Archive pour le 15 mai, 2014

Jesus Christ, King of Mercy – Kathleen Anderson – 1993

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Publié dans:immagini sacre |on 15 mai, 2014 |Pas de commentaires »

GIOBBE: L’UOMO CHE NON HA PERSO LA SFIDA CON DIO

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GIOBBE: L’UOMO CHE NON HA PERSO LA SFIDA CON DIO

Le pagine d’apertura della Bibbia (Gn 1-11) non sono le uniche che ci offrono un’immagine dell’atto creativo di Dio e delle sue possibili implicazioni teologiche. Nel saggio esegetico collettivo, La création dans l’Orient Ancien (Parigi 1987) vengono ricordati e commentati almeno sei blocchi di testi biblici antichi che dicono la loro su questo argomento: i Salmi (33, 104, 136, 148), il Secondo Isaia (44-55), Geremia (versetti sparsi), Giobbe (38-41), Sapienza (1, 13-14; 9,), 2Maccabei (7, 28). Gli autori chiariscono che ognuna di queste riprese del tema genesiaco ha il suo taglio, la sua prospettiva interpretativa e, se a tutto ciò aggiungiamo le riprese neotestamentarie dell’argomento (prologo di Giovanni e passi specifici di Paolo), dobbiamo concludere che la Scrittura nel confessare la sua fede nel Creatore è, se non equivoca, per lo meno plurivoca. Vale a dire presenta molte linee interpretative, tese alla continua rilettura problematica e attualizzante del tema, come ci dimostra questa rapida e sorprendente incursione nel libro di Giobbe.

