delinea come una devozione d’amore riparatore, verso l’amore disconosciuto; di affettuosa compassione verso l’amore sofferente e, in qualche modo, di unione amorosa a Gesù, vittima per l’amore degli uomini e implorante, per loro, misericordia e perdono. Nostro Signore non ne fa qui la domanda che a Margherita Maria; ma queste pratiche, della comunione frequente in spirito di riparazione e di amore, della comunione dei primi venerdì del mese o comunione riparatrice, dell’ Ora santa o veglia nel giardino degli Ulivi, si sono generalizzate, sin dal principio, siccome quelle che ben rispondevano allo spirito della devozione. Le ritroveremo sulla nostra via. Nostro Signore, del resto, sta per generalizzarle e precisarle da se stesso.

V. – LA GRANDE APPARIZIONE
Eccoci arrivati a quella che si può chiamare la grande apparizione fra le grandi apparizioni. Il B. de la Colombière, che vi era interessato, ne ebbe conoscenza nel primi giorni che seguirono l’avvenimento, e ne fece fare il racconto dalla santa. È questo stesso racconto che, trascritto da lui, nel suo ritiro di Londra, febbraio 1677, fu pubblicato, col giornale dei suoi ritiri spirituali, e abbandonò al pubblico il segreto delle apparizioni, senza però designare ai non iniziati, né il monastero, né la veggente. È questo stesso racconto che si ritrova, con qualche leggera, variante, nella Mémoire autographe, trascritto, molto probabilmente, dalla santa stessa, sulla edizione del B. de la Colombière[5].
L’apparizione ebbe luogo nell’ottava del Corpus Domini. L’anno non è indicato; ma siccome il B. de la Colombière si trovava a Paray, non poté essere che nel 1675 o, al più, nel 1676. Però, tutto porta a preferire la data del 1675, indicata dalle Contemporanee. Siccome d’altronde, vi sono delle ragioni, non però decisive, di credere che abbia avuto luogo la domenica, si può fissarla al 1675, come si è fatto ripetutamente. Ecco il racconto come si trova nella Mémoire autographe:
La santa era innanzi al SS.mo Sacramento, e Dio la ricolmava «delle grazie eccessive dell’amor suo», Siccome ella desiderava rendergli amore per amore, per contraccambiarne1o, in qualche modo, egli le disse: «Tu non puoi danni contraccambio più grande, che facendo quello che ti ho gIà chiesto tante volte». Nulla, però, indica chiaramente, a che cosa facciano allusione queste parole. S’intuisce che si tratti di eseguire le intenzioni del divino Maestro, con lo stabilire il culto del sacro Cuore; ma potrebbe ancora darsi che si trattasse di comunicare alla sua superiora o al suo direttore, quelle stesse intenzioni del Salvatore. Nostro Signore, del resto, sta per manifestare apertamente ciò che desidera. «Ecco, le dice, ecco questo Cuore che ha tanto amato gli uomini, che non ha risparmiato nulla, sino a esaurirsi e consumarsi per testimoniar loro il suo amore. E per riconoscenza, non ricevo, dalla maggior parte, che della ingratitudine, per le loro irriverenze e i loro sacrilegi, per la freddezza e il disprezzo che hanno per me, in questo sacramento d’amore. Ma, quello che mi è ancor più sensibile, si è che sieno dei cuori a me consacrati che agiscono così»[6].
Sin qui non si riscontra nulla di molto nuovo, in questa apparizione, tolta la menzione speciale degli oltraggi ricevuti nell’Eucaristia. Ciò che segue, però, è intieramente nuovo. Nostro Signore aggiunge: «È per questo che io ti chiedo che il primo venerdì, dopo l’ottava del SS.mo Sacramento, sia dedicato a una festa particolare per onorare il mio Cuore, facendo la comunione in quel giorno, e offrendogli una riparazione d’amore, con una ammenda onorevole, per le indegnità che ha ricevuto mentre era esposto sugli altari». Nostro Signore domanda dunque un culto pubblico, che abbia la sua festa, e delle pratiche determinate. «Io ti prometto, continuò, che il mio cuore si dilaterà, per spandere con abbondanza le effusioni del suo divino amore, su coloro che gli renderanno questo amore, o procureranno che gli sia reso»[7]. Ma come stabilire questa festa? È la terza fase dell’apparizione. Nella sua Mémoire, la santa abbrevia un poco; ma, nel racconto scritto per il B. de la Colombière, la scena si anima: «Ma, Signor mio, a chi vi rivolgete voi dunque?» E Margherita Maria insiste sulla sua indegnità di miserabile creatura, di povera peccatrice. «Oh! povera innocente che sei, le rispose nostro Signore, non sai tu forse che io mi servo dei soggetti più deboli, per confondere i forti?» – «Datemi dunque, diss’ella, il mezzo di fare quello che mi comandate». – «Rivolgiti al mio servo (Gesù designò il B. de la Colombière, che era allora superiore della piccola residenza dei Gesuiti a Paray), e digli, da parte mia, di fare tutto quello che gli è possibile per stabilire questa devozione e consolare, così, il mio divin Cuore». Nostro Signore aggiunse che le «difficoltà non gli sarebbero mancate, ma devi sapere che è onnipotente chi diffida di sé e confida in me unicamente».
Con questa apparizione, la devozione al sacro Cuore entrava in una fase nuova, e ciò in due modi. Dapprima, nostro Signore domanda un culto pubblico, e, in particolare, l’istituzione di una festa. Poi i disegni di Gesù si manifestano al di fuori. Sino allora, Margherita Maria ne diceva o scriveva qualche cosa, per la sua superiora e per quelli che essa voleva consultare; ma, molto riservatamente, come si vede nelle note consegnate alla Madre de Saumaise e da lei conservate accuratamente. Invece la comunicazione fatta al B. de la Colombière, fu chiara e completa. D’allora, come meglio vedremo in seguito, i disegni di nostro Signore entrarono in via di esecuzione: la devozione al sacro Cuore cominciò a propagarsi.

V. – IL MESSAGGIO AL RE
Con queste tre o quattro grandi apparizioni, la devozione al sacro Cuore si è costituita da se stessa. Non rimane ora che propagarla. Vedremo come ciò si fece, poco a poco, nei quindici anni che visse ancora Margherita Maria. Sembra che non vi sieno state altre nuove rivelazioni per tredici o quattordici anni, se ne eccettuiamo le promesse di cui parleremo. Nel 1689, però nuovi orizzonti si dischiudono. Gesù vuole che si faccia proposta al re della nuova devozione, che Luigi XIV si consacri al sacro Cuore; che l’onori pubblicamente, che gli consacri una cappella espressamente costruita, e che faccia mettere la sua immagine nelle armi reali e sugli stendardi.
La santa osa appena parlare di questo nuovo desiderio del sacro Cuore, anche con la sua intima confidente, la Madre de Saumaise, tanto sembra andare al di là delle possibilità umane. Ella tuttavia lo effettua, secondo l’impulso che le ne è dato. Fu il 17 giugno 1689, venerdì dopo l’ottava del Corpus Domini (oggi festa del sacro Cuore), che le fu fatta questa nuova rivelazione. Quali furono le circostanze precise che l’accompagnarono? La santa non ce lo dice, ma ancora sotto l »influenza dei lumi ricevuti scrive: «Questo amabile Cuore regnerà, malgrado Satana e i suoi ministri». E dopo aver enumerato le grazie riservate alla Visitazione e i disegni misericordiosi del sacro Cuore per la salute degli uomini, aggiunge che «Gesù ha ancora più grandi disegni, che non possono essere realizzati che dalla sua onnipotenza, che può tutto quello che vuole; che egli desidera entrare con pompa e magnificenza nella casa dei principi e dei re, per esservi tanto onorato quanto fu oltraggiato, disprezzato e umiliato nella sua passione». Bisogna che Egli abbia altrettanta gioia, nel vedere i grandi della terra abbassati e umiliati, dinanzi a Lui, quanta fu l’amarezza che Egli provò, nel vedersi annientato ai loro piedi». La santa ha udito a questo proposito, delle parole precise destinate al re: «Fa’ sapere al figlio primogenito del mio sacro Cuore… che, come la sua nascita temporale fu ottenuta per la devozione ai meriti della mia santa infanzia, così otterrà la nascita alla grazia e la gloria eterna; per la consacrazione che egli farà di se stesso al mio Cuore adorabile, che vuoI trionfare del suo, e per suo mezzo del cuore dei grandi della terra». Qui il messaggio si precisa: «Egli vuole regnare nel suo palazzo, esser dipinto sui suoi stendardi e scolpito sulle armi». «Ella, aggiunge la santa, Ella deve ridere, mia buona Madre, della mia semplicità nel dirle tutto questo; ma seguo l’impulso che me ne è dato». Conchiude col domandare il segreto; ma il segreto non può essere che relativo, poiché si tratta di un messaggio che deve trasmettersi. Ella vi ritorna sopra, perciò (28 agosto 1698), e dilucida qualche punto. «L’eterno Padre, volendo compensare le amarezze e le angosce di cui il Cuore adorabile del suo divin Figlio era stato abbeverato nella casa dei principi della terra, fra le umiliazioni e gli oltraggi della sua passione, vuole stabilire il suo regno nella corte[8] del nostro gran monarca». Si vede che il tono si sublima col soggetto e Dio vuol dunque servirsi del re per l’esecuzione dei suoi disegni… Che cosa si deve fare? «Un edificio, dove sarebbe esposto il quadro del divin Cuore, per ricevervi la consacrazione e gli omaggi del re e di tutta la sua corte».
Il sacro Cuore ha scelto il re come suo fedele amico, per fare autorizzare, dalla Santa Sede, la messa in onor suo e ottenerne tutti gli altri privilegi, che devono accompagnare la devozione di questo sacro Cuore.
In compenso di ciò, egli fa al monarca le più magnifiche promesse di beni temporali e spirituali, per la terra e pel cielo. «Felice lui, conclude la santa, se porrà le sue compiacenze in questa devozione, che gli procurerà un regno eterno di gloria, e di onore, nel sacro Cuore di nostro Signore Gesù Cristo, il quale si prenderà cura d’innalzarlo e renderlo grande nel cielo, innanzi al Padre suo, quanto più questo gran Monarca ne prenderà per rialzare, dinanzi agli uomini, gli obbrobri e gli annientamenti che questo Cuore divino ha sofferto».
Ma come fare arrivare il messaggio al re? Dio conta perciò sul P. della Chaise. «Egli non avrà fatto mai altra azione più utile alla gloria di Dio, più vantaggiosa all’anima sua, e di cui egli, e tutta la sua santa congregazione siano più abbondantemente ricompensati». L’impresa è difficile, ma Dio è al disopra di tutto. La Madre de Saumaise, aveva proposto di scriverne alla superiora di Chailloit, siccome la più adatta a ben avviare la cosa. L’idea fu approvata.
Poco dopo, il 15 settembre 1689, la santa ne scrisse ancora al P. Croiset; ma, siccome essa non gli aveva confidato ancor nulla delle sue visioni, così si contenta di lanciare l’idea, e, pur dicendo di lasciare agire la potenza di questo Cuore adorabile, cerca di mettere il suo corrispondente in traccia di mezzi pratici.
La prova non fu fatta, o non ebbe buon esito, presso Luigi XIV. L’idea però non era morta e i devoti del sacro Cuore continuarono a sperare che i disegni del Cuor di Gesù sarebbero realizzati. La basilica di Montmartre, lo stendardo di Patay, la consacrazione del 1873 a Paray le-Monial sono per essi, nello stesso tempo che un principio di realizzazione, anche una promessa per l’avvenire. Bisogna ricordare ciò per comprendere la devozione del sacro Cuore nel passato, bisogna pur ricordarlo per spiegare il suo carattere sociale nel presente e le sue prospettive per l’avvenire.

