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GIOBBE: L’UOMO CHE NON HA PERSO LA SFIDA CON DIO
Le pagine d’apertura della Bibbia (Gn 1-11) non sono le uniche che ci offrono un’immagine dell’atto creativo di Dio e delle sue possibili implicazioni teologiche. Nel saggio esegetico collettivo, La création dans l’Orient Ancien (Parigi 1987) vengono ricordati e commentati almeno sei blocchi di testi biblici antichi che dicono la loro su questo argomento: i Salmi (33, 104, 136, 148), il Secondo Isaia (44-55), Geremia (versetti sparsi), Giobbe (38-41), Sapienza (1, 13-14; 9,), 2Maccabei (7, 28). Gli autori chiariscono che ognuna di queste riprese del tema genesiaco ha il suo taglio, la sua prospettiva interpretativa e, se a tutto ciò aggiungiamo le riprese neotestamentarie dell’argomento (prologo di Giovanni e passi specifici di Paolo), dobbiamo concludere che la Scrittura nel confessare la sua fede nel Creatore è, se non equivoca, per lo meno plurivoca. Vale a dire presenta molte linee interpretative, tese alla continua rilettura problematica e attualizzante del tema, come ci dimostra questa rapida e sorprendente incursione nel libro di Giobbe.
E il serpente tentò Dio
Tutti conosciamo questo scritto e tutti sappiamo che è composto da una cornice narrativa fiabesca in prosa e da un ampio dialogo o dibattito in versi, in cui il protagonista, in contesa con gli amici e con Dio, si mostra ben più campione dei diritti dell’innocente perseguitato che di muta pazienza. Non tutti ci rendiamo conto, però, che la soluzione del problema teologico dell’antico testo fa strettamente corpo con la soluzione del suo problema letterario.
Ma quale è questo problema? Esso è precisamente rappresentato dalla difficoltà di cogliere l’unità compositiva dell’intero testo, di conciliare la pazienza del Giobbe fiabesco con la ribellione di quello dialogico, di dare identità coerente e credibile al Dio « tentato » del prologo e a quello « autocelebrativo » dei capitoli 38-41, di capire perché proprio quest’ultimo dia ragione a Giobbe, che lo ha contestato, e non agli amici, che lo hanno difeso, e perché infine Giobbe ritiri le sue accuse a Dio e con lui si riconcili senza avere apparentemente ricevuto risposta alle sue domande.
Un modo per evitare tutte queste questioni è quello di considerare le diverse parti dell’opera come scritti eterogenei di gran pregio messi insieme da un redattore piuttosto approssimativo. Si semplifica così il problema letterario e si sterilizza quello teologico. E’ la strada scelta dai più, ma non è la nostra: visto che la struttura narrativa e poetica del testo esige di essere valutata nella forma in cui ci è pervenuta e che un’ipotesi di lettura unitaria è suggerita dai rimandi che legano ad incastro fiaba e dialogo; visto, infine, che solo l’intervento di un quarto campione di Dio, l’Elihu dei cap.32-37, risulta sicuramente estraneo all’impianto originario e inserito in secondo momento da altra mano, con altro intento, approfittando del carattere aperto e problematico dell’opera.
Ora la prima indicazione, che ci viene dalla valorizzazione del legame tra cornice narrativa e dialogo, è la focalizzazione del testo sulla relazione uomo-Dio, assai più che sul problema del male. L’avventura inizia in cielo perché, mentre Giobbe vive in terra felice e rispettoso dei divini precetti, Satana, ispettore celeste delle umane cose, riesce a gettare l’ombra del dubbio sulle vere ragioni che lo spingono a tanto esercizio di virtù e di pietà. « Forse che Giobbe crede in Dio per nulla? »: sussurra a Dio (1, 9) e Dio deve metterlo alla prova, privandolo dei beni, dei figli e della salute. Alla fine, dopo il drammatico sviluppo dialogico, in cui il tema del male diventa il terreno di verifica del rapporto uomo-Dio, ecco la logica conclusione di questo tema e non di quello: Giobbe ha detto bene di Dio e non gli amici. E’ il suo sacrificio in loro favore e non il loro parlare a favore di Dio ad ottenere la restaurazione della felice condizione iniziale (42, 7-17). Solo Giobbe, infatti, ha saputo stare faccia a faccia con Dio dimostrando dignità, forza e sincerità; ma anche solo Dio è riuscito a reggere la sfida di Giobbe e a farsi accettare con un discorso altrettanto franco e spregiudicato.
Il problema del male è in tutto ciò il terreno di confronto e di scontro, ma non è il problema centrale, tant’è vero che viene discusso, rimescolato fin dalle fondamenta, ma non risolto e altrettanto si dica del problema della creazione che è qui insistentemente evocato.
