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ENZO BIANCHI RIVALUTARE LA TENEREZZA: ANCHE DIO DÀ LE CAREZZE

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ENZO BIANCHI RIVALUTARE LA TENEREZZA: ANCHE DIO DÀ LE CAREZZE

mercoledì 14 ottobre 2015

Si tiene da domani a sabato, presso la Facoltà teologica cattolica dell’Università di Vienna, il congresso internazionale «Papa Francesco e la rivoluzione della tenerezza». L’appuntamento, a cui parteciperanno esperti da tutto il mondo, si concentrerà in particolare sull’analisi dell’esortazione apostolica Evangelii Gaudium e sulle sue ricadute nel mondo cattolico e sul paesaggio culturale contemporaneo. Tra i relatori italiani: Isabella Guanzini si occupa di «Tenerezza del finito. Estetica e politica delle relazioni elementari»; Piero Coda dice «Sì alle relazioni nuove generate da Gesù Cristo»; Serena Noceti affronta il tema «Per una Chiesa inclusiva: categorie e principi interpretativi della re-visione ecclesiologica»; Marcello Neri parla di «Theologia cordis, Sensibili al tempo»; Pierangelo Sequeri si misura su «Esporsi, fra Dio e gli uomini, a favore degli uomini. L’intercessione»; Roberto Vinco spiega «Papa Francesco: il linguaggio delle periferie». Tra gli altri partecipanti: Christoph Theobald, Ingeborg Gabriel, Gabriel Mmassi.Recentemente è stato edito il volume I vangeli, tradotti e commentati da quattro bibliste, opera che tra l’altro vuole mostrare come siano possibili una traduzione e un commento « altri » rispetto alla maggior parte di quelli già esistenti. Credo sia più che accettabile l’ipotesi che una donna biblista commenti la Scrittura in modo altro rispetto agli uomini; più discutibile, forse, è che anche la sua traduzione sia altra. E tuttavia mi pare significativo che siano proprio delle donne bibliste a insistere, per esempio, sul fatto che il termine ebraico tradotto nelle lingue neolatine con «misericordia» possa essere reso con «tenerezza».In verità il vocabolario ebraico dell’amore è molto ricco (chen, chesed, rechem/rachamim, termini che a volte si influenzano reciprocamente e mescolano i loro significati), anche se va riconosciuto che nella traduzione dall’ebraico al greco e poi al latino della Vulgata questa varietà lessicale si è progressivamente condensata intorno al termine «misericordia». Le attuali versioni bibliche – e mi riferisco soprattutto a quella a cura della Cei pubblicata nel 2008 – seguono questa tradizione, anche se da qualche tempo si sono levate voci che chiedono di rendere rachamim con «tenerezza», caldeggiando di conseguenza lo sviluppo di una teologia biblica della tenerezza di Dio.Poiché rechem/rachamim designa un movimento intimo, istintivo, causato da un fremito di amore che diventa com-passione, soffrire con, sensibilità; e poiché si tratta di un sentimento materno, che nasce dalle viscere, dalle interiora della madre, allora sembrerebbe più indicato tradurre con tenerezza invece che con misericordia, «cuore per i miseri». Occorre anche riconoscere che spesso si comprende la misericordia non nella sua autentica portata biblica, ma la si equivoca come un termine che designerebbe un sentimento di pietà, dall’alto in basso (come d’altronde può avvenire anche con il termine «compassione»).
Nel contempo, però, anche il concetto di tenerezza non è esente dai medesimi rischi, soprattutto quando si usa l’aggettivo «tenero», che può assumere connotazioni sdolcinate: dire che qualcuno è tenero, spesso suona inadeguato a definire la sua capacità di affetto e di com-passione. Può essere anche utile ricordarne l’etimologia: «tenerezza» viene dal latino tenerum, che significa «di poca durezza, che acconsente al tatto», dunque «sensibile»; ed è significativo che in alcuni dizionari lo si accosti, in senso figurato, a «sdolcinato», addirittura a «effeminato»…Queste precisazioni lessicali sono necessarie per interpretare con fedeltà il pensiero di papa Francesco, che indubbiamente ha immesso nel magistero pontificio il termine «tenerezza», con immediate ricadute nel linguaggio spirituale ed ecclesiale. Fin dall’omelia di inizio del pontificato (19 marzo 2013), Francesco ha affermato: «Non dobbiamo avere paura della bontà, anzi neanche della tenerezza!». Nella sua predicazione si serve spesso di questo termine, a commento dei testi più diversi dell’Antico e del Nuovo Testamento.Nell’esortazione apostolica Evangelii gaudium parla per ben 11 volte di tenerezza, ricorrendo a questa parola in modo sempre pensato, con molto discernimento. Parla di «tenerezza combattiva contro gli assalti del male» (85), di «infinita tenerezza del Signore» (274), di «tenerezza» come «virtù dei forti» (288), di «forza rivoluzionaria della tenerezza» (ibid.), avendo coscienza che la tenerezza è appunto una virtus, una forza attiva e pratica, non solo un sentimento. Arriva a scrivere che «Il Figlio di Dio, nella sua incarnazione, ci ha invitato alla rivoluzione della tenerezza» (88).Perché questa insistenza sulla tenerezza? Perché la vita è un duro mestiere, perché i rapporti oggi si sono fatti duri, senza prossimità, anaffettivi, e gli uomini e le donne del nostro tempo sentono soprattutto il bisogno di tenerezza. Tenerezza come sensibilità, apertura all’altro, capacità di relazioni in cui emergano l’amore, l’attenzione, la cura. La tenerezza non è un sentimento sdolcinato, ma è vero che soprattutto gli uomini, debitori di una cultura dell’uomo forte, solido, che sa sempre usare la ragione a costo di non ascoltare il cuore, di una cultura diffidente verso le emozioni, non hanno coltivato in passato e forse non coltivano nemmeno oggi questa straordinaria virtù.Per questo il papa esorta a non aver paura della tenerezza e denuncia: «Quanto bisogno di tenerezza ha oggi il mondo!» (Omelia della notte di Natale, 2014). A ben vedere, la tenerezza è davvero ciò che oggi più manca. Quante relazioni tra sposi o amanti vengono meno, vedono depotenziarsi la passione oppure finiscono per essere affette da violenza e cosificazione dell’altro, proprio perché manca la tenerezza; quante relazioni di amicizia ingrigiscono perché non si è capaci di rinnovare il legame con la tenerezza; quanti incontri non sbocciano in relazione per mancanza di tenerezza… Ecco perché la tenerezza deve vedersi ed essere riconosciuta su un volto: altrimenti il volto diventa rigido, duro, inespressivo!Se la tenerezza è un sentimento di viscere materne, allora sta anche per misericordia, e per questo Francesco spesso le accosta. In ciò è fedele alle sante Scritture, che ci forniscono immagini straordinarie, veri e propri «elogi delle carezze di Dio». Basti pensare alla vicenda di Osea, profeta che ama perdutamente la sua donna, prostituta e adultera: vuole attrarla a sé, nonostante le sue infedeltà, vuole portarla nel deserto, in un luogo appartato, per poterle parlare nell’intimità «cor ad cor»(Os 2,16).Non solo, ma quando Osea deve descrivere l’amore di Dio per il suo popolo, parla di un Dio che attira a sé con legami di bontà, come un padre che solleva il proprio bimbo portandoselo alla guancia, guancia a guancia (Os 11,4), in un esercizio di reciproca sensibilità tattile che racconta la dolcezza dell’amore. E Isaia ci consegna con audacia l’immagine di un Dio dai tratti materni, che allatta, porta in braccio, accarezza e consola il proprio figlio (Is 66,12-13), figlio che non potrà mai dimenticare né abbandonare (Is 49,14-15). Da questi testi l’amore di Dio è rivelato innanzitutto come tenerezza, che Dostoevskij ha definito «la forza di un amore umile».Proprio perché la tenerezza è misericordia, quando è stata praticata e narrata da Gesù, essa ha suscitato scandalo. È il papa stesso a dirlo: «Per Gesù ciò che conta, soprattutto, è raggiungere e salvare i lontani, curare le ferite dei malati, reintegrare tutti nella famiglia di Dio. E questo scandalizza qualcuno! E Gesù non ha paura di questo tipo di scandalo! Egli non pensa alle persone chiuse che si scandalizzano… di fronte a qualsiasi carezza o tenerezza che non corrisponda alle loro abitudini di pensiero e alla loro purità ritualistica» (omelia 15 febbraio 2015).
Ma a prescindere dall’uso della terminologia della misericordia, la tenerezza di Gesù è visibile nel suo comportamento abituale: quando, incontrando i bambini, rimprovera i discepoli che vorrebbero tenerli distanti (Mc 10,13-16 e par.); quando si lascia accarezzare dalla donna peccatrice (Lc 7,37-38) o da quella che gli unge di profumo la testa (Mc 14,3; Mt 26,7) o i piedi (Gv 12,3); quando si commuove alla vista della folla sbandata, simile a un gregge senza pastore (Mc 6,34; Mt 9,36); quando, dopo la resurrezione, chiama per nome «Maria», la Maddalena che lo cerca piangente (Gv 20,16)…Gesù «mite e umile di cuore» (Mt 11,29), cioè dolce e umile di cuore, pieno di tenerezza e umile di cuore: questo dovremmo comprendere di lui, e se a volte i Vangeli ce lo presentano in collera, non dobbiamo dimenticare che questa è l’altra faccia della sua com-passione. Solo chi conosce la com-passione, infatti, può ricorrere alla collera e così dichiarare la sua non indifferenza di fronte alla sofferenza. Nei Vangeli non sta scritto che Gesù abbia accarezzato qualcuno, se non i bambini (cf. Mc 10,16; Mt 19,15); eppure sono convinto che avesse l’arte della carezza, che abbia accarezzato qualche volto dei discepoli, qualche volto in lacrime, qualche volto in preda alla malattia.La tenerezza è un aspetto della misericordia, è la misericordia che si fa vicinissima fino a essere una carezza, un prendere la mano dell’altro nella propria mano, un asciugare le lacrime sugli occhi dell’altro: la tenerezza è misericordia fatta tatto e la misericordia, a sua volta, è una carezza. Dicono che questo papa non si fa vedere, ma piuttosto si fa toccare. C’è una verità in questo giudizio, perché Francesco sa mostrare la sua tenerezza: e chi sente la mancanza di tenerezza va da lui, non tanto per vederlo, ma sperando di essere abbracciato.

Publié dans:meditazioni bibliche |on 14 décembre, 2020 |Pas de commentaires »

«SALUTO MAI ALTRE VOLTE UDITO»

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«SALUTO MAI ALTRE VOLTE UDITO»  

« Piena di grazia »: Maria è stata e rimane colmata dal favore divino. Ed è nostra sicura vocazione…  

Nelle litanie lauretane invochiamo la Vergine come santa Maria, santa Madre di Dio, santa Vergine delle vergini, Regina dei santi, e le chiediamo di pregare per noi peccatori, perché ci aiuti a diventare santi. Ciò vuol dire che riconosciamo in lei non solo l’icona della nostra santità, ma pure il suo ruolo di cooperatrice, di formatrice di santi. Ci soffermeremo questa volta sull’invocazione Santa Maria, per comprendere cosa vuol dire essere santi, e cogliere così le ragioni per cui diciamo santa la Vergine Maria ed imparare da lei le vie per le quali si giunge alla santità. Cosa vuol dire essere santi? Nell’Antico Testamento il termine Santo – Qadosh, in ebraico, e Aghios in greco – vuol dire Separato (Dio, il Tutt’Altro; il Santo d’Israele). A Mosè che voleva avvicinarsi a vedere il roveto ardente, disse il Signore: «Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa» (Es 3,5). Con Isaia si passa dalla santità intesa come separazione fisica, esterna, alla santità intesa come separazione morale, interna da tutto ciò che non piace a Dio, al Santo d’Israele. Il Profeta sente i serafini che «proclamavano l’uno all’altro: « Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria »» (Is 6,3). La santità di Dio esige dall’uomo che sia anche lui santificato, cioè separato dal profano, purificato dal peccato, partecipando alla giustizia di Dio. Nel Nuovo Testamento la nozione di santità si precisa con la rivelazione che Gesù fa dello Spirito Santo. Dio comunica la sua santità. Nel battesimo si diventa veramente figli di Dio e compartecipi della natura divina, e perciò veramente santi. Il battezzato deve quindi, con l’aiuto di Dio, mantenere e perfezionare, vivendola, la santità che ha ricevuto (LG 40). Il cristiano è tempio dello Spirito Santo (1Cor 6,19). Maria è santa, santissima; è la Tuttasanta (la Panaghia). Nell’Annunciazione Maria è salutata con l’appellativo di « Piena di grazia », Kecharitomene. È un titolo che le è rivolto da Dio, mediante l’Angelo. Potremmo dire che questo è il nome proprio di Maria. Qual è la portata di questo nome? Esso vuol dire che Maria è stata e rimane colmata dal favore divino e che questo favore l’ha tutta trasformata, santificata. Scrive Pio IX nella lettera apostolica Ineffabilis Deus dell’8 dicembre 1854: «Gli stessi Padri e gli scrittori della Chiesa, considerando attentamente che la beatissima Vergine, in nome e per ordine di Dio stesso, fu chiamata « Piena di grazia » dall’angelo Gabriele… insegnarono che, con questo singolare e solenne saluto, mai altre volte udito, viene manifestato che la Madre di Dio fu sede di tutte le grazie, ornata di tutti i carismi del divino Spirito, anzi tesoro quasi infinito e abisso inesauribile dei medesimi carismi, cosicché giammai fu sottoposta alla maledizione, ma fu partecipe insieme al Figlio della perpetua benedizione». A questa pienezza di grazia, a questa santità ricevuta da Dio, Maria ha sempre e pienamente corrisposto: «Già piena di grazia quando fu salutata dall’arcangelo Gabriele, Maria ne fu ricolma con sovrabbondanza quando lo Spirito Santo stese su di lei la sua ombra ineffabile. Poi crebbe talmente di giorno in giorno e di momento in momento in quella duplice pienezza, che raggiunse un grado di grazia immenso e inconcepibile» (Montfort, Vera devozione 44). Così Maria diventa icona di santità per tutti i fedeli: sacerdoti, religiosi, laici. Volendo concretare i percorsi obbligati, quasi paradigma di verifica della nostra personale imitazione della santità di Maria, potremmo indicarli come fa L. De Candido in NDM, pp. 1251-1253: lasciarsi amare da Dio (accogliere i suoi doni, affidarsi alla sua guida, saperlo ringraziare, creare un proprio Magnificat…); obbedire con intelligenza: con libera fede (LG 56); ascoltare in contemplazione (custodia nel cuore, difesa della parola, confronto tra i messaggi, pazienza nell’incomprensione, silenzio protettivo); perseverare nella fedeltà… soprattutto come presenza accanto a Cristo; servire chi deve essere servito, con Maria la serva del Signore; perseverare presso la croce. Maria suscita, forma e incorona i santi. Diventare santi è nostra sicura vocazione. Ma quali mezzi occorrono per rispondere e corrispondere a tale vocazione? Tutti li conosciamo. Il Vangelo ce li indica, i maestri di vita spirituale li spiegano, i santi li vivono. L’insegnamento di san Luigi Maria da Montfort, il quale invita a riconoscere e ad abbracciare la vera devozione a Maria in totale affidamento a lei come segreto di grazia e di santità. Numerose sono le pagine dove il Montfort propone la vera devozione a Maria come segreto di santità. Ne riferisco qui solo alcune tra le più espressive e incisive: «O Spirito Santo… Tutti i santi del passato e del futuro sino alla fine del mondo sono opere del tuo amore unito a quello di Maria» (Preghiera infocata 15). «Maria è un luogo santo, anzi il Santo dei santi, dove i santi sono formati e modellati» (Trattato della vera devozione a Maria 218); «La formazione e l’educazione dei grandi santi, che vivranno verso la fine del mondo, sono riservate a Maria, perché soltanto questa Vergine singolare e miracolosa può produrre, insieme allo Spirito Santo, le cose singolari e straordinarie» (ivi 35). Queste chiare affermazioni del Montfort sono in perfetta sintonia con il Vaticano II, là dove esso dice che «Maria coopera con amore di madre alla rigenerazione e alla formazione dei fedeli» (LG 63); sono in perfetta sintonia anche con un discorso che Pio XI fece, il 15 agosto 1933, per la canonizzazione della beata Giovanna Antida Thouret. «…Anche riguardo ai santi si può dire che Maria è con Dio in quanto li suscita, li forma, e li incorona. Anzitutto li suscita. Le anime semplici si rivolgono a Maria, che risplende all’aurora e all’alba di tutte le sante vite: è sempre con l’intervento speciale di Maria che si annunciano fin dai primi giorni della loro vita uno di quei santi o di quelle sante che un giorno accresceranno i tesori della santità della Chiesa. Si può dire che, anche prescindendo da questi santi inizi, è sempre Maria che, per il suo posto speciale nella gloria e nella santità, è vera ispiratrice e suscitatrice di santi. Formare la santità è opera esclusivamente divina, ma se la grazia è da Dio, è però data per Maria che è la nostra avvocata e mediatrice, in quanto l’affetto materno da una parte trova corrispondenza nella pietà filiale, Dio dà le grazie, Maria le ottiene e le distribuisce. Maria non solo suscita i santi, ma anche li incorona: essa li conduce alla perseveranza finale ed alla gloria eterna. La Chiesa invita a pregare Maria e ad invocarla con le parole mortis hora suscipe: tu ne ricevi nell’ora della nostra morte. È bello vedere Maria non solo ricevere le anime come la morte a lei le porta, ma portarle essa stessa a ricevere la corona di gloria meritata con la sua assistenza». Con queste ultime espressioni Pio XI fece riferimento a un bel discorso di san Bonaventura sul capitolo 12 dell’Apocalisse. «Le dodici stelle che incoronano Maria simboleggiano i santi tutti. Attribuendo a Maria la loro corona di gloria, essi incoronano colei dalla quale, dopo Dio, si sentono incoronati, come è detto in Ap 4,10: « I 24 vegliardi gettavano le loro corone davanti al trono ». Questi vegliardi raffigurano tutti i santi. Così tutti i santi gettano le loro corone davanti a colui che siede in trono, perché si riconoscono incoronati dal Signore e dalla sua santa Madre, simboleggiata dal trono».

Giuseppe Daminelli

DIO GREMBO DI VITA*

 http://digilander.libero.it/tempo_perso_2/NEGLIA__Dio_grembo_di_vita.htm

DIO GREMBO DI VITA*

di Alberto Neglia

All’inizio del cammino di fede di ogni credente c’è l’iniziativa di Dio. È lui che raggiunge ogni uomo, lo chiama e lo coinvolge a respirare con il suo respiro, a diventare, in Cristo Gesù, figlio e ad esprimere nel frammento della propria carne la bellezza del suo volto e dei suoi gesti. Questa è la vocazione dell’uomo. Ma ogni uomo, seppure chiamato, fa l’esperienza del peccato. Si nega, cioè, a questa prospettiva e cede, o per debolezza o per ignoranza o per consapevole scelta, a un progetto alternativo e contrastante il progetto di Dio. Questa è l’esperienza dei mortali, Giovanni nella sua prima lettera (1,8-9) ci ricorda: «Se diciamo che siamo senza peccato, inganniamo noi stessi e la verità non è in noi. Se riconosciamo i nostri peccati, egli che è fedele e giusto ci perdonerà i peccati e ci purificherà da ogni colpa».

“Il mio peccato mi sta sempre dinanzi” E il racconto biblico, sia dell’AT che del NT, non getta un velo, su questo aspetto fallimentare, della vita del popolo eletto nella sua identità comunitaria, e dei singoli personaggi biblici che ci presenta, come scelti da Dio per una missione particolare. Davide, per esempio, ne fa amara esperienza. Egli si avverte un tutt’uno col peccato: «il mio peccato mi sta sempre dinanzi – confessa – […] Ecco, nella colpa sono stato generato, nel peccato mi ha concepito mia madre» (Sal 51, 5. 7). Il salmista constata che il peccato, dilagando anche nel corpo di chi lo commette, lo devasta. Il peccato è una presenza sotterranea che decompone, come un cadavere, la persona che l’ha commesso. Nel Sal 32,3-4 il peccatore grida: «Tacevo e si logoravano le mie ossa… come per arsura d’estate inaridiva il mio vigore». Le ossa sono la sintesi dell’intero organismo umano. Esse si sfaldano, si logorano, si consumano. » la devastazione del peccato che dilaga nella persona e intacca tutto l’organismo, anche la parte più solida, le ossa, e provoca anche l’inaridimento interiore. Il peccato è sindrome di morte. Anche Pietro, quasi a sintesi di tutta la sua esperienza fallimentare, grida a Gesù: «allontanati da me che sono peccatore» (Lc 5,8).

La “misericordia” forza rigeneratrice L’uomo sa e sperimenta che da questa situazione di decomposizione non si può tornare indietro ed uscire da solo. Lo stesso Davide si sente prigioniero e soggiogato dalla signoria del peccato. Egli è consapevole che solo l’azione creatrice di Dio può ridare vitalità e movimento alle sue ossa aride (cf Ez 37,1-14), per questo fa appello alla misericordia di Dio, invocando: «Sii benigno con me, o Dio, secondo la tua fedeltà/tenerezza (chesed); nella tua grande misericordia (rachamim) cancella il mio peccato». (Sal 51,1) Dall’oscurità del suo peccato, Davide intravede nella misericordia di Dio un raggio di luce che lo può tirare fuori da una situazione di morte e lo può far rinascere e riconsegnare alla vita come creatura nuova, perché la misericordia di Dio è più forte della potenza del peccato.

Cosa è questa misericordia di Dio? La misericordia di Dio non è melensa, quella che cerca di tirar fuori dai problemi della vita, è una misericordia viva e attiva. È la misericordia di colui che prende sul serio la nostra situazione. Misericordia traduce le parole ebraiche: chesed e rachamim, che abbiamo incontrato nell’invocazione del salmo 51. Rachamim è il plurale di rechem che designa il grembo materno in cui il bambino viene formato e portato, prima della nascita. Indica, quindi lo spazio fatto in sè alla vita dell’altro, spazio di comunione profonda di con-sentire, di com-patire, di con-gioire. Ma indica anche l’amore paterno verso il figlio, il legame tra fratelli, designa, dunque sempre un rapporto che non può venir meno, forte come il legame viscerale e di sangue. La misericordia è dunque la più radicale protesta contro l’indifferenza, il solipsismo, il rifiuto dell’altro. La misericordia è mistero di comunione, dinamica di condivisione e forza di generazione. E di ri-generazione, di re-immissione nella vita, nella relazione di alterità, nei confronti di chi da tale relazione si era allontanato. [Cf E. Bianchi , Editoriale, in Parole spirito e vita 29  (1994/1) pp. 3-5]  Il Dio misericordioso è un Dio materno che ti pone nel suo utero e ti fa uomo nuovo, ti cambia. Dio distrugge e ricrea. Non ci lascia come siamo, brandelli di umanità. Ci converte, questa è la sua forza. Chesed è un termine che si può tradurre: grazia, amore, benevolenza, misericordia. Ha una pregnanza di significati indescrivibile. Nella tradizione rabbinica, un midrash paragona il trono della gloria a una sedia zoppicante perché aveva una gamba più corta delle altre. Con che cosa la si rialza? Con un sassolino! Tale Ë lo chesed la grazia, la misericordia, la compassione: sassolino, realtà piccolissima, che però fa stare in equilibrio il mondo. Lo hesed indica l’atteggiamento tipico di Dio verso il suo popolo, che comporta lealtà, affidabilità, fedeltà, bontà, tenerezza, costanza nell’attenzione e nell’amore. L’esegesi rabbinica tradizionale collega il nome Elohim con l’aspetto della giustizia di Dio, e JHWH con la sua misericordia. Nella teofania di Es 34,6, Dio passa davanti a Mosè proclamando: «JHWH, JHWH, Dio di misericordia e di grazia, lento all’ira e ricco di amore e fedeltà». Alla teofania fa eco, nella preghiera, il pio israelita che della misericordia di Dio fa quotidianamente esperienza: «Misericordioso e pietoso è il Signore, lento all’ira e grande nell’amore», (salmo 103, 8). Proprio per questo il salmista rassicura colui che prega: «Egli perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue malattie; salva dalla fossa la tua vita, ti corona di grazia e di misericordia; egli sazia di beni i tuoi giorni e tu rinnovi come aquila la tua giovinezza» (Salmo 103, 3-5) Questa divina prodigalità-benvolenza si riflette su tutto il creato e su tutta la storia. Questa misericordia, amore, compassione, grazia è il grembo che ricrea l’uomo e lo rende nuovo. Dio è un bacio: ti risucchia nel suo grembo, ti introduce nella terra promessa e ti dà un respiro nuovo.   Siate misericordiosi Gesù con il suo vissuto rende umano e palpabile il volto misericordioso del Padre. Più volte gli evangelisti registrano che Gesù “si commuove”. Non si tratta di un riflesso emozionale che essi ci vogliono descrivere, ma il termine sta ad indicare l’atteggiamento di misericordia cosÏ come l’abbiamo appena descritto. Nel vangelo di Luca (cap. 15), poi, Gesù soprattutto attraverso la parabola del padre misericordioso vuole consegnarci il volto di Dio che “commosso” corre incontro al figlio, lo abbraccia, lo bacia (gli dona il suo respiro) e gli ridona il “vestito bello”, la dignità di figlio amato che aveva prima di abbandonare la casa. (cf Lc 15,20-22). Proprio perché il Padre è cosÏ, Gesù si sente autorizzato ad accogliere tutti i pubblicani e i peccatori e di mangiare con loro (cf Lc 15,1-2), purché desidera, come il Padre, che nessuno si perda. (cf Mt 18,14). Nella stessa parabola Gesù evidenzia il desiderio del Padre che anche il figlio maggiore, se è stato in casa ed ha conosciuto il suo cuore, faccia sua la misericordia del padre accogliendo il fratello e facendo festa «perché questo tuo fratello era morto ed è tornato in vita» (cf Lc 15, 25-32). L’invito ad essere creativi nell’amore, questo è il senso della misericordia, Gesù lo fa in modo esplicito sempre nel vangelo di Luca (6,36).

Siamo nel contesto delle beatitudini. In Lc 6,12 ci troviamo di fronte a una specie di veglia di preghiera. I giorni di Gesù sono segnati dalla notte, e Gesù buca le tenebre vegliando nella preghiera. La chiesa nasce da questa preghiera, nella notte, di Gesù. A conclusione della veglia nella notte, Gesù designa i Dodici come apostoli del regno e, sceso assieme ad essi dal monte, consegna ad essi e ai discepoli il volto del Padre, la nuova Torah. Dopo aver proclamato (Lc 6,20-26) le quattro beatitudini e le quattro “lamentazioni”, che aprono un grande spazio di libertà, Gesù invita “quelli che lo ascoltano”(Lc 6,27), a lasciare che nei loro gesti umani si esprima la stessa misericordia di Dio, cosÏ come si manifesta nel volto di Gesù stesso. Tutta la proposta di relazioni nuove, creative, qui espressa, certamente scaturisce, trova la sua radice nell’invito di Gesù: «Siate misericordiosi, come Ë misericordioso il Padre vostro» (Lc 6,36) Tale misericordia diventa presenza che rende nuova la vita, a chi ad essa si fa docile. Il discorso non è moralistico. Ci dice come è Dio, come si fa presente e agisce nella storia, e come vuole ancora farsi presente nel frammento della nostra carne. L’invito di Gesù è esplicito e chiaro: «Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro» (6,36). Il testo dice (ginesthe) diventate, mettendo in evidenza che si tratta di un cammino, c’è un dinamismo in cui l’uomo si lascia conformare al Padre misericordioso. Il credente che fa quotidianamente, malgrado il suo peccato, l’esperienza di essere fatto nuovo nel grembo di Dio, è coinvolto a diventare anche lui grembo portatore di per-dono, di relazioni che riflettono la gratuità di Dio, di vita nuova. Egli è coinvolto in Gesù a vivere la stessa passione e fedeltà/tenerezza di Dio. Da qui l’invito esplicito, ripetuto due volte a forma di inclusione tematica: «Ma a voi che mi ascoltate io dico: amate i vostri nemici» (Lc 6,27. 35). Qui Luca usa il verbo agapaÔ, è il verbo che esprime il vissuto di Dio che è agape. Essere coinvolti nell’amore di Dio, essere riportati nel suo grembo per rinascere come uomini che riflettono la sua misericordia non è facile. È un lungo travaglio di sofferenza e di pazienza: è come un parto che ci fa urlare (come il bambino quando esce dal grembo materno), ma che ci fa respirare un’aria nuova. Si tratta di un mistero, di una realtà che va al di là di tutto ciò che ha a che fare con le nostre doti naturali. Nell’amore per i nemici ci è chiesto di proporre instancabilmente, anzi di vivere già la reciprocità con coloro che rifiutano ogni relazione. Siamo posti di fronte al paradosso, allo “scandalo”, alla “follia”, come dice Paolo (1Cor 1,23), e solo chi si lascia guarire nel cuore, chi, nel grembo di Dio, muore all’ossatura adamitica e si lascia abitare dall’ossatura cristica è in grado di accogliere questo linguaggio e di dargli concreta visibilità con la sua stessa vita. Perchè questa è la proposta Gesù, espressa nella stessa pagina evangelica, anche se la traduzione oscura un po’ questo profondo significato. Il brano evangelico (Lc 6,27-31), infatti, dopo averci ricordato che l’amore ai nemici non è un sentimento platonico, ma si esplicita attraverso le mani (fate del bene), la bocca (benedite), e raggiunge il cuore, luogo delle decisioni e delle scelte (pregate), insomma, dopo averci ricordato che l’amore ai nemici coinvolge tutto l’uomo, evidenzia che questo amore è trasparenza della misericordia di Dio che ci abita e che ci rende capaci di gesti nuovi. Segue, infatti, in Lc 6,32-34, una serie di: «se amate /se fate… che merito ne avrete!». Ripeto, va rivista la traduzione perché, come suona, risente di una certa ideologia meritocratica che il testo originale non ha. La traduzione dovrebbe essere: «Se amate quelli che vi amano, quale in voi grazia è?». È come se dicesse: quale grazia (bellezza, amabilità, fascino, gioia, diletto), misericordia, amore, traspare, si manifesta nella vostra vita? Da chi siete abitati e quale presenza affiora dai vostri gesti? E subito, in Lc 6,35, viene ribadito: amate i vostri nemici… «e la vostra ricompensa sarà grande, e sarete figli dell’Altissimo, perché egli è benevolo verso gli ingrati e i malvagi». La nostra grazia / ricompensa, allora, non è la coscienza orgogliosa, soddisfatta, ma diventare “figlio” che riflette il volto del Padre, diventa trasparenza del Padre. Lasciando emergere l’immagine del Figlio nel nostro volto, veniamo immersi nella carne crocifissa di Gesù, misericordia del Padre, ove è assorbita e scaricata ogni ostilità, e inimicizia che contrappone le potenze del cosmo, che separa popolo da popolo e creatura da creatura, fino a spaccare spesso il singolo uomo nella sua identità interiore. Se diamo spessore alla misericordia del Padre nella nostra vita, essa scardina la corazza, che ci diamo nel confronto con la vita, e ci dà un respiro nuovo. Scardina l’inimicizia e ci pone di fronte all’altro non in una logica di morte, ma con atteggiamento creativo, grembo di vita per l’altro.

Dalla “misericordia” il futuro del mondo Questo comando di Gesù: Siate misericordiosi…, non può essere eluso da parte della comunità credente e del singolo cristiano. Di fronte ai tanti esempi, che abbiamo davanti agli occhi, del peccato di empietà, cioè di assenza di pietas, di assenza di compassione, anzi di vero e proprio odio nei confronti dell’altro, del diverso, per noi cristiani, l’annuncio del Dio misericordioso, che ci coinvolge ad essere misericordiosi nel Figlio suo Gesù Cristo, è determinante ai fini del futuro del nostro mondo. In radice, La misericordia di Dio Ë l’unica cosa di cui abbiamo veramente bisogno. La Chiesa ha la responsabilità di narrare agli uomini nei suoi gesti e nelle sue parole, la misericordia di Dio. Sono profondamente convinto che essa si gioca la sua fedeltà al Signore e misura la capacità di testimoniare il Vangelo e di rispondere ai drammi della storia nella compagnia degli uomini in una radicale prassi di accoglienza nella misericordia. È determinante che questa testimonianza venga declinata non solo a livello individuale ma anche comunitario e nei rapporti tra i popoli. In un contesto in cui l’unico sistema di governabilità del pianeta è l’economia di mercato globalizzata, un neoliberismo “senza se e senza ma”, dove tutto è merce e dove le grandi decisioni vengono prese dai Paesi che “contano”, è urgente globalizzare la misericordia e la solidarietà. È urgente che il Nord ricco del mondo non continui a soffocare i popoli poveri del Sud del mondo, ma si educhi a diventare grembo che si dilata non per continuare a invadere e rapinare, ma per consentire all’altro (al resto del mondo) di essere presente e di venire alla luce del sole per sedere, con pari dignità, al banchetto della vita. Il grembo di misericordia, ha la vitalità di guarire noi dall’alienazione, provocata bisogni indotti e dal consumismo selvaggio, e di guarire il fratello che viene dal Sud del mondo, che spesso guardiamo come un intruso e un nemico, dall’alienazione drammatica, provocata dalla miseria. Il salmo 136, il grande Hallel,  è una litania, l’unità è data dal ripetersi del ritornello: perché eterna è la sua misericordia / grazia. Il termine eterno (‘olam) ha sia il valore temporale di « eternità », sia quello spaziale, abbraccia, cioè, tutto il mondo. Quindi il ritornello del salmo 136 può esser reso con “rendete grazie al Signore perché è buono, perché eterna è la sua misericordia”; ma anche “perchè la sua grazia/misericordia è per il mondo”. Si tratta davvero, dunque, di costruire « un mondo di grazia/misericordia », vale a dire un mondo edificato sulla grazia, un mondo che ha la sua pietra di fondazione sulla grazia/misericordia: tale almeno è il progetto divino. Dicevo prima che un midrash paragona il trono della gloria di Dio a una sedia zoppicante perché aveva una gamba più corta delle altre. Con che cosa la si rialza? Con un sassolino (lo chesed)! Tale è la grazia/misericordia: sassolino, realtà piccolissima, che però fa stare in equilibrio il mondo. Ebbene, generati da un grembo di grazia/misericordia, siamo tutti coinvolti ad apportare il nostro sassolino, il nostro chesed in modo che, sassolino dopo sassolino, ognuno apportando il suo, si costruirà finalmente un mondo fondato sulla grazia/misericordia, un mondo che rispecchi “l’equilibrio” di Dio.

Alberto Neglia

Fraternità Carmelitana 98051 Pozzo di Gotto (ME)

 

« IN PRINCIPIO », L’INIZIO APERTO DI UNA STORIA APERTA

http://www.tempidifraternita.it/archivio/bodratoweb/bodrato2.htm

« IN PRINCIPIO », L’INIZIO APERTO DI UNA STORIA APERTA

Non credo ci siano pagine che abbiano fatto tanto scrivere di sé, quanto le pagine iniziali della Bibbia. Si potrebbe quasi dire che l’esegesi è nata lì, da Genesi 1-3. Certo non è nata lì, vista la loro composizione relativamente recente, la riflessione umana sul perché e sul come della vita, e non è nata lì neppure la religiosità biblica, che nelle sue prime espressioni di fede fa centro sulla liberazione dall’Egitto e tace della creazione. Ma è difficile pensare a qualche altro testo che abbia provocato tanti esercizi di lettura, tanti sforzi di comprensione. La ragione di ciò non sta nel fascino irriducibile dei racconti d’origine, che da sempre sono nel cuore dell’intelligenza e dell’affettività umana, ma nella natura interpretativa della formazione di queste pagine. Sta nel fatto che il racconto della creazione di Genesi 1,1-2,4a è una narrazione autonoma rispetto a quello di Genesi 2, 4b-3,25; che essi stanno in dialogo ma anche in conflitto tra loro; che la loro fusione in un testo unico e continuativo, quello che noi oggi conosciamo, è di fatto un terzo racconto, frutto di rilettura letteraria e teologica, di critica nella critica. Il che è come dire che il primo libro della Bibbia non ha un solo incipit ma due, anzi tre, che l’intera storia che seguirà non è una sola storia, ma l’intrecciarsi e il sovrapporrasi di tante storie, aperte nel loro sviluppo e nel loro fine, proprio come aperto e non chiuso è il loro inizio. Ogni buon lettore della Bibbia sa, infatti, da oltre un secolo, che non è Mosé l’autore a cui possono essere attribuiti i primi libri della Bibbia, anzi che non si può parlare di un autore unico ma di diverse tradizioni e, con ogni probabilità, di diversi testi, nati in tempi e luoghi contigui ma diversi; testi più tardi fusi da un redattore del VI-V sec. a. C.. Si parla per il cosidetto Pentateuco di un documento Jahvista (J, – IX-VII secolo), di uno Elohista (E –VIII-VII sec) e di uno Sacerdotale (P – VI sec.); e per il racconto genesiaco della creazione, dall’ « In principio » alla discendenza di Noé (1-11), di un complesso intrecciarsi di J e P, che tendono a correggersi e ad arricchirsi secondo criteri che sono una vera e propria sfida e un invito interpretativo per il lettore. Il tema della creazione non trova qui semplicemente una forma simbolica di espressione: Trova un processo interpretativo, un lavoro esegetico in formazione, che comincia con la rivisitazione, l’assemblamento e la correzione degli antichi miti pre-biblici sull’origine divina del mondo da parte dello Javhista, prosegue con una completa ridefinizione e riscrittura dell’intero materiale ad opera del Sacerdotale (P), e finisce, non con la vittoria e la canonizzazione dell’uno o dell’altro racconto mitico, dell’una o dell’altra prospettiva teologica, ma con la loro fusione, per mano di un redattore, il cui compito non sembra solo quello di cucire i due testi diversi in un terzo testo, ma anche quello di conservarli nella loro dialetticità. Questo perché l’inizio e la fine di una qualsiasi storia umana, quindi ancor più l’inizio e la fine della storia dei rapporti umani con-Dio, non possono essere colti come un semplice dato di fatto, come una verità assoluta , come un sistema concettuale, definibile una volta per tutte, ma vanno continuamente ricompresi e ripensati all’interno del processo aperto ed imprevedibile del cammino di questa storia stessa.. L’ »In principio creò Dio (Beresit bara’ ‘elohim) il cielo e la terra » di Genesi 1,1, si propone di offrire una nuova interpretazione al « Quando fece Dio (beyom casot jhwh) la terra e il cielo » di Genesi 2,4b, per meglio esprimere la trascendenza di Dio rispetto al creato, per completare la sdivinizzazione della natura, per affermare la superiore potenzialità teologica del tempo rispetto allo spazio, per celebrare il carattere positivo della volontà creatrice di Dio e il ruolo ordinatore e pacificatore della sua legge, per esaltare la centralità dell’intelligenza e della libertà umana. Proprio per questo dobbiamo ammettere che esso non è il linguaggio definitivo della Bibbia sulla creazione e che la ricerca teologica sulle origini non è meno aperta di quella filosofica e di quella scientifica. Nel singolare intrecciarsi e accavallarsi di miti e di racconti dei primi capitoli della Bibbia non c’è, però, solo questo esplicito e perentorio invito alla continuità e all’apertura della ricerca teologica, al carattere sempre interpretativo e simbolico e mai oggettivo, metafisico e dogmatico di ogni nostra affermazione sul mistero dell’uomo e di Dio. In quanto il mito nuovo non cancella semplicemente l’antico, ma ad esso si sovrappone ed aggiunge, correggendolo, ma anche conservandolo, abbiamo un altro insegnamento fondamentale per l’esegeta, per il teologo ed anche per il semplice credente. L’insegnamento che sono compatibili diverse espressioni della stessa verità e che ogni espressione nuova deve nascere in continuità con l’antica, non come il suo superamento con ripudio, ma come un suo approfondimento, come l’esplicitazione di qualcosa d’implicito o come la valorizzazione di un aspetto rivelatosi via via più importante e tale da presentarsi come quello che offre la chiave per ricomprendere meglio tutto il resto. Così chi vuole tentare di comprendere l’insegnamento teologico dei racconti genesiaci di P e di J deve, innanzitutto, liberarsi dal pregiudizio di dover cercare in essi il fondamento indiscutibile e sicuro della dottrina cristiana della creazione dal nulla. Questa non è presente né nel più antico ed antropomorfo Javhista, col suo Dio giardiniere e vasaio, che fabbrica l’uomo con argilla e con acqua, già lì a sua disposizione, e fa fiorire il giardino dell’Eden su una terra, fino ad allora deserta ed improduttiva; né nel più concettuale e teorico racconto Sacerdotale, con la Parola creatrice, ordinata in sei giorni e culminante nell’istituzione del Sabato. Il versetto 1,1: « In principio Dio creò il cielo e la terra » è al più, rispetto all’intero capitolo iniziale di P, il titolo che enuncia l’argomento, vale a dire ciò che Dio si prepara a fare a partire da una situazione, che il versetto 1,2 descrive come un’indefinibile stato di caos, di vuoto, improduttivo e inanimato, di abisso e di vento. L’agire creativo di Dio prende concretamente avvio col primo « Dio disse » (1,3) che dà origine alla luce, la prima tra le cose buone della lunga serie. Le tenebre, da cui la luce viene subito separata, restano sullo sfondo oscuro del non creato, proprio come le acque, che, prima, Dio divide con la creazione del firmamento (1,6) e, poi, costringe a ritirarsi dall’asciutto (1,9), ma mai qualifica come opera delle sue mani. Il dire, il fare, il vedere, la luce, l’ordine cosmico, che disciplina e dà confini agli elementi, la vita in tutte le sue forme infinite, il tempo, l’uomo-donna e il suo governo pacifico sugli animali, il sabato: vengono da Dio e sono buoni. Le tenebre, il vuoto, l’abisso, le acque, l’asciutto: vengono dominati e disciplinati, non prodotti, dalla sua azione creatrice. Col che la fede cristiana nella creazione dal nulla non è negata o smentita, ma semplicemente problematizzata, aiuta a ripensare se stessa, a riscoprire tutta la ricchezza del tema teologico ed esistenziale a cui ha voluto originariamente dare voce, ma che progressivamente ha finito col mettere a tacere, codificandosi in dogma e in dottrina indiscutibile. Ma l’ »In principio » di Genesi 1,1, non è solo l’inizio dell’opera dei sei giorni, è anche l’inizio della Bibbia come libro e come storia, come libro fatto di libri e storia tessuta di storie. In quanto tale, potrebbe essere anche la prima parola della nostra storia, a patto che impariamo ad interrogarla ed a lasciarcene interrogare, senza cercare di utilizzarla a strumentale conferma delle nostre mezza verità, per paura dell’avventura della verità piena. Come abbiamo visto, infatti, la prima parola della Bibbia non è nata per essere mummificata in verità eterna ed immutabile. E, del resto, neanche Dio, se vogliamo valorizzare ciò che questi racconti insegnano sulla creazione del mondo e dell’uomo, ha voluto licenziare un tutto fatto e finito una volta per sempre, oggettivamente e metafisicamente fissato nel suo essere e nelle sue leggi. Ha tentato l’avventura. Ha fatto uscire i cieli e la terra dall’anonimato del caos e dalla staticità dello spazio vuoto e inanimato; ha prodotto distinzioni e differenze e, con queste, le tensioni dinamiche; ha generato gli esseri viventi, dotati nell’uomo di personalità unica, irripetibile e creatrice; ha dato il via alla possibilità delle scelte, delle relazioni, del conflitto e dell’amore e, al tempo stesso, ha accettato di misurarsi con tutto ciò Col beresit di Genesi 1,1 non comincia solo la serie dei biblici racconti di creazioni, non inizia solo la storia biblica, come storia del mondo e dell’uomo, vengono anche poste le basi di una possibile storia di Dio, di un’infinita serie di storie in cui Dio è coinvolto, perché trascendente non significa separato, ma differente al punto da poter entrare in infinite relazioni di Altro con altri.

Aldo Bodrato 

NEL BUIO, UNA LUCE – «LA MIA POTENZA SI MANIFESTA PIENAMENTE NELLA DEBOLEZZA». (2 CORINZI 12,9)

 http://www.credereoggi.it/upload/1999/articolo113_3.asp

NEL BUIO, UNA LUCE

EDITORIALE

«LA MIA POTENZA SI MANIFESTA PIENAMENTE NELLA DEBOLEZZA». (2 CORINZI 12,9) 

«Vittoria… disfatta… queste parole non hanno senso. Sotto queste immagini c’è la vita; la vita che prepara altre immagini. Una vittoria indebolisce un popolo, una disfatta ne rianima un altro».      (Antoine de Saint-Exupéry)

     La nostra è un’epoca di grandi risultati e di grandi mete raggiunte! Il progresso e la fiducia nella scienza hanno condotto il genere umano a conquiste che si ritenevano solo cent’anni fa insperate. Abbiamo da poco celebrato il trentesimo anniversario dell’approdo dell’uomo sulla Luna; vent’anni fa iniziava l’inarrestabile ‘rivoluzione informatica’, destinata a entrare capillarmente e di prepotenza nel mondo del lavoro; per non parlare poi delle tante, piccole, ma incisive acquisizioni in ambito bio-medico. Grandi conquiste dunque hanno dinamicizzato la società e i rapporti tra i paesi, hanno aperto nuove frontiere della conoscenza e del sapere, costruendo più sicurezze per il futuro.     Eppure tutto questo non ci ha protetto più di tanto dal vivere esperienze concrete molto umane, dal sapore ancestrale, come quella del fallimento: nella nostra progettualità tutto o in parte può riuscire o compiersi; ma non è escluso ­ e qualche volta ciò accade ­ che tutto si risolva in un insuccesso, in un fallimento, parziale o totale che sia. L’insuccesso ­ a livello personale e sociale ­ è ben vivo e radicato nella nostra società contemporanea. Nessun soggetto ne è esente: può essere l’affermato politico, costretto alle dimissioni a causa di uno scandalo; oppure il popolare attore che, trascorso il periodo di notorietà, cade nel vortice della depressione perché non riesce più a ‘calcare la scena’. Più comunemente: l’affiatata coppia che, dopo anni di matrimonio e di consolidata unione, decide di separarsi; il parroco del paese che, pur avendo dato prova di essere un brillante predicatore ed essersi dimostrato prodigo di cure e attenzioni verso i fedeli, ritorna sulla propria scelta e abbandona il sacerdozio. Si constata con una punta di amarezza che le proprie forze non sono all’altezza del ruolo che si sta svolgendo (prete, religioso, marito, madre, ecc.).     Gente comune e gente importante indistintamente possono fallire, possono accorgersi di aver sbagliato, di aver percorso magari nella loro vita per un tratto (a volte, con tragicità, per tutto il cammino) la strada errata. Istintivamente si cerca di rimuovere la crisi, oppure di minimizzare, di ignorarla, impegnandosi magari in attività febbrili; altrimenti ci si abbandona alla rassegnazione e a praticare forme compensatorie, quasi che il fallimento sia una colpa spassionatamente personale. La psicologia giustamente ci avverte che il fallimento in sé e per sé non è da considerarsi necessariamente colpevole. Certo, può essere originato da una propria debolezza corporea o psichica, da una malattia, da un concorso di sfortunate circostanze che lo stesso soggetto ­ a sua insaputa ­ contribuisce a creare. Ma non è in sé e per sé una colpa.     Come risponde un cristiano con la propria fede davanti al fallimento personale? Con delusione, arrendevolezza, cinismo? Oppure con speranza e attesa? È possibile affrontare in modo cristiano queste esperienze? E la teologia, oltre a proporre situazioni ideali di vita cristiana, che cosa può direi al riguardo?     La comprensione cristiana sul fallimento parte obbligatoriamente da Cristo. La sua vita terrena termina con una sconfitta, con un fallimento, dal punto di vista umano. Questo giovane ebreo trentenne, che socialmente minacciava di destabilizzare i poteri forti locali, viene condannato a morte. Anche lui sulla croce tocca il limite estremo del fallimento (la morte) e vive l’esperienza dell’impotenza: ‘Non può salvare se stesso’, gli gridano ai piedi della croce. Il Figlio piange, urla, ma accetta nella volontà del Padre il limite che sta vivendo. La pietra sul sepolcro è la sconfitta delle sue parole, ormai destinate a restare mute.     Ma è proprio a partire dal suo fallimento che in Gesù si manifesta il ‘successo’ di Dio, è nella debolezza che la potenza divina si dimostra pienamente (cf. 2Cor 12,9). Abbandonandosi a tale destino, Cristo non guadagna nulla di più per sé. Sa e spera che anche in quel momento la sua esistenza ha un senso per il Padre. Nel fallimento della croce ‘si incarna’ l’amore del Padre, un amore che non conosce limiti, trasformando in gloria la sconfitta. E quei segni infamanti del dolore sulla croce, quei segni evidenti della sconfitta diventeranno segni tangibili di fede: non a caso Gesù, apparendo agli Undici, mostra le piaghe sulle mani e sul costato per dipanare le loro paure, i timori e i sospetti.     L’esperienza terrena di Gesù forse non risolleverà più di tanto dal personale dolore davanti a un nostro fallimento. Non giustifica, non spiega i tanti ‘perché’ dei nostri fallimenti. Tuttavia ci induce a pensare che ogni fallimento ­ compreso quello ‘estremo’ alla progettualità umana, qual è la morte ­ non è l’ultima parola della nostra esistenza. Quanto è accaduto a Gesù accende una luce nel nostro piccolo o grande buio personale, annuncia un possibile futuro di gloria.       Il presente numero si divide sostanzialmente in due parti. Nella prima viene data una lettura in chiave psicologica di questa esperienza dell’uomo (GIUSEPPE SOVERNIGO). Il Messia sconfitto come paradigma per la vita cristiana è il tema svolto da PAOLO GIANNONI. Abbiamo chiesto a GIANNINO PIANA  di illustrarci quale particolare linguaggio la nostra religiosità ha sviluppato innanzi a questo tipo di esperienze. La riflessione di ALDO NATALE TERRIN descrive le suggestioni e le soluzioni che prospetta la ‘Deep Ecology’.     La seconda parte del fascicolo è senz’altro un po’ anomala, ma non meno istruttiva della prima. Abbiamo preferito proporre poche teorie per comprendere queste intime situazioni di vita e domandare ad altri di narrare la loro storia personale. Tra le tante esperienze raccontabili, abbiamo scelto quelle di alcuni malati gravi, di coppie sposate e di persone consacrate.

a.f.

Publié dans:meditazioni bibliche, San Paolo |on 3 mars, 2016 |Pas de commentaires »

GIANFRANCO RAVASI – AMORE E INFEDELTÀ

 http://www.gesuveraluce.altervista.org/ravasi1.htm

GIANFRANCO RAVASI -  AMORE E INFEDELTÀ               

Ecco una delle lunghe piste carovaniere che si distendono nel deserto. All’improvviso il viandante inciampa in una piccola cosa che subito si rivela vivente e urlante. È una neonata abbandonata, col cordone ombelicale ancora avvoltolato, tutta sporca di sangue e di sabbia: non è stata neppure lavata e frizionata col sale, com’è d’uso in Oriente per ragioni igieniche e d’auspicio (il sale indica pace e benessere). È una figlia illegittima, nata dall’accoppiamento di un amorreo con una donna ittita: le sue sono, quindi, origini bastarde e impure secondo le antiche consuetudini d’Israele. Ed è per questo che è stata esposta come un oggetto ripugnante » su una pista della steppa. Comincia così, con questa scena terribile – purtroppo non rara anche ai nostri giorni e nelle nostre città Occidente -, uno dei capitoli più emozionanti del profeta Ezechiele, vissuto nel VI sec. a.C., esule a Babilonia con i suoi connazionali, ancor piuma del crollo di Gerusalemme sotto le armate del re babilonese Nabucodonosor (586). Su quella strada ecco avanzare un cocchio con un alto personaggio che racconta la sua esperienza in prima persona: «Passai vicino a te e vidi che ti dibattevi nel sangue» (Ezechiele 16,6). Anzi, il profeta immagina che basti il solo passaggio di quel salvatore a far crescere e a rendere fiorente la trovatella: «Passai vicino a te», si ripete, «e ti vidi: la tua era già l’età dell’amore…. il tuo seno era già florido, la pubertà era stata già raggiunta» (16,7-8). Col tipico gesto nuziale dell’antico Vicino Oriente, quel signore stende il lembo del suo mantello e copre quella splendida fanciulla, facendola diventare sua moglie. La coccola profumandola con balsamo, le offre trine e vesti di seta ricamata, calzature di pelle di tasso, orecchini, anelli da naso, collane, bracciali e un diadema, sciarpe di bisso, ossia di lino finissimo: «Eri diventata sempre più affascinante ed eri una regina» (1 6,13). Ma ecco una sorpresa amara e devastante. «Tu, infatuata della tua bellezza, ti sei prostituita, concedendo i tuoi favori a ogni passante» (16,15). Ormai la parabola svela il suo significato nascosto. « Prostituzione » è infatti il termine con cui la Bibbia definisce il peccato d’idolatria. Subito dopo il profeta evoca il delitto del vitello d’oro eretto da Israele nel deserto: «Coi tuoi stupendi gioielli d’oro e d’argento da me donati, facesti figure umane e le usasti per peccare» (1 6,17). Ormai la narrazione del profeta dilaga nella raffigurazione del fiume fangoso di infamie perpetrate da questa «spudorata sgualdrina» (16,30): «superbia, ingordigia, ozio indolente, rifiutare la mano al povero» (16,49). La storia diventa, così, una sorta di esame di coscienza che Ezechiele vorrebbe far compiere alla sposa Israele perché comprenda di aver tradito col suo peccato l’amore del suo sposo, il Signore. Uno sposo che, però, non si arrende: «Io ti ho perdonato quello che hai fatto» (1 6,63) e con te celebrerò un nuovo ed «etemo patto» nuziale (16,60). Una storia, quindi, di amore e di infedeltà che ha come suggello l’amore che è più forte del male.   

ANDARE ALLA SCRITTURA COME PELLEGRINI

http://www.atma-o-jibon.org/italiano6/letture_patristiche_l.htm

ANDARE ALLA SCRITTURA COME PELLEGRINI

Lacordaire *

Henry Lacordaire (1802-1861) era un giovane avvocato di sicuro avvenire quando si presentò a san Sulpizio nel 1824: tre anni dopo fu ordinato sacerdote. Insieme a Lamennais fu implicato nella questione del modernismo, ma si sottomise con totale docilità al magistero della Chiesa. Nel 1839 entrò nell’Ordine dei Predicatori. Dotato di eccezionali qualità oratorie, di una delicatissima sensibilità e di una vera passione per le realtà della fede, divenne celebre per le sue prediche a Notre-Dame di Parigi. Di lui si può dire che realizzò in pieno la parola dell’apostolo, annunziando la dottrina evangelica «opportune et importune», spinto com’era dalla carità di Cristo. Se, istruiti progressivamente dalla Chiesa, animati dal suo soffio vitale, noi entriamo ,con cuore docile nel tempio stesso della verità quale Dio l’ha costruito, e cioè nella Scrittura, troveremo nelle sue profondità molte ombre, dovremo chinare il capo di fronte a certi brani, e certe sublimità faranno quasi venir meno la nostra intelligenza. Ma, sostenuti dalla Chiesa stessa, nostra infallibile compagna, cammineremo di chiarezza in chiarezza sotto il firmamento della parola sacra, rallegrandoci con essa nei disegni dell’eternità che si scoprono ai nostri occhi, ammirando via via Gesù Cristo che si avvicina, aspettando lo con i patriarchi, vedendolo venire con i profeti, salutandolo sull’arpa dei cantori dei salmi. E infine, sulla soglia del tempio celeste, egli ci apparirà con tutto il peso della sua gloria e della sua morte, vittima predestinata della riconciliazione delle anime e spiegazione suprema, mediante tutto quello che è stato, di tutto quello che adesso è. Questa visione di Gesù Cristo non costituisce da sola il lungo ordito dei libri santi, ma vi si trova come intrecciata ai grandi eventi del mondo. Il cristiano sa riconoscervi la mano della Provvidenza, li vede condotti da leggi di giustizia e di bontà. In questa luce egli si rende conto della successione degli imperi, del sorgere e decadere di popoli famosi. Capisce che il caso non esiste e neanche la fatalità, ma che tutto si svolge sotto il duplice impulso della libertà dell’uomo e della sapienza di Dio. Questa visione della storia nella verità delle sue cause lo affascina. Vi attinge una comprensione della vita che nessuna esperienza potrebbe dargli, perché l’esperienza rivela solamente l’uomo, mentre la Scrittura rivela contemporaneamente Dio nell’uomo e l’uomo in Dio. Questa rivelazione non si fa sentire solo nelle grandi ore registrate nella Bibbia, ma si trova dovunque. Dio non si allontana mai dalla sua opera. E’ nel campo di Booz, dietro la nuora di Noemi, come è pure a Babilonia, al banchetto di Baltassar. Si siede sotto la tenda di Abramo, quasi viandante stanco del cammino, come scende sulla vetta del Sinai tra le folgori che annunziano la sua presenza. Assiste Giuseppe in carcere, come esalta Daniele nella sua prigionia. Tutto è pieno di lui: i più piccoli particolari della vita di famiglia o del deserto, i ‘nomi, i luoghi, le cose; in un cammino di quaranta secoli, dall’Eden al Calvario, dalla giustizia perduta alla giustizia riacquistata, si possono seguire in questo modo, un passo dietro l’altro, tutti i movimenti della sua tenerezza e tutti i movimenti della sua potenza. E’ possibile ritornare da un tale pellegrinaggio senza sentirsi commossi? E’ possibile, per chi ha seguito queste tracce alla luce della fede, non tornare migliore alla casa della sua esistenza quotidiana? La Bibbia è insieme la rappresentazione drammatica dei nostri destini, la storia primordiale del genere umano, la filosofia dei santi, la legislazione di un popolo prescelto e governato dal suo Dio; è, in un disegno provvidenziale di quattromila anni, la preparazione e il germe di tutto l’avvenire dell’umanità. E’ il deposito delle verità di cui l’umanità ha bisogno, la «magna ‘carta» dei suoi diritti, il tesoro delle sue speranze, la sorgente profonda delle sue consolazioni, la bocca di Dio che parla al suo cuore; e al di sopra di tutto essa è il Cristo Figlio di Dio che le ha dato la salvezza.

* Deuxième leltre à Emmanuel, in Lacordaire et la Parole de Dieu, «Etudes religieuses» 758, La Pensée catholique, Bruxelles 1962 – pp. 66-67.

L’ »IMMACOLATA » E LA NOSTRA « UMANITÀ » – NEMICA DEL « MALE » AMATA PER SEMPRE

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L’ »IMMACOLATA » E LA NOSTRA « UMANITÀ »

NEMICA DEL « MALE » AMATA PER SEMPRE

Ermes M. Ronchi

(« Avvenire », 8/12/’09)

«Vergine, se tu non riappari / anche Dio sarà triste» (Turoldo). Se tu non riappari come « alfabeto di speranza », come modello d’umano, il « cristianesimo » si fa triste, impoverito di tutta la dimensione gioiosa e danzante del « Magnificat », della dimensione gratuita e festosa del « vino » di Cana, di un Dio che privilegia non lo sforzo, ma il dono. Si impoverisce del « primo annuncio » dell’Angelo a Maria: «Kaire, sii lieta, sii felice, tu sei colmata di grazia».
Questa parola mai risuonata prima nella « Bibbia », quel nome inaudito – « Piena di grazia » – , che ha il potere di stupire Maria perché nulla di simile aveva mai letto nel « Libro », significa: tutto l’amore di Dio è su di te; significa: il tuo nome è « amata per sempre ».
L’annuncio dell’Angelo si estende da Maria a ogni « credente »: gioisci, il tuo nome è « amato per sempre, amato mistero di « peccato » e di bellezza ». In un mondo di « disgrazia » è possibile ancora trovare grazia, anzi è la grazia che trova noi. Questo « nodo » di ombra e di luce che compone la nostra umanità profonda, è affiorato alla coscienza della storia in molti modi, ad esempio nella « architettura » del « romanico » pisano e senese; sulle facciate, sulle fiancate, sui pilastri, sugli archi di queste « Chiese » si alternano linee di pietre bianche e linee dal colore dell’ombra: verde scuro o nero. Questa alternanza di luce e di notte è la trascrizione sapiente della profonda conoscenza dell’uomo che il grande « Medioevo » conservava. Il bianco e il nero che si alternano in ogni persona umana, il bene e il male che intrecciano profondamente le loro radici nel cuore, spesso in modo « inestricabile », in Maria non ci sono: lei è l’inizio dell’umanità finalmente « riuscita ».
«Non temere, Maria», aggiunge l’Angelo. Lei è la donna senza paura. La paura entra nel mondo dopo il peccato. Nel « paradiso terrestre » Adamo parla con Dio e con il « serpente », e non ha paura. Poi volta le spalle a Dio, e la prima emozione che prova è la paura: mi sono nascosto, ho avuto paura. Gli occhi della paura, la percezione di pericolo nascono con il male, perché il « peccato » è minaccia per la vita, è l’ »anti-vita ».
Prima della caduta niente e nessuno era pericoloso per la vita, niente minaccioso. Il « peccato » porta il suo triste corteo di paure, perché in qualche modo percepiamo che è pericoloso per la vita, è diminuzione d’umano, sottrazione di esistenza. Tuttavia « Immacolata » non significa preservata dalla lotta. Anche Lei ha lottato con il « serpente », ha conosciuto la fatica del « credere », la crescita nella fede, la noia del « quotidiano », il dolore lacerante e poi l’abbraccio pacificante.
« Immacolata » non significa senza « tentazioni » o senza fatica del cuore. Anche Eva era « immacolata », eppure è caduta, con il cuore diviso.
I « dogmi » che si riferiscono a Maria riguardano anche noi, sono la « grammatica per capire l’umanità, per parlare la lingua di ogni uomo, perché il suo destino è il nostro. Celebriamo con l’ »Immacolata » la festa di tutta la luce sepolta in noi e che dobbiamo liberare. Festa delle radici « sante » e « profezia » del nostro destino: « amati e santi », « santi perché amati » (« Rm 1,7″).
« Piena di grazia » la dice l’Angelo, « Immacolata » la proclama il « popolo cristiano » ed è la stessa cosa. È bello risentire oggi, da Dio e dal suo Angelo, i due nomi di Maria e, in Eva, di ogni creatura: nemica del male e amata per sempre. E ascoltare, in pagine piene di ali e di fessure sull’ »eterno », l’inedito: una donna che parla con Dio e con gli Angeli come un « profeta » o un « patriarca ». E per la prima volta, nei dialoghi con il « cielo », è a una creatura della « terra » che spetta l’ultima parola

TU SEI PREZIOSO AI MIEI OCCHI (Is 43,4)

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TU SEI PREZIOSO AI MIEI OCCHI (Is 43,4)

da Giovani per i Giovani
Le parole del profeta Isaia ci interrogano: preziosi agli occhi di chi? vogliamo scoprire la preziosità del seme della nostra vita e osare l’avventura di portare frutto.
«Non temere perché io ti ho riscattato, ti ho chiamato per nome, tu mi appartieni.
Io sono il Signore tuo Dio, il Santo di Israele, il tuo salvatore.
Sei degno di stima e io ti amo.
Non temere perché io sono con te.» (Is 43, 1.3-5).

GRAZIE: meraviglia e gratitudine
Il nome nella cultura ebraica indica l’identità, la persona… dire che Dio ci chiama per nome è dire la forza con cui gli apparteniamo, e la profondità della sua conoscenza di noi.
Come recita il salmo 139 il Signore ci scruta e ci conosce, alle spalle e di fronte ci circonda e pone su di noi la sua mano. Nemmeno le tenebre per lui sono oscure.
E’ Lui che ha creato le nostre viscere e ci ha intessuto nel seno di nostra madre. Ci ha fatto come un prodigio, sono stupende le sue opere, Lui ci conosce fino in fondo.
Quando ancora eravamo informi ci hanno visto i suoi occhi, quanto profondi per ciascuno di noi i suoi pensieri, quanto grande il loro numero… se li contiamo sono più della sabbia…
Tutto questo ci meraviglia, ci colma di stupore… a volte ci chiede perfino di cambiare lo sguardo su noi stessi… io un prodigio? Io amato e custodito? Con tutti i miei difetti, le mie fatiche, le mie ‘paranoie’? Noi a volte non ci amiamo… ma lui è più grande del nostro cuore.
Ma c’è qualcosa di ancora più sorprendente…
Sì, agli occhi del Signore siamo preziosi, siamo custoditi, vegliati, siamo stimati, siamo amati.
Siamo stati creati con cura, siamo conosciuti fino in fondo. E Dio ci considera così preziosi addirittura da dare tutto se stesso… “Cristo Gesù non considerò un tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio, ma spogliò se stesso […] apparso in forma umana umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte di croce” (Fil 2,7-8). Sì in seno alla Trinità siamo così preziosi che la nostra salvezza è costata il sacrificio del Figlio, per la sua vita noi riceviamo la vita! Come non possiamo accogliere con stupore e gratitudine il Suo sguardo e le Sue cure?

SGUARDO: di Dio e degli altri
Le nostre relazioni sono porte aperte al mistero… o porte che lo pre-cludono. I nostri gesti, i nostri sguardi, le nostre mani collaborano e intessono con il Signore la preziosità della nostra vita che davvero si percepisce negli intrecci con tanti altri sguardi, nel lasciarsi amare e toccare da tanti altri volti.
“Pochi giorni fa una persona a me cara, nel sentirmi raccontare un sogno che si stava realizzando e che avrebbe portato ad un forte distacco da lei, improvvisamente ha lasciato scendere delle lacrime dai suoi occhi, ha iniziato a piangere. Imbarazzata mi ha chiesto scusa di questa sua debolezza, ma alla fine sono stato io a ringraziarla per quelle lacrime.
Quando qualcuno piange per te, per quello che sei, per il possibile distacco che potrà avvenire, si spalanca la verità di quella frase: Tu sei prezioso ai miei occhi… essa diviene realtà in un momento e intravedi in quegli occhi un’amore più grande, quello di Dio, che mischiandosi con quello umano vuole gridare a tutti: Tu sei prezioso ai miei occhi.”
Lo stupore di ciò che siamo per un altro, l’amore che viene accolto, o la gratitudine che vediamo nascere in un cuore amico, ci fanno percepire quanto in noi c’è qualcosa di grande, che ci supera, che non ci appartiene interamente… noi siamo più di quello che ‘ci siamo dati’, siamo di più di quello che da calcoli umani appare… siamo di più…
“Se provo a fare associazione di idee, penso ad episodi, situazione per capire in che momento e in che modo mi sento preziosa ecco che il centro dell’attenzione si sposta da me. La cosa può sembrare strana e devo dire che un mi sono stupita anch’io…mi sento preziosa quando faccio qualcosa che è prezioso per gli altri.”
“Mi sento preziosa quando i miei sforzi, il mio impegno, la mia dedizione hanno fatto qualcosa di grande. Potendo gioire della gioia di questa persona.”

BELLO!
Nel momento in cui diventiamo dono si spalanca il cuore alla gratitudine per ciò che di più grande si realizza a partire dal nostro piccolo gesto. La disponibilità spalanca la possibilità al Signore della vita di operare in noi e attorno a noi. In un certo senso diventiamo simili a Lui che è amore donato senza limiti! E noi siamo fatti per assomigliarGli! E’ qui che partecipiamo al mistero della bellezza … che si impone a tutti per la sua realtà, e allo stesso tempo parla a noi personalmente toccandoci il cuore.
“C’è la Festa da preparare, ti piacerebbe aiutarci per fare qualcosa di Bello?”. Già a questo punto il cuore si allarga perché qualcuno ha pensato proprio a te! L’idea di pensare e preparare qualcosa di grande e di bello, e soprattutto per tanti ragazzi, mi affascina e mi prende! E allora penso, lavoro, condivido, e pian piano salta fuori cosa fare, chi contattare, sorprese, momenti belli, i giochi, chi si occupa di cosa. […]
Finisce anche la Festa, anche se in realtà mi sembra di non averne preso parte: le battute, i momenti, le scene, i giochi, li sapevo a memoria, ma non ho visto niente!
E invece… uscendo i ragazzi mi passano vicino urlando, saltando e travolgendo ciò che capita a tiro, ma abbracciati, felici, pieni di gioia per la bella esperienza. Ho pensato: “E’ stata veramente una Bella Festa!”…
Il dono e la bellezza legati come le radici e il frutto: uno nascosto e silenzioso, l’altra splendente ed eloquente!
“Mi sono sentita preziosa… nel sacrificio per gli altri innanzitutto, ma secondo me conta come lo fai, non quanto grande sia o quanto importante… come l’ essere piccola e nascosta, senza vantarsi di essere al centro dell’ attenzione, perchè è proprio quando siamo piccoli che riusciamo ad essere grandi, e bastano gli occhi di un bambino che ti guarda mentre sei in coda alla cassa di un supermercato, o il sentirti serena perchè sai che hai fatto tutto quello che avevi in tuo potere per cambiare le cose, a farti capire che sei preziosa…
e anche mentre si prega, mi è capitato… non accontentarsi di una vita legata all’ abitudine e alla mediocrità, perchè oltre c’ è qualcosa, e per arrivare a costruire un grattacielo occorre avere la forza e la pazienza di cominciare dal mattone…”

IL SEME
Il seme è una bella metafora! Nel seme è presente tutta la futura pianta, ma non ne è la ‘brutta copia’, è pienamente promessa, desiderio e realtà… ad un tempo. Il seme è ‘un tutto’ e allo stesso tempo è chiamato a crescere. Importanti saranno il sole, l’acqua, le cure di un buon agricoltore perché possa fiorire il germoglio che poi crescerà ancora per divenire una pianta matura.
Così è per la nostra vita, siamo un po’ un seme che contiene i tratti, i desideri, le possibilità per la realizzazione piena… a patto però che si lasci innaffiare, che si lasci riscaldare, che si lasci raddrizzare da mani attente. Non c’è un tempo ‘incompiuto’, ogni tempo è pienezza e chiede di essere vissuto in una costante apertura, nella disponibilità ad essere coltivato, a portare frutto…
Nella disponibilità ad essere dono!
Un saggio educatore sa donare quella fiducia indispensabile per fiorire, per osare la scommessa dell’uscire da sé, dona quell’amore forte e liberante che fa sentire preziosi e unici, stimati e “capaci di” . Per questo l’educazione è un arte, come diceva don Bosco, che va a toccare le corde più profonde e collabora alla realizzazione di tutta la persona.
Il Signore per primo però è un sapiente educatore, ai cui occhi nulla rimane nascosto (Sir 17,13) ma che può realizzare in pienezza i suoi progetti per noi solo se gli lasciamo pienamente spazio ‘gli occhi del Signore sono su coloro che lo amano’ (Sir 34,16) e ‘Il Signore veglia su chi lo teme’(Sal 3,18). E non a caso la sventura maggiore è allontanarsi volontariamente ottenendo di essere scacciato dai suoi occhi (cfr Gn 2,5).
Il piccolo seme della nostra vita ha bisogno di uno sguardo amorevole per germogliare e avere fiducia!
Non temiamo i sogni grandi, non lasciamoli spegnere dalle delusioni… non lasciamo seccare i germogli promettenti che osano l’avventura della vita piena, donata, che amano la bellezza e rischiano l’impegno e il sacrificio di parteciparvi.
“Lasciate che questa sera io vi ripeta: ciascuno di voi se resta unito a Cristo, può compiere grandi cose. Ecco perché, cari amici, non dovete aver paura di sognare ad occhi aperti grandi progetti di bene e non dovete lasciarvi scoraggiare dalle difficoltà. Cristo ha fiducia in voi e desidera che possiate realizzare ogni vostro più nobile ed alto sogno di autentica felicità. Niente è impossibile per chi si fida di Dio e si affida a Dio. Guardate alla giovane Maria!” (Benedetto XVI alla veglia di Loreto).
L’augurio allora è di restare nel Suo sguardo per scoprire che siamo veramente preziosi, e di prestare i nostri occhi a Lui perchè questo avvenga in ogni persona che ogni giorno incontriamo.

(GxG Magazine) novembre 2007 – autore: sr Francesca Venturelli

IL SAPIENTE E IL DENARO

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IL SAPIENTE E IL DENARO

Sembrano L.

Da un punto di vista economico, l’invenzione del denaro va considerata una pietra miliare. Il libro di Giobbe attesta che questo stadio della civiltà è stato raggiunto molto presto nelle culture bibliche (cf. Gb 42,11).

La realtà economica
Senza denaro, il commercio si riduce al baratto, ossia allo scambio diretto di un bene con un altro, utilizzato nelle comunità primitive e ancora praticato in alcune parti del mondo. In un’economia di baratto, un individuo che possiede qualcosa da commerciare deve trovare qualcuno che la voglia e che abbia qualcosa di accettabile da offrire in cambio. In un’economia monetaria, invece, il proprietario di un bene può venderlo, ricavando del denaro con cui potrà a sua volta acquistare il bene desiderato. Le funzioni della moneta quale mezzo di scambio e misura del valore dei beni facilitano enormemente lo scambio di prodotti e servizi e la specializzazione della produzione.
La Bibbia esprime con la radice ebraica ksf, «bramare, desiderare», e in particolare con il termine kesef, «argento, denaro, salario, proprietà, prezzo d’acquisto» le molteplici funzioni della moneta.
Da un punto di vista sociologico, poi, la ricchezza è uno dei fattori di differenziazione e di stratificazione sociale. In una società, gli individui e i gruppi acquisiscono distinti ruoli e identità a partire da presupposti naturali (come il sesso, l’età, l’etnia, l’ambiente naturale), o sociali (come la religione, la lingua, la professione, la cultura). In virtù di queste differenze, gli attori sociali, siano essi individui o gruppi, acquistano significative differenze di status, di potere, di autorità, e di prestigio sociale a seconda delle attività e delle funzioni svolte, degli obiettivi perseguiti, del potere, dell’autorità, della cultura posseduti. L’accumulo di ricchezza – che da origine al capitale – sfocia nell’opulenza e nella capacità di fare investimenti[1].
L’esperienza della prosperità e dell’abbondanza non è estranea alla Bibbia, che la esprime col sostantivo ‘ošer[2], «ricchezza», cui corrisponde il predicato ‘ašir, «ricco», entrambi associati talora a beni immateriali, come la gloria (Pr 3,16), l’onore, il benessere e l’equità (Pr 8,18), la sapienza (1Re 10,23), la fortuna (Sal 49,7), l’onore (Sal 52,9; 112,3), in contrapposizione con la miseria del povero (Pr 30,8)[3].
La rilevanza semantica dei suddetti termini[4] offre un’idea dell’attenzione prestata al fenomeno della ricchezza nella letteratura sapienziale d’Israele, che – anche in questo campo – esprime realisticamente la contraddittorietà dell’esistenza, con le sue mille sfaccettature, nell’intento di dare all’uomo, per ogni situazione, un orientamento sicuro, senza forzature, traendo la propria autorevolezza dall’esperienza della vita, e facendo appello al buon senso naturale, che è in ogni persona.

I vantaggi dell’agiatezza
Per quanto riguarda la ricchezza, i sapienti d’Israele tracciano l’ideale di un’agiatezza ottenuta attraverso la laboriosità e l’ingegno, di cui è testimone la donna perfetta di Pr 31,10-31. Con le sue eccezionali capacità imprenditoriali, per nulla inferiori a quelle maschili (Pr 11,16), ella si procura da lontano le materie prime, lavora ininterrottamente dall’alba al tramonto, senza trascurare la sorveglianza del personale domestico, né gli investimenti immobiliari (Pr 31,13-18.27).
Per il ricco i beni sono una roccaforte (Pr 10,15; 18,11). Grazie ad essi, al momento opportuno potrà avere salva la vita (Pr 13,8; Sir 18,25). Attratti dai suoi beni, molti gli offriranno la loro amicizia (Pr 19,54). In un’epoca in cui la schiavitù per debiti era ancora una realtà (Lv 25,39; Pr 22,7), non faceva scandalo né l’esistenza della povertà (Pr 22,2), né la superiorità sociale del ricco, né infine il suo potere d’imposizione sui poveri (Pr 22,4). Lo ammette – con una punta d’ironia, ma senz’alcuna inibizione – il Siracide:

Se parla il ricco, tutti tacciono
ed esaltano fino alle nuvole il suo discorso;
se parla il povero, dicono: «Chi è costui?»,
e se inciampa, lo aiutano a cadere! (Sir 13,23).

Altrettanto amara è la constatazione di Qo 9,13-16. Analoghe sono altre affermazioni proverbiali:
Il povero parla con suppliche, il ricco risponde con durezza (Pr 18,23).
L’ira di un uomo cresce in base alla sua ricchezza (Sir 28,10).
Il ricco commette ingiustizia e per di più grida forte (Sir 13,3).

E poi il suo avversario dovrà fare i conti con quel male endemico, che è la corruzione (Sir 8,2b)[5].
Se il giusto Giobbe poteva permettersi di impiegare il suo tempo per «rompere la mascella al perverso» e poteva sedere tra i magistrati «come un re tra i soldati» – come ricorda lui stesso nostalgicamente in Gb 29,17.25 – è perché era tanto ricco da lavarsi i piedi nel latte, e la roccia gli versava ruscelli d’olio (cf. Gb 29,6)! Non dovendo affrontare quotidianamente i problemi della sussistenza, grazie alla sua opulenza, egli faceva parte di quella ristretta aristocrazia che poteva dedicarsi al governo cittadino. La sua opulenza era contemperata dall’impegno per la giustizia.
Nell’ottica sapienziale, che non conosce ancora la rinuncia volontaria ai propri beni per la sequela escatologica del regno di Dio (Mc 10,21), vi è già una dinamica ascensionale, che conduce al riconoscimento del primato della sapienza tra tutti gli altri beni. Pr 14,24 (citato seguendo il testo masoretico) afferma senza mezzi termini che la ricchezza è la «corona dei saggi», in contrapposizione alla stoltezza, che conduce alla miseria, e quindi la ricchezza è intesa come il degno coronamento di una vita spesa con sapienza, con costante impegno, come il frutto della fatica di una vita.

Ma la sapienza è la ricchezza migliore!
Tuttavia, Pr 8,11 – nella collezione più recente del libro – afferma già che la sapienza vale più delle perle, e nessuna cosa preziosa la eguaglia. Dal canto suo, lo pseudo-Salomone testimonia che, insieme con la Sapienza – intesa qui come una figura femminile da ricercare (sulla scia delle personificazioni letterarie di Pr 8-9) – gli sono venuti tutti i beni e che «nelle sue mani è una ricchezza incalcolabile» (Sap 7,11), poiché dall’amicizia e dall’assiduità del rapporto con lei vengono all’uomo piacere, prudenza, ricchezza e fama (cf. Sap 8,18). Vale quindi la pena d’imboccare la strada della sequela della sapienza, perché saggezza e ricchezza vanno insieme, come attesta la narrazione storica relativa al re Salomone (1Re 10,14-25).
Qohelet, attento osservatore dei rapidi mutamenti in atto nella terra d’Israele all’epoca ellenistica (cf. Qo 4,13-14), è il primo a incrinare la fiducia della tradizione sapienziale nella ricchezza, sulla scorta di una riflessione attestata anche nel Salterio (cf. Sal 49,7; 62,11), e minoritariamente nei Proverbi stessi:

Chi confida nella propria ricchezza, cadrà (Pr 11,28a).
Chiedendosi perché mai l’uomo debba affaticarsi per tutta la vita ad accumulare, se non ha neppure un erede (Qo 4,8), anch’egli si cela sotto le sembianze di un Salomone non più giovane, per condannare l’amore insaziabile per il denaro (Qo 5,9) e far notare, nell’ottica di una contestazione radicale dei limiti dell’esistenza, che neppure la sapienza può costituire una salvaguardia definitiva per i propri beni (cibo e ricchezze) contro le insidie degli avvenimenti (Qo 9,11).
Agli antipodi di Qohelet per la sua indiscussa fedeltà alle tradizioni dei padri, la sapienza di «Gesù ben Sira» giunge alle stesse conclusioni, quando riconosce che all’uomo è sottratto il controllo dei propri beni, perché tutto proviene dal Signore, anche povertà e ricchezza (Sir 11,14). Non vale la pena di trascorrere notti insonni pensando a come accumulare (Sir 31,1), né accumulare a forza di privazioni per degli estranei, che faranno festa con i tuoi beni (Sir 14,4). Non ha bisogno di commento questo apoftegma del Siracide, che ha ispirato la parabola evangelica del ricco stolto (Lc 12,16-21):

C’è chi è ricco a forza di attenzione e di risparmio;
ed ecco la parte della sua ricompensa.
Mentre pensa: «Ho trovato riposo; ora mi godrò i miei beni»,
non sa quanto tempo ancora trascorrerà;
lascerà tutto ad altri e morirà (Sir 11,18-19).

Il godimento delle ricchezze non è definitivo. E il danaro è fonte di preoccupazione (Qo 5,11b; Sir 31,1). Il loro possesso non è stabile, ma variabile come il tempo, che dal mattino alla sera cambia (Sir 18,26; 11,21). Salute fisica e gioia del cuore già valgono più di tutto l’oro (Sir 30,15-16.23-25), ma, tra tutti i beni, il più desiderabile è la sapienza. Con essa, infatti, più che col danaro, viene all’uomo ogni altro bene. Ella stessa invita a saziarsi dei suoi beni (Pr 9,1-6; Sir 24,17-20). Benché sia prematuro parlare di una scelta volontaria della povertà, la sequela della sapienza costituisce sicuramente già una premessa importante della sequela per il regno.

Pietà e onestà
La ricchezza è considerata, nell’ottica della benedizione, quale ricompensa del proprio comportamento giusto e onesto; essa è buona, purché sia senza peccato (Sir 13,24). La proverbiale ricchezza di Giobbe (Gb 1,2-3) non è disgiunta dalla sua pietà, contrariamente alle insinuazioni del satana (Gb 1,8-11), che paradossalmente gli frutteranno ancor più, dopo il superamento della prova:
Dio ristabilì Giobbe nello stato di prima … accrebbe anzi del doppio quanto Giobbe aveva posseduto… Il Signore benedisse la nuova condizione di Giobbe più della prima ed egli possedette quattordicimila pecore e seimila cammelli, mille paia di buoi e mille asine (Gb 42,10.12).
La cornice narrativa di Giobbe fornisce un quadro ideale di comprensione per il detto di Pr 11,28b: il sapiente di Uz non ha mai confidato nelle sue ricchezze; per questo anche nella vecchiaia, è posto dal Signore tra quei giusti «verdeggianti come foglie». L’esemplarità del Giobbe in prosa (Gb 1-2; 42,7-17) consiste nella sua attenzione alla giustizia, che gli consente di scampare al tranello postogli dal satana e così «sfuggire alla morte», non con la sua ricchezza, ma per mezzo della sua pietà (cf. Pr 11,4), perché la ricchezza, l’onore e la vita, come il timore di Dio, doni che Giobbe possiede tutti (Gb 1,8; 2,3), sono «frutti dell’umiltà» (Pr 22,4).
Quando ormai è troppo tardi per tornare indietro, perché il giudizio incombe su di loro, dopo una vita spesa a tramare il male e la perdizione a danno del giusto, anche gli empi di Sap 5,5-11 riconoscono la sterilità del connubio tra ricchezza e disonestà, che li ha fuorviati, impedendo loro di gustare la luce della giustizia.
Eppure l’attrattiva dell’arricchimento facile e, in apparenza, senza troppi rischi, doveva esercitare un impatto molto forte sui giovani, se il maestro di Pr 1 dedica a questo tema il primo dei suoi insegnamenti, facendo sentire ai suoi allievi la voce stessa di quei delinquenti, che non temono di paragonarsi, per la loro ingordigia, alle fauci della sheol:
Vieni con noi, complottiamo per spargere sangue … inghiottiamoli vivi come gli inferi…,troveremo ogni specie di beni preziosi, riempiremo di bottino le nostre case… (Pr 1,11-13)
Ma poi mostra ai discepoli la squallida fine degli empi stolti, vittime di quella violenza, e di quella cupidigia, alle quali troppo in fretta si erano assuefatti (Pr 1,18-19). Così spavento e violenza fanno svanire la ricchezza (Sir 21,4).

Generosità
C’è chi largheggia e vede aumentare la sua ricchezza,
chi risparmia oltre misura e finisce nella miseria (Pr 11,24).

L’avarizia è la negazione della funzione economica del denaro, che viene accumulato per se stesso, e non risparmiato in vista di futuri bisogni. Una volta che esso è entrato in cassa, non ne esce più. Perciò, a ragione il Siracide si domanda:

Ma a che servono gli averi a un avaro? (Sir 14,3).

La cupidigia conduce quasi sempre all’arricchimento ingiusto, allo sfruttamento del prossimo, al guadagno disonesto. Messo alla prova, quasi nessuno è stato in grado di resistere alla tentazione dell’oro. Il danaro ha una forza d’attrazione paragonabile a quella che Qo 7,26 attribuisce ai lacci della donna, in cui il peccatore resta preso.
Come attesta categoricamente Sir 31,5-11: l’accaparramento è condannato dai sapienti d’Israele e, come nei profeti – si pensi alle violente invettive di Amos –, attira su chi se ne rende colpevole la punizione divina. Purtroppo, esso è frequente, e a pagarne le conseguenze è il giusto povero (Pr 28,15; Sap 2,10). Il dissenso tra ricchi e poveri è paragonato alla relazione tra il lupo e l’agnello, la iena e il cane, tra una caldaia metallica e una pentola di coccio, e lo sfruttamento dei poveri da parte dei ricchi agli attacchi mossi dai leoni agli onagri del deserto (Sir 13,2.17-19).
A confronto col modello di Pr 23,1-3.6-8, che si sofferma prevalentemente sull’esperienza conviviale, si deve supporre che il conferenziere «Gesù ben Sira», abituale frequentatore delle case dei potenti, sia stato talora oggetto dell’arroganza e dello scherno dei nuovi arricchiti, a giudicare dai toni così veementi e sarcastici, con i quali sfoga l’umiliazione dello sfruttamento da parte dei ricchi (Sir 13,4-7; 29,22-24). Gli fa eco, in qualche modo, Qohelet:

Tutta la fatica dell’uomo è per la bocca
e la sua brama non è mai sazia.
Quale vantaggio ha il saggio sullo stolto?
Quale il vantaggio del povero
che sa comportarsi bene di fronte ai viventi? (Qo 6,7-8).

Povertà e pigrizia
Come in epoca biblica, ancora oggi sopravvive il pregiudizio che l’indigenza sia sempre frutto di pigrizia, scarsa diligenza (Pr 12,27; 13,4; 19,24), o superficialità (Pr 26,16) e si prova fastidio quando ci s’imbatte in certi poveri, ad esempio, gli zingari, che inculcano nei bambini la mendicità (Pr 21,25; Sir 13,20), o i tossicodipendenti, che chiedono soldi per bucarsi. Certamente il sapiente condanna la povertà quando è frutto di pigrizia (Pr 6,6-11; 24,30-34; Sir 10,27; 11,11-13.17). Anzi, egli cerca d’inculcare nei suoi allievi l’orrore per la pigrizia (Pr 20,13; Sir 22,1-2; 37,11)[6].
Ma non sempre la povertà è conseguenza della pigrizia. Talora è frutto di una politica dissennata (Qo 5,7). Altre volte non si tratta di soccorrere i poveri nelle necessità pratiche, ma di rendere loro giustizia (Pr 31,9). E non è sempre possibile sapere in anticipo quali siano le cause del disagio, per potersi regolare. Perciò il ricco ha il dovere di soccorrere il povero, come faceva Giobbe quand’era in auge e in buona salute (Gb 29,12; 31,16.19), o come si comporta la donna perfetta, che apre il palmo della sua mano all’indigente (Pr 31,20). Così facendo, i ricchi ottengono benedizione dal Signore – che li colma di abbondanza (Pr 19,17; 22,9; 28,27; Sir 7,32) – ma anche da coloro che soccorrono, i quali ne celebrano le lodi, accrescendone la fama e la popolarità (Pr 31,20.31; Sir 31,10).
È ancora il Siracide che, a più riprese, raccomanda la delicatezza nel modo di donare, e l’affabilità, per non offendere la sensibilità del povero (Sir 4,1.4.8; 18,16-17; 29,9). Chi opprime il povero, offende il suo Creatore (Pr 14,31; 17,5), perché Dio è dalla sua parte (Sir 21,5). yhwh, che è imparziale, presta ascolto alla preghiera dell’oppresso (Sir 35,13). Ma l’esortazione a praticare la carità risponde anche a una preoccupazione pratica: poiché l’indifferenza sociale verso i poveri è contagiosa, chi è insensibile al grido del povero, quando si troverà nel bisogno, non otterrà risposta (cf. Pr 21,13). Né dagli uomini, né da Dio, come attesta la voce di Abramo:
Figlio, ricordati che hai ricevuto i tuoi beni durante la vita e Lazzaro parimenti i suoi mali; ora invece lui è consolato e tu sei in mezzo ai tormenti. Per di più, tra noi e voi è stabilito un grande abisso: coloro che di qui vogliono passare da voi non possono, né di costì si può attraversare fino a noi (Lc 16,25-26).

Lucio Sembrano

[1]T. Hembrom, «Economic Policy in the Wisdom Literature of the Old Testament», in Bible Bhashyam 22 (1996) 231-237, analizza il tema della ricchezza nei libri sapienziali. L’autore ritiene che vi sia una sostanziale coincidenza tra la mentalità contemporanea e quella dell’epoca biblica quanto alla visione dell’individualismo e del capitalismo, anche se manca nei sapienziali una concettualizzazione moderna della «politica economica».
[2] Da non confondere con «’šr – felice», scritto con aleph iniziale, con cui ha un’assonanza.
[3] Per un ampliamento della ricerca, cf. S.A. Panimolle, «Povertà», in Nuovo dizionario di teologia biblica, Paoline, Cinisello B. 1988,1202-1216; V. Liberti (ed.), Ricchezza e povertà nella Bibbia, Studio Teologico Aquilano, Ed. Dehoniane, Roma 1991; L. Mazzinghi, «I saggi e l’uso della ricchezza: il libro dei Proverbi», in Parola, Spirito e Vita 42 (2000) 83-96.
[4] La ricerca statistica lessicale è stata effettuata per mezzo di una concordanza elettronica della Bibbia ebraica. Non essendo questa disponibile per il libro del Siracide, mi sono avvalso dello studio (in ebraico moderno) di Z. Ben-Hayyim, The Book of Ben Sira. Text, Concordance and an Analysis of the Vocabulary, The Academy of the Hebrew Language and the Shrine of the Book, Jerusalem 1973; cf. pure T. Donald, «The semantic field “Rich and Poor” in Hebrew and Accadian Literature», in Oriente Antico 3(1964) 27-41.
[5] Per un approfondimento sul dovere della solidarietà, cf. J. Corley, «Social Responsibility in Proverbs and Ben Sira», in Scripture Bulletin 30 (2000) 2-14.
[6] B.J. Wright III, «The Discourses of Riches and Poverty in the Book of Ben Sira», in Society of Biblical Literature Special Papers I-II, Scholars, Atlanta 1998, 559-578. Siracide è attento alla vita reale di Gerusalemme nel III-II sec. a.C.

 

Publié dans:BIBBIA, biblica, meditazioni bibliche |on 10 avril, 2015 |Pas de commentaires »
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