VII. – VISIONE DEL 2 LUGLIO 1688
Per realizzare i disegni del sacro Cuore, occorrevano degli strumenti. Per cominciare, nostro Signore aveva scelto una suora della Visitazione e un Gesuita e volle che le Visitandine e i Gesuiti fossero, come d’ufficio, gli apostoli della nuova devozione. Senza escludere nessuna buona volontà, anzi facendo appello a tutte, diede nondimeno incarico a qualcuno di lavorarvi più efficacemente. Ne fece per loro come un dovere di vocazione, promettendo, se fossero stati fedeli all’avuta missione, una più larga parte dei tesori racchiusi nel sacro Cuore.
La scelta divina era già stata quasi annunziata e se ne sono raccolti più di mille indizi. Ma nulla è così chiaro come le parole della santa. Senza fermarsi ai preliminari, tocchiamo, senz’altro, il punto principale.
Il giorno della Visitazione del 2 luglio 1688, Margherita Maria aveva avuto la felicità di passare l’intera giornata dinanzi al SS.mo Sacramento, e il suo Sovrano, come essa dice, «si degnò di gratificare la sua miserabile schiava con molte grazie particolari del suo Cuore amoroso». Le fu rappresentato un luogo molto eminente, spazioso e di bellezza ammirabile nel centro del quale si ergeva un trono in fiamme. Essa vi vide l’amabile Cuore di Gesù, con la sua ferita. Questa ferita proiettava raggi così ardenti e luminosi, che il luogo ne era tutto illuminato e riscaldato. Questa volta il sacro Cuore non era solo. La santa Vergine era da un lato e dall’altro si trovava San Francesco di Sales con il B. de la Colombière. Poi venivano le figlie della Visitazione con i loro buoni angeli accanto, tenendo ciascuno un cuore in mano, probabilmente i cuori dei loro protetti. La santa Vergine, dice la veggente, la invitava con le sue parole materne: «Venite mie figlie dilette, avvicinatevi, perché io voglio rendervi depositarie di questo prezioso tesoro». Segue qualche commentario dal quale risulta chiaramente che il Cuore di Gesù è tutto Gesù e che il dono del Cuore è il dono stesso di Gesù, con tutto il suo amore, tutti i suoi meriti e tutte le sue ricchezze. Continuando a parlare alle figlie della Visitazione, questa regina di bontà disse, mostrando il divin Cuore: «Ecco quel tesoro divino che vi è manifestato particolarmente». Gesù ama il loro istituto «come il suo caro Beniamino», e lo «vuole favorire di questo dono di preferenza a ogni altro». Ma esse non lo hanno già per loro sole; bisogna «che si facciano dispensatrici di questa moneta preziosa», che «cerchino di arriccihirne il mondo, senza tema che venga loro a mancare; perché più ne prenderanno, più troveranno da prenderne». Ecco la parte delle Visitandine, ben chiaramente indicata dalla loro amabile Madre e mediatrice.
Questa Madre di bontà si rivolse allora al B. de la Colombière e gli disse: «E tu, servo fedele del mio divin Figliuolo, tu hai gran parte di questo tesoro prezioso; perché, se è stato assegnato alle figlie della Visitazione di farlo conoscere, amare e distribuire agli altri, è riservato ai Padri della Compagnia di fame vedere e apprezzare l’utilità e il valore affinché se ne tragga profitto, ricevendolo col rispetto e la riconoscenza dovuta a sì gran benefizio».
Insomma, come le Visitandine devono essere una continuazione di Margherita Maria, i Gesuiti lo devono essere del B. de la Colombière. Saranno ricompensati come lui, poiché «a misura che essi consoleranno per siffatto modo, il divin Cuore, questo stesso Cuore, sorgente d’i benedizioni e di grazie, le spanderà così abbondantemente sulle funzioni del loro ministero, che produrranno dei frutti al di là delle loro fatiche e delle loro speranze, anche per la salute e perfezione di ciascuno di loro».
La scena si chiude con un magnifico discorso di San Francesco di Sales. Egli invita le sue figlie a venire ad attingere le acque della salute alla sorgente medesima di ogni benedizione, e spiega loro come la nuova devozione, lungi dall’esser contraria alle loro costituzioni, che già uscirono da quel divin Cuore, presenta loro un mezzo facilissimo di ben soddisfare a ciò che loro è prescritto nel primo articolo del loro direttorio, il quale contiene, in sostanza, tutta la perfezione del loro Istituto: Che tutta la loro vita e tutti i loro esercizI sieno per unirsi a Dio.
«È d’uopo perciò, diss’egli, che questo Cuore sia la vita che ci anima e l’amor suo sia il nostro esercizio continuo, siccome il solo che può unirci a Dio per aiutare con la preghiera e i buoni esempi la santa Chiesa e la salute del prossimo. Per questo pregheremo nel Cuore, e per il Cuore di Gesù, che vuol rinnovare la sua mediazione fra Dio e gli uomini. I nostri buoni esempi saranno di vivere conformemente alle massime e alle virtù di questo divin Cuore e coopereremo alla salute del prossimo, propagando questa santa devozione. Cercheremo pure di spandere il buon odore del sacro Cuore di Gesù, in quello dei fedeli, affine di essere la gioia e la corona di questo amabile Cuore».
Idee analoghe, ma ispirate da nuovi lumi; si ritrovano in un’altra lettera alla Madre de Saumaise, il 17 giugno 1689. Era il venerdì dopo l’ottava del SS.mo Sacramento: Margherita Maria ha veduto la devozione del sacro Cuore come «un bell’albero, destinato, da tutta l’eternità alla Visitazione», affinché ogni casa  » potesse raccoglierne frutti a seconda del suo gusto e del piacere suo». Si tratta di frutti di «vita e di salute eterna»; ma questi frutti non sono riserbati unicamente per le Visitandine; esse devono distribuirli «a tutti quelli che desidereranno mangiarne, senza tema che possano venire a mancar loro».
Segue il messaggio per il re, di cui si è già fatto menzione. Poi Margherita Maria passa ai Gesuiti, la cui missione le si presenta sempre come complemento di quella della Visitazione. Essa attribuisce questa missione alle preghiere del B. de la Colombière, come attribuisce quella delle Visitandine a San Francesco di Sales. In grazia sua, la Compagnia di Gesù sarà gratificata insieme alla Visitazione «di tutte le grazie e privilegi particolari della devozione del sacro Cuore ». Questo divin Cuore promette loro di spandere «con profusione le sue sante benedizioni sulle loro opere». Esso desidera «essere conosciuto, amato e adorato particolarmente da quei buoni Padri». E, se essi cercheranno «di attingere tutti i loro lumi nella sorgente inesauribile di tutta la scienza e carità dei Santi», darà alle loro parole «l’unione della sua carità ardente» con delle grazie «sì forti e potenti che saranno come delle spade a due tagli, che penetreranno nei cuori più indolenti dei più ostinati peccatori».
«Se è vero, dice ella altrove, che questa amabilissima devozione ha avuto origine alla Visitazione, non posso a meno di credere che progredirà per mezzo dei Reverendi Padri Gesuiti. E credo che sia appunto per questo che Egli abbia scelto il beato amico del suo cuore (il B. de la Colombière) per il compimento di questo gran disegno».
Perché la santa non può impedirsi di avere quèsta convinzione? Perché nostro Signore le «ha fatto conoscere, in modo da non poterne dubitare, che era principalmente per mezzo della Compagnia di Gesù che voleva stabilire dappertutto questa solida devozione, e per essa assicurarsi un numero infinito di servi fedeli, di perfetti amici e di figli riconoscenti».
Forse in nessun’altra parte l’insieme di queste idee è così ben collegato come nella lettera del 10 agosto 1689 al P. Croiset. «Quantunque questo tesoro di amore appartenga a tutti e tutti abbiamo diritto, nondimeno è stato sempre nascosto sino al dì d’oggi, in cui si è dato particolarmente alle figlie della Visitazione, siccome quelle che devono onorare la sua vita nascosta, onde esse lo manifestino e distribuiscano agli altri. Nondimeno è riservato ai Rev. Padri della Compagnia di Gesù di far conoscere il valore e il vantaggio di questo prezioso tesoro, dove più si prende e più si ha da prendere. Non dipenderà dunque che da loro di arricchirsi abbondantemente d’ogni sorta di beni e di grazie, poiché con questo mezzo efficace che Egli offre loro, essi potranno soddisfare perfettamente, come Egli desidera, i doveri del santo ministero di carità a cui sono chiamati. Questo divin Cuore spanderà in siffatto modo la soave unzione della sua carità sulle loro parole, che penetreranno come una spada a due tagli nei cuori più induriti, per renderli sensibili all’amore di questo divin Cuore, e le anime più colpevoli e peccatrici saranno ricondotte a una penitenza salutare. Infine per questo mezzo Egli vuole spandere sull’Ordine della Visitazione e su quello della Compagnia di Gesù, l’abbondanza di questi divini tesori di grazia e salute, perché essi sappiano rendergli quello che Egli ne aspetta, vale a dire un omaggio d’amore, d’onore e di lode e lavorino, con tutte le loro forze, a stabilire il suo regno nei cuori. Per questo, Egli aspetta molto dalla vostra santa Compagnia, ed ha su di essa grandi disegni. Per questo si è servito del buon P. de la Colombière per iniziare la devozione a questo adorabile Cuore, come spero che voi sarete uno di quelli di cui si servirà per introdurla nel vostro Ordine ».
Queste assicurazioni, così spesso ripetute dalla santa, dominano la storia di questa devozione. Senza di queste, non sapremmo spiegarci come le Visitandine e i Gesuiti abbiano preso tanto a cuore il diffonderla. Ma queste ultime rivelazioni hanno anche un altro vantaggio; molti dei tratti che vi sono accennati servono mirabilmente a dare un’idea più completa e precisa della devozione al sacro Cuore.