E il serpente tentò Dio
Tutti conosciamo questo scritto e tutti sappiamo che è composto da una cornice narrativa fiabesca in prosa e da un ampio dialogo o dibattito in versi, in cui il protagonista, in contesa con gli amici e con Dio, si mostra ben più campione dei diritti dell’innocente perseguitato che di muta pazienza. Non tutti ci rendiamo conto, però, che la soluzione del problema teologico dell’antico testo fa strettamente corpo con la soluzione del suo problema letterario.
Ma quale è questo problema? Esso è precisamente rappresentato dalla difficoltà di cogliere l’unità compositiva dell’intero testo, di conciliare la pazienza del Giobbe fiabesco con la ribellione di quello dialogico, di dare identità coerente e credibile al Dio « tentato » del prologo e a quello « autocelebrativo » dei capitoli 38-41, di capire perché proprio quest’ultimo dia ragione a Giobbe, che lo ha contestato, e non agli amici, che lo hanno difeso, e perché infine Giobbe ritiri le sue accuse a Dio e con lui si riconcili senza avere apparentemente ricevuto risposta alle sue domande.
Un modo per evitare tutte queste questioni è quello di considerare le diverse parti dell’opera come scritti eterogenei di gran pregio messi insieme da un redattore piuttosto approssimativo. Si semplifica così il problema letterario e si sterilizza quello teologico. E’ la strada scelta dai più, ma non è la nostra: visto che la struttura narrativa e poetica del testo esige di essere valutata nella forma in cui ci è pervenuta e che un’ipotesi di lettura unitaria è suggerita dai rimandi che legano ad incastro fiaba e dialogo; visto, infine, che solo l’intervento di un quarto campione di Dio, l’Elihu dei cap.32-37, risulta sicuramente estraneo all’impianto originario e inserito in secondo momento da altra mano, con altro intento, approfittando del carattere aperto e problematico dell’opera.
Ora la prima indicazione, che ci viene dalla valorizzazione del legame tra cornice narrativa e dialogo, è la focalizzazione del testo sulla relazione uomo-Dio, assai più che sul problema del male. L’avventura inizia in cielo perché, mentre Giobbe vive in terra felice e rispettoso dei divini precetti, Satana, ispettore celeste delle umane cose, riesce a gettare l’ombra del dubbio sulle vere ragioni che lo spingono a tanto esercizio di virtù e di pietà. « Forse che Giobbe crede in Dio per nulla? »: sussurra a Dio (1, 9) e Dio deve metterlo alla prova, privandolo dei beni, dei figli e della salute. Alla fine, dopo il drammatico sviluppo dialogico, in cui il tema del male diventa il terreno di verifica del rapporto uomo-Dio, ecco la logica conclusione di questo tema e non di quello: Giobbe ha detto bene di Dio e non gli amici. E’ il suo sacrificio in loro favore e non il loro parlare a favore di Dio ad ottenere la restaurazione della felice condizione iniziale (42, 7-17). Solo Giobbe, infatti, ha saputo stare faccia a faccia con Dio dimostrando dignità, forza e sincerità; ma anche solo Dio è riuscito a reggere la sfida di Giobbe e a farsi accettare con un discorso altrettanto franco e spregiudicato.
Il problema del male è in tutto ciò il terreno di confronto e di scontro, ma non è il problema centrale, tant’è vero che viene discusso, rimescolato fin dalle fondamenta, ma non risolto e altrettanto si dica del problema della creazione che è qui insistentemente evocato.
Con grande acume lo coglie per noi G. Borgonovo: « Rispetto alla teologia profetica pre-esilica e a quella deuteronomistica della legge e della remunerazione il libro di Giobbe colloca il discorso su Dio nell’orizzonte della creazione, un orizzonte più ampio e fondativo. Per esso non si può spiegare la realtà del male partendo da un’etica dell’alleanza. Bisogna presupporre che il Dio dell’alleanza sia il Dio creatore, colui che ha posto in essere l’uomo e il mondo, in quanto realtà in divenire. Da questo punto di vista l’affermazione del II Isaia che da Jhwh, come unico Dio creatore e salvatore, vengono il bene e il male (Is 45, 7) e il contributo di Ezechiele sul principio della responsabilità individuale (Ez 18) rendono incandescente il problema della teodicea. Proprio dall’unione di tali dottrine poteva, infatti, sorgere l’intollerabile immagine di Dio messa in scena contro Giobbe negli interventi dei suoi amici » (La notte e il suo sole, Roma 1995, p. 338).
Il che ci consente di pensare che il libro di Giobbe, insieme al DeuteroIsaia, potrebbe essere una delle voci che hanno spinto i redattori del Pentateuco a valorizzare il tema creativo fino a farne l’apertura della Torah, anche se è evidentissimo che rispetto ai testi qui confluiti esso affronta questo tema con assoluta originalità e persino con spregiudicatezza.
La figura di Satana, ad esempio, che nella prima pagina del libro tenta Dio a proposito di Giobbe, evoca sottilmente ed ironicamente quella del serpente, che in Genesi 3 tenta Adamo ed Eva a proposito di Dio, e l’esito è lo stesso: il precipitare dell’uomo da una condizione edenica di felicità e benessere ad uno stato di prostrazione e dolore. Né le novità spregiudicate si fermano qui.
Negli interventi di Giobbe, infatti, la visione del creato si presenta coi caratteri di una potenzialità negativa sconosciuta ai testi genesiaci e nell’apologia finale del nostro eroe compare un’inaudita rivendicazione di pienezza e dignità umana superiore a quella di Adamo. E’ in tali discorsi che l’uomo manifesta con estrema chiarezza la coscienza dei propri limiti creaturali, il carico di infelicità che lo minaccia e il sospetto che all’origine di tutti i suoi mali non stiano tali limiti, né una sua colpa, ma l’onnipotenza cieca di un Dio potenzialmente sadico.