Con grande acume lo coglie per noi G. Borgonovo: « Rispetto alla teologia profetica pre-esilica e a quella deuteronomistica della legge e della remunerazione il libro di Giobbe colloca il discorso su Dio nell’orizzonte della creazione, un orizzonte più ampio e fondativo. Per esso non si può spiegare la realtà del male partendo da un’etica dell’alleanza. Bisogna presupporre che il Dio dell’alleanza sia il Dio creatore, colui che ha posto in essere l’uomo e il mondo, in quanto realtà in divenire. Da questo punto di vista l’affermazione del II Isaia che da Jhwh, come unico Dio creatore e salvatore, vengono il bene e il male (Is 45, 7) e il contributo di Ezechiele sul principio della responsabilità individuale (Ez 18) rendono incandescente il problema della teodicea. Proprio dall’unione di tali dottrine poteva, infatti, sorgere l’intollerabile immagine di Dio messa in scena contro Giobbe negli interventi dei suoi amici » (La notte e il suo sole, Roma 1995, p. 338).
Il che ci consente di pensare che il libro di Giobbe, insieme al DeuteroIsaia, potrebbe essere una delle voci che hanno spinto i redattori del Pentateuco a valorizzare il tema creativo fino a farne l’apertura della Torah, anche se è evidentissimo che rispetto ai testi qui confluiti esso affronta questo tema con assoluta originalità e persino con spregiudicatezza.
La figura di Satana, ad esempio, che nella prima pagina del libro tenta Dio a proposito di Giobbe, evoca sottilmente ed ironicamente quella del serpente, che in Genesi 3 tenta Adamo ed Eva a proposito di Dio, e l’esito è lo stesso: il precipitare dell’uomo da una condizione edenica di felicità e benessere ad uno stato di prostrazione e dolore. Né le novità spregiudicate si fermano qui.
Negli interventi di Giobbe, infatti, la visione del creato si presenta coi caratteri di una potenzialità negativa sconosciuta ai testi genesiaci e nell’apologia finale del nostro eroe compare un’inaudita rivendicazione di pienezza e dignità umana superiore a quella di Adamo. E’ in tali discorsi che l’uomo manifesta con estrema chiarezza la coscienza dei propri limiti creaturali, il carico di infelicità che lo minaccia e il sospetto che all’origine di tutti i suoi mali non stiano tali limiti, né una sua colpa, ma l’onnipotenza cieca di un Dio potenzialmente sadico.
Giobbe, il riscatto di Adamo
E’ sufficiente ricordare alcune delle affermazioni più incisive del testo. Giobbe inizia con la maledizione del giorno della sua nascita, maledizione che ha sì accenti biografico-esistenziali, ripresi da Geremia (Ger 20, 14-18), ma che subito assume risonanze cosmiche, evocando luci che non risplendono, eclissi di sole, notti prive di computo lunare, incantesimi degni dell’Oceano e di Leviatan, stelle che si negano e aurore che non sorgono (3, 1-9). Non c’è da meravigliarsi se, invitato dagli amici ad affidarsi all’insindacabile giustizia onnipotente di Dio, egli replica che proprio questo lo atterrisce: il potere incontrollabile di un creatore despota che può fare tutto e il contrario di tutto. Può « dispiegare i cieli da solo e cavalcare il mare », ma può anche « impedire al sole di sorgere e tenere sotto sigillo le stelle ». Può condannare l’innocente e ridersela delle tragedie dell’indifeso (9, 1-24). Si interroghino pure le creature del cielo e della terra e in coro confesseranno che quando Lui « blocca le acque tutto inaridisce e quando le libera tutto inonda »; può « rendere potenti i popoli o esiliarli » e può mandare » a tentoni gli uomini nel buio senza luce » (12, 1-25). E’ Dio, creatore e signore della storia, non l’uomo, la vera minaccia. Dio è in grado di fare ciò che vuole, l’uomo è invece debole, fragile, mortale, più effimero persino di un arbusto (14, 1-22).
Eppure, neanche ad un Dio così immaginato, Giobbe si sottrae o rifiuta la sua attenzione. Lo chiama in giudizio, lo invoca, chiede un mediatore per confrontarsi con Lui e infine si presenta come un Adamo, privo di colpe e pronto a non nasconderle. « Non ho come Adamo occultato il mio delitto, né ho celato nel mio petto la mia colpa…Datemi qualcuno che mi ascolti… Il mio rivale scriva la sua accusa. Io me la caricherei sulle spalle e me la cingerei come diadema. Gli renderei conto di tutti i miei passi e come un principe mi presenterei a Lui. »(31, 33-37; trad. Ravasi)..
Giobbe di più non può dire e non dice. Spetta, infatti, a Dio prendere la situazione in pugno. Naturalmente non Dio in persona, come talvolta sembrano ritenere i commentatori, ma Dio come lo mette in scena l’autore del libro, come lo pensa questo singolare contestatore della teologia del patto e della retribuzione. Bisogna ricordarselo per non esagerare il valore della teofania cosmogonica dei capitoli 38-41 e per ricordare che, come nei primi undici capitoli di Genesi, anche qui siamo nel racconto e nell’immagine mitica. Siamo alle prese con una nuova rivisitazione simbolica e teologica del problema della creazione e del rapporto in essa tra bene e male, tra uomo e Dio.
La trascendenza di Dio e l’alterità del creato
Ciò che soprende e lascia interdetti i commentatori è l’assoluta dissonanza tra le richieste di Giobbe e la duplice risposta di Dio. Il primo sollecita un confronto per chiarire la sua posizione e avere spiegazioni sulle cause dei suoi mali e il secondo gli squaderna con sovrabbondanza d’immagini la magnificenza della propria opera di creatore. Non solo, quasi lo sfida a misurarsi con Lui in questa impresa, che tutto comprende: la progettazione e la messa in opera degli astri e del controllo sui loro movimenti, la disciplina delle acque e di ogni altra potenza cosmica, la cura paziente di ben otto specie viventi, tutte selvagge e indomabili per l’uomo, e di due mostri mitici come Behemot e Leviatan, simbolo della violenza e del male. Tutto comprende, meno l’uomo.
Se ritenessimo, come è uso comune, che il libro di Giobbe è una riflessione sul problema del male, non potremmo che concludere che Dio evita la difficoltà, si rifugia nella sua inaccessibilità, schernisce e schiaccia l’uomo dall’alto della sua onnipotenza. Se pensiamo invece, come suggerisce la cornice fiabesca, che la questione in gioco è la relazione uomo-Dio, la loro diversità, ma anche il loro saper stare con dignità l’uno di fronte all’altro, ecco che questi discorsi divini sulla creazione acquistano diversa sonorità. Diventano un’inedita autopresentazione di Dio e della sua trascendente attenzione all’uomo, attraverso un’inedita presentazione dell’alterità della creazione dall’uomo.
In sostanza Dio fa presente a Giobbe, che protesta per la presenza del male nella sua vita, che proprio Lui ha messo in opera e mantiene in vita una molteplicità di esseri naturali, capaci di vivere in totale indipendenza dall’uomo, che Lui sa tenere a bada le stesse potenze del male, senza distruggerle. E così gli rivela che la sua trascendenza non esclude attenzione e cura per l’opera delle sue mani, non è a misura d’uomo, ma neanche insensata e capricciosa. Di fronte all’accusa di Giobbe di essere il despota di un mondo caotico e ingiusto e al tentativo dei suoi amici di costringerlo al ruolo ideologico di difensore dell’ordine costituito, di garante di una giustizia da bempensanti, Dio manifesta la propria diversità dall’uomo, ma anche la propria attenzione a lui e lo fa mettendo in scena una creazione non antropocentricamente ordinata, eppure non inospitale.
Il che è come dire che l’autore del libro di Giobbe segue e propone un modello creativo alternativo sia al racconto Jahvista che a quello Sacerdotale, in quanto rifiuta tanto l’idea del dominio dell’uomo sul mondo animale, quanto quella di una natura uscita perfettamente ordinata e buona dalle mani di Dio. Costitutiva è, infatti, in essa la presenza del mare e del deserto, coi suoi animali irriducibili ad ogni disciplina, ineliminabile quella di Behemot e Leviatan.
A ragione dunque R. Otto considera la teofania di Giobbe come l’espressione dell’ « assolutamente stupendo, del quasi demoniaco, dell’incomprensibile e indecifrabile mistero della creazione e del creatore » (Il Sacro, Milano 1966, p.87). Ma ancor più nel vero è O. Keel quando osserva che tale incomprensibilità non rende impossibile, ma facilita l’incontro dell’uomo con Dio, perché non carica pregiudizialmente né l’uno né l’altro della totale responsabilità del male, ma pone le basi per la loro collaborazione nella lotta contro la sua misteriosa e non invincibile presenza (Dieu répond à Job, Parigi 1988, pp. 129-130).
Ecco perché Giobbe può piegarsi al mistero trascendente di Dio senza perderci la faccia, perché può dire: « Ti conoscevo per sentiro dire, ora i miei occhi ti hanno veduto » (42, 5). Ed ecco perché Dio può, senza pericolo, ammettere che proprio Giobbe, il ribelle, ha parlato bene di lui e con fondamento (42, 8). Ecco infine perché G. Borgonovo può proporre, in luogo di « Per questo ritratto e mi pento sopra la polvere e la cenere » (42, 6), quest’altra traduzione, audace ma non filologicamente infondata: « Detesto polvere e cenere, ma ne sono consolato » (Op, cit., p.285).
L’uomo e Dio faccia a faccia, ambedue in piedi, l’uno immagine dell’alterità misteriosa dell’altro, a confronto in un mondo che contribuisce al dialogo con la sua specifica e problematica presenza. Giobbe nuovo Adamo e Dio nuovo sempre.
Aldo Bodrato