VIII. – RIASSUNTO E CONCLUSIONE
Si è potuto osservare, più sopra, una parola un po’ strana, nel piccolo discorso di San Francesco di Sales. «Preghiamo, dice egli, nel Cuore e col Cuore di Gesù, che vuol farsi di nuovo mediatore fra Dio e gli uomini». L’espressione è familiare alla santa per quanto possa sembrare ardita. Sino dal 1685 noi la sentiamo parlare di una mediazione speciale del sacro Cuore fra Dio e gli uomini. Scrive infatti alla Madre Greyfié. «Egli mi ha fatto conoscere che il suo sacro Cuore è il santo dei santi, il santo d’amore, che voleva essere ora conosciuto, per essere mediatore fra Dio e gli uomini, perché Egli è onnipotente, per accordar loro la pace, allontanando da loro i castighi che i nostri peccati ci hanno attirato, e ottenendoci misericordia».
In un suo biglietto in data 21 giugno 1686, a Suor Maria Maddalena des Escures, il giorno stesso in cui la comunità di Paray si era consacrata al culto del sacro Cuore, la santa scriveva: «Il gran desiderio di nostro Signore che il suo sacro Cuore sia onorato con qualche omaggio particolare si è per rinnovare nelle anime i frutti della sua Redenzione, facendo di questo sacro Cuore come un secondo mediatore fra Dio e gli uomini». Qui la parola vi si trova, con la spiegazione che le conviene; ma quando anche manca la parola, si sente che l’idea è sempre presente. È in questo senso, infatti, che essa parla «di un ultimo sforzo» dell’amore di Gesù, nella manifestazione del suo divin Cuore; di una «redenzione amorosa» per la mediazione di questo sacro Cuore; di una nuova effusione, per il dono unico del «Cuore di Dio», di «tutti i tesori d’amore, di misericordia, di grazia, di santificazione e salute» che contiene. Sarebbe ben facile raccogliere nelle opere della santa, mille espressioni della medesima idea. Quelle che più meritano di esser notate, le abbiamo già fatte notare più sopra. Se ne troveranno altre, quando parleremo delle promesse del sacro Cuore.
Per la santa è dunque un grande avvenimento, nella storia del mondo la manifestazione del sacro Cuore. È come un’ha novella, che comincia, per tutti quelli che vorranno mettersi sotto la protezione di questo Cuore divino. Non già che Gesù non fosse già nostro, con tutti i suoi tesori, per mezzo della Incarnazione e della Redenzione; ma vi è qui come un nuovo passo di Gesù verso di noi, e come una nuova offerta di tutto quello che è, di tutto quello che ha, con questo suo dono del Cuore. Sembra quasi che Gesù si concentri nel suo Cuore, per darci tutto se stesso nell’ offrircelo.
E il carattere proprio di questa offerta è di essere un’offerta tutta d’amore. Certamente l’Incarnazione, la Redenzione, tutti i benefici di Gesù, erano di già l’effetto di un amore appassionato ed erano già stati presentati come tali da Gesù medesimo, da San Giovanni, da San Paolo, da tutta la tradizione cristiana. Ma, nella manifestazione del sacro Cuore a Margherita Maria, si rivela una nuova manifestazione d’amore, così viva ed appassionata, che diviene un nuovo, pressante invito ad amare. Il dono del sacro Cuore è come l’amore di Gesù che si avvicina a noi. La devozione a questo Cuore adorabile, è dunque il culto di quest’amore, l’omaggio che si fa al suo Cuore appassionato d’amore è un omaggio fatto a Gesù; noi andiamo al Cuore, per arrivare a Gesù, amandolo sempre più ardentemente.
Si comprende, perciò, tutta l’importanza che Margherita Maria annetteva alla nuova devozione, tutta la importanza che ha realmente. Non è una devozione inventata dall’uomo, non è che la risposta a una nuova manifestazione dell’amore divino. Quando si riflette a tutto questo, si capisce ancora come Monsignor Bougaud abbia potuto scrivere: «La devozione al sacro Cuore è, certamente, la rivelazione più importante che abbia irradiato la Chiesa, dopo quelle della Incarnazione e della Eucaristia. È la maggiore esplosione di luce che si sia avuta dopo la Pentecoste»[9]. Queste parole hanno bisogno d’interpretazione; certo non bisogna attribuire ad esse tutto il rigore teologico[10], ma, ben comprese, esprimono sempre un pensiero vero.
Così, secondo Margherita Maria, il sacro Cuore riassume tutto Gesù; il dono del sacro Cuore è, per così dire, un nuovo dono di Gesù agli uomini, un nuovo avvicinarsi di Gesù a noi. Veramente non si potrebbe dare una idea più grandiosa e più giusta di questa devozione.

NOTE
[1] Un tratto raccontato dalla Madre de Saumaise, ci fa toccare sul vivo con quanta facilità incosciente, si copiavano i testi. Nostro Signore le fece vedere un giorno le croci e le pene interiori che il B. de la Colombière soffriva nel paese dove i superiori lo avevano mandato. « Essa venne tosto a rendermene conto, – dice Madre di Saumaise – presentandomi un biglietto da fargli avere e che conteneva delle cose molto consolanti che Gesù Cristo le aveva dettato. E siccome io ricevei, qualche tempo dopo, delle lettere da questo gran servo di Dio, compresi dalle domande che egli faceva, aver egli gran bisogno che si pregasse per lui. Siccome ciò poteva riferirsi a qualche cosa di cui questa virtuosa suora aveva avuto conoscenza, mi credei obbligata di mandargli il suddetto biglietto, che copiai senza aver fatto parola con alcuno di tutto questo. Nondimeno essa venne a trovarmi e mi disse che nel copiare, aveva cambiato qualche cosa e che nostro Signore voleva che ci si attenesse a quello che Egli aveva fatto scrivere. E volendolo io rileggere, per vedere quello che io avevo cambiato, trovai di aver sostituito qualche parola assai somigliante ma che aveva pertanto assai minor forza ».

[2] Per il momento il manoscritto è smarrito.
[3] Il numero tra parentesi si riferisce, alla seconda edizione del 1876. quello fuori alla prima edizione del 1867.
[4] È questa la data accennata da Mons. Gauthey; le religiose di Paray come Languet. avevano letto: 1689.
[5] È ancora possibile che il racconto redatto dal B. de la Colombière, fosse stato conservato dalla santa fra le sue carte.
[6] Nel testo descritto dal B. de la Colombière si legge: «Ma ciò che mi disgusta maggiormente si è che sono dei cuori a me consacrati». Ciò ha maggior forza ed è curioso che la santa stessa abbia addolcito la frase.
[7] Nel primo racconto mancano le parole: procureranno che gli sia reso: Non è che a partire dal 1685 che la santa ha fermato l’intenzione sull’apostolato al sacro Cuore.
[8] Le editrici di Paray hanno letto: «nel cuore»
[9] Histoire de la B. Marguerite Marie, c. XIV, pag, 331
[10] Per quanto secondo lo storico, le rivelazioni di Paray possono essere autorizzate, sono sempre, però, rivelazioni private, senza valore ufficiale e le cui garanzie e autorità non potrebbero essere confrontate con le rivelazioni fatte autenticamente all’umanità. Del resto la rivelazione è chiusa per sempre sino dalla fine dei tempi apostolici.

Publié dans:feste del Signore |on 26 juin, 2014 |Pas de commentaires »

« DIO VIDE TUTTO QUELLO CHE AVEVA FATTO, ED ECCO CHE ERA MOLTO BUONO » (Gen 1,31):

http://www.collevalenza.it/CeSAM/02_CeSAM_0004.htm

« DIO VIDE TUTTO QUELLO CHE AVEVA FATTO, ED ECCO CHE ERA MOLTO BUONO » (Gen 1,31):

MISERICORDIA NELLA CREAZIONE

p. Aurelio Pérez fam

La creazione è il primo atto d’amore di Dio, l’amore fontale per così dire, nel senso che tutto scaturisce da questa fonte dell’essere e della vita che è Dio stesso, come dal grembo di una madre. Anche all’inizio della creazione troviamo, come per la legge del Sinai, dieci parole-comandi (« Dio disse… », Gen 1, 3.6.9.11.14.20.24.26.28.29), attraverso le quali il Signore ha dato vita a tutto il creato(1). Ma la novità biblica, sconosciuta ai sapienti del mondo, è che Dio ha fatto ogni cosa che c’è nel mondo, soprattutto l’essere umano, per amore:
« Nel cammino della fede biblica diventa sempre più chiaro ed univoco ciò che la preghiera fondamentale di Israele, lo Shema, riassume nelle parole: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo» (Dt 6, 4). Esiste un solo Dio, che è il Creatore del cielo e della terra e perciò è anche il Dio di tutti gli uomini. Due fatti in questa precisazione sono singolari: che veramente tutti gli altri dei non sono Dio e che tutta la realtà nella quale viviamo risale a Dio, è creata da Lui. Certamente, l’idea di una creazione esiste anche altrove, ma solo qui risulta assolutamente chiaro che non un dio qualsiasi, ma l’unico vero Dio, Egli stesso, è l’autore dell’intera realtà; essa proviene dalla potenza della sua Parola creatrice. Ciò significa che questa sua creatura gli è cara, perché appunto da Lui stesso è stata voluta, da Lui «fatta». E così appare ora il secondo elemento importante: questo Dio ama l’uomo. La potenza divina che Aristotele, al culmine della filosofia greca, cercò di cogliere mediante la riflessione, è sì per ogni essere oggetto del desiderio e dell’amore — come realtà amata questa divinità muove il mondo —, ma essa stessa non ha bisogno di niente e non ama, soltanto viene amata. L’unico Dio in cui Israele crede, invece, ama personalmente ».(2)
Il messaggio biblico sulla creazione è fondamentalmente positivo: prima della creazione rovinata dal peccato c’è la creazione buona uscita dalle mani di Dio. Per 7 volte viene detto che ciò che Dio ha fatto è buono (tob, kalos = buono e bello), fino alla conclusione: « Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco che era molto buono » (Gen 1,31; cf vv. 4.10.12.18.21.25).
La redenzione stessa è un riportare la creazione al principio voluto da Dio, come dice Gesù a proposito dell’unione voluta da Dio tra l’uomo e la donna: « al principio non è stato così » (Mt 19,4). E’ importantissimo per noi sempre ritornare a questo « principio » che non è un fatto temporale, storico o preistorico, perché Dio non è storico né preistorico, è l’Eterno, anche se il suo Amore si spingerà fino al punto che l’Eterno entrerà nel nostro tempo creato.
Sarebbe un errore contro la sapienza di Dio opporre la creazione alla redenzione. Il Signore non distrugge ciò che ha fatto, ma lo rinnova, lo purifica, portando a compimento l’opera che ha iniziato.
« In principio Dio creò il cielo e la terra » (Gen 1,1ss)
E’ questo l’inizio di una rivelazione sull’umanità e sul mondo, non di un trattato di cosmologia(3). Rivelazione appunto dell’amore creatore, provvidente, che tutto mantiene e sorregge nelle sue mani misericordiose e potenti. La prima cosa che il Signore vuole rivelarci con la sua Parola (siamo alle prime pagine della Scrittura Santa) è che tutto ciò che esiste, compresi noi, l’ha creato LUI, non è frutto del caos né del caso.
« Tutte queste cose le ha fatte la mia mano, esse sono mie, oracolo del Signore ». (Is 66,2)
Tutti noi e ciascuno di noi, il cielo e la terra e tutte le cose che vi abitano procediamo da un Sì d’amore che Dio ha pronunciato su di noi e su tutto il creato.
Il primo canto all’amore misericordioso del Signore che é « eterno », nasce contemplando l’opera della Creazione:
« Celebrate il Signore, perché è buono, poiché eterna è la sua misericordia… Ha fatto i cieli con sapienza… » (Sal 136,1-9)
«Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò»
Siamo di fronte al primo canto nuziale che Dio rivolge alle sue creature, uscite buone, pure e belle dalle sue mani. Per loro ha preparato un giardino meraviglioso, e nel centro di esso ha collocato l’uomo e la donna, fatti « a immagine e somiglianza » di Dio. C’è un’unità originaria (Dio creò l’Adam) che si differenzia nei sessi (li creò maschio e femmina). Ma l’unità – immagine di Dio Uno – sta all’inizio e alla fine della creazione dell’uomo e della donna, chiamati alla comunione. Con l’uomo e la donna (ish e ishah) il Signore ha intessuto il dialogo dell’amicizia, nelle loro mani ha messo tutto il creato perché lo custodiscano e lo coltivino, e in esso crescano fecondi e felici. L’essere immagine e somiglianza di qualcuno indica anche la « figliolanza », come leggiamo più avanti:
« Quando Adamo ebbe centotrent’ anni generò un figlio a sua somiglianza, conforme all’ immagine sua, e lo chiamò Set » (Gen 5,3)
« E Dio disse… »
Questo Sì alla vita è stato detto da Dio attraverso il suo Verbo Creatore. La Parola di Dio è efficace: Egli « dice » e le cose vengono all’esistenza:
« Con la parola del Signore furon fatti i cieli e col soffio della sua bocca tutto il suo ornamento… poiché egli parlò e fu fatto, egli comandò ed esso fu creato » (Sal 33,6.9; cf 148,1-6)
Dio chiama all’esistenza (la nostra prima e universale vocazione è quella alla vita), dà dei nomi, fa le creature secondo la loro specie, assegna loro dei fini, ed esse prendono forma rispondendo alla potenza della sua parola. Il caos disordinato diventa cosmo ordinato.
Nella pienezza della Rivelazione coglieremo il mistero di questa Parola che era « al Principio » presso Dio ed era Dio: « Tutte le cose sono state fatte per mezzo di Lui e senza di Lui niente è stato fatto » (Gv 1,3). Anzi « tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui » (Col 1,16).
« Mandi il tuo Spirito ed essi sono creati » (Sal 104,30)
Insieme alla Parola c’è lo Spirito creatore, la ruah di Dio che dà la vita, dopo aver aleggiato su quel caos iniziale per mettervi ordine; la stessa ruah che Dio soffia nelle narici dell’Adam originario, fatto di creta, e solo allora l’Adam diventa un essere vivente (nefesh). Senza lo Spirito (=il respiro, il soffio di Dio) c’è la morte. Si preannuncia già misteriosamente la dimensione trinitaria, che verrà rivelata pienamente quando la Parola-Figlio assumerà la creta di Adam per divenire il nuovo Adam datore dello Spirito di vita.

Cantare la misericordia del creatore nella contemplazione del creato

Una delle cose più belle, gioiose e liberanti che ci è dato di fare è contemplare l’opera della creazione e noi al suo interno. Sentirci « creature », oggetto dell’interesse amoroso e provvidente del Creatore, ci colloca al posto giusto di fronte a Dio, in vera umiltà gioiosa, piena di gratitudine e capace di assumere le responsabilità che Lui ci affida con il dono della vita. La preghiera che passa in rassegna le opere del Signore, una per una (cf Sal 104, Gb 36,22-37,24; Sal 19,1-7; Dn 3,51-90 ecc.) apre il cuore alla benedizione e alla lode ed fonte di vera gioia e fondato ottimismo. Pensiamo al Cantico delle creature di S. Francesco, alle esclamazioni della nostra Madre di fronte al creato: « qué pintor! ».

[1] “La creazione esiste perché obbedisce alle dieci parole di Dio, e l’uomo vive ed esiste perché obbedisce ai dieci comandi di Dio” (B. COSTACURTA, Spiritualità dell’Antico testamento – appunti degli studenti – PUG 1994-1995).

[2] BENEDETTO XVI, Deus Caritas est, 9.

[3] Cf F.R. DE GASPERIS, Sentieri di vita, I, Paoline 2005, p. 36ss.

Publié dans:biblica, Teologia |on 26 juin, 2014 |Pas de commentaires »

martyrdom of holy Apostles Peter and Paul

  martyrdom of  holy Apostles Peter and Paul dans immagini sacre 9622

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Publié dans:immagini sacre |on 25 juin, 2014 |Pas de commentaires »
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