Archive pour mai, 2014

Mikalojus Ciurlionis, Creation of the word

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Publié dans:immagini sacre |on 27 mai, 2014 |Pas de commentaires »

MONS. GIANFRANCO RAVASI: « LA VERITÀ NON RICHIEDE SALTI DI FRONTIERA »

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MONS. GIANFRANCO RAVASI: « LA VERITÀ NON RICHIEDE SALTI DI FRONTIERA »

L’Osservatore Romano anticipa l’intervento di Mons. Gianfranco Ravasi, presidente del Pontificio Consiglio della Cultura, al convegno « La scienza 400 anni dopo Galileo Galilei. Il valore e la complessità etica della ricerca tecno-scientifica contemporanea », organizzato da Finmeccanica per 60° anniversario della sua fondazione.
« Tanti sono i sentieri che intercorrono tra le due cittadelle, non opposte ma distinte, della scienza e della teologia », spiega Mons. Ravasi, tra cui quello « che ruota attorno a una questione imponente a livello ideale e pratico, quella del rapporto con la verità ».
Come la teologia, la scienza è ricerca della verità, ma quando essa « è intesa essenzialmente come tecnica, diviene « ricerca di quei processi che conducono ad un successo di tipo tecnico », e ha valore solamente conoscere « ciò che conduce al successo ». Ne consegue che « il mondo, a livello di dato scientifico, diviene un semplice complesso di fenomeni manipolabili, l’oggetto della scienza una connessione funzionale, che viene analizzata soltanto in riferimento alla sua funzionalità ». La scienza diviene perciò « pura funzione », e « il concetto di verità diventa quindi superfluo, anzi talvolta viene esplicitamente rifiutato ».
E la ragione stessa « appare, in definitiva, come semplice funzione o come strumento di un essere che trova il senso della sua esistenza fuori della conoscenza e della scienza, nel migliore dei casi nella vita soltanto ».
Seguendo il pensiero di Papa Benedetto XVI, è quindi necessario considerare « il concetto stesso di verità » nel modo più ampio, superando «la limitazione autodecretata della ragione a ciò che è verificabile nell’esperimento» e aprendosi « alla verità tutta intera ».
Ravasi prosegue citando il Pontefice, il quale spiega che «in questo senso la teologia, non soltanto come disciplina storica e umano-scientifica, ma come teologia vera e propria, cioè come interrogativo sulla ragione della fede, deve avere il suo posto nell’università e nel vasto dialogo delle scienze», e conclude affermando la necessità di « una visione più piena che non impone salti di frontiera, confondendo i modi specifici e gli statuti propri di ogni disciplina ma ne costituisce il dialogo fecondo e gli incroci positivi, essendo tutte le autentiche ricerche in cammino verso la verità che rende autenticamente liberi ».

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI |on 27 mai, 2014 |Pas de commentaires »

COSA FACEVA DIO PRIMA DELLA CREAZIONE? – di Graziella Tenti

http://www.toscanaoggi.it/Rubriche/Risponde-il-teologo/Cosa-faceva-Dio-prima-della-creazione

COSA FACEVA DIO PRIMA DELLA CREAZIONE?

Il mio nipotino (ha cinque anni) mi ha posto una domanda che mi ha messo in imbarazzo. Per il momento ho preso tempo, e vi giro la domanda in modo che possiate aiutarmi a rispondere: cosa faceva Dio prima della creazione?

Graziella Tenti

Risponde padre Athos Turchi, docente di filosofia
La domanda è semplice e propria di un bimbo, ma proprio per questo a volte sono quelle più complicate, perché spiegare ciò che è semplice (ossia: non composto) è difficilissimo, perché non ha parti.
Mi verrebbe la voglia di rispondere: non faceva niente! Perché Dio non fa, è. Che faceva il sole prima di illuminare le cose intorno? Niente, faceva il sole. Così Dio faceva Dio.
Ma allora andiamo all’interno di Dio. La prospettiva cambia, perché non ha importanza la creazione, ma chi è Dio. Noi lo possiamo osservare da due angolazioni. La prima è quella della ragione. Dio è l’essere unico e assoluto, non non vi sono altri esseri, altre cose se non Lui solo, e se qualcosa può esistere si deve solo a una deliberazione di Dio stesso che la porrà in essere traendola dal nulla. Questa è la creazione. Ma attenzione. Dio non è che diventi creatore dopo che ha creato, quasi fosse un pittore che può esser detto tale solo dopo che ha dipinto qualcosa. Dio è da sempre creatore, Dio è il creatore per essenza, anche quando ancora non ha creato niente di diverso a se stesso. Perciò possiamo dire che Dio prima di creare «faceva» o è il creatore. Se la luce del sole fosse ciò che fa essere le cose, è chiaro che il sole sarebbe illuminante anche se non c’è niente ancora da illuminare. Così Dio in quanto ciò che farà esistere è una partecipazione al suo essere, il creare è lui stesso, e la creazione avviene come partecipazione al suo essere.
Dice Agostino, nelle Confessioni, Lui era più intimo a me, di me a me stesso. In questo senso Dio è da sempre Creatore, e non lo diviene. Noi veniamo creati in un certo tempo, ma lui non diventa creatore quando ci crea lo è da sempre, perché l’essere è Lui.
L’altra angolazione è quella della fede. L’indagine qui si arricchisce. Dio è Trino, la sua natura si costituisce di tre persone, Padre, Figlio e Spirito Santo, relazioni che tra loro si fondano e si differenziano. Allora possiamo dire, a prescindere dalla creazione, che Dio ha sempre fatto il Padre che genera il Figlio e dal loro reciproco amore procede lo Spirito. Il che significa che Dio è un reattore atomico (mi si permetta l’esempio) di Amore costituito dall’eterno atto del Padre di generare il Figlio e far procedere lo Spirito. Ora amare è la più grande e la massima attività di qualunque cosa. Ma mentre l’amore umano passa nell’altro in quanto altro, in Dio costituisce la sua natura di tre Persone divine. E questo è l’essere più perfetto che si possa immaginare: Dio è costituito dall’amore, l’amore è l’eterna generazione che è presente in Dio, e questo amore reciproco ed eterno è la Vita. Dio dunque vive, Dio è la vita in se stesso nella comunione delle tre Persone. Questa vita, questo amore e questo essere, Dio lo ha voluto estendere anche ad altre cose, e le ha create, e se ci pensiamo noi abbiamo preso vita non in un certo tempo, ma dall’eternità, perché siamo nel cuore di Dio, in quanto siamo nel suo progetto di vita e di quella vita noi ne partecipiamo.
Con un’immagine nostra Dio è una «famiglia», viveva in famiglia, che è la cosa più importante come vediamo quando essa è il luogo dell’amore, della gioia, del bene. Una famiglia del genere nessuno la lascerebbe, anzi una volta fuori non si vedrebbe l’ora di tornarci, perché essa è il vero e supremo luogo della vita e dell’essere.
Ecco dunque quello che Dio «faceva»: faceva il Dio, viveva, amava, generava, era generato, cose che fa tutt’ora naturalmente, anche se noi, creature, possiamo dargli qualche pensiero in più.

Publié dans:FILOSOFIA, meditazioni/racconti |on 27 mai, 2014 |Pas de commentaires »

San Filippo Neri invita i fanciulli a venerare la Madonna

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Publié dans:immagini sacre |on 26 mai, 2014 |Pas de commentaires »

SAN FILIPPO NERI SACERDOTE – 26 MAGGIO

http://www.santiebeati.it/dettaglio/23150

SAN FILIPPO NERI SACERDOTE

26 MAGGIO

FIRENZE, 1515 – ROMA, 26 MAGGIO 1595

Figlio di un notaio fiorentino di buona famiglia. Ricevette una buona istruzione e poi fece pratica dell’attività di suo padre; ma aveva subito l’influenza dei domenicani di san Marco, dove Savonarola era stato frate non molto tempo prima, e dei benedettini di Montecassino, e all’età di diciott’anni abbandonò gli affari e andò a Roma. Là visse come laico per diciassette anni e inizialmente si guadagnò da vivere facendo il precettore, scrisse poesie e studiò filosofia e teologia. A quel tempo la città era in uno stato di grande corruzione, e nel 1538 Filippo Neri cominciò a lavorare fra i giovani della città e fondò una confraternita di laici che si incontravano per adorare Dio e per dare aiuto ai pellegrini e ai convalescenti, e che gradualmente diedero vita al grande ospizio della Trinità. Filippo passava molto tempo in preghiera, specialmente di notte e nella catacomba di san Sebastiano, dove nel 1544 sperimentò un’estasi di amore divino che si crede abbia lasciato un effetto fisico permanente sul suo cuore. Nel 1551 Filippo Neri fu ordinato prete e andò a vivere nel convitto ecclesiastico di san Girolamo, dove presto si fece un nome come confessore; gli fu attribuito il dono di saper leggere nei cuori. Ma la sua occupazione principale era ancora il lavoro tra i giovani. San Filippo era assistito da altri giovani chierici, e nel 1575 li aveva organizzati nella Congregazione dell’Oratorio; per la sua società (i cui membri non emettono i voti che vincolano gli ordini religiosi e le congregazioni), costruì una nuova chiesa, la Chiesa Nuova, a santa Maria « in Vallicella ». Diventò famoso in tutta la città e la sua influenza sui romani del tempo, a qualunque ceto appartenessero, fu incalcolabile.

Patronato: Giovani
Etimologia: Filippo = che ama i cavalli, dal greco

Martirologio Romano: Memoria di san Filippo Neri, sacerdote, che, adoperandosi per allontanare i giovani dal male, fondò a Roma un oratorio, nel quale si eseguivano letture spirituali, canti e opere di carità; rifulse per il suo amore verso il prossimo, la semplicità evangelica, la letizia d’animo, lo zelo esemplare e il fervore nel servire Dio.
Filippo Neri nasce a Firenze il 21 luglio 1515, e riceve il battesimo nel « bel san Giovanni » dei Fiorentini il giorno seguente, festa di S. Maria Maddalena.
La famiglia dei Neri, che aveva conosciuto in passato una certa importanza, risentiva allora delle mutate condizioni politiche e viveva in modesto stato economico. Il padre, ser Francesco, era notaio, ma l’esercizio della sua professione era ristretto ad una piccola cerchia di clienti; la madre, Lucrezia da Mosciano, proveniva da una modesta famiglia del contado, e moriva poco dopo aver dato alla luce il quarto figlio.
La famiglia si trovò affidata alle cure della nuova sposa di ser Francesco, Alessandra di Michele Lenzi, che instaurò con tutti un affettuoso rapporto, soprattutto con Filippo, il secondogenito, dotato di un bellissimo carattere, pio e gentile, vivace e lieto, il « Pippo buono » che suscitava affetto ed ammirazione tra tutti i conoscenti.
Dal padre, probabilmente, Filippo ricevette la prima istruzione, che lasciò in lui soprattutto il gusto dei libri e della lettura, una passione che lo accompagnò per tutta la vita, testimoniata dall’inventario della sua biblioteca privata, lasciata in morte alla Congregazione romana, e costituita di un notevole numero di volumi. La formazione religiosa del ragazzo ebbe nel convento dei Domenicani di San Marco un centro forte e fecondo. Si respirava, in quell’ambiente, il clima spirituale del movimento savonaroliano, e per fra Girolamo Savonarola Filippo nutrì devozione lungo tutto l’arco della vita, pur nella evidente distanza dai metodi e dalle scelte del focoso predicatore apocalittico.
Intorno ai diciotto anni, su consiglio del padre, desideroso di offrire a quel figlio delle possibilità che egli non poteva garantire, Filippo si recò da un parente, avviato commerciante e senza prole, a San Germano, l’attuale Cassino. Ma l’esperienza della mercatura durò pochissimo tempo: erano altre le aspirazioni del cuore, e non riuscirono a trattenerlo l’affetto della nuova famiglia e le prospettive di un’agiata situazione economica.
Lo troviamo infatti a Roma, a partire dal 1534. Vi si recò, probabilmente, senza un progetto preciso. Roma, la città santa delle memorie cristiane, la terra benedetta dal sangue dei martiri, ma anche allettatrice di tanti uomini desiderio di carriera e di successo, attrasse il suo desiderio di intensa vita spirituale: Filippo vi giunse come pellegrino, e con l’animo del pellegrino penitente, del « monaco della città » per usare un’espressione oggi di moda, visse gli anni della sua giovinezza, austero e lieto al tempo stesso, tutto dedito a coltivare lo spirito.
La casa del fiorentino Galeotto Caccia, capo della Dogana, gli offrì una modesta ospitalità – una piccola camera ed un ridottissimo vitto – ricambiata da Filippo con l’incarico di precettore dei figli del Caccia. Lo studio lo attira – frequenta le lezioni di filosofia e di teologia dagli Agostiniani ed alla Sapienza – ma ben maggiore è l’attrazione della vita contemplativa che impedisce talora a Filippo persino di concentrarsi sugli argomenti delle lezioni.
La vita contemplativa che egli attua è vissuta nella libertà del laico che poteva scegliere, fuori dai recinti di un chiostro, i modi ed i luoghi della sua preghiera: Filippo predilesse le chiese solitarie, i luoghi sacri delle catacombe, memoria dei primi tempi della Chiesa apostolica, il sagrato delle chiese durante le notti silenziose. Coltivò per tutta la vita questo spirito di contemplazione, alimentato anche da fenomeni straordinari, come quello della Pentecoste del 1544, quando Filippo, nelle catacombe si san Sebastiano, durante una notte di intensa preghiera, ricevette in forma sensibile il dono dello Spirito Santo che gli dilatò il cuore infiammandolo di un fuoco che arderà nel petto del santo fino al termine dei suoi giorni.
Questa intensissima vita contemplativa si sposava nel giovane Filippo ad un altrettanto intensa, quanto discreta nelle forme e libera nei metodi, attività di apostolato nei confronti di coloro che egli incontrava nelle piazze e per le vie di Roma, nel servizio della carità presso gli Ospedali degli incurabili, nella partecipazione alla vita di alcune confraternite, tra le quali, in modo speciale, quella della Trinità dei Pellegrini, di cui Filippo, se non il fondatore, fu sicuramente il principale artefice insieme al suo confessore P. Persiano Rosa.
A questo degnissimo sacerdote, che viveva a san Girolamo della Carità, e con il quale Filippo aveva profonde sintonie di temperamento lieto e di impostazione spirituale, il giovane, che ormai si avviava all’età adulta, aveva affidato la cura della sua anima. Ed è sotto la direzione spirituale di P. Persiano che maturò lentamente la chiamata alla vita sacerdotale. Filippo se ne sentiva indegno, ma sapeva il valore dell’obbedienza fiduciosa ad un padre spirituale che gli dava tanti esempi di santità. A trentasei anni, il 23 maggio del 1551, dopo aver ricevuto gli ordini minori, il suddiaconato ed il diaconato, nella chiesa parrocchiale di S. Tommaso in Parione, il vicegerente di Roma, Mons. Sebastiano Lunel, lo ordinava sacerdote.
Messer Filippo Neri continuò da sacerdote l’intensa vita apostolica che già lo aveva caratterizzato da laico. Andò ad abitare nella Casa di san Girolamo, sede della Confraternita della Carità, che ospitava a pigione un certo numero di sacerdoti secolari, dotati di ottimo spirito evangelico, i quali attendevano alla annessa chiesa. Qui il suo principale ministero divenne l’esercizio del confessionale, ed è proprio con i suoi penitenti che Filippo iniziò, nella semplicità della sua piccola camera, quegli incontri di meditazione, di dialogo spirituale, di preghiera, che costituiscono l’anima ed il metodo dell’Oratorio. Ben presto quella cameretta non bastò al numero crescente di amici spirituali, e Filippo ottenne da « quelli della Carità » di poterli radunare in un locale, situato sopra una nave della chiesa, prima destinato a conservare il grano che i confratelli distribuivano ai poveri.
Tra i discepoli del santo, alcuni – ricordiamo tra tutti Cesare Baronio e Francesco Maria Tarugi, i futuri cardinali – maturarono la vocazione sacerdotale, innamorati del metodo e dell’azione pastorale di P. Filippo. Nacque così, senza un progetto preordinato, la « Congregazione dell’Oratorio »: la comunità dei preti che nell’Oratorio avevano non solo il centro della loro vita spirituale, ma anche il più fecondo campo di apostolato. Insieme ad altri discepoli di Filippo, nel frattempo divenuti sacerdoti, questi andarono ad abitare a San Giovanni dei Fiorentini, di cui P. Filippo aveva dovuto accettare la Rettoria per le pressioni dei suoi connazionali sostenuti dal Papa. E qui iniziò tra i discepoli di Filippo quella semplice vita famigliare, retta da poche regole essenziali, che fu la culla della futura Congregazione.
Nel 1575 Papa Gregorio XIII affidò a Filippo ed ai suoi preti la piccola e fatiscente chiesa di S. Maria in Vallicella, a due passi da S. Girolamo e da S. Giovanni dei Fiorentini, erigendo al tempo stesso con la Bolla « Copiosus in misericordia Deus » la « Congregatio presbyterorm saecularium de Oratorio nuncupanda ». Filippo, che continuò a vivere nell’amata cameretta di San Girolamo fino al 1583, e che si trasferì, solo per obbedienza al Papa, nella nuova residenza dei suoi preti, si diede con tutto l’impegno a ricostruire in dimensioni grandiose ed in bellezza la piccola chiesa della Vallicella.
Qui trascorse gli ultimi dodici anni della sua vita, nell’esercizio del suo prediletto apostolato di sempre: l’incontro paterno e dolcissimo, ma al tempo stesso forte ed impegnativo, con ogni categoria di persone, nell’intento di condurre a Dio ogni anima non attraverso difficili sentieri, ma nella semplicità evangelica, nella fiduciosa certezza dell’infallibile amore divino, nella letizia dello spirito che sgorga dall’unione con Dio. Si spense nelle prime ore del 26 maggio 1595, all’età di ottant’anni, amato dai suoi e da tutta Roma di un amore carico di stima e di affezione.
La sua vita è chiaramente suddivisa in due periodi di pressoché identica durata: trentasei anni di vita laicale, quarantaquattro di vita sacerdotale. Ma Filippo Neri, fiorentino di nascita – e quanto amava ricordarlo! – e romano di adozione – tanto egli aveva adottato Roma, quanto Roma aveva adottato lui! – fu sempre quel prodigio di carità apostolica vissuta in una mirabile unione con Dio, che la Grazia divina operò in un uomo originalissimo ed affascinante.
« Apostolo di Roma » lo definirono immediatamente i Pontefici ed il popolo Romano, attribuendogli il titolo riservato a Pietro e Paolo, titolo che Roma non diede a nessun altro dei pur grandissimi santi che, contemporaneamente a Filippo, aveva vissuto ed operato tra le mura della Città Eterna. Il cuore di Padre Filippo, ardente del fuoco dello Spirito, cessava di battere in terra in quella bella notte estiva, ma lasciava in eredità alla sua Congregazione ed alla Chiesa intera il dono di una vita a cui la Chiesa non cessa di guardare con gioioso stupore. Ne è forte testimonianza anche il Magistero del Santo Padre Giovanni Paolo II che in varie occasioni ha lumeggiato la figura di san Filippo Neri e lo ha citato, unico dei santi che compaiano esplicitamente con il loro nome, nella Bolla di indizione del Grande Giubileo del 2000.

Autore: Mons. Edoardo Aldo Cerrato CO

 

Publié dans:Santi |on 26 mai, 2014 |Pas de commentaires »

VISITA AL MEMORIALE DI YAD VASHEM – DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/speeches/2014/may/documents/papa-francesco_20140526_terra-santa-memoriale-yad-vashem.html

PELLEGRINAGGIO IN TERRA SANTA IN OCCASIONE DEL 50° ANNIVERSARIO DELL’INCONTRO A GERUSALEMME TRA PAPA PAOLO VI E IL PATRIARCA ATENAGORA – (24-26 MAGGIO 2014)

VISITA AL MEMORIALE DI YAD VASHEM – DISCORSO DEL SANTO PADRE FRANCESCO

Jerusalem, Lunedì, 26 maggio 2014

“Adamo, dove sei?” (cfr Gen 3,9).
Dove sei, uomo? Dove sei finito?
In questo luogo, memoriale della Shoah, sentiamo risuonare questa domanda di Dio: “Adamo, dove sei?”.
In questa domanda c’è tutto il dolore del Padre che ha perso il figlio.
Il Padre conosceva il rischio della libertà; sapeva che il figlio avrebbe potuto perdersi… ma forse nemmeno il Padre poteva immaginare una tale caduta, un tale abisso!
Quel grido: “Dove sei?”, qui, di fronte alla tragedia incommensurabile dell’Olocausto, risuona come una voce che si perde in un abisso senza fondo…

Uomo, chi sei? Non ti riconosco più.
Chi sei, uomo? Chi sei diventato?
Di quale orrore sei stato capace?
Che cosa ti ha fatto cadere così in basso?
Non è la polvere del suolo, da cui sei tratto. La polvere del suolo è cosa buona, opera delle mie mani.
Non è l’alito di vita che ho soffiato nelle tue narici. Quel soffio viene da me, è cosa molto buona (cfr Gen 2,7).
No, questo abisso non può essere solo opera tua, delle tue mani, del tuo cuore… Chi ti ha corrotto? Chi ti ha sfigurato?
Chi ti ha contagiato la presunzione di impadronirti del bene e del male?
Chi ti ha convinto che eri dio? Non solo hai torturato e ucciso i tuoi fratelli, ma li hai offerti in sacrificio a te stesso, perché ti sei eretto a dio. Oggi torniamo ad ascoltare qui la voce di Dio: “Adamo, dove sei?”.

Dal suolo si leva un gemito sommesso: Pietà di noi, Signore!
A te, Signore nostro Dio, la giustizia, a noi il disonore sul volto, la vergogna (cfr Bar 1,15).
Ci è venuto addosso un male quale mai era avvenuto sotto la volta del cielo (cfrBar 2,2). Ora, Signore, ascolta la nostra preghiera, ascolta la nostra supplica, salvaci per la tua misericordia. Salvaci da questa mostruosità.
Signore onnipotente, un’anima nell’angoscia grida verso di te. Ascolta, Signore, abbi pietà!
Abbiamo peccato contro di te. Tu regni per sempre (cfr Bar 3,1-2).
Ricordati di noi nella tua misericordia. Dacci la grazia di vergognarci di ciò che, come uomini, siamo stati capaci di fare, di vergognarci di questa massima idolatria, di aver disprezzato e distrutto la nostra carne, quella che tu impastasti dal fango, quella che tu vivificasti col tuo alito di vita.

Mai più, Signore, mai più!
“Adamo, dove sei?”.
Eccoci, Signore, con la vergogna di ciò che l’uomo, creato a tua immagine e somiglianza, è stato capace di fare.
Ricordati di noi nella tua misericordia.

 

Publié dans:Gerusalemme, PAPA FRANCESCO, Shoah |on 26 mai, 2014 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO – EBREI E CRISTIANI: UN LEGAME CHE È QUALCOSA DI PIÙ DELLA SEMPLICE STIMA

http://www.zenit.org/it/articles/ebrei-e-cristiani-un-legame-che-e-qualcosa-di-piu-della-semplice-stima

EBREI E CRISTIANI: UN LEGAME CHE È QUALCOSA DI PIÙ DELLA SEMPLICE STIMA

Il Papa incontra i Gran Rabbini di Israele, ricorda i progressi compiuti a partire dalla « Nostra aetate » e auspica un rapporto più solido per combattere ogni forma di antisemitismo e discriminazione

Gerusalemme, 26 Maggio 2014 (Zenit.org) Salvatore Cernuzio

È l’unità il dono che Francesco ha portato in ogni tappa del suo pellegrinaggio in Terra Santa. Anche stamane, visitando il Centro « Heichal Shlomo », Sede del Gran Rabbinato di Israele, il Pontefice ha richiamato ad una profonda e vera comunione i due Grandi Rabbini di Israele, il Gran Rabbino Askenazi Yitzhak Yosef e il Gran Rabbino Sefardita David Lau. Aggiungendo però alcune importanti sottolineature.
“Non si tratta solamente di stabilire, su di un piano umano, relazioni di reciproco rispetto”, ha detto il Santo Padre ai Rabbini: “Come Cristiani e come Ebrei”, siamo chiamati “ad interrogarci in profondità sul significato spirituale del legame che ci unisce”. Un legame – ha evidenziato il Papa – “che viene dall’alto, che sorpassa la nostra volontà e che rimane integro, nonostante tutte le difficoltà di rapporti purtroppo vissute nella storia”.
Il legame di cui parla Bergoglio è quello tra “fratelli maggiori”, come ha definito egli stesso la popolazione ebraica stamane nella dedica sul Libro d’Onore del Muro Occidentale. Un rapporto caratterizzato quindi dall’affetto, dalla complicità e dal sostegno reciproco. E dall’amicizia.
“Fin dal tempo in cui ero Arcivescovo di Buenos Aires ho potuto contare sull’amicizia di molti fratelli ebrei”, ha confidato il Pontefice. Uno su tutti il rabbino Abraham Skorka che il Papa ha voluto vicino a sé in questo viaggio nella Terra di Gesù, come segno di vera comunione. Ma oltre a Skorka sono tanti gli amici ebrei di Bergoglio: “Insieme ad essi – ha raccontato – abbiamo organizzato fruttuose iniziative di incontro e dialogo, e con loro ho vissuto anche momenti significativi di condivisione sul piano spirituale”.
Queste esperienze, insieme ai tanti incontri con organizzazioni ed esponenti dell’ebraismo mondiale sin dai primi mesi di pontificato, attestano “il desiderio reciproco di meglio conoscerci, di ascoltarci, di costruire legami di autentica fraternità”, ha affermato il Santo Padre.
Senza dubbio, ha poi osservato, questo cammino di amicizia è “uno dei frutti del Concilio Vaticano II”, in particolare della Dichiarazione Nostra aetate, di cui il prossimo anno si celebra il 50° anniversario. Al di là dei propositi e degli sforzi umani, tuttavia, Bergoglio si è detto “convinto” che quanto accaduto negli ultimi decenni nelle relazioni tra ebrei e cattolici “sia stato un autentico dono di Dio, una delle meraviglie da Lui compiute”.
È pur vero che tale dono non avrebbe potuto manifestarsi “senza l’impegno di moltissime persone coraggiose e generose, sia ebrei che cristiani”. In particolare, il Pontefice ha menzionato il dialogo tra il Gran Rabbinato d’Israele e la Commissione della Santa Sede per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo. Un dialogo fondamentale, questo, che, ispirato dalla visita di San Giovanni Paolo II in Terra Santa, prese inizio nel 2002 ed è ormai al suo dodicesimo anno di vita.
Su quest’ultimo punto il Papa ha scherzato: “Mi piace pensare, con riferimento al Bar Mitzvah della tradizione ebraica, che esso sia ormai prossimo all’età adulta”; ha auspicato quindi che “possa continuare ed abbia un futuro luminoso davanti a sé”.
Dunque, è qualcosa in più della semplice stima ciò che Bergoglio chiede a Cristiani ed Ebrei. “Da parte cattolica – ha assicurato – vi è certamente l’intenzione di considerare appieno il senso delle radici ebraiche della propria fede”. Da parte ebraica, “confido nel vostro aiuto” affinché “si mantenga, e se possibile si accresca, l’interesse per la conoscenza del cristianesimo, anche in questa terra benedetta in cui esso riconosce le proprie origini e specialmente tra le giovani generazioni”.
“Insieme – ha concluso Francesco – potremo dare un grande contributo per la causa della pace; insieme potremo testimoniare, in un mondo in rapida trasformazione, il significato perenne del piano divino della creazione; insieme potremo contrastare con fermezza ogni forma di antisemitismo e le diverse altre forme di discriminazione”. Che il Signore – è stata quindi la preghiera del Santo Padre – “ci aiuti a camminare con fiducia e fortezza d’animo nelle sue vie. Shalom!”.
Dopo l’incontro con i due Gran Rabbini, è seguito lo scambio di doni alla presenza delle rispettive delegazioni. Il Papa ha poi lasciato il Centro « Heichal Shlomo » per recarsi in auto al Palazzo Presidenziale per la visita di cortesia al Presidente Shimon Peres

Publié dans:Gerusalemme, PAPA FRANCESCO |on 26 mai, 2014 |Pas de commentaires »

Descent of the Holy Spirit icon, 12th century. Leningrad

Descent of the Holy Spirit icon, 12th century. Leningrad dans immagini sacre Descent_of_the_Holy_Spirit_icon,_12th_century._National_Museum_of_Georgia

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Publié dans:immagini sacre |on 23 mai, 2014 |Pas de commentaires »

1 PIETRO 3,15-18 – COMMENTO BIBLICO

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=1%20Pietro%203,15-18

BRANO BIBLICO SCELTO

1 PIETRO 3,15-18

Carissimi, 15 adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi.
Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, 16 con una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. 17 E’ meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene che facendo il male.
18 Anche Cristo è morto una volta per sempre per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito.

COMMENTO
1 Pietro 3,15-18

La fortezza nella persecuzione
La Prima lettera di Pietro è uno scritto cristiano della fine del I secolo che si presenta come opera del grande apostolo di cui porta il nome, ma che secondo gli studiosi moderni è una raccolta di tradizioni che al massimo potrebbero risalire in qualche modo a Pietro o al suo ambiente. Essa non è una lettera vera e propria, ma un’omelia a sfondo battesimale. Essa si apre con l’indirizzo e una benedizione iniziale (1,1-5) a cui fa seguito il corpo della lettera che si divide in tre parti: 1) Identità e responsabilità dei rigenerati (1,6 – 2,10); 2) I cristiani nella società civile (2,11 – 4,11); 3) Presente e futuro della Chiesa (4,12 – 5,11). Nella seconda di queste tre parti l’autore, dopo aver dato direttive a ogni categoria di cristiani, suggerisce il comportamento da tenere nelle persecuzioni (3,13-18). Quest’ultimo brano è introdotto da una beatitudine rivolta a coloro che soffrono per la giustizia e da una esortazione a non avere paura dei persecutori (vv. 13-14); esso prosegue poi con alcune direttive (vv. 15-18) che sono riprese dalla liturgia.
La persecuzione non può non suscitare paura e sgomento; ma di fronte ad essa il credente deve assumere un atteggiamento positivo: «Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi (v. 15a). Il miglior antidoto nei confronti della paura consiste nel mantenere fermo il rapporto con Cristo. È soprattutto nei loro cuori che i credenti devono «adorare» (hagiazein, santificare) Cristo, riconoscendogli il compito di guida e maestro interiore. Così facendo essi daranno un senso alla loro vita, che si manifesterà in atteggiamenti di fiducia e di speranza. Vivendo in questo modo essi saranno preparati a dare una risposta convincente a coloro che, vedendo la loro speranza, pongono delle domande circa la sua origine. In altre parole, i cristiani non devono prendere l’iniziativa di dichiarare la loro fede: è sufficiente infatti che manifestino una speranza che susciti degli interrogativi, ai quali potranno rispondere indicandone l’origine nel messaggio evangelico. La testimonianza della vita deve dunque precedere quella verbale, che ha semplicemente la funzione di esplicitare ciò che in essa è implicito.
La risposta del cristiano alle domande che gli vengono fatte non deve però venir meno a precise esigenze di comportamento: «Tuttavia questo sia fatto con dolcezza e rispetto, con una retta coscienza, perché nel momento stesso in cui si parla male di voi rimangano svergognati quelli che malignano sulla vostra buona condotta in Cristo. È meglio infatti, se così vuole Dio, soffrire operando il bene che facendo il male» (vv. 15b-17). Un atteggiamento fatto di dolcezza (praütês, mitezza, non violenza), di rispetto (phobon, timore) e di «buona coscienza», cioè determinato da un’intenzione retta, senza secondi fini, è l’unico in grado di sconfessare quanti mettono in dubbio la rettitudine del loro comportamento «in Cristo», cioè della loro vita cristiana. È importante che alle parole corrispondano le opere, le quali soltanto sono veramente convincenti. Se poi, nonostante tutto, non si è capiti e si viene fatti oggetto di vessazioni, non bisogna sentirsi delusi perché, dovendo comunque soffrire, è meglio che ciò avvenga avendo fatto il bene piuttosto che il male.
Infine, nei momenti di difficoltà il cristiano deve sempre rifarsi all’esempio di Cristo: «Anche Cristo è morto una volta sola per i peccati, giusto per gli ingiusti, per ricondurvi a Dio; messo a morte nella carne, ma reso vivo nello spirito» (v. 18). L’efficacia della sofferenza di Cristo è vista nel fatto che egli è morto «una sola volta» (apax) «per i peccati» (peri hamartiôn), cioè a motivo dei peccati, che ha eliminato una volta per tutte. L’idea di fondo è quella del Servo di JHWH il quale, prendendo su di sé le conseguenze dei peccati del popolo, ha rotto la spirale della violenza rendendo possibile la riconciliazione del popolo. L’autore sottolinea che Cristo, accettando volontariamente la sua morte, ha dimostrato di essere un giusto in quanto ha operato «per» (hyper) gli ingiusti, cioè ha messo un argine alla loro ingiustizia. E per questo motivo è morto sì «nella carne», cioè nel suo corpo mortale, ma è stato vivo «nello spirito» (pneumati), cioè ha dimostrato di essere portatore della potenza stessa di Dio, al quale ha ricondotto l’umanità peccatrice.

Linee interpretative
Le direttive contenute in questo brano rivelano una situazione in cui i cristiani sono fatti oggetto di vessazioni, se non di aperte persecuzioni. La preoccupazione più grande dell’autore è quella di prevenire lo scoraggiamento che potrebbe minare la loro fede. Egli perciò raccomanda di mantenere vivo il rapporto interiore con Cristo, dal quale soltanto scaturisce quella speranza che consiste nel dare un significato alle scelte quotidiane della vita. Questo modo di reagire alla persecuzione non solo darà loro la possibilità di mantenersi fedeli a Cristo, ma susciterà delle domande nei loro avversari, alle quali essi dovranno saper rispondere in modo sincero e spontaneo, indicando qual è la sorgente della loro speranza, cioè la fede in Cristo.
L’autore si preoccupa anche che i cristiani non cadano in un’autodifesa arrogante e aggressiva, che li metterebbe sullo stesso piano dei loro avversari. Essi devono saper evitare ogni tipo di violenza, anche solo verbale. In loro non deve esserci alcun senso di rivalsa, anzi devono imparare da Cristo che, soffrendo senza avere fatto nulla di male, collaborano con lui nella sua lotta contro il peccato e aprono agli altri la via verso Dio. In questa prospettiva anche la sofferenza più grande, quella della morte, non è poi una disgrazia così terribile, perché riguarda, come per Cristo, soltanto il corpo fisico, mentre in realtà rappresenta una vittoria dello Spirito sul potere del male.

25 MAGGIO 2014 – 6A DOMENICA DI PASQUA A – LECTIO DIVINA : GV 14,15-21

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25 MAGGIO 2014 | 6A DOMENICA DI PASQUA A | OMELIA DI APPROFONDIMENTO

LECTIO DIVINA : GV 14,15-21

Consolando i suoi discepoli per la sua assenza, Gesù promette il Consolatore, lo Spirito che il mondo non riceverà mai: il vuoto lasciato da Gesù sarà occupato dal suo Spirito. L’assenza del Risuscitato non deve alimentare nessuna nostalgia nel cuore dei discepoli, perché il Paraclito, avvocato difensore, che svela Cristo rimane in essi. Non è tempo per lamentarsi della sua lontananza quando si ha a disposizione la cosa migliore di Cristo. Chi possiede questo Spirito può osare amare colui il quale sente la mancanza: l’amore non è la somma di affetti ma l’obbedienza radicale; chi si lamenta dell’assenza del suo Signore, ha come compito il compimento della sua volontà. Gesù non ha lasciato i suoi abbandonati, ma neanche disoccupati: chi possiede lo Spirito nel suo cuore tiene occupate le sue mani nell’obbedienza ed il suo cuore nell’amore fraterno.

In quel tempo, Gesù disse ai suoi discepoli:
15 Se mi amate, osserverete i miei comandamenti.
16 Io pregherò il Padre, ed Egli vi darà un altro Consolatore, perché stia con voi in perpetuo, 17 lo Spirito della verità, che il mondo non può ricevere, perché non lo vede e non lo conosce. Voi lo conoscete, perché dimora con voi, e sarà in voi.
18 Non vi lascerò orfani; tornerò a voi. 19 Ancora un po’, e il mondo non mi vedrà più; ma voi mi vedrete, perché io vivo e voi vivrete. 20 In quel giorno conoscerete che io sono nel Padre mio, e voi in me ed io in voi.
21 Chi ha i miei comandamenti e li osserva, quello mi ama; e chi mi ama sarà amato dal Padre mio, e io l’amerò e mi manifesterò a lui.
1. LEGGERE : capire quello che dice il testo facendo attenzione a come lo dice
La sensazione di abbandono che la comunità di Giovanni viveva dovette essere profonda ed inaspettata, anche se Gesù li aveva lasciati prima di partire. Il nostro testo appartiene a quel lungo discorso di addio (Gv 13,1-17,26) col quale Gesù anticipa quello che affronteranno i suoi discepoli e li aiuta a superarlo. La sua partenza faciliterà nuove presenze; Gesù promette ai suoi una presenza equivalente alla sua (Gv 14,12-14) e presenze nuove: del Paraclito (Gv 14,15-17), la sua (Gv 14,18-21). Significativo che il testo incominci e finisca con l’identico motivo: l’amore a Gesù (Gv 14,15.21) si manifesta nel compimento della sua volontà (Gv 14,15.21.23.24); bisogna notare un lieve, ma importante, cambiamento: all’inizio, Gesù si dirige ai suoi discepoli: se mi amate..; alla fine Gesù pensa a qualunque altro che, per amarlo, osservi i suoi comandamenti. L’amore all’Assente si verifica nell’obbedienza alla sua volontà e non nella nostalgia della sua sparizione. La comunità senza Gesù è il posto del compimento del suo mandato: se mi amaste, osservate i miei comandamenti (Gv 14,15).
L’obbedienza a Gesù provoca la sua intercessione davanti al Padre e l’invio dell’altro Avvocato (Gv 14,16). La missione di questo Protettore è identica a quella di Gesù; in realtà, lo rappresenta nella sua assenza, finché dura la sua lontananza, fino alla fine del tempo; starà in quelli che amano Gesù e rimarrà con essi (14,16.17). La sua funzione è quella di garantire la verità tra i credenti, come già lo fece il primo Paraclito (14,17; 1,14; 14,16; 15,26; 16,13); questo Spirito di verità non appartiene al mondo, rimane nella comunità, col risultato che non è riconosciuto né ricevuto dal mondo. Separando e distinguendo il credente dal mondo, questo Avvocato di Gesù non agirà dentro lo spazio mondano bensì dove si ami Cristo e si realizzi la sua volontà.
L’assenza non rende orfani, facilita una presenza nuova di Gesù tra i suoi: alla promessa di un nuovo avvocato, si unisce l’impegno del suo ritorno (Gv 14,18). Gesù sparirà dal mondo, ma non agli occhi dei suoi, perché Egli vive e vivranno i suoi credenti (Gv 14,19). Questa venuta di Cristo alla sua comunità non può essere la definitiva che sarà sensibile (1Tess. 4,16-17; Mc 13,24-26; Lc 17,22-24) ma non è meno efficace: i discepoli non sono rimasti abbandonati. Giovanni aggiorna così per la sua comunità l’esperienza pasquale dei primi testimoni: la presenza del Risuscitato si prolunga fino all’oggi della comunità.
L’orizzonte si espande: il voi comunitario si universalizza. Chiunque può diventare ubbidiente ed essere beneficiario dell’amore del Padre e del Figlio. L’amore che osserva la volontà di Gesù assicura l’amore di Dio e la rivelazione definitiva di Gesù (Gv 14,21): il Padre passa da sconosciuto ad amante dell’ubbidiente. L’autore è riuscito così ad esprimere teologicamente quello che la vita cristiana sperimenta nel quotidiano: la comunità cristiana ama il suo Signore perché fa il suo volere e si sente amata da Dio. « Ora ci ama affinché crediamo e conserviamo il precetto della fede; allora ci amerà affinché lo vedremo e riceveremo questa visione come premio della fede. Anche noi amiamo ora, credendo quello che vedremo allora, ed allora ameremo vedendo quello che crediamo » ora (Agostino).

2 – MEDITARE : Applicare quello che dice il testo alla vita
Il vangelo ci ricorda oggi le promesse che Gesù fece ai suoi discepoli prima di separarsi definitivamente da essi; li preparava così per una nuova epoca, nella quale avrebbero dovuto affrontare nuove sfide ed assumere nuovi compiti, senza il costante appoggio della sua presenza ed il suo consiglio. Gesù sapeva bene che i suoi si sarebbero sentiti abbandonati in un mondo ostile, deboli ancora nella fedeltà e soli con le loro paure. Prevedendo la difficoltà, Gesù consolò i discepoli che lasciava, impegnandosi a mandare loro il suo Spirito: non li lascerebbe, dunque, abbandonati; non rimanendo come l’avevano avuto fino ad ora, corporalmente, sarebbe stato a loro disposizione in forma nuova ma permanente, spiritualmente.
Questa promessa di Gesù ci raggiunge anche oggi. A differenza dei primi discepoli noi non abbiamo conosciuto Gesù secondo la carne; ma come ad essi, ci è stato promesso il suo Spirito, purché continuiamo a seguirlo, ed Egli ci segue consolandoci nel nostro cuore. È vero che noi oggi, a distanza di due mila anni e senza avere goduto ancora della presenza diretta di Gesù, difficilmente possiamo vivere a pieno quello che significa perderlo; ma non è meno certo che, come i discepoli che lo persero un giorno, anche noi ci sentiamo abbandonati e ci pesa il vuoto di Gesù nel nostro mondo. Le promesse di Gesù, dunque, ci concernono; ascoltarli oggi è il nuovo ‘vangelo’, la notizia realmente ‘buona.’
Perché, e tale è la sua prima parola di consolazione, Gesù non abbandona totalmente i suoi discepoli, per quanto si allontani fisicamente da essi: lascia loro un compito, quello di amarlo obbedendo a lui, quello di amarlo obbedendogli, quello di seguirlo senza possederlo. « Se mi amate, osserverete i miei comandamenti. » Sapeva bene Gesù che il pericolo maggiore del discepolo sta nel credere che, non avendo il suo Signore al suo fianco, è dispensato di continuare ad obbedirgli. Gesù vuole che chi lo sente di meno, lo ami ancora di più. Fare la sua volontà, benché lo percepiamo assente nella nostra vita, compiere il suo volere, precisamente quando non lo sentiamo molto vicino, è la forma di renderlo presente ed efficace fino al suo ritorno.
Spesso ci rifugiamo nell’apparente lontananza di Gesù, dal nostro mondo – e di quel mondo che è il nostro cuore -, per dimenticarci di fare il suo volere. Scusando la nostra disubbidienza per la sua assenza, non facciamo che ingrandire il nostro vuoto: se l’amassimo in realtà, vivremmo come Dio comanda, senza importarci molto che ancora non lo sentiamo totalmente vicino a noi; se lo volessimo in realtà, convertiremmo il suo volere in norma della nostra esistenza, fino a quando non venga ed imprima il suo volere nel nostro cuore. Non è una buona forma di amare colui il quale si sente la mancanza il dimenticarsi di quello che gli piace o disubbidirlo solo perché è assente: la prova che vogliamo bene a chi ci manca è che non manchiamo al suo volere. Se la volontà di Gesù è la norma della nostra vita non ci sentiremo abbandonati a noi stessi; se non l’abbiamo, abbiamo almeno i suoi inviati; se non possiamo amarlo di persona, potremo amare la sua volontà.
Ma Gesù non ci lascia solo con obblighi. Si è impegnato ad ottenerci da Dio un Difensore unico, il suo stesso Spirito. Colui il quale lo animò durante tutta la sua vita, mentre viveva coi suoi discepoli e che lo riempie di vita ora con Dio, solo per intercedere per noi. Se ci fa male non avere ancora Gesù in forma evidente al nostro lato, a portata di mano, né nel nostro cuore, possiamo consolarci di possedere già il suo Spirito. Dovremmo domandarci perché continuiamo a sentirci lasciati da Dio, se abbiamo lo stesso Spirito di Gesù. Appartiene al discepolo che Gesù lascia momentaneamente nel mondo, un avvocato difensore che l’accompagnerà sempre; ma gli apparterrà, solo se il discepolo non si abbandona al mondo, permettendo che si impadronisca del suo cuore e del suo volere.
Se ci stanchiamo di obbedire a Gesù e di amarlo a distanza, non potrà trasmetterci il suo Spirito né difenderci: il mondo che, in realtà, è assenza di Dio ed ignoranza del suo volere, non può ricevere lo Spirito di Gesù. Se ci decidiamo di vivere secondo le sue preferenze e le sue norme, secondo le sue mode e le sue leggi, ci priviamo di Gesù e del suo Spirito. E non è quello, precisamente, ciò che sta succedendo ad una maggioranza di cristiani? Viviamo, in effetti, sentendo la mancanza di Dio, ma senza sapere che da Lui abbiamo ricevuto lo Spirito; se il mondo è la nostra patria, Dio non sarà la nostra casa. Fino a che non mettiamo Cristo e il suo volere al centro delle nostre vite, non ci sarà concesso il suo Spirito e continueremo a sentirci abbandonati.
Gesù ha promesso consolazione, più ancora dello stesso Consolatore a chi fa la sua volontà. Più che domandarsi, dunque, perché non riusciamo a vivere come veri cristiani, per quanto Gesù ci ha consolati, sarebbe bene che ci interrogassimo se, in realtà, osserviamo il suo volere. Chi è fedele a Dio diventa fiducioso; chi non dubita della promessa di Gesù non cade nella tentazione di sentirsi abbandonato. Se non vogliamo perdere Dio, mettiamolo al centro della nostra vita: quando il suo volere sarà la nostra norma ci sentiremo normalmente amati da Dio. Quando compiremo la volontà di Gesù, ci sentiremo amati da lui. Stiamo allontanando Dio dal mondo, noi i credenti, perché viviamo senza prestargli attenzione né obbedienza; non volendolo nel nostro cuore, lo confiniamo dal nostro mondo; e se ci sentiamo soli e trascurati da Lui, è perché l’abbiamo abbandonato ed abbiamo trascurata la sua volontà.
Non dovremmo dimenticare che, ed è la terza promessa di Gesù, egli ritornerà. La sua sparizione è temporanea, il suo abbandono è momentaneo. Chi sopporta la sua lontananza e vive compiendo la sua volontà chi possiede il suo Spirito e si sa difeso da Lui, si sentirà sempre confortato dal suo imminente ritorno. « Non vi lascerò orfani, ritornerò. » Una forma di recuperare l’allegria, benché ancora non l’abbiamo vicino a noi, è quella di aspettarlo senza dubitare. I cristiani possiamo disporre oggi di molte cose, ma viviamo con poca speranza; accumuliamo beni che periranno, cercando con essi di riempire le nostre vite; per non sopportare che niente ci manchi, non sappiamo vivere speranzosi. E, tuttavia, per chi ancora attende il suo Signore, tutto quello che ha è poco, non riesce a riempire il suo vuoto; che ci manchi la cosa migliore, non fa brutti i beni, persone o cose che possediamo, ma non li converte nel definitivo. Vivere speranzosi suppone sapere che il nostro amato Signore sta ancora per venire e che quello che ci aspetta è ancora migliore di quanto abbiamo già

3 – PREGARE : Prega il testo e desidera la volontà di Dio: cosa dico a Dio?
Te ne sei andato, Signore Gesù, dal nostro mondo e ci sentiamo abbandonati; ci attanaglia tanto la tua assenza come la nostra solitudine. Non permettere che facciamo casa un mondo dove tu non stai, che non ci sentiamo in casa se tu non stai ancora per arrivare.
Grazie, Signore Gesù, per avermi insegnato come vivere senza te senza perderti, come stare senza te senza sentirmi abbandonato! Grazie perché mi dai il tuo volere, quando mi neghi la tua presenza! Grazie perché so di averti se osservo la tua volontà. Dedito a fare il tuo volere, ti sentirò presente nella mia vita; so che ti amo e ciò mi basterà per sopportare la tua assenza nel mio mondo!
Grazie, Signore Gesù, per avermi lasciato protetto e consolato, per esserti impegnato con me a darmi il tuo Spirito! Chi ti riempì di vita dietro la morte e ti restituì al Padre, mi difende ora dalle mie morti e mi darà un giorno di godere della tua presenza, mi parla di te, mentre sento la tua mancanza. Grazie, Signore, sei ammirabile!
Grazie, Signore Gesù, per avermi promesso che ritornerai che non puoi stare senza di noi! Il tuo ritorno annunciato riempie la mia solitudine di speranza, fa più sopportabile la tua attuale assenza. Sapere che verrai mi riempie di nostalgia di te. Già mi sto preparando alla tua venuta e questo mi libera dal sentirmi solo! Ti ringrazio con tutto il cuore perché pensi che non mi hai ancora e per questo motivo ritorni a me.

JUAN JOSE BARTOLOME sdb,

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