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PERCHÉ SONO PASSATI TRE GIORNI TRA LA MORTE E LA RESURREZIONE?

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PERCHÉ SONO PASSATI TRE GIORNI TRA LA MORTE E LA RESURREZIONE?

Questa settimana padre Filippo Belli, docente di Teologia biblica alla Facoltà teologica dell’Italia centrale, risponde sul significato dei «tre giorni» tra la morte e la Resurrezione di Gesù.

Percorsi: SPIRITUALITÀ E TEOLOGIA
03/07/2013 di Redazione Toscana Oggi

Nei Vangeli si legge che Gesù Cristo è resuscitato il terzo giorno dopo la morte. Così pure è scritto nel Credo «apostolico» e in quello «niceno-costantinopolitano» che recitiamo nelle Messe festive. Qual è l’interpretazione teologica su questo lasso di tempo fra i due eventi, morte e resurrezione?
Franco Contè

Il Nuovo Testamento più volte riferisce della risurrezione di Gesù dai morti al «terzo giorno». L’espressione è diventata quindi normativa per indicare non solo il tempo cronologico, ma anche l’unicità di quell’evento in tutto il suo significato.
Ci sono diversi livelli in cui l’espressione può essere compresa, senza tuttavia che si escludano.
Il primo, il più naturale, è quello cronologico. In effetti le narrazioni dei vangeli ci indicano il terzo giorno dopo la morte come il momento in cui i discepoli (per prime le donne) hanno ricevuto l’annuncio della risurrezione come appena avvenuto, e come comprova l’apparizione del Risorto stesso. L’affermazione della risurrezione dei morti al terzo giorno ha dunque valore innanzitutto di testimonianza del fatto reale, tanto che se ne può indicare precisamente il momento in cui è accertato tale fatto. La memoria cristiana è ancorata e ben salda su questo dato, tanto da stabilire il primo giorno dopo il sabato (il terzo giorno, appunto) come il giorno proprio del Signore, il dies Domini, la Domenica.
Un secondo livello di comprensione è legato a quello che potremmo chiamare la proverbialità dell’espressione ad indicare un breve lasso di tempo, un momento passeggero. Ci sono diversi episodi biblici in cui i tre giorni indicano il tempo in cui si compie qualcosa di importante ma anche passeggero. Per ricordarne uno, i tre giorni (di peste) sono il tempo proposto da Dio a Davide come una delle prove da scegliere dopo il suo peccato per aver voluto fare un censimento del popolo (2Sam 24,10-17). Da questo genere di testi (cf. ancora Gen 40,12; 2Re 20,5.8; Gn 2,1) nasce la concezione secondo la quale Dio non permette al giusto di soffrire oltre il terzo giorno. Lo stesso Gesù utilizza tale espressione in questo modo nei suoi annunci della passione e risurrezione ai discepoli, segnalando nei «tre giorni» il momento di passaggio dalla morte alla risurrezione.
Ci sono poi altri testi biblici interessanti a riguardo, perché segnalano il terzo giorno come il momento di un intervento decisivo da parte di Dio per la storia del suo popolo. In particolare occorre ricordare la manifestazione del Signore al Monte Sinai durante il cammino del popolo nel deserto (Es 19). Similmente è al terzo giorno che Abramo arriva al luogo dove deve sacrificare Isacco (Gen 22).
Non si può, infine, ignorare alcune profezie che vedono nel terzo giorno il momento di risollevamento da una situazione penosa. I tre giorni nel ventre del pesce della profezia di Giona, che Gesù utilizza espressamente (Mt 12,40), sono il momento buio e misterioso da dove invece riparte la vita. Così anche la profezia di Os 6,2 che giustamente i Padri della Chiesa hanno applicato alla Pasqua di Cristo. Essa afferma che il Signore «in due giorni ci ridarà la vita e il terzo giorno ci rimetterà in piedi e noi staremo alla sua presenza». Se in Osea questa indicazione era un auspicio per incitare il popolo a convertirsi, in Gesù si è realizzata pienamente e concretamente. In Lui davvero il Signore ci ha rimesso in piedi il terzo giorno risuscitandolo dai morti e inaugurando una nuova era in cui noi stiamo alla sua presenza.
Una tradizione rabbinica ben attestata riteneva che la corruzione della morte iniziasse a essere effettiva sui cadaveri dopo il terzo giorno. Ecco, il Signore non ha permesso, come dice il salmo, che Gesù vedesse la corruzione (Sal 16,9-11) per essere il principio di una vita nuova nella quale la morte (col suo potere corrosivo e distruttivo) non avesse più potere.
Il terzo giorno allora segnala il momento storico in cui Dio, oltre l’apparente inevitabilità della morte, ha iniziato quella vita nuova risorgendo Gesù dai morti.
Per noi rimane un richiamo della speranza cristiana oltre e attraverso tutte le vicissitudini brutte della vita. C’è sempre un terzo giorno, Dio c’è lo assicura in Gesù morto e risorto, una speranza certa.

Filippo BellI

CHE SIGNIFICA «ACCOGLIERE IL REGNO DI DIO COME UN BAMBINO»?

http://www.taize.fr/it_article3268.html

(dedicato al bambino morto sulla spiaggia in Turchia, io non mi sento di mettere la foto)

CHE SIGNIFICA «ACCOGLIERE IL REGNO DI DIO COME UN BAMBINO»?

Un giorno, delle persone conducono da Gesù dei bambini affinché li benedica. I discepoli vi si oppongono. Gesù s’indigna e ingiunge loro di lasciare che i bambini vadano a lui. Poi disse loro: «Chi non accoglie il regno di Dio come un bambino, non entrerà in esso» (Marco 10,13-16).
È utile ricordarsi che, un po’ prima, è a questi stessi discepoli che Gesù aveva detto: «A voi è stato confidato il mistero del regno di Dio» (Marco 4,11). A causa del regno di Dio, hanno lasciato tutto per seguire Gesù. Cercano la presenza di Dio, vogliono far parte del suo regno. Ed ecco che Gesù li avverte che respingendo i bambini, stanno giustamente per chiudere davanti a loro la sola porta d’ingresso a quel regno di Dio tanto desiderato!
Ma che significa «accogliere il regno di Dio come un bambino»? In generale si comprende così: «accogliere il regno di Dio come lo accoglie un bambino». Questo risponde ad una parola di Gesù che troviamo in Matteo: «Se non vi convertirete e non diventerete come bambini, non entrerete nel regno dei cieli» (Matteo 18,3). Un bambino si fida senza riflettere. Non può vivere senza fidarsi di chi lo circonda. La sua fiducia non ha nulla di una virtù, è una realtà vitale. Per incontrare Dio, ciò che abbiamo di meglio è il nostro cuore di bambino che è spontaneamente aperto, osa domandare con semplicità, vuole essere amato.
Però si può anche comprendere la frase così: «accogliere il regno di Dio come si accoglie un bambino». In effetti, il verbo greco ha in generale il senso concreto d’«accogliere qualcuno», come si può costatare qualche versetto prima dove Gesù parla d’«accogliere un bambino» (Marco 9,37). In questo caso, Gesù paragona all’accoglienza di un bambino l’accoglienza della presenza di Dio. C’è una connivenza segreta tra il regno di Dio e un bambino.
Accogliere un bambino vuol dire accogliere una promessa. Un bambino cresce e si sviluppa. È così che il regno di Dio non è mai sulla terra una realtà completa, ma piuttosto una promessa, una dinamica e una crescita incompiuta. Poi i bambini sono imprevedibili. Nel racconto del Vangelo, essi arrivano quando arrivano, e a quanto sembra non è al buon momento secondo i discepoli. Tuttavia Gesù insiste che, poiché sono lì, bisogna accoglierli. È così che dobbiamo accogliere la presenza di Dio quando si manifesta, che sia il buono o cattivo momento. Bisogna stare al gioco. Accogliere il regno di Dio come si accoglie un bambino significa vegliare e pregare per accoglierlo quando viene, sempre all’improvviso, a tempo e fuori tempo.
Perché Gesù ha mostrato un’attenzione particolare ai bambini?
Un giorno, i dodici apostoli discutono per sapere chi è il più grande (Marco 9,33-37). Gesù, che ha capito le loro riflessioni, dice loro una parola disorientante che sconvolge e scuote le loro categorie: «Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti».
Alla sua parola Gesù unisce il gesto. Egli va a prendere un bambino. È forse un bambino che trova abbandonato all’angolo di una strada di Cafàrnao? Lo prende, lo «pone in mezzo» a quella riunione di futuri responsabili della Chiesa e dice loro: «Chi accoglie uno di questi bambini nel mio nome, accoglie me». Gesù s’identifica con il bambino che ha appena abbracciato. Afferma che «uno di questi bambini» lo rappresenta il meglio, a tal punto che accoglierne uno di loro è come accogliere lui stesso, il Cristo.
Poco prima, Gesù aveva detto questa parola enigmatica: «Il figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini» (Marco 9,31). «Il figlio dell’uomo» è lui stesso, e allo stesso tempo sono tutti i figli d’uomo, cioè tutti gli esseri umani. La parola di Gesù può essere così compresa: «Gli esseri umani sono consegnati al potere dei loro simili». Durante l’arresto e nei maltrattamenti inflitti a Gesù, si verificherà una volta di più, e in maniera drammatica, che gli uomini fanno ciò che vogliono con i loro simili che sono senza difesa. Che Gesù si riconosca nel bambino che è andato a prendere, non è allora motivo di stupore, poiché, così spesso, anche i bambini sono consegnati senza difesa a coloro che hanno potere su di essi.
Gesù mostra un’attenzione particolare ai bambini perché vuole che i suoi abbiano un’attenzione prioritaria per quanti mancano del necessario. Fino alla fine dei tempi, saranno i suoi rappresentati sulla terra. Quel che si farà a loro, è a lui, il Cristo, che lo si farà (Matteo 25,40). I «più piccoli dei suoi fratelli», quelli che contano poco e che si trattano come si vuole perché non hanno potere né prestigio, sono la via, il passaggio obbligato, per vivere in comunione con lui.
Se Gesù ha posto un bambino in mezzo ai suoi discepoli riuniti, è anche affinché essi accettino d’essere piccoli. Lo spiega loro nell’insegnamento che segue: «Chiunque vi darà un bicchiere d’acqua nel mio nome perché siete di Cristo, vi dico in verità che non perderà la sua ricompensa» (Marco 9,41). Andando sulle strade per annunciare il regno di Dio, anche gli apostoli saranno «consegnati nelle mani degli uomini». Non sapranno mai prima come saranno accolti. Tuttavia anche per coloro che li accoglieranno con un semplice bicchiere d’acqua fresca, senza prenderli molto seriamente, saranno portatori di una presenza di Dio.

Lettera da Taizé: 2006/2

LA SAPIENZA UMANA NEI DETTI DI GESÙ, RINALDO FABRIS (1996)

http://www.finesettimana.org/pmwiki/index.php?n=Db.Sintesi?num=113

LA SAPIENZA UMANA NEI DETTI DI GESÙ

SINTESI DELLA RELAZIONE DI RINALDO FABRIS

Verbania Pallanza, 7 dicembre 1996

La modalità più comune di sapere sapienziale è la piccola sentenza ritmica, nella forma del proverbio, espressione non tanto dell’erudizione quanto dell’amore intelligente.
Gesù si colloca all’interno della tradizione popolare della sapienza. Appare estraneo alla sapienza colta, coltivata a corte o presso il tempio.
L’immagine di un Gesù profeta apocalittico arrabbiato non corrisponde a quanto i vangeli ci trasmettono. Più veritiera è quella di saggio, sapiente, maestro.

Gesù « maestro »
Marco ci presenta Gesù, dopo l’annuncio programmatico del Regno, come un maestro che insegna con autorità (Mc 1,21-22), un’autorità che non gli deriva da titoli di scuola conseguiti. Gesù è un autodidatta, un sapiente carismatico.
Gesù è un terapeuta itinerante, ex falegname, che suscita lo stupore, la meraviglia e anche la reazione stizzita dei suoi compaesani (Mc 6,2-3).
Gesù, al pari di ogni altro essere umano (una malintesa fede nella divinità di Gesù ha messo in ombra questo aspetto) compie tutto il percorso di formazione umana. Il suo sapere è legato alla sua esperienza.
La cultura di Gesù è una cultura popolare, di carattere pratico e induttivo, propria di un artigiano che lavora con le mani. Gesù mostra una grande capacità di leggere in profondità le esperienze umane.
Luca retroproietta nella vicenda storica delle origini la figura del maestro che insegna con autorità e sapienza (Lc 2,39-40; 46-47).

proverbi e sentenze sapienziali
Si trovano soprattutto nel discorso sul monte di Matteo e in quello più breve ambientato in pianura di Luca.
armonia tra interno/esterno
La trasparenza tra interno/esterno costituisce uno dei temi più affascinanti dei vangeli, con l’immagine dell’occhio e della luce o del parlare che viene dalla pienezza del cuore.
Sulla stessa linea si colloca la critica alla purità rituale, esteriore, in favore di una purità interiore, della qualità delle relazioni con gli altri e con Dio.
coerenza e sincerità
Gesù colpisce per la sua libertà e coerenza.
Critica i farisei che pretendono di guidare gli altri senza avere una luce interiore (ciechi guide di ciechi); critica chi scopre la pagliuzza nell’occhio del fratello ma non la trave nel proprio. Si tratta di sentenze che fanno riflettere.
ascoltare e mettere in pratica
Gesù invita a costruire la propria vita su un solido fondamento, come una casa costruita sulla roccia, nell’ascoltare e nel mettere in pratica le sue parole.
valutazione e uso dei beni
L’interesse per la salute, per il corpo, per l’uso dei beni è un problema sapienziale che ha a che fare con il senso del vivere.
Gesù invita a riflettere sull’investimento affettivo: sul cuore che segue il luogo del tesoro e sulla dedizione totale a qualcuno (non si possono servire due padroni).
Gesù invita non a disprezzare i beni (Mt 6,25.27-28) ma a disporli secondo una corretta gerarchia. I beni più importanti, come la salute o la vita, sono beni gratuiti. Vivendoli secondo questa prospettiva si fa esperienza religiosa, si coglie il senso del vivere: vivere con senso di gratitudine, senza crearsi inutili problemi (ad ogni giorno basta la sua pena).

enigmi sapienziali
L’enigma, una sentenza paradossale o oscura, è un invito a riflettere.
La esperienza religiosa non si identifica con un semplice stato emotivo, ma neppure col ragionamento. La tradizione sapienziale privilegia la capacità di riflettere, fa appello alla ragione, ma immergendola in un clima affettivo.
La sapienza non è la fredda filosofia o teologia, non è puro stato emotivo, ma è una riflessione partecipe della vita.
Rispondendo alle critiche rivolte ai suoi discepoli perché non digiunano, Gesù afferma che in tempo di nozze si fa festa, che il vestito nuovo non ha bisogno di toppe, che il vino giovane ha bisogno di otri nuovi. È la chiara affermazione della novità di Gesù: gioia e festa non conciliabili con vecchi modi di pensare e di agire.
Come i bambini che giocano alla festa di nozze o al funerale così è capricciosa la gente che critica Giovanni perché troppo severo e Gesù perché fa festa.
Gesù, a chi lo critica perché non si è sposato, dice che ci sono eunuchi per il regno dei cieli. Non tutti possono capirlo, ma solo coloro ai quali è concesso: la sapienza nasce dalla riflessione sulla vita, ma è anche dono di Dio, è lasciarsi illuminare da Dio che parla attraverso la vita.
similitudini sapienziali
L’esperienza religiosa deve essere vista per poter essere riconosciuta, come la lucerna deve essere messa in alto.
Occorre stare attenti al vecchio rappresentato da Erode e dai farisei (il lievito che corrompe, Mc 8,15).
L’immagine del cammello e della cruna sono usate per parlare della difficoltà di un ricco ad entrare nel regno dei cieli.

detti e similitudini del quarto vangelo
Anche nel quarto vangelo, disseminate qua e là, si trovano espressioni che mostrano il gusto di Gesù per la sentenza che fa riflettere sul senso del vivere, come quelle sul tempio ricostruito in tre giorni, sullo spirito che è come il vento (il modo libero dell’agire di Dio), sui tempi nuovi in cui addirittura chi semina fa tutt’uno con chi miete, sul chicco che deve morire per portare molto frutto, sul legame affettivo tra pastore e gregge, immagine di quello tra Gesù e i discepoli, sulla partenza e sulla morte premessa per una nuova e più profonda relazione (Gv 16,21-22).

conclusione
Gesù riflette sui fatti della vita per cogliere il senso della propria vita e missione, per fare intravedere l’agire di Dio: è un riflettere come un andare dentro le cose per coglierne il senso davanti a Dio.
Il vangelo, la buona notizia del nuovo rapporto tra Dio e gli uomini, è amore intelligente, è sapienza.

LA SIMBOLOGIA DELL’ACQUA NELL’ANTICO E NEL NUOVO TESTAMENTO

http://www.parrocchiacolombella.it/articoli-rassegna-stampa/1306-la-simbologia-dellacqua-nellantico-e-nel-nuovo-testamento

LA SIMBOLOGIA DELL’ACQUA NELL’ANTICO E NEL NUOVO TESTAMENTO

Naviganti assetati

Un convegno a Genova analizza il rapporto dell’elemento primordiale con il sacro e con l’arte

(‘Osservatore Romano 9 settembre 2011)

Nell’ambito del Festival dell’acqua in corso a Genova, il 9 settembre a Palazzo Ducale, l’Associazione Sant’Anselmo Imago Veritatis organizza l’incontro « Acqua e figure del Sacro » che prevede una conferenza con immagini tenuta da Timothy Verdon (« La sete del vero nell’arte ») e una di Quirino Principe (« Musica e voce di Dio »), con esecuzioni al pianoforte di Marino Nahon. Pubblichiamo l’introduzione dell’ideatrice.

di SANDRA ISETTA

Nella Bibbia, libro comune alle tre religioni monoteistiche, nella scena della creazione troviamo l’acqua « cosmica » che determina l’origine della vita: Dio disse: « Sia un firmamento in mezzo alle acque per separare le acque dalle acque » (Genesi, 1, 6).
E nel Salmo 29 è scritto « Il Signore è seduto sull’oceano del cielo », ossia il trono di Dio « galleggia » sulle acque, metafora della Sua potenza. Dio può prosciugare o scatenare le acque a suo piacimento, come nel diluvio (« Le acque furono travolgenti sulla terra centocinquanta giorni »), o dividerle distruggendo il faraone (« le acque erano per loro un muro a destra e uno a sinistra »).
È la medesima autorità che nel Vangelo esercita Cristo, che cammina sulle acque e che placa il lago di Tiberiade. Il naufragio e la tempesta sono governati da Dio, che mette in salvo l’arca di Noè, preserva Giona nel mostro marino, conduce all’isola di Malta la barca dell’apostolo Paolo e dei suoi compagni. La barca. Simbolo della Sinagoga e della Chiesa.
altNel testo sacro, l’acqua è al tempo stesso elemento indispensabile di vita materiale e simbolo di vita eterna, come recitano i Proverbi: « acqua fresca per una gola assetata ». Invocazione ben comprensibile per la condizione climatica della Palestina, terra di pastori e avara di piogge.
Nell’Esodo, un piccolo brano del capitolo 19 fa da introduzione al lungo cammino di quaranta giorni che condurrà Israele al Monte Sinai. Subito dopo il passaggio del mare Rosso, avvenuta la liberazione dalla schiavitù, la prima difficoltà che il popolo incontra è la sete: gli manca l’acqua, e quando questa appare è salmastra: « ma non potevano bere le acque di Mara, perché erano amare. Per questo erano state chiamate Mara. Allora il popolo mormorò contro Mosè: « Che berremo? ». Egli invocò il Signore, il quale gli indicò un legno. Lo gettò nell’acqua e l’acqua divenne dolce ».
Ma a noi interessa l’attualità del commento del redattore: « In quel luogo il Signore impose al popolo una legge e un diritto; in quel luogo lo mise alla prova ».
La « prova » di Dio è una legge a doppio senso, esige rettitudine e rispetto in cambio di benevolenza e protezione. Gli Israeliti infatti « arrivarono a Elim, dove sono dodici sorgenti di acqua e settanta palme. Qui si accamparono presso l’acqua ». D’altra parte il profeta Osea annuncia il messia come colui che « Verrà a noi come la pioggia d’autunno, come la pioggia di primavera che feconda la terra ».
Negli episodi biblici sono velate le valenze figurative dell’idrologia della terra di Israele: i serbatoi di acqua dolce del mare di Galilea o Tiberiade; il fiume Giordano e il Mar Morto; le sorgenti, i pozzi, le cisterne che fanno da sfondo a episodi molto noti, come le scene di Giacobbe e dell’epifania di Gesù alla Samaritana. I pozzi erano scarsi ed erano il luogo in cui la gente si radunava e si conosceva, per questo motivo alcuni incontri tra uomini e donne avvengono al pozzo, come tra Giacobbe e Rachele. L’arrivo da un Paese lontano al pozzo rappresenta lo straniero che nel ricevere acqua e ospitalità stabilisce un nuovo legame familiare.
L’acqua è elemento di purificazione e di culto sia nel codice ebraico sia in quello cristiano. Nel Battesimo l’immersione in acqua aggiunge al significato di purificazione quello di passaggio dalla morte alla vita. E la sete è un segno della nostra umanità, verso la quale Gesù dimostra piena solidarietà, quando grida « Ho sete » e dopo avere bevuto, muore. L’estrema invocazione umana di Gesù può essere collegata alle parole di Benedetto XVI: « Il diritto all’acqua – scrive il Papa nel Messaggio al direttore generale della Fao in occasione della Giornata mondiale dell’acqua, 22 marzo 2010 – si basa sulla dignità umana (…) Senza acqua la vita è minacciata. Dunque, il diritto all’acqua è un diritto universale e inalienabile »

IL CIELO NELLA BIBBIA

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IL CIELO NELLA BIBBIA

verso il Grest 2009

  Il cielo apre e chiude la Scrittura (Gen 1,1: «Dio creò il cielo e la terra»; Ap 21–22: la Gerusalemme nuova che scende dal cielo, in un cielo nuovo). Vedi, a proposito di Dio creatore dei cieli, Gen 2,4; 14,19; Es 20,11; Est 4,17; Is 37,16; Ger 32,17; Sal 114,15; At 14,14; Ap 14,7. Binomio «cielo-terra» per dire tutto l’esistente (Gen 1,1; Is 50,2). La struttura tripartita dell’universo: il cielo-la terra (e il mare)-il mondo sotterraneo (gli inferi, lo še’ol). Al di sopra di tutto Dio, creatore e garante dell’ordine cosmico.   La Bibbia non ha un’idea del cosmo come qualcosa in sé, indipendente e a sé stante; l’idea che ne ha è in rapporto a ciò di cui è abitato. Il cielo è abitato dalle stelle (Gb 9,9; 38,31). Tra queste vi sono anche due pianeti: Venere («astro del mattino»: Is 14,12) e Saturno («Chiion»: Am 5,26). Contro la tentazione di abbandonarsi al culto di questi due, la Bibbia insiste nello «sdivinizzarli», rimarcando che sono semplici creature di Dio (Gen 1). Il re del cielo è il sole: il suo corso regolare e la sua forza sono il segno di stabilità e di ordine del cosmo (Qo 1,5; Gen 8,22; Sal 19). Nella rilettura del NT, sarà simbolo del Cristo: Lc 1,78 («verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge»).   Il cielo è la sede di Dio (Gn 14,18; Sal 33,13-14; Is 66,1; Mt 6,9). Anche Gesù lo conferma: «Padre nostro, che sei nei cieli» (Mt 6,9). Ed ecco perché è diventato sinonimo di Paradiso. Gli strati del cielo sono sette, abitati via via dagli angeli, nella misura della loro vicinanza a Dio; Dio risiede nell’ultimo cielo (ecco perché si dice: «sentirsi al settimo cielo»…). Vi siede al di sopra e distende la volta come la tenda in cui abita (Is 40,22; 1Re 8,27). Per questo, la distanza tra il cielo e la terra è simbolo della trascendenza divina (Is 55,9). La nuvola è simbolo del mistero di Dio, perché lo «vela» agli occhi della terra (Es 13,21; 14,19-20; 19,16-25; 24,15-18; 33,9-11; Nm 12,5-10).   Nel NT il cielo è la dimora del Verbo, prima del tempo (Gv 1) e poi, una volta asceso, per sempre, nello stesso trono del Padre (Ap 22,1). E quando tornerà per il giudizio finale, i cieli si apriranno… In cielo, dove già abita la corte celeste (Col 1,20), si ritroveranno i giusti, nella pace eterna (Fil 3,20), al cospetto del trono di Dio (Ap 3,21).

  Alcune suggestioni bibliche   Le stelle del cielo, il cui numero è incalcolabile, