Archive pour avril, 2014

La Madonna del Vangelo

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« DIO VIDE TUTTO QUELLO CHE AVEVA FATTO, ED ECCO CHE ERA MOLTO BUONO » (Gen 1,31):

 http://www.collevalenza.it/CeSAM/02_CeSAM_0004.htm 

« DIO VIDE TUTTO QUELLO CHE AVEVA FATTO, ED ECCO CHE ERA MOLTO BUONO » (Gen 1,31):
MISERICORDIA NELLA CREAZIONE

p. Aurelio Pérez fam

La creazione è il primo atto d’amore di Dio, l’amore fontale per così dire, nel senso che tutto scaturisce da questa fonte dell’essere e della vita che è Dio stesso, come dal grembo di una madre. Anche all’inizio della creazione troviamo, come per la legge del Sinai, dieci parole-comandi (« Dio disse… », Gen 1, 3.6.9.11.14.20.24.26.28.29), attraverso le quali il Signore ha dato vita a tutto il creato(1). Ma la novità biblica, sconosciuta ai sapienti del mondo, è che Dio ha fatto ogni cosa che c’è nel mondo, soprattutto l’essere umano, per amore:
« Nel cammino della fede biblica diventa sempre più chiaro ed univoco ciò che la preghiera fondamentale di Israele, lo Shema, riassume nelle parole: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo» (Dt 6, 4). Esiste un solo Dio, che è il Creatore del cielo e della terra e perciò è anche il Dio di tutti gli uomini. Due fatti in questa precisazione sono singolari: che veramente tutti gli altri dei non sono Dio e che tutta la realtà nella quale viviamo risale a Dio, è creata da Lui. Certamente, l’idea di una creazione esiste anche altrove, ma solo qui risulta assolutamente chiaro che non un dio qualsiasi, ma l’unico vero Dio, Egli stesso, è l’autore dell’intera realtà; essa proviene dalla potenza della sua Parola creatrice. Ciò significa che questa sua creatura gli è cara, perché appunto da Lui stesso è stata voluta, da Lui «fatta». E così appare ora il secondo elemento importante: questo Dio ama l’uomo. La potenza divina che Aristotele, al culmine della filosofia greca, cercò di cogliere mediante la riflessione, è sì per ogni essere oggetto del desiderio e dell’amore — come realtà amata questa divinità muove il mondo —, ma essa stessa non ha bisogno di niente e non ama, soltanto viene amata. L’unico Dio in cui Israele crede, invece, ama personalmente ».(2)
Il messaggio biblico sulla creazione è fondamentalmente positivo: prima della creazione rovinata dal peccato c’è la creazione buona uscita dalle mani di Dio. Per 7 volte viene detto che ciò che Dio ha fatto è buono (tob, kalos = buono e bello), fino alla conclusione: « Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco che era molto buono » (Gen 1,31; cf vv. 4.10.12.18.21.25).
La redenzione stessa è un riportare la creazione al principio voluto da Dio, come dice Gesù a proposito dell’unione voluta da Dio tra l’uomo e la donna: « al principio non è stato così » (Mt 19,4). E’ importantissimo per noi sempre ritornare a questo « principio » che non è un fatto temporale, storico o preistorico, perché Dio non è storico né preistorico, è l’Eterno, anche se il suo Amore si spingerà fino al punto che l’Eterno entrerà nel nostro tempo creato.
Sarebbe un errore contro la sapienza di Dio opporre la creazione alla redenzione. Il Signore non distrugge ciò che ha fatto, ma lo rinnova, lo purifica, portando a compimento l’opera che ha iniziato.

« In principio Dio creò il cielo e la terra » (Gen 1,1ss)
E’ questo l’inizio di una rivelazione sull’umanità e sul mondo, non di un trattato di cosmologia(3). Rivelazione appunto dell’amore creatore, provvidente, che tutto mantiene e sorregge nelle sue mani misericordiose e potenti. La prima cosa che il Signore vuole rivelarci con la sua Parola (siamo alle prime pagine della Scrittura Santa) è che tutto ciò che esiste, compresi noi, l’ha creato LUI, non è frutto del caos né del caso.
« Tutte queste cose le ha fatte la mia mano, esse sono mie, oracolo del Signore ». (Is 66,2)
Tutti noi e ciascuno di noi, il cielo e la terra e tutte le cose che vi abitano procediamo da un Sì d’amore che Dio ha pronunciato su di noi e su tutto il creato.
Il primo canto all’amore misericordioso del Signore che é « eterno », nasce contemplando l’opera della Creazione:
« Celebrate il Signore, perché è buono, poiché eterna è la sua misericordia… Ha fatto i cieli con sapienza… » (Sal 136,1-9)
«Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò»
Siamo di fronte al primo canto nuziale che Dio rivolge alle sue creature, uscite buone, pure e belle dalle sue mani. Per loro ha preparato un giardino meraviglioso, e nel centro di esso ha collocato l’uomo e la donna, fatti « a immagine e somiglianza » di Dio. C’è un’unità originaria (Dio creò l’Adam) che si differenzia nei sessi (li creò maschio e femmina). Ma l’unità – immagine di Dio Uno – sta all’inizio e alla fine della creazione dell’uomo e della donna, chiamati alla comunione. Con l’uomo e la donna (ish e ishah) il Signore ha intessuto il dialogo dell’amicizia, nelle loro mani ha messo tutto il creato perché lo custodiscano e lo coltivino, e in esso crescano fecondi e felici. L’essere immagine e somiglianza di qualcuno indica anche la « figliolanza », come leggiamo più avanti:
« Quando Adamo ebbe centotrent’ anni generò un figlio a sua somiglianza, conforme all’ immagine sua, e lo chiamò Set » (Gen 5,3)
« E Dio disse… »
Questo Sì alla vita è stato detto da Dio attraverso il suo Verbo Creatore. La Parola di Dio è efficace: Egli « dice » e le cose vengono all’esistenza:
« Con la parola del Signore furon fatti i cieli e col soffio della sua bocca tutto il suo ornamento… poiché egli parlò e fu fatto, egli comandò ed esso fu creato » (Sal 33,6.9; cf 148,1-6)
Dio chiama all’esistenza (la nostra prima e universale vocazione è quella alla vita), dà dei nomi, fa le creature secondo la loro specie, assegna loro dei fini, ed esse prendono forma rispondendo alla potenza della sua parola. Il caos disordinato diventa cosmo ordinato.
Nella pienezza della Rivelazione coglieremo il mistero di questa Parola che era « al Principio » presso Dio ed era Dio: « Tutte le cose sono state fatte per mezzo di Lui e senza di Lui niente è stato fatto » (Gv 1,3). Anzi « tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui » (Col 1,16).
« Mandi il tuo Spirito ed essi sono creati » (Sal 104,30)
Insieme alla Parola c’è lo Spirito creatore, la ruah di Dio che dà la vita, dopo aver aleggiato su quel caos iniziale per mettervi ordine; la stessa ruah che Dio soffia nelle narici dell’Adam originario, fatto di creta, e solo allora l’Adam diventa un essere vivente (nefesh). Senza lo Spirito (=il respiro, il soffio di Dio) c’è la morte. Si preannuncia già misteriosamente la dimensione trinitaria, che verrà rivelata pienamente quando la Parola-Figlio assumerà la creta di Adam per divenire il nuovo Adam datore dello Spirito di vita.
Cantare la misericordia del creatore nella contemplazione del creato
Una delle cose più belle, gioiose e liberanti che ci è dato di fare è contemplare l’opera della creazione e noi al suo interno. Sentirci « creature », oggetto dell’interesse amoroso e provvidente del Creatore, ci colloca al posto giusto di fronte a Dio, in vera umiltà gioiosa, piena di gratitudine e capace di assumere le responsabilità che Lui ci affida con il dono della vita. La preghiera che passa in rassegna le opere del Signore, una per una (cf Sal 104, Gb 36,22-37,24; Sal 19,1-7; Dn 3,51-90 ecc.) apre il cuore alla benedizione e alla lode ed fonte di vera gioia e fondato ottimismo. Pensiamo al Cantico delle creature di S. Francesco, alle esclamazioni della nostra Madre di fronte al creato: « qué pintor! ».
———————-
[1] “La creazione esiste perché obbedisce alle dieci parole di Dio, e l’uomo vive ed esiste perché obbedisce ai dieci comandi di Dio” (B. COSTACURTA, Spiritualità dell’Antico testamento – appunti degli studenti – PUG 1994-1995).
[2] BENEDETTO XVI, Deus Caritas est, 9.
[3] Cf F.R. DE GASPERIS, Sentieri di vita, I, Paoline 2005, p. 36ss.

Publié dans:biblica, spiritualità  |on 30 avril, 2014 |Pas de commentaires »

Lo dice il papa teologo: la prova di Dio è la bellezza – di Sandro Magister

http://chiesa.espresso.repubblica.it/articolo/206168

Lo dice il papa teologo: la prova di Dio è la bellezza

La bellezza dell’arte e della musica. Le meraviglie della santità. Lo splendore del creato. Così Benedetto XVI difende la verità del cristianesimo, in un botta e risposta con i preti di Bressanone

di Sandro Magister

ROMA, 11 agosto 2008 – Come ogni estate anche quest’anno Benedetto XVI ha incontrato i sacerdoti della regione nella quale si è recato in vacanza. Per un libero colloquio a domanda e risposta.
L’incontro è avvenuto la mattina di mercoledì 6 agosto nella cattedrale di Bressanone, ai piedi delle Alpi, a pochi chilometri dal confine con l’Austria. Il papa ha risposto a sei domande, parlando in parte in tedesco e in parte in italiano, le due lingue ufficiali della regione. L’incontro era a porte chiuse, senza la presenza di giornalisti. La trascrizione integrale del colloquio è stata diffusa due giorni dopo dalla sala stampa vaticana.
I temi proposti al papa sono stati i più vari. Talora anche scottanti. Un sacerdote ha chiesto se è giusto continuare ad amministrare i sacramenti anche a chi si mostra lontano dalla fede. E il papa, nel rispondergli, ha confessato che da giovane era « piuttosto severo », ma poi ha capito che « dobbiamo seguire piuttosto l’esempio del Signore, che era un Signore della misericordia, molto aperto con i peccatori ».
Un altro ha chiesto se la scarsità di preti non impone di affrontare le questioni del celibato, dell’ordinazione di « viri probati », dell’ammissione delle donne ai ministeri. E il papa ha difeso con forza il celibato come segno del « mettersi a disposizione del Signore nella completezza del proprio essere e quindi totalmente a disposizione degli uomini ».
Qui di seguito sono riprodotte due delle sei domande e risposte. La prima sul nesso tra ragione e bellezza, con suggestivi riferimenti all’arte, alla musica, alla liturgia. La seconda sulla tutela del creato.

1. « Tutte le grandi opere d’arte sono una epifania di Dio »

D. – Santo Padre, mi chiamo Willibald Hopfgartner, sono francescano. Nel suo discorso di Ratisbona Lei ha sottolineato il legame sostanziale tra lo Spirito divino e la ragione umana. Dall’altro canto, Lei ha anche sempre sottolineato l’importanza dell’arte e della bellezza. Allora, accanto al dialogo concettuale su Dio, in teologia, non dovrebbe essere sempre di nuovo ribadita l’esperienza estetica della fede nell’ambito della Chiesa, per l’annuncio e la liturgia?
R. – Sì, penso che le due cose vadano insieme: la ragione, la precisione, l’onestà della riflessione sulla verità, e la bellezza. Una ragione che in qualche modo volesse spogliarsi della bellezza, sarebbe dimezzata, sarebbe una ragione accecata. Soltanto le due cose unite formano l’insieme, e proprio per la fede questa unione è importante. La fede deve continuamente affrontare le sfide del pensiero di questa epoca, affinché essa non sembri una sorta di leggenda irrazionale che noi manteniamo in vita, ma sia veramente una risposta alle grandi domande; affinché non sia solo abitudine ma verità, come ebbe a dire una volta Tertulliano.
San Pietro, nella sua prima lettera, aveva scritto quella frase che i teologi del medioevo avevano preso come legittimazione, quasi come incarico per il loro lavoro teologico: « Siate pronti in ogni momento a rendere conto del senso della speranza che è in voi » – apologia del « logos » della speranza, un trasformare cioè il « logos », la ragione della speranza, in apologia, in risposta agli uomini. Evidentemente, egli era convinto del fatto che la fede fosse « logos », che essa fosse una ragione, una luce che proviene dalla Ragione creatrice, e non un bel miscuglio, frutto del nostro pensiero. Ed ecco perché è universale, per questo può essere comunicata a tutti.
Ma proprio questo « Logos » creatore non è soltanto un « logos » tecnico. È più ampio, è un « logos » che è amore e quindi tale da esprimersi nella bellezza e nel bene. E, in realtà, per me l’arte e i santi sono la più grande apologia della nostra fede.
Gli argomenti portati dalla ragione sono assolutamente importanti ed irrinunciabili, ma poi da qualche parte rimane sempre il dissenso. Invece, se guardiamo i santi, questa grande scia luminosa con la quale Iddio ha attraversato la storia, vediamo che lì veramente c’è una forza del bene che resiste ai millenni, lì c’è veramente la luce dalla luce.
E nello stesso modo, se contempliamo le bellezze create dalla fede, ecco, sono semplicemente, direi, la prova vivente della fede. Se guardo questa bella cattedrale: è un annuncio vivente! Essa stessa ci parla, e partendo dalla bellezza della cattedrale riusciamo ad annunciare visivamente Dio, Cristo e tutti i suoi misteri: qui essi hanno preso forma e ci guardano. Tutte le grandi opere d’arte, le cattedrali – le cattedrali gotiche e le splendide chiese barocche – tutte sono un segno luminoso di Dio e quindi veramente una manifestazione, un’epifania di Dio.
Nel cristianesimo si tratta proprio di questa epifania: che Dio è diventato una velata Epifania, appare e risplende. Abbiamo appena ascoltato il suono dell’organo in tutto il suo splendore e io penso che la grande musica nata nella Chiesa sia un rendere udibile e percepibile la verità della nostra fede: dal Gregoriano alla musica delle cattedrali fino a Palestrina e alla sua epoca, fino a Bach e quindi a Mozart e Bruckner e così via… Ascoltando tutte queste opere – le Passioni di Bach, la sua Messa in si minore e le grandi composizioni spirituali della polifonia del XVI secolo, della scuola viennese, di tutta la musica, anche quella di compositori minori – improvvisamente sentiamo: è vero! Dove nascono cose del genere, c’è la Verità.
Senza un’intuizione che scopra il vero centro creativo del mondo, non può nascere tale bellezza. Per questo penso che dovremmo sempre fare in modo che le due cose siano insieme, portarle insieme. Quando, in questa nostra epoca, discutiamo della ragionevolezza della fede, discutiamo proprio del fatto che la ragione non finisce dove finiscono le scoperte sperimentali, essa non finisce nel positivismo; la teoria dell’evoluzione vede la verità, ma ne vede soltanto metà: non vede che dietro c’è lo Spirito della creazione. Noi stiamo lottando per l’allargamento della ragione e quindi per una ragione che, appunto, sia aperta anche al bello e non debba lasciarlo da parte come qualcosa di totalmente diverso e irragionevole.
L’arte cristiana è un’arte razionale – pensiamo all’arte del gotico o alla grande musica o anche, appunto, alla nostra arte barocca – ma è espressione artistica di una ragione molto più ampia, nella quale cuore e ragione si incontrano. Questo è il punto. Questo, penso, è in qualche modo la prova della verità del cristianesimo: cuore e ragione si incontrano, bellezza e verità si toccano. E quanto più noi stessi riusciamo a vivere nella bellezza della verità, tanto più la fede potrà tornare ad essere creativa anche nel nostro tempo e ad esprimersi in una forma artistica convincente.

2. « La terra attende uomini che se ne prendano cura come opera del Creatore »
D. – Santo Padre, mi chiamo Karl Golser, sono professore di teologia morale a Bressanone e anche direttore dell’Istituto per la giustizia, la pace e la tutela della creazione. Mi piace ricordare il periodo in cui ho potuto lavorare con Lei alla congregazione per la dottrina della fede. [...] Cosa possiamo fare per portare maggiormente nella vita delle comunità cristiane il senso di responsabilità nei riguardi del creato? Come possiamo arrivare a vedere sempre più insieme la creazione e la redenzione?
R.– Anch’io penso che il legame inscindibile tra creazione e redenzione debba ricevere nuovo rilievo. Negli ultimi decenni la dottrina della creazione era quasi scomparsa in teologia, era quasi impercettibile. Ora ci accorgiamo dei danni che ne derivano. Il Redentore è il Creatore e se noi non annunciamo Dio in questa sua totale grandezza – di Creatore e di Redentore – togliamo valore anche alla redenzione. Infatti, se Dio non ha nulla da dire nella creazione, se viene relegato semplicemente in un ambito della storia, come può realmente comprendere tutta la nostra vita? Come potrà portare veramente la salvezza per l’uomo nella sua interezza e per il mondo nella sua totalità?
Ecco perché, per me, il rinnovamento della dottrina della creazione e una nuova comprensione dell’inscindibilità di creazione e redenzione rivestono una grandissima importanza. Dobbiamo riconoscere nuovamente: Lui è il « Creator Spiritus », la Ragione che è in principio e dalla quale tutto nasce e di cui la nostra ragione non è che una scintilla. Ed è Lui, il Creatore stesso, che è pure entrato nella storia e può entrare nella storia ed operare in essa proprio perché Egli è il Dio dell’insieme e non solo di una parte. Se riconosceremo questo, ne conseguirà ovviamente che la redenzione, l’essere cristiani, o semplicemente la fede cristiana significano sempre e comunque anche responsabilità nei riguardi della creazione.
Venti, trenta anni fa si accusavano i cristiani – non so se questa accusa sia ancora sostenuta – di essere i veri responsabili della distruzione della creazione, perché la parola contenuta nella Genesi – « Soggiogate la terra » – avrebbe portato a quella arroganza nei riguardi del creato di cui noi oggi sperimentiamo le conseguenze. Penso che dobbiamo nuovamente imparare a capire questa accusa in tutta la sua falsità: fino a quando la terra è stata considerata creazione di Dio, il compito di « soggiogarla » non è mai stato inteso come un ordine di renderla schiava, ma piuttosto come compito di essere custodi della creazione e di svilupparne i doni; di collaborare noi stessi in modo attivo all’opera di Dio, all’evoluzione che Egli ha posto nel mondo, così che i doni della creazione siano valorizzati e non calpestati e distrutti.
Se osserviamo quello che è nato intorno ai monasteri, come in quei luoghi siano nati e continuino a nascere piccoli paradisi, oasi della creazione, si rende evidente che tutto ciò non sono soltanto parole, ma dove la Parola del Creatore è stata compresa nella maniera corretta, dove c’è stata vita con il Creatore e Redentore, lì ci si è impegnati a salvare la creazione e non a distruggerla.
In questo contesto rientra anche il capitolo 8 della lettera ai Romani, dove si dice che la creazione soffre e geme per la sottomissione in cui si trova e che attende la rivelazione dei figli di Dio: si sentirà liberata quando verranno delle creature, degli uomini che sono figli di Dio e che la tratteranno a partire da Dio.
Io credo che sia proprio questo che noi oggi possiamo constatare come realtà: il creato geme – lo percepiamo, quasi lo sentiamo – e attende persone umane che lo guardino a partire da Dio. Il consumo brutale della creazione inizia dove non c’è Dio, dove la materia è ormai soltanto materiale per noi, dove noi stessi siamo le ultime istanze, dove l’insieme è semplicemente proprietà nostra e lo consumiamo solo per noi stessi. E lo spreco della creazione inizia dove non riconosciamo più alcuna istanza sopra di noi, ma vediamo soltanto noi stessi; inizia dove non esiste più alcuna dimensione della vita al di là della morte, dove in questa vita dobbiamo accaparrarci il tutto e possedere la vita nella massima intensità possibile, dove dobbiamo possedere tutto ciò che è possibile possedere.
Io credo, quindi, che istanze vere ed efficienti contro lo spreco e la distruzione del creato possono essere realizzate e sviluppate, comprese e vissute soltanto là, dove la creazione è considerata a partire da Dio; dove la vita è considerata a partire da Dio e ha dimensioni maggiori – nella responsabilità davanti a Dio – e un giorno ci sarà donata da Dio in pienezza e mai tolta: donando la vita, noi la riceviamo.
Così, credo, dobbiamo tentare con tutti i mezzi che abbiamo di presentare la fede in pubblico, specialmente là dove riguardo ad essa c’è già sensibilità. E penso che la sensazione che il mondo forse ci stia scivolando via – perché siamo noi stessi a cacciarlo via – e il sentirci oppressi dai problemi della creazione, proprio questo ci dia l’occasione adatta in cui la nostra fede può parlare pubblicamente e può farsi valere come istanza propositiva.
Infatti, non si tratta soltanto di trovare tecniche che prevengano i danni, anche se è importante trovare energie alternative ed altro. Tutto questo non sarà sufficiente se noi stessi non troveremo un nuovo stile di vita, una disciplina fatta anche di rinunce, una disciplina del riconoscimento degli altri, ai quali il creato appartiene tanto quanto a noi che più facilmente possiamo disporne; una disciplina della responsabilità nei riguardi del futuro degli altri e del nostro stesso futuro, perché è responsabilità davanti a Colui che è nostro Giudice e in quanto Giudice è Redentore ma, appunto è anche veramente nostro Giudice.
Penso quindi che sia necessario mettere in ogni caso insieme le due dimensioni – creazione e redenzione, vita terrena e vita eterna, responsabilità nei riguardi del creato e responsabilità nei riguardi degli altri e del futuro – e che sia nostro compito intervenire così in maniera chiara e decisa nell’opinione pubblica.
Per essere ascoltati dobbiamo contemporaneamente dimostrare con il nostro stesso esempio, con il nostro proprio stile di vita, che stiamo parlando di un messaggio in cui noi stessi crediamo e secondo il quale è possibile vivere. E vogliamo chiedere al Signore che aiuti noi tutti a vivere la fede, la responsabilità della fede in maniera tale che il nostro stile di vita diventi testimonianza e poi a parlare in maniera tale che le nostre parole portino in modo credibile la fede come orientamento in questo nostro tempo.

 

Santa Caterina da Siena

Santa Caterina da Siena dans immagini sacre St_Catherine._San_Domenico

http://stmarystcatherine.org/about-2/our-history/st-catherines-of-siena-church/who-was-catherine-of-siena/

Publié dans:immagini sacre |on 29 avril, 2014 |Pas de commentaires »

Benedetto XVI: Santa Caterina da Siena (29 aprile)

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2010/documents/hf_ben-xvi_aud_20101124_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 24 novembre 2010

Santa Caterina da Siena

Cari fratelli e sorelle,

quest’oggi vorrei parlarvi di una donna che ha avuto un ruolo eminente nella storia della Chiesa. Si tratta di santa Caterina da Siena. Il secolo in cui visse – il quattordicesimo – fu un’epoca travagliata per la vita della Chiesa e dell’intero tessuto sociale in Italia e in Europa. Tuttavia, anche nei momenti di maggiore difficoltà, il Signore non cessa di benedire il suo Popolo, suscitando Santi e Sante che scuotano le menti e i cuori provocando conversione e rinnovamento. Caterina è una di queste e ancor oggi ella ci parla e ci sospinge a camminare con coraggio verso la santità per essere in modo sempre più pieno discepoli del Signore.
Nata a Siena, nel 1347, in una famiglia molto numerosa, morì a Roma, nel 1380. All’età di 16 anni, spinta da una visione di san Domenico, entrò nel Terz’Ordine Domenicano, nel ramo femminile detto delle Mantellate. Rimanendo in famiglia, confermò il voto di verginità fatto privatamente quando era ancora un’adolescente, si dedicò alla preghiera, alla penitenza, alle opere di carità, soprattutto a beneficio degli ammalati.
Quando la fama della sua santità si diffuse, fu protagonista di un’intensa attività di consiglio spirituale nei confronti di ogni categoria di persone: nobili e uomini politici, artisti e gente del popolo, persone consacrate, ecclesiastici, compreso il Papa Gregorio XI che in quel periodo risiedeva ad Avignone e che Caterina esortò energicamente ed efficacemente a fare ritorno a Roma. Viaggiò molto per sollecitare la riforma interiore della Chiesa e per favorire la pace tra gli Stati: anche per questo motivo il Venerabile Giovanni Paolo II la volle dichiarare Compatrona d’Europa: il Vecchio Continente non dimentichi mai le radici cristiane che sono alla base del suo cammino e continui ad attingere dal Vangelo i valori fondamentali che assicurano la giustizia e la concordia.
Caterina soffrì tanto, come molti Santi. Qualcuno pensò addirittura che si dovesse diffidare di lei al punto che, nel 1374, sei anni prima della morte, il capitolo generale dei Domenicani la convocò a Firenze per interrogarla. Le misero accanto un frate dotto ed umile, Raimondo da Capua, futuro Maestro Generale dell’Ordine. Divenuto suo confessore e anche suo “figlio spirituale”, scrisse una prima biografia completa della Santa. Fu canonizzata nel 1461.
La dottrina di Caterina, che apprese a leggere con fatica e imparò a scrivere quando era già adulta, è contenuta ne Il Dialogo della Divina Provvidenza ovvero Libro della Divina Dottrina, un capolavoro della letteratura spirituale, nel suo Epistolario e nella raccolta delle Preghiere. Il suo insegnamento è dotato di una ricchezza tale che il Servo di Dio Paolo VI, nel 1970, la dichiarò Dottore della Chiesa, titolo che si aggiungeva a quello di Compatrona della città di Roma, per volere del Beato Pio IX, e di Patrona d’Italia, secondo la decisione del Venerabile Pio XII.
In una visione che mai più si cancellò dal cuore e dalla mente di Caterina, la Madonna la presentò a Gesù che le donò uno splendido anello, dicendole: “Io, tuo Creatore e Salvatore, ti sposo nella fede, che conserverai sempre pura fino a quando celebrerai con me in cielo le tue nozze eterne” (Raimondo da Capua, S. Caterina da Siena, Legenda maior, n. 115, Siena 1998). Quell’anello rimase visibile solo a lei. In questo episodio straordinario cogliamo il centro vitale della religiosità di Caterina e di ogni autentica spiritualità: il cristocentrismo. Cristo è per lei come lo sposo, con cui vi è un rapporto di intimità, di comunione e di fedeltà; è il bene amato sopra ogni altro bene.
Questa unione profonda con il Signore è illustrata da un altro episodio della vita di questa insigne mistica: lo scambio del cuore. Secondo Raimondo da Capua, che trasmette le confidenze ricevute da Caterina, il Signore Gesù le apparve con in mano un cuore umano rosso splendente, le aprì il petto, ve lo introdusse e disse: “Carissima figliola, come l’altro giorno presi il tuo cuore che tu mi offrivi, ecco che ora ti do il mio, e d’ora innanzi starà al posto che occupava il tuo” (ibid.). Caterina ha vissuto veramente le parole di san Paolo, “… non vivo io, ma Cristo vive in me” (Gal 2,20).
Come la santa senese, ogni credente sente il bisogno di uniformarsi ai sentimenti del Cuore di Cristo per amare Dio e il prossimo come Cristo stesso ama. E noi tutti possiamo lasciarci trasformare il cuore ed imparare ad amare come Cristo, in una familiarità con Lui nutrita dalla preghiera, dalla meditazione sulla Parola di Dio e dai Sacramenti, soprattutto ricevendo frequentemente e con devozione la santa Comunione. Anche Caterina appartiene a quella schiera di santi eucaristici con cui ho voluto concludere la mia Esortazione apostolica Sacramentum Caritatis (cfr n. 94). Cari fratelli e sorelle, l’Eucaristia è uno straordinario dono di amore che Dio ci rinnova continuamente per nutrire il nostro cammino di fede, rinvigorire la nostra speranza, infiammare la nostra carità, per renderci sempre più simili a Lui.
Attorno ad una personalità così forte e autentica si andò costituendo una vera e propria famiglia spirituale. Si trattava di persone affascinate dall’autorevolezza morale di questa giovane donna di elevatissimo livello di vita, e talvolta impressionate anche dai fenomeni mistici cui assistevano, come le frequenti estasi. Molti si misero al suo servizio e soprattutto considerarono un privilegio essere guidati spiritualmente da Caterina. La chiamavano “mamma”, poiché come figli spirituali da lei attingevano il nutrimento dello spirito.
Anche oggi la Chiesa riceve un grande beneficio dall’esercizio della maternità spirituale di tante donne, consacrate e laiche, che alimentano nelle anime il pensiero per Dio, rafforzano la fede della gente e orientano la vita cristiana verso vette sempre più elevate. “Figlio vi dico e vi chiamo – scrive Caterina rivolgendosi ad uno dei suoi figli spirituali, il certosino Giovanni Sabatini -, in quanto io vi partorisco per continue orazioni e desiderio nel cospetto di Dio, così come una madre partorisce il figlio” (Epistolario, Lettera n. 141: A don Giovanni de’ Sabbatini). Al frate domenicano Bartolomeo de Dominici era solita indirizzarsi con queste parole: “Dilettissimo e carissimo fratello e figliolo in Cristo dolce Gesù”.
Un altro tratto della spiritualità di Caterina è legato al dono delle lacrime. Esse esprimono una sensibilità squisita e profonda, capacità di commozione e di tenerezza. Non pochi Santi hanno avuto il dono delle lacrime, rinnovando l’emozione di Gesù stesso, che non ha trattenuto e nascosto il suo pianto dinanzi al sepolcro dell’amico Lazzaro e al dolore di Maria e di Marta, e alla vista di Gerusalemme, nei suoi ultimi giorni terreni. Secondo Caterina, le lacrime dei Santi si mescolano al Sangue di Cristo, di cui ella ha parlato con toni vibranti e con immagini simboliche molto efficaci: “Abbiate memoria di Cristo crocifisso, Dio e uomo (…). Ponetevi per obietto Cristo crocifisso, nascondetevi nelle piaghe di Cristo crocifisso, annegatevi nel sangue di Cristo crocifisso” (Epistolario, Lettera n. 21: Ad uno il cui nome si tace).
Qui possiamo comprendere perché Caterina, pur consapevole delle manchevolezze umane dei sacerdoti, abbia sempre avuto una grandissima riverenza per essi: essi dispensano, attraverso i Sacramenti e la Parola, la forza salvifica del Sangue di Cristo. La Santa senese ha invitato sempre i sacri ministri, anche il Papa, che chiamava “dolce Cristo in terra”, ad essere fedeli alle loro responsabilità, mossa sempre e solo dal suo amore profondo e costante per la Chiesa. Prima di morire disse: “Partendomi dal corpo io, in verità, ho consumato e dato la vita nella Chiesa e per la Chiesa Santa, la quale cosa mi è singolarissima grazia” (Raimondo da Capua, S. Caterina da Siena, Legenda maior, n. 363).
Da santa Caterina, dunque, noi apprendiamo la scienza più sublime: conoscere ed amare Gesù Cristo e la sua Chiesa. Nel Dialogo della Divina Provvidenza, ella, con un’immagine singolare, descrive Cristo come un ponte lanciato tra il cielo e la terra. Esso è formato da tre scaloni costituiti dai piedi, dal costato e dalla bocca di Gesù. Elevandosi attraverso questi scaloni, l’anima passa attraverso le tre tappe di ogni via di santificazione: il distacco dal peccato, la pratica della virtù e dell’amore, l’unione dolce e affettuosa con Dio.
Cari fratelli e sorelle, impariamo da santa Caterina ad amare con coraggio, in modo intenso e sincero, Cristo e la Chiesa. Facciamo nostre perciò le parole di santa Caterina che leggiamo nel Dialogo della Divina Provvidenza, a conclusione del capitolo che parla di Cristo-ponte: “Per misericordia ci hai lavati nel Sangue, per misericordia volesti conversare con le creature. O Pazzo d’amore! Non ti bastò incarnarti, ma volesti anche morire! (…) O misericordia! Il cuore mi si affoga nel pensare a te: ché dovunque io mi volga a pensare, non trovo che misericordia” (cap. 30, pp. 79-80). Grazie.

 

Publié dans:Papa Benedetto XVI, Santi |on 29 avril, 2014 |Pas de commentaires »

di Mons. Gianfranco Ravasi – (In principio) La Parabola anticotestamentaria dell’insegnare

http://www.stpauls.it/studi/maestro/italiano/ravasi/itarav02.htm

di Mons. Gianfranco Ravasi

I. La Parabola anticotestamentaria dell’insegnare

Parliamo di « parabola » perché si tratta di descrivere una specie di percorso, che comprende due tappe:

1ª Primato della teofania, cioè il Signore che è Maestro;
2ª L’uomo che a sua volta diventa maestro, dopo avere ascoltato Dio Maestro. (torna al sommario)
1. Primato della teofania

In assoluto, il punto di partenza è sempre la grazia. In principio c’è l’epifania di Dio. In principio c’è la Parola divina che infrange il silenzio del nulla e dell’ignoranza dell’uomo. «Dio disse: « Sia la luce ». E la luce fu». All’inizio c’è questa Parola, radicale e fondamentale, senza la quale ci sarebbe il vuoto, il nulla. Nessuna altra parola risuonerebbe. All’inizio c’è questa presenza assoluta dell’unico Signore e Maestro che è Dio.
San Paolo (in Rm 10,20) si sorprende per una bellissima frase di Isaia: «Il profeta osa dire: Io, il Signore, mi sono fatto trovare anche da quelli che non mi cercavano». L’uomo se ne va per le sue strade, se ne andrebbe all’infinito lontano, se a un crocevia non si presentasse l’epifania di Dio, la sua Parola. In principio quindi c’è la Sapienza di Dio. Nella Genesi (1,3) c’è proprio questa frase: «Dio disse». O nel Nuovo Testamento: «En archè èn ho logos, in principio c’era la Parola (per eccellenza)», la grande teofania iniziale, senza la quale non c’è nessun insegnamento. Senza la grazia non esiste la parola nostra; senza la Parola di Dio non esistono le nostre parole. (torna al sommario)

I (tre) luoghi della teofania.
Dove e come si manifesta Dio? Ricordiamo tre luoghi nei quali si offre la « lezione » di Dio, la prima « lezione » assoluta.
1º. La Parola o lezione di Dio si manifesta innanzitutto nella Torah (nome derivato da una radice ebraica, jrh, che significa « insegnare »). È l’insegnamento per eccellenza, la « dottrina » per eccellenza di Dio. Perciò noi dobbiamo ascoltare la prima lezione divina attraverso l’ascolto della Legge. Tutto il Salmo 119 (118 della Volgata) è un inno grandioso, monumentale alla Parola di Dio più che alla Legge (Torah). Pascal lo recitava tutte le mattine; una volta, almeno nel breviario del rito ambrosiano, lo si recitava tutti i giorni, tutto intero, durante le ore della giornata. È una lode continua, una specie di moto perpetuo: non soltanto la costruzione è in 22 strofe, con un gioco alfabetico, ma ogni versetto deve avere almeno una delle otto parole con cui si definisce la Parola di Dio. Ebbene, questo canto continuo della Parola di Dio è la celebrazione della prima, fondamentale lezione che dobbiamo ascoltare, una lezione di vita, (è anche legge), non solo una lezione di conoscenza del mistero di Dio.
Nel Salmo 25 (versetti 4, 5, 8, 9, 10 e 12) continuamente si chiede a Dio che, rivelandoci la sua Parola, ci indichi la via. «Io sono la via, la verità e la vita», dirà Cristo. Con un piccolo particolare: in ebraico, il termine via, derek, ha alla base probabilmente una radice di origine cananea che significa la vigoria sessuale, l’energia vitale. Allora, dire: «Io sono la via e la vita» si può quasi esprimere con una parola sola: «Io sono la via». Indicare la via vuol dire anche indicare la via della vita. D’altronde, la via in tutte le culture è un grande simbolo della esistenza stessa. In questo senso la celebrazione della via che la Torah ci offre è la celebrazione, come dice il Salmo 119, della lampada che illumina i passi della nostra esistenza (v. 105).
Ancora, nel Salmo 143,10 chiediamo: «Insegnami (è il verbo del maestro, rivolto a Dio!), insegnami a compiere il tuo volere, perché tu sei il mio Dio. Il tuo spirito buono mi guidi in terra piana». Troviamo qui le due immagini, le due componenti: «Insegnami il tuo volere», la tua volontà, non solo il tuo mistero, ma un mistero efficace, che agisce in me. E poi mi guiderai «sulla terra piana», nel sentiero dell’esistenza.
2º. L’epifania del Signore-Maestro si presenta nelle sue opere salvifiche, nelle sue azioni di salvezza, come leggiamo nel Salmo 103 (versetto 7): «Ha rivelato a Mosè le sue vie, ai figli d’Israele le sue opere». Per la legge del parallelismo, qui vengono descritte non più « la mia via », ma « le vie di Dio ». E qual è la via di Dio? Sono le sue opere, le sue opere di salvezza, inserite nell’interno della storia. La Bibbia è la storia di Dio ed è la celebrazione del Dio della storia, la Bibbia è una storia della salvezza.
Di qui alcune conseguenze di questa tesi fondamentale. Gli Ebrei hanno chiamato lungamente Mosè con un appellativo: morenu, che vuol dire « il nostro maestro ». E come viene rappresentato questo « nostro maestro »? «Io sarò con la tua bocca», dice il Signore a Mosè, «ti istruirò in quello che dovrai dire» (Es 4,12; cf 24,12). E che cosa farà poi Mosè? Parlerà e salverà. Dio usa perciò anche dei maestri concreti. Per la sua storia della salvezza passa attraverso di noi, che pur siamo fragili. Mosè sarebbe stato l’ultimo da scegliere, come maestro: era balbuziente, era incapace di parlare, aveva in sé una debolezza costituzionale: «Manda un altro» (si scusa in Es 4,13; come succede in altri racconti di « vocazione con obiezione »).
Una seconda considerazione. Che cosa dobbiamo dunque trasmettere, che cosa narrare nella nostra catechesi? Che cosa insegnare? La risposta si trova nel Salmo 78 (il secondo più lungo della Bibbia, dopo il 119), che possiamo intitolare come fa la Bible de Jérusalem: «Le lezioni della storia della salvezza». Ciò che noi dobbiamo trasmettere ed annunciare è non il Dio remoto e astratto, non «il Dio dei filosofi» (per usare ancora la famosa espressione del Memoriale di Pascal), non il Dio dei sapienti, ma il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Dio salvatore.
3º. Dopo l’epifania di Dio nella Torah e nella storia, l’epifania di Dio si manifesta anche nell’oscurità della prova, nella tenebra, nel suo silenzio. A questo riguardo, due libri dell’Antico Testamento sono particolarmente interessanti e significativi: Qoèlet e Giobbe. In essi si riesce a vedere la rivelazione di Dio nell’interno del silenzio.
Essi, però, non ci danno la manifestazione del Dio-Maestro, che invece troviamo esplicitamente in un versetto del Deuteronomio (8,5): «Come un padre corregge il figlio, così il Signore, tuo Dio, ti corregge». È bellissima questa immagine del maestro-padre (questi due aspetti anche nei Proverbi coincidono: il maestro è pure il padre, il discepolo è anche il figlio). Questo maestro conosce, tra l’altro, la strada della durezza, una via che il discepolo non riesce a comprendere. «Le mie vie non sono le vostre vie» (Is 55,8).
C’è, quindi, una paidèia, se vogliamo usare l’espressione greca, una pedagogia divina purificatrice. C’è una parola divina che sconcerta, nel bene e nel male. In Geremia (23,29) la Parola di Dio viene rappresentata come un martello che spacca la roccia, come una fiamma ardente che brucia, e consuma. Spessissimo, nell’Antico Testamento, la Parola di Dio si autorappresenta con immagini « offensive ». Questo avviene anche nel Nuovo: la lettera agli Ebrei (4,12) evoca la Parola di Dio come spada che taglia la superficie, la pelle, e penetra fino alle giunture, fino alle ossa, al midollo. C’è dunque una paidèia che si sviluppa nell’oscurità (un tema molto bello e suggestivo). C’è da ringraziare Dio, invece di sentirsi imbarazzati, che nell’Antico Testamento esista un libro come Qoèlet, un libro della crisi, della crisi della Sapienza: un maestro che non crede più in quello che insegna, e che non attende forse più nulla, ma che comunque riflette – e anch’esso è parola di Dio! – su questo misterioso parlare-insegnare di Dio attraverso il suo silenzio, attraverso il vuoto. Oppure, è significativo che nell’Antico Testamento ci siano delle pagine come quelle del libro di Giobbe, dove il protagonista bestemmia. In quel momento, Dio passa attraverso quasi la negazione di se stesso. Come diceva Bonhoeffer: Dio non ci salva in virtù della sua onnipotenza – come Signore e Maestro, come Padrone –; Dio ci salva in virtù della sua debolezza, diventando fratello dell’uomo in Cristo, attraverso la sua impotenza, la sua sofferenza. Parlando tuttavia dell’insegnamento del Maestro divino attraverso il suo silenzio e la prova, occorre ricordare che, pure in quel momento, Dio non cessa di essere il Maestro che serve, anzi forse in quel momento è vicino all’uomo molto di più di prima.
Osea (11,3-4) esprime la tenerezza paterna anche nella severità: «Io ho insegnato i primi passi a Efraim. Me li prendevo sulle braccia, con legami pieni di umanità, li attiravo a me, con vincoli d’amore». Efraim rimane ribelle; però questo padre, pure se il figlio non capisce, ha sempre vincoli d’amore, perfino quando punisce, come un padre corregge il figlio. A questo riguardo c’è una bellissima immagine del grande pensatore danese Soeren Kierkegaard, nel suo libro Timore e tremore, dedicato nella sua maggior parte a Gen 22 (il sacrificio di Isacco). Soeren Kierkegaard usa questa immagine, che tra l’altro è vera in Oriente: la madre, quando deve svezzare suo figlio, si tinge di nero il seno, perché il figlio non abbia più a desiderarlo, e cominci a nutrirsi da solo. In quel momento il bambino odia sua madre, perché gli toglie la fonte del suo sostentamento e anche del suo piacere (pensiamo a quel che ha detto la psicanalisi a questo riguardo); eppure egli non sa che in quel momento la madre, mentre lo distacca da sé e sembra crudele, mai l’ha amato così tanto, perché lo fa diventare uomo capace di vivere da solo nel mondo, lo fa creatura libera (e quante madri non hanno staccato il figlio dal seno, anche se non materialmente, e lo fanno ancora succube!). Ecco: anche nel momento della prova, non dobbiamo mai dimenticare il mistero del Dio Padre e Madre. (torna al sommario)

2. L’uomo maestro
L’uomo istruito da Dio diventa a sua volta maestro, viene inviato come maestro. Tre brevi considerazioni al riguardo.
a) Il padre al figlio
Il magistero fondamentale è quello che passa attraverso la comunicazione interpersonale, la catechesi familiare, una relazione d’amore. Abbiamo esempi molto illuminanti a questo riguardo. Nei Proverbi, il padre continuamente dice: «Figlio mio…», e al figlio dona la sua sapienza. In questo caso il maestro, che è padre, non può che desiderare che il discepolo cresca; cosa che invece il maestro-padrone non vuole, perché è geloso della sua supremazia intellettuale. Il padre pensa: « Bisogna che lui cresca e che io diminuisca », come il Battista (cf Gv 3,30). E il capitolo 31 (sempre dei Proverbi), con quella strana finale, la celebrazione della donna sapiente, è probabilmente anche la conclusione di un itinerario didattico. Dopo aver svolto la sua lezione, il maestro-padre saluta il figlio che ha trovato la sua sposa. Questa sposa è una donna ideale, perfetta, ma è anche la Sapienza: il giovane è diventato a sua volta maestro, sapiente. Tale dovrebbe essere il nostro scopo. Dobbiamo sparire, insegnando agli altri. Dobbiamo far sì che l’altro sia capace di crescere nella fede e nella conoscenza, e poi ritirarci.
In Esodo 12, con la descrizione del rito pasquale, troviamo ciò che viene fatto dagli Ebrei attraverso l’haggadah. Quest’ultima è una narrazione che comprende un dialogo tra il padre e il figlio sul significato dei riti, per giungere alla scoperta dell’azione di liberazione di Dio. Qui vediamo quale sia la funzione del maestro nella famiglia, nella relazione d’amore: è quella d’insegnare la libertà, di far conoscere un Dio che è liberatore, non colui che t’impone la cappa di piombo delle sue norme, ma che ti indica la strada gioiosa della sua volontà, che è libertà e salvezza.
Da ultimo, il Salmo 78 nella sua prima diecina di versetti ci offre una suggestiva rappresentazione della catechesi. Che cos’è la vera catechesi ecclesiale? È un continuo comunicare, di padre in figlio, di generazione in generazione, le grandi opere di Dio, la grande linea dinamica di salvezza entro cui noi siamo immersi. (torna al sommario)

b) I sacerdoti-profeti-sapienti
Tra i maestri ci sono anche i sacerdoti, i sapienti, i profeti. Potremmo offrire molti dati su questo tipo di insegnamento. Basti citare come esempio 1Sm 3. Il sacerdote di nome Eli, il maestro di Samuele, è il direttore spirituale per eccellenza, che non si sostituisce al discepolo, ma gli insegna come deve scoprire la sua vocazione, di chi sia quella voce che nella notte lo chiama.
Un altro modello, molto interessante per il problema dell’inculturazione, sarebbe quel maestro che ha scritto attorno all’anno 30 a.C. il libro della Sapienza. Egli si presenta come Salomone, il supremo sapiente. Il libro della Sapienza è il tentativo di riscrivere la grande lezione di Israele con le categorie filosofiche del mondo greco, in un altro orizzonte culturale. Paolo è l’esempio più alto di questa operazione di mediazione culturale, di inculturazione, di ritrascrizione del messaggio semitico di Cristo in nuove coordinate, in modalità nuove.
In Neemia 8, il personaggio che domina è Esdra, il sacerdote, che fa la sua lezione sulla Parola di Dio. È un maestro significativo perché ci rivela come possiamo diventare noi stessi maestri della Parola di Dio. Nell’episodio potremmo individuare sette « stelle », cioè una costellazione di sette componenti che sono la rappresentazione di questo magistero della parola:
Leggere la Parola di Dio, «per brani distinti», si dice. Sul leggere ci sarebbe già tutta una lezione da fare, ai nostri giorni, quando la lettura diventa sempre più difficile, sempre meno praticata. I nostri ragazzi vedono, ma non leggono, ascoltano caso mai. Gli Ebrei non chiamano la Bibbia « scrittura » come noi; la chiamano migra’, che vuol dire « la lettura »; è la stessa radice della parola quran, il Corano è la « lettura » generosa.
Spiegare. Comporta l’esegesi. «Senza la penetrazione nelle parole, nel senso delle parole, come posso capire la Parola?». Questa è una frase di Massimo il Confessore, un mistico palestinese, nato sulle alture del Golàn, da un padre samaritano e da una madre che era una schiava persiana; nato nella terra di Gesù, poi farà una fine che è emblematica anche per il maestro: gli taglieranno la lingua e la mano destra, i due elementi della parola e dell’azione, per punire lui annunciatore della verità del vangelo. Massimo il Confessore, che è forse l’ultimo dei Padri greci, diceva dunque: «Se tu non conosci le parole, come puoi conoscere la Parola?». Spiegare! Spezziamo una lancia a favore dello studio serio della Parola, contro le tentazioni pentecostal-misticheggianti, contro certe forme carismatiche (quel dire: « Prendi la Parola e come risuona leggi e pratica », può portare al fondamentalismo).
Comprendere. Il « comprendere » biblico, come diceva giustamente Maritain, è una «connaissance savoureuse», una conoscenza saporosa. Il conoscere biblico, come anche l’ »amare », è appunto una conoscenza circolare, simbolica. Dunque, tre parole-stelle nella prima linea: leggere, spiegare, comprendere; le altre quattro sono invece nella linea esistenziale.
Ascoltare. «Essi ascoltavano, porgevano l’orecchio». Nella Bibbia lo stesso verbo shama’ indica sia « ascoltare » che « obbedire ». Quindi shema’ Israel non è soltanto « ascolta, Israele! », ma anche « aderisci! ». «Adonài elohénu adonài ehàd» (il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo) è non soltanto una conoscenza di tipo intellettivo, ma è la scoperta di una relazione (cf Dt 6,4ss). È per questo che «lo amerai con tutto il cuore…». Amerai viene subito dopo ascoltare. Per questo nel Salmo 40 si dice letteralmente (versetto 7): «Tu mi hai forato l’orecchio», come si fa allo schiavo; io sono il tuo schiavo, ho l’orecchio forato, nel senso che aderisco completamente a te.
Gli occhi si colmano di lacrime: gli ascoltatori si mettono a piangere, cioè si convertono. La parola di Dio ti fa piangere i tuoi peccati. Ecco un altro elemento prodotto da una vera lezione: essa inquieta le coscienze; la Parola di Dio artiglia l’anima, altrimenti è una semplice informazione. Lo scrittore ultra-novantenne Julien Green affermava: «Se io dovessi riassumere tutto quello che ho scritto, lo esprimerei con questa frase: « Finché si è inquieti, si può stare tranquilli »». Finché c’è questa inquietudine, che è quella agostiniana (« inquietum est cor nostrum »), allora si può stare in pace.
Le mani portano delle porzioni di cibo ai poveri. La lezione che ricevo dalla Parola di Dio mi costringe ad andare verso i miseri, ad offrire il pane della Parola e anche il pane reale.
La festa, la liturgia delle Capanne, la terza festa ebraica. Cioè il grande, ultimo insegnamento lo si ha nella liturgia.
Dunque, sette parole: leggere, spiegare, comprendere; ascoltare, piangere, donare, celebrare. Tale è la traiettoria all’insegnamento compiuto nell’interno della comunità ecclesiale attraverso i vari ministeri dell’annunzio. (torna al sommario)

c) Pedagogia globale
La pedagogia biblica è una pedagogia globale. Non è un processo solo intellettuale. Facciamo una breve annotazione filologica. Lamàd, insegnare, è il verbo fondamentale del maestro. O meglio, lamàd non vuol dire insegnare, ma « imparare ». Però, curiosamente, nella forma intensiva, limmed, diventa « insegnare ». La stessa radice non distingue tra imparare e insegnare. E questo stabilisce un circuito. Il vero maestro è uno che impara anche, e il vero discepolo alla fine è capace di insegnare. Se il circuito non si chiude, non si ha un vero magistero. Il maestro, che non è attento al discepolo, è di sua natura condannato alla solitudine, alla torre d’avorio della sua elaborazione, ma non lascerà traccia. Per chi è abituato a parlare spesso in pubblico, una delle componenti fondamentali, anche tecniche, è di vedere e capire se l’ambiente è colmo di risonanza, se è in ascolto. Altrimenti si va avanti nel parlare, ma l’altro non dialoga. Insegnare è dialogare. Anche se l’altro tace. Ci si deve accorgere di entrare nell’interno della comunicazione, grazie anche alle domande presentate dall’altro. Oscar Wilde diceva: «A dare le risposte sono capaci tutti; per fare le vere domande ci vuole un genio». Ed è verissimo. Le grandi domande, che fanno andare avanti nella conoscenza, le pongono soltanto i geni. E di fatto la domanda, anche graficamente, noi la esprimiamo non con l’esclamazione, che è una linea retta, ma con qualcosa che si aggroviglia in sé, che quindi lacera, che artiglia, che fa sanguinare.
Un altro verbo ricorrente nella pedagogia biblica è jaràh; jaràh-torah, il quale indica un insegnamento che è « via e vita », come abbiamo già visto.
Ancora: jasàr, donde deriva il sostantivo musàr, significa la « disciplina », cioè l’impegno severo, ascetico del conoscere. Per essere veramente maestri bisogna avere la pazienza di stare ore e ore nello studio, nella fatica.
E da ultimo il verbo jada’ che vuol dire « conoscere » e implica tutte le dimensioni, la globalità simbolica dell’insegnamento biblico. Comprende l’aspetto intellettivo, l’aspetto affettivo (sentimento), l’aspetto volitivo (volere), l’aspetto effettivo. « Conoscere » indica persino l’atto sessuale. Perché si conosce anche con la passione e l’azione, con la comunione dei corpi, si conosce con la convivenza, si conosce con l’azione, costruendo insieme un progetto.
Concludendo la parabola anticotestamentaria dell’insegnare, occorre dire una cosa un po’ paradossale: scopo del maestro è rendersi inutile. L’abbiamo già visto, ma ora va detto in maniera più forte, ricorrendo alla dimensione escatologica. Negli ultimi tempi il maestro non ci sarà più, perché ci sarà un Maestro interiore. Vi è una intensa frase nel vangelo di Giovanni (6,45), che cita Isaia 54,13: «Sta scritto nei profeti: « E tutti saranno theodidàktoi, ammaestrati da Dio ». Chiunque ha udito il Padre e ha imparato da lui, viene a me». Non ci sono più i mediatori. « È il Padre che ti parla e tu vieni a me », dice il Signore. Il testo di Isaia in ebraico (Giovanni cita il greco nella traduzione dei LXX) dice esattamente: «Tutti i tuoi figli saranno discepoli del Signore». Bella definizione della comunità escatologica: tutti saranno « discepoli » del Signore.
Più rilevante ancora è l’oracolo di Geremia (31,31-34) sulla « nuova alleanza », il più celebre di tutti gli oracoli profetici, che costituisce anche la citazione più lunga dell’Antico Testamento nel Nuovo, in Ebrei 8,8-12. Come sarà la grande, perfetta alleanza del nuovo Sinai? Come sarà il momento in cui noi avremo una comunità che sarà completamente in comunione con Dio? Ecco la risposta di Geremia: «Porrò io la mia torah nel loro animo; la scriverò sul loro cuore. Non dovranno più istruirsi gli uni gli altri»: non ci sarà più il maestro, il sacerdote, il profeta, il sapiente che dovrà dire all’altro: « Riconoscete il Signore ». «Perché tutti mi conosceranno, dal più piccolo al più grande»

Publié dans:biblica, CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 29 avril, 2014 |Pas de commentaires »

Sacro Monte di Varallo-Cappella XXVI-Il pentimento di san Pietro

 Sacro Monte di Varallo-Cappella XXVI-Il pentimento di san Pietro dans immagini sacre
http://it.wikipedia.org/wiki/File:Sacro_Monte_di_Varallo-Cappella_XXVI-Il_pentimento_di_san_Pietro.JPG

Publié dans:immagini sacre |on 28 avril, 2014 |Pas de commentaires »

PREGHIERA AL PADRE DELLA VERITÀ, DELLA SAPIENZA E DELLA FELICITÀ – SANT’AGOSTINO

http://www.vatican.va/spirit/documents/spirit_20021008_agostino-soliloqui_it.html

PREGHIERA AL PADRE DELLA VERITÀ, DELLA SAPIENZA E DELLA FELICITÀ

Agostino, Soliloqui, 1,1.2-4

« O Dio, creatore dell’universo, concedimi prima di tutto che io ti preghi bene, quindi che mi renda degno di essere esaudito, e infine di ottenere da te la redenzione. O Dio, per la cui potenza tutte le cose che da sé non sarebbero, si muovono verso l’essere; o Dio, che non permetti che cessi d’essere neanche quella realtà i cui elementi hanno in sé le condizioni di distruggersi a vicenda; o Dio, che hai creato dal nulla questo mondo, di cui gli occhi di tutti avvertono l’alta armonia; o Dio, che non fai il male ma lo permetti perché non avvenga il male peggiore; o Dio, che manifesti a pochi, i quali si rivolgono a ciò che veramente è, che il male non è reale; o Dio, per la cui potenza l’universo, nonostante la parte non adatta al fine, egualmente lo raggiunge; o Dio, dal quale la dissimilitudine non produce l’estrema dissoluzione, poiché le cose peggiori si armonizzano con le migliori; o Dio, che sei amato da ogni essere che può amare, ne sia esso cosciente o no; o Dio, nel quale sono tutte le cose, ma che la deformità esistente nell’universo non rende deforme, né il male meno perfetto, né l’errore meno vero; o Dio, che hai voluto che soltanto gli spiriti puri conoscessero il vero; o Dio, padre della verità, padre della sapienza, padre della vera e somma vita, padre della felicità, padre del buono e del bello, padre della luce intelligibile, padre del nostro risveglio e della nostra illuminazione, padre del pegno che ci ammonisce di tornare a te!
Te invoco, Dio verità, fondamento, principio e ordinatore della verità di tutti gli esseri che sono veri; o Dio sapienza, fondamento, principio e ordinatore della sapienza di tutti gli esseri che posseggono sapienza, o Dio vera e somma vita, fondamento, principio e ordinatore della vita degli esseri che hanno vera e somma vita; Dio beatitudine, fondamento, principio e ordinatore della beatitudine di tutti gli esseri che sono beati; o Dio bene e bellezza, fondamento, principio e ordinatore del bene e della bellezza di tutti gli esseri che sono buoni e belli; o Dio luce intelligibile, fondamento, principio e ordinatore della luce intelligibile di tutti gli esseri che partecipano alla luce intelligibile; o Dio, il cui regno è tutto il mondo che è nascosto al senso; o Dio, dal cui regno deriva la legge per i regni della natura; o Dio, dal quale allontanarsi è cadere, verso cui voltarsi è risorgere, nel quale rimanere è avere sicurezza; o Dio, dal quale uscire è morire, al quale avviarsi è tornare a vivere, nel quale abitare è vivere; o Dio, che non si smarrisce se non si è ingannati, che non si cerca se non si è chiamati, che non si trova se non si è purificati; o Dio, che abbandonare è andare in rovina, a cui tendere è amare, che vedere è possedere; o Dio, al quale ci stimola la fede, ci innalza la speranza, ci unisce la carità; o Dio, per mezzo del quale trionfiamo dell’avversario: ti scongiuro!
O Dio, che abbiamo accolto per non soggiacere a morte totale; o Dio, da cui siamo stimolati alla vigilanza; o Dio, col cui aiuto sappiamo distinguere il bene dal male; o Dio, col cui aiuto fuggiamo il male e operiamo il bene; o Dio, col cui aiuto non cediamo ai perturbamenti; o Dio, col cui aiuto siamo soggetti con rettitudine al potere e con rettitudine l’esercitiamo; o Dio, col cui aiuto apprendiamo che sono anche di altri le cose che una volta reputavamo nostre e sono anche nostre le cose che una volta reputavamo di altri; o Dio, col cui aiuto non ci attacchiamo agli adescamenti e irretimenti delle passioni; o Dio, col cui aiuto la soggezione al plurimo non ci toglie l’essere uno; o Dio, col cui aiuto il nostro essere migliore non è soggetto al peggiore; o Dio, col cui aiuto la morte è annullata nella vittoria; o Dio, che ci volgi verso di te; o Dio, che ci spogli di ciò che non è e ci rivesti di ciò che è; o Dio, che ci rendi degni di essere esauditi; o Dio, che ci unisci; o Dio, che ci induci alla verità piena; o Dio, che ci manifesti la pienezza del bene e non ci rendi incapaci di seguirlo né permetti che altri lo faccia; o Dio, che ci richiami sulla vita; o Dio, che ci accompagni alla porta; o Dio, che fai sì che si apra a coloro che picchiano; o Dio, che ci dai il pane della vita; o Dio, che ci asseti di quella bevanda, sorbendo la quale non avremo più sete; o Dio, che accusi il mondo sul peccato, la giustizia e il giudizio; o Dio, col cui aiuto non siamo influenzati da coloro che non credono; o Dio, col cui aiuto riproviamo coloro i quali affermano che le anime non possiedono alcun merito dinanzi a te; o Dio, col cui aiuto non diveniamo adoratori degli elementi inetti e impotenti; o Dio, che ci purifichi e ci prepari ai premi divini: viemmi incontro benevolo!
In qualsiasi modo io possa averti pensato, il Dio uno sei tu, e tu vieni in mio aiuto, una eterna e vera essenza, dove non ci sono discordia, oscurità, cangiamento, bisogno, morte, ma somma concordia, somma chiarezza, somma costanza e durata, somma pienezza, somma vita; dove nulla manca, nulla ridonda, dove colui che genera e colui che è generato sono una medesima cosa; Dio, cui sono soggette tutte le cose prive di autosufficienza, cui obbedisce ogni anima buona; per le cui leggi ruotano i poli, le stelle compiono le loro orbite, il sole rinnova il giorno, la luna mitiga la notte, e tutto il mondo, mediante le successioni e i ritorni dei tempi, conserva, per quanto la materia sensibile lo comporta, la grande uniformità dei fenomeni, attraverso i giorni con l’alternarsi del giorno e della notte, attraverso i mesi con le lunazioni, attraverso gli anni con i ritorni di primavera, estate, autunno e inverno, attraverso i lustri col compimento del corso solare, attraverso i secoli col ritorno delle stelle alle loro origini; o Dio, per le cui leggi esistenti per tutta la durata della realtà non si permette che il movimento difforme delle cose mutevoli sia turbato, ma che venga ripetuto, sempre secondo uniformità, nella dimensione rotante dei tempi; per le cui leggi è libera la scelta dell’anima e sono stati stabiliti premi per i buoni e pene per i cattivi con leggi fisse e universali; o Dio, da cui provengono a noi tutti i beni e sono allontanati tutti i mali; o Dio, sopra del quale, fuori del quale e senza il quale non c’è nulla; o Dio, sotto il quale è il tutto, nel quale è il tutto, col quale è il tutto; che hai fatto l’uomo a tua immagine e somiglianza, il che può comprendere chi conosce te stesso: ascolta, ascolta, ascolta me, mio Dio, mio Signore, mio re, mio padre, mio fattore, mia speranza, mia realtà, mio onore, mia casa, mia patria, mia salvezza, mia luce, mia vita; ascolta, ascolta, ascolta me nella maniera tua, soltanto a pochi ben nota! »

Publié dans:preghiera (sulla), Sant'Agostino |on 28 avril, 2014 |Pas de commentaires »

LA SAPIENZA COME SAPORE: ALLE RADICI DI UNA SPIRITUALITÀ SAPIENZIALE

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=114

ALLE RADICI DI UNA SPIRITUALITÀ SAPIENZIALE

SINTESI DELLA RELAZIONE DI ARMIDO RIZZI

Verbania Pallanza, 18 gennaio 1997

In una prima parte sarà presentato un itinerario fenomenologico (dai sapori alla sapienza). In un secondo momento saranno indicate alcune figure della sapienza. Più che di radici si parlerà di ambientazioni, di contestualizzazioni della sapienza.

un itinerario fenomenologico: dai sapori alla sapienza

il sapore
« Sapienza » come « sapore » viene dal latino sàpere, che corrisponde al nostro « aver sapore ». La prima accezione di sàpere è dalla parte dell’oggetto, dei sapori.
In italiano c’è un verbo che fa da ponte tra oggetto e soggetto ed è « gustare » (oltre al raffinato « assaporare »), che indica sia il sapore (il gusto) che il sentire il sapore.
Questa facilità a migrare dal soggetto all’oggetto sta ad indicare una forma di conoscenza in cui soggetto e oggetto sono profondamente uniti, una forma di conoscenza diversa da quella più comunemente intesa, quella cioè del soggetto « di fronte » all’oggetto. La prima riguarda il dato originario, il campo sorgivo del conoscere, rispetto al quale la seconda (quella che si rifà al senso del vedere) è un momento successivo.
Il gustare, l’avere buon gusto, riguarda non solo i sapori, ma tutto ciò che è bello e buono, come le tinte, i suoni, ecc.. Il gusto, nella sua accezione più generale, è il senso più soggettivo (non si può gustare a distanza, mentre si può vedere e sentire) ed è il meno strumentale, il cui valore è fine a se stesso.
Mentre la maggior parte dei sensi ha un valore strumentale, il gusto ha sempre una dimensione fruitiva, ha il massimo di carattere fruitivo. Ecco perché il gusto indica quella forma di conoscenza in cui il cuore delle cose e il cuore del soggetto sono più vicini.
il gusto del bello (la connaturalità estetica)
Il « buongustaio » non è semplicemente « chi gusta », ma chi sa valutare i gusti, chi sa riconoscere come buone, belle, valide le cose che lo sono davvero.
Si tratta qui di un sapere veritativo, in grado di dare dei giudizi di valore, non solo di fatto.
Tutto il mondo dell’estetica rientra in questo sapere veritativo. Quando dico di un qualche cosa che « è bello », intendo dire che è come deve essere, che è conforme ad un canone ideale, al tipo ideale di quella cosa. Chi ha buon gusto va oltre la superficie delle cose, per coglierne la forma, l’essenza.
Se è vero che qui abbiamo a che fare con giudizi di valore che presumono di dire ciò che è bello, buono, ecc., è anche vero che questi giudizi sono indimostrabili. Non esiste la dimostrazione scientifica del bello, del buono, del valido. Possiamo solo affidarci alla capacità di mettersi in sintonia tra soggetto e oggetto, alla quale uno può essere maggiormente predisposto e che comunque deve coltivare.
Questa disposizione di base e la successiva acclimatazione sono la connaturalità.
la sapienza
Oltre alla connaturalità estetica (che riguarda gli oggetti da contemplare) esiste anche una connaturalità operativa (che riguarda il saper fare), che, come la precedente, necessita sia di predisposizioni naturali che di apprendimento.
La sapienza è la convergenza di queste due connaturalità, è l’intelligenza insieme contemplativa e operativa, è la capacità di vedere che cosa è giusto fare.
È la prudentia dei latini, che indica non solo ciò che è bene evitare, ma che cosa è giusto fare.
« Giusto » è qui inteso non in senso strumentale, né nel senso estetico (la misura giusta), ma come il giusto della giustizia, che riguarda l’azione vista dal di dentro. È il giusto come canone dell’agire umano, che qualifica il soggetto umano come persona. La persona è vista come giusta o non giusta a seconda di ciò che fa. È la dimensione più profonda della persona ed è l’istanza ultima.
Non è la qualità dell’altro (di bellezza, di intelligenza, di giustizia) a definire l’esigenza dell’agire giusto, che mi definisce come persona giusta. Proprio il cogliere che devo comportarmi giustamente con l’altro mi fa percepire il suo valore incommensurabile, il suo carattere « sacro », il mio essere sempre in una posizione di debito.
È questo sapere indimostrabile ad indicare ciò che è la sapienza: il cogliere, al di dentro dell’esigenza di agire giustamente, il valore dell’altro in quanto colui nei confronti del quale devo agire giustamente indipendentemente da quello che ha o è.
alcune figure della sapienza

il cosmo umano
Il cosmo umano è quell’ordine globale, all’interno del quale i singoli tipi di azione e di comportamento si qualificano come giusti, proprio in quanto parti del tutto ordinato.
Se la sapienza è l’intelligenza che coglie ciò che è giusto, in questa figura lo coglie come parte di un « cosmo ordinato ».
Nelle religioni naturalistiche il cosmo umano è visto come inserito nel cosmo naturale. Le leggi del cosmo diventano le leggi della condotta umana.
Nell’ebraismo classico il cosmo umano è visto come comunità con cui Dio fa alleanza, a cui Dio dà la legge. Non è più il cosmo naturale, sdivinizzato, fonte di valore per l’agire umano.
Nel pensiero cristiano convergeranno la visione ebraica della comunità a cui Dio dà la legge e la riflessione della filosofia greca secondo cui la legge umana tende ad essere inserita nella legge cosmica. Le leggi della comunità umana acquistano un carattere ambiguo di « leggi naturali ».
Le tre sottofigure esposte si muovono all’interno del « principio-tradizione ». La sapienza, come modo giusto di guardare il mondo, è trasmessa di generazione in generazione ed è fatta risalire agli dei a Dio, come nell’ebraismo. La trasmissione, e l’origine divina, legittima ciò che viene trasmesso.
La modernità rompe con questo sapere sapienziale tramandato. « Sàpere aude! » Abbi il coraggio di servirti della tua propria intelligenza (Kant).
La fonte di legittimazione non è più la tradizione, ma la ragione adulta o il futuro, l’utopia. L’ideale del mondo giusto di domani diventa fonte di legittimazione di ciò che è giusto fare nel presente (es.: il marxismo).
Ma oggi anche il « principio-ragione » è entrato in crisi e si cerca di recuperare un sapere sapienziale
o rifacendosi alle tradizioni del passato (fondamentalismi);
o creando tradizioni nuove (New Age);
o affermando una « nuova laicità », la consapevolezza cioè che esiste, diffusa in tutta l’umanità in quanto dotata di coscienza etica, una sapienza, che può essere terreno comune tra uomini religiosi e non religiosi e che può favorire la nascita dell’uomo planetario (Balducci), consapevole insieme della propria universalità (« io sono soltanto un uomo ») e della propria parzialità (appartenenza ad una precisa tradizione e fede).
la sapienza celeste
È una figura che fa parte della tradizione cristiana cattolica. La costruzione di un mondo buono e giusto, la sapienza del cosmo umano, è vista come piattaforma per muoversi sin da ora in direzione della patria celeste (la sapienza celeste). Questa visione è rintracciabile nella teologia monastica.
cogliere i « segni dei tempi »
I segni dei tempi, il « kairòs », sono, in una prima accezione, i segni di un certo periodo storico, che bisogna cogliere per poter intervenire. Il profeta ha questo fiuto di saper cogliere dove sta andando la storia per potervi operare. I segni dei tempi sono qui visti nel loro risvolto culturale e storico.
Il fiuto dei processi storico-culturali, unito alla luce o fede a cui uno aderisce, è una forma di sapienza come capacità di leggere i segni dei tempi, che possiamo chiamare profezia.
la sapienza del tempo escatologico come sapienza dell’istante
Il « kairòs » è qui visto non in relazione ai fatti storici, ma all’istante, all’oggi continuo.
Con Gesù sono giunti i tempi ultimi, perché tutto il tempo, in ogni suo istante, è tempo di decisione come se fosse l’ultima. Ogni istante è un « kairòs » come senso che Dio ci dona e che ci sollecita ad una risposta. Ogni istante è una occasione irripetibile di diventare un po’ noi stessi, un’occasione quindi non semplicemente in base ai nostri interessi o gusti.
Nella parabola del fattore disonesto e scaltro (Lc 16,1-9), Gesù ci invita ad avere l’intelligenza (la scaltrezza) di capire che si è nel tempo escatologico, nel tempo che va sfruttato per diventare ciò che dobbiamo essere, non in base ai nostri progetti, opzioni o desideri, ma in base al progetto che Dio ha inscritto dentro di noi e per noi.
Il progetto che Dio ha su di noi è ultimativamente la disposizione ad amare, a farci amici i poveri diavoli che ci ospiteranno « nelle dimore eterne ».
L’ultima parola della sapienza evangelica è la sapienza dell’amore.

Publié dans:FILOSOFIA, Teologia |on 28 avril, 2014 |Pas de commentaires »

Canonizzazione Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII

Canonizzazione Giovanni Paolo II e Giovanni XXIII dans immagini sacre 27+aprile+Santi+Papa+Giovanni+XXIII+E+PAPA+GIOVANNI+PAOLO+II+ROMA+BB+ACQUEDOTTI+ANTICHI

http://bedandbreakfastaromaacquedottiantichi.blogspot.it/2013/11/27-aprile-2014-santi-giovanni-xxiii-e.html

Publié dans:immagini sacre |on 25 avril, 2014 |Pas de commentaires »
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