Giobbe, il riscatto di Adamo
E’ sufficiente ricordare alcune delle affermazioni più incisive del testo. Giobbe inizia con la maledizione del giorno della sua nascita, maledizione che ha sì accenti biografico-esistenziali, ripresi da Geremia (Ger 20, 14-18), ma che subito assume risonanze cosmiche, evocando luci che non risplendono, eclissi di sole, notti prive di computo lunare, incantesimi degni dell’Oceano e di Leviatan, stelle che si negano e aurore che non sorgono (3, 1-9). Non c’è da meravigliarsi se, invitato dagli amici ad affidarsi all’insindacabile giustizia onnipotente di Dio, egli replica che proprio questo lo atterrisce: il potere incontrollabile di un creatore despota che può fare tutto e il contrario di tutto. Può « dispiegare i cieli da solo e cavalcare il mare », ma può anche « impedire al sole di sorgere e tenere sotto sigillo le stelle ». Può condannare l’innocente e ridersela delle tragedie dell’indifeso (9, 1-24). Si interroghino pure le creature del cielo e della terra e in coro confesseranno che quando Lui « blocca le acque tutto inaridisce e quando le libera tutto inonda »; può « rendere potenti i popoli o esiliarli » e può mandare  » a tentoni gli uomini nel buio senza luce » (12, 1-25). E’ Dio, creatore e signore della storia, non l’uomo, la vera minaccia. Dio è in grado di fare ciò che vuole, l’uomo è invece debole, fragile, mortale, più effimero persino di un arbusto (14, 1-22).
Eppure, neanche ad un Dio così immaginato, Giobbe si sottrae o rifiuta la sua attenzione. Lo chiama in giudizio, lo invoca, chiede un mediatore per confrontarsi con Lui e infine si presenta come un Adamo, privo di colpe e pronto a non nasconderle. « Non ho come Adamo occultato il mio delitto, né ho celato nel mio petto la mia colpa…Datemi qualcuno che mi ascolti… Il mio rivale scriva la sua accusa. Io me la caricherei sulle spalle e me la cingerei come diadema. Gli renderei conto di tutti i miei passi e come un principe mi presenterei a Lui. »(31, 33-37; trad. Ravasi)..
Giobbe di più non può dire e non dice. Spetta, infatti, a Dio prendere la situazione in pugno. Naturalmente non Dio in persona, come talvolta sembrano ritenere i commentatori, ma Dio come lo mette in scena l’autore del libro, come lo pensa questo singolare contestatore della teologia del patto e della retribuzione. Bisogna ricordarselo per non esagerare il valore della teofania cosmogonica dei capitoli 38-41 e per ricordare che, come nei primi undici capitoli di Genesi, anche qui siamo nel racconto e nell’immagine mitica. Siamo alle prese con una nuova rivisitazione simbolica e teologica del problema della creazione e del rapporto in essa tra bene e male, tra uomo e Dio.

La trascendenza di Dio e l’alterità del creato
Ciò che soprende e lascia interdetti i commentatori è l’assoluta dissonanza tra le richieste di Giobbe e la duplice risposta di Dio. Il primo sollecita un confronto per chiarire la sua posizione e avere spiegazioni sulle cause dei suoi mali e il secondo gli squaderna con sovrabbondanza d’immagini la magnificenza della propria opera di creatore. Non solo, quasi lo sfida a misurarsi con Lui in questa impresa, che tutto comprende: la progettazione e la messa in opera degli astri e del controllo sui loro movimenti, la disciplina delle acque e di ogni altra potenza cosmica, la cura paziente di ben otto specie viventi, tutte selvagge e indomabili per l’uomo, e di due mostri mitici come Behemot e Leviatan, simbolo della violenza e del male. Tutto comprende, meno l’uomo.
Se ritenessimo, come è uso comune, che il libro di Giobbe è una riflessione sul problema del male, non potremmo che concludere che Dio evita la difficoltà, si rifugia nella sua inaccessibilità, schernisce e schiaccia l’uomo dall’alto della sua onnipotenza. Se pensiamo invece, come suggerisce la cornice fiabesca, che la questione in gioco è la relazione uomo-Dio, la loro diversità, ma anche il loro saper stare con dignità l’uno di fronte all’altro, ecco che questi discorsi divini sulla creazione acquistano diversa sonorità. Diventano un’inedita autopresentazione di Dio e della sua trascendente attenzione all’uomo, attraverso un’inedita presentazione dell’alterità della creazione dall’uomo.
In sostanza Dio fa presente a Giobbe, che protesta per la presenza del male nella sua vita, che proprio Lui ha messo in opera e mantiene in vita una molteplicità di esseri naturali, capaci di vivere in totale indipendenza dall’uomo, che Lui sa tenere a bada le stesse potenze del male, senza distruggerle. E così gli rivela che la sua trascendenza non esclude attenzione e cura per l’opera delle sue mani, non è a misura d’uomo, ma neanche insensata e capricciosa. Di fronte all’accusa di Giobbe di essere il despota di un mondo caotico e ingiusto e al tentativo dei suoi amici di costringerlo al ruolo ideologico di difensore dell’ordine costituito, di garante di una giustizia da bempensanti, Dio manifesta la propria diversità dall’uomo, ma anche la propria attenzione a lui e lo fa mettendo in scena una creazione non antropocentricamente ordinata, eppure non inospitale.
Il che è come dire che l’autore del libro di Giobbe segue e propone un modello creativo alternativo sia al racconto Jahvista che a quello Sacerdotale, in quanto rifiuta tanto l’idea del dominio dell’uomo sul mondo animale, quanto quella di una natura uscita perfettamente ordinata e buona dalle mani di Dio. Costitutiva è, infatti, in essa la presenza del mare e del deserto, coi suoi animali irriducibili ad ogni disciplina, ineliminabile quella di Behemot e Leviatan.
A ragione dunque R. Otto considera la teofania di Giobbe come l’espressione dell’ « assolutamente stupendo, del quasi demoniaco, dell’incomprensibile e indecifrabile mistero della creazione e del creatore » (Il Sacro, Milano 1966, p.87). Ma ancor più nel vero è O. Keel quando osserva che tale incomprensibilità non rende impossibile, ma facilita l’incontro dell’uomo con Dio, perché non carica pregiudizialmente né l’uno né l’altro della totale responsabilità del male, ma pone le basi per la loro collaborazione nella lotta contro la sua misteriosa e non invincibile presenza (Dieu répond à Job, Parigi 1988, pp. 129-130).
Ecco perché Giobbe può piegarsi al mistero trascendente di Dio senza perderci la faccia, perché può dire: « Ti conoscevo per sentiro dire, ora i miei occhi ti hanno veduto » (42, 5). Ed ecco perché Dio può, senza pericolo, ammettere che proprio Giobbe, il ribelle, ha parlato bene di lui e con fondamento (42, 8). Ecco infine perché G. Borgonovo può proporre, in luogo di « Per questo ritratto e mi pento sopra la polvere e la cenere » (42, 6), quest’altra traduzione, audace ma non filologicamente infondata: « Detesto polvere e cenere, ma ne sono consolato » (Op, cit., p.285).
L’uomo e Dio faccia a faccia, ambedue in piedi, l’uno immagine dell’alterità misteriosa dell’altro, a confronto in un mondo che contribuisce al dialogo con la sua specifica e problematica presenza. Giobbe nuovo Adamo e Dio nuovo sempre.

Aldo Bodrato

PORTE APERTE TRA IL TEMPIO E LA PIAZZA – O.R. Gianfranco Ravasi

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/2011/013q04a1.html

PORTE APERTE TRA IL TEMPIO E LA PIAZZA – O.R. Gianfranco Ravasi

Pubblichiamo il testo della « lectio magistralis » che il cardinale presidente del Pontificio Consiglio della Cultura tiene il 17 gennaio a Roma presso la facoltà di Architettura dell’università La Sapienza.

di Gianfranco Ravasi

« Il mondo è come l’occhio: il mare è il bianco, la terra è l’iride, Gerusalemme è la pupilla e l’immagine in essa riflessa è il tempio ». Questo antico aforisma rabbinico illustra in modo nitido e simbolico la funzione nel tempio secondo un’intuizione che è primordiale e universale. Due sono le idee che sottendono all’immagine. La prima è quella di « centro » cosmico che il luogo sacro deve rappresentare, un tema sul quale il grande studioso delle religioni Mircea Eliade (1907-1986) ha offerto un vasto dossier documentario. L’orizzonte esteriore, con la sua frammentazione e con le sue tensioni, converge e si placa in un’area che per la sua purezza deve incarnare il senso, il cuore, l’ordine dell’essere intero.
Nel tempio, dunque, si « con-centra » la molteplicità del reale che trova in esso pace e armonia: si pensi solo alla planimetria di certe città a radiali connesse al « sole » ideale rappresentato dalla cattedrale posta nel cardine centrale urbano (Milano, per esempio, « centrata » sul Duomo ne è un esempio evidente, come New York è la testimonianza di una diversa visione, più dispersa e babelica). Dal tempio, poi, si « de-centra » un respiro di vita, di santità, di illuminazione che trasfigura il quotidiano e la trama ordinaria dello spazio. Ed è a questo punto che entra in scena il secondo tema sotteso al detto giudaico sopra evocato.
Il tempio è l’immagine che la pupilla riflette e rivela. Esso è, quindi, segno di luce e di bellezza. Detto in altri termini, potremmo affermare che lo spazio sacro è epifania dell’armonia cosmica ed è teofania dello splendore divino. In questo senso un’architettura sacra che non sappia parlare correttamente – anzi, « splendidamente » – il linguaggio della luce e non sia portatrice di bellezza e di armonia decade automaticamente dalla sua funzione, diventa « profana » e « profanata ». È dall’incrocio dei due elementi, la centralità e la bellezza, che sboccia quello che Le Corbusier definiva in modo folgorante « lo spazio indicibile », lo spazio autenticamente santo e spirituale, sacro e mistico.
Certo, questi due assi portanti trascinano con sé tanti corollari: pensiamo alla « sordità », all’inospitalità, alla dispersione, all’opacità di tante chiese tirate su senza badare alla voce e al silenzio, alla liturgia e all’assemblea, alla visione e all’ascolto, all’ineffabilità e alla comunione. Chiese nelle quali ci si trova sperduti come in una sala per congressi, distratti come in un palazzetto dello sport, schiacciati come in uno sferisterio, abbrutiti come in una casa pretenziosa e volgare.
A questo punto vorremmo proporre una riflessione di indole più specifica che abbia come codice di riferimento proprio quelle Sacre Scritture bibliche che sono state indubbiamente « il grande codice » della stessa civiltà artistica occidentale. È indiscutibile il rilievo che in esse ha una « teologia » dello spazio, anche se – come si vedrà – essa è inverata in una teologia superiore, quella del tempo e della storia (l’Incarnazione riassume in sé queste due dimensioni ricollocandole nella loro gerarchia).
« Ai tuoi servi sono care le pietre di Sion » (Salmo, 102, 15). Questa professione d’amore dell’antico salmista potrebbe essere il motto stesso della tradizione cristiana che allo spazio sacro ha riservato sempre un rilievo straordinario, a partire dalla « pietra » del Santo Sepolcro, segno della risurrezione di Cristo, attorno alla quale è sorto uno dei templi emblematici dell’intera cristianità. Tra l’altro, è curioso che simbolicamente le tre religioni monoteistiche si ancorino a Gerusalemme attorno a tre pietre sacre, il Muro Occidentale (detto popolarmente « del Pianto »), segno del tempio salomonico per gli ebrei, la roccia dell’ascensione al cielo di Maometto nella moschea di Omar per l’islam e, appunto, la pietra ribaltata del Santo Sepolcro per il cristianesimo.
Certo è che, senza la spiritualità e la liturgia cristiana, la storia dell’architettura sarebbe stata ben più misera: pensiamo solo al nitore delle basiliche paleocristiane, alla raffinatezza di quelle bizantine, alla monumentalità del romanico, alla mistica del gotico, alla solarità delle chiese rinascimentali, alla sontuosità di quelle barocche, all’armonia degli edifici sacri settecenteschi, alla neoclassicità dell’Ottocento, per giungere alla sobria purezza di alcune realizzazioni contemporanee (un esempio per tutte: l’affascinante chiesa del citato Le Corbusier a Ronchamp).
C’è, dunque, nel cristianesimo una celebrazione costante dello spazio come sede aperta al divino, partendo proprio da quel tempio supremo che è il cosmo.
Un grande storico della teologia Marie-Dominique Chenu (1895-1990), al termine della sua vita si rammaricava di aver riservato troppo poco spazio alle arti sia letterarie sia figurative sia architettoniche nella sua storia del pensiero religioso, perché « esse non sono soltanto illustrazioni estetiche ma veri soggetti teologici ». Dall’anonimato in cui si relegavano i grandi costruttori di cattedrali basterebbe solo fare emergere, a titolo esemplificativo, un genio architettonico e artistico come l’abate Sugero di Saint-Denis (xiii secolo).
Detto questo c’è però nella concezione cristiana una componente molto pesante che – come si diceva – sposta il baricentro teologico dallo spazio al tempo. Ed è su questo aspetto che ora vorremmo fissare la nostra attenzione. Nell’ultima pagina neotestamentaria, quando Giovanni il Veggente si affaccia sulla planimetria della nuova Gerusalemme della perfezione e della pienezza, si trova di fronte a un dato a prima vista sconcertante: « Non vidi in essa alcun tempio perché il Signore Dio Onnipotente e l’Agnello sono il suo tempio » (Apocalisse, 21, 22). Tra Dio e uomo non è più necessaria nessuna mediazione spaziale; l’incontro è ormai tra persone, si incrocia la vita divina con quella umana in modo diretto. Da questa scoperta potremmo risalire a ritroso attraverso una sequenza di scene altrettanto inattese.
Immaginiamo di rincorrere questo filo rosso afferrandolo al capo estremo opposto. Davide decide di erigere un tempio nella capitale appena costituita, Gerusalemme, così da avere anche Dio come cittadino nel suo regno. Ma ecco la sorprendente risposta oracolare negativa emessa dal profeta Nathan: il re non costruirà nessuna « casa » a Dio ma sarà il Signore a dare una « casa » a Davide: « Te il Signore farà grande, poiché una casa farà a te il Signore » (ii Samuele, 7, 11). In ebraico si gioca sulla ambivalenza del termine bayit, « casa » e « casato ». Dio, quindi, allo spazio sacro di una casa-tempio preferisce la presenza in una casa-casato, ossia nella storia di un popolo, nella dinastia davidica che si colorerà di tonalità messianiche.
Certo, lo spazio non è dissacrato. Il figlio di Davide, Salomone, innalzerà un tempio che la Bibbia descrive con ammirata enfasi. Eppure quando egli sta pronunziando la sua preghiera di consacrazione, dovrà necessariamente interrogarsi così: « Ma è proprio vero che Dio può abitare sulla terra? Ecco i cieli e i cieli dei cieli non possono contenerti, tanto meno questa casa che io ho costruito! » (1 Libro dei Re, 8, 27). Il tempio, allora, è solo l’ambito di un incontro personale e vitale (non per nulla si parla nella Bibbia di « tenda dell’incontro ») che vede Dio chinarsi « dal luogo della sua dimora, dal cielo » della sua trascendenza verso il popolo che accorre nel santuario di Sion con la realtà della sua storia sofferta della quale si elencano i vari drammi.
I profeti giungeranno al punto di minare le fondamenta religiose del tempio e del suo culto qualora esso si riduca a essere solo uno spazio magico-sacrale, dissociato dalla vita della piazza civica, ossia dall’impegno etico-esistenziale, e affidato solo a una presenza meramente e ipocritamente rituale.
Basti solo, tra i tanti passi profetici di analogo tenore, leggere questo paragrafo del profeta Amos (viii secolo prima dell’era cristiana): « Io detesto, respingo le vostre feste e non gradisco le vostre riunioni. Anche se voi mi offrite olocausti io non accetto i vostri doni. Le vittime grasse di pacificazione neppure le guardo. Lontano da me il frastuono dei vostri canti, il suono delle vostre arpe non riesco a sopportarlo! Piuttosto scorra come acqua il diritto e la giustizia come un torrente perenne! » (5, 21-24).
Ma entriamo nel cristianesimo in modo diretto. Cristo, come ogni buon ebreo, ama il tempio gerosolimitano. Non esita a impugnare una sferza e a menare fendenti contro i mercanti che lo profanano con i loro commerci, ne frequenta le liturgie durante le varie solennità, come faranno anche i suoi discepoli che si riserveranno persino un loro spazio nell’area del cosiddetto « Portico di Salomone ». Eppure lo stesso Cristo in quel meriggio assolato al pozzo di Giacobbe, davanti al monte Garizim, luogo sacro della comunità dei samaritani, non teme di dire alla donna che sta attingendo acqua: « Credimi, donna, è giunto il momento in cui né su questo monte, né in Gerusalemme adorerete il Padre… È giunto il momento, ed è questo, in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità; perché il Padre cerca tali adoratori. Dio è spirito, e quelli che lo adorano devono adorarlo in spirito e verità » (Giovanni, 4, 21-24).
Ci sarà un’ulteriore svolta che insedierà la presenza divina nella stessa « carne » dell’umanità attraverso la persona di Cristo, come dichiara il celebre prologo del Vangelo di Giovanni: « Il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua tenda in mezzo a noi » (1, 14), con evidente rimando alla « tenda » del tempio di Sion. Tra l’altro, il verbo greco eskénosen, « pose la tenda » ricalca le radicali s-k-n del vocabolo ebraico con cui si definiva la « Presenza » divina nel tempio di Sion, Shekinah. Gesù sarà anche più esplicito: « Distruggete questo tempio e in tre giorni io lo farò risorgere ».
E l’evangelista Giovanni annota: « Egli parlava del tempio del suo corpo » (2, 19-21). Paolo andrà oltre e, scrivendo ai cristiani di Corinto, affermerà: « Non sapete che il vostro corpo è tempio dello Spirito Santo che è in voi… Glorificate dunque Dio nel vostro corpo! » (i, 6, 19-20).
« Un tempio di pietre vive », quindi, come scriverà san Pietro, « impiegate per la costruzione di un edificio spirituale » (i, 2, 5) un santuario non estrinseco, materiale e spaziale, bensì esistenziale, un tempio nel tempo. Il tempio architettonico sarà, quindi, sempre necessario, ma dovrà avere in sé una funzione di simbolo: non sarà più un elemento sacrale intangibile e magico, ma solo il segno necessario di una presenza divina nella storia e nella vita dell’umanità. Il tempio, quindi, non esclude o esorcizza la piazza della vita civile ma ne feconda, trasfigura, purifica l’esistenza, attribuendole un senso ulteriore e trascendente. Per questo, una volta raggiunta la pienezza della comunione tra divino e umano, il tempio nella Gerusalemme celeste, la città della speranza, si dissolverà e « Dio sarà tutto in tutti » (1 Corinzi, 15, 28).
Terminiamo la nostra riflessione con tre testimonianze. La prima riassume i gradi del discorso finora fatto. È una cantilena ebraica cabbalistica medievale che ricorda i vari passaggi per trovare il luogo dove s’incontra veramente Dio. Ecco il ritornello in ebraico, ritornello assonante che si ripete a ogni strofa: hu’ hammaqôm shel- maqôm / we’en hammaqôm meqomô. Con un gioco di parole e un’intuizione folgorante si dice: « Egli, Dio, è il Luogo di ogni luogo, / eppure questo Luogo non ha luogo ».
La seconda testimonianza è legata alla figura di san Francesco ed è desunta dal capitolo 37 della Vita seconda di Tommaso da Celano, francescano abruzzese. Un frate dice a Francesco: « Non abbiamo più soldi per i poveri ». Francesco risponde: « Spoglia l’altare della Vergine e vendine gli arredi, se non potrai soddisfare diversamente le esigenze di chi ha bisogno ».
E subito dopo aggiunge: « Credimi, alla Vergine sarà più caro che sia osservato il vangelo di suo Figlio e nudo il proprio altare, piuttosto che vedere l’altare ornato e disprezzato il Figlio nel figlio dell’uomo ». Ci dobbiamo, dunque, soltanto spogliare del tempio e della sua bellezza? No, perché Francesco è convinto che Dio ci offrirà di nuovo il tempio, con tutti gli ornamenti: « Il Signore manderà chi possa restituire alla Madre quanto ci ha dato in prestito per la Chiesa ».
La terza e ultima considerazione ci è offerta dalla spiritualità ortodossa. Un noto teologo laico russo del Novecento vissuto a Parigi, Pavel Evdokimov, dichiarava che tra la piazza e il tempio non ci deve essere la porta sbarrata, ma una soglia aperta per cui le volute dell’incenso, i canti, le preghiere dei fedeli e il baluginare delle lampade si riflettano anche nella piazza dove risuonano il riso e la lacrima, e persino la bestemmia e il grido di disperazione dell’infelice. Infatti, il vento dello Spirito di Dio deve correre tra l’aula sacra e la piazza ove si svolge l’attività umana. Si ritrova, così, l’anima autentica e profonda dell’Incarnazione che intreccia in sé spazio e infinito, storia ed eterno, contingente e assoluto.

(L’Osservatore Romano 17-18 gennaio 2011)

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI, LECTIO |on 15 mai, 2014 |Pas de commentaires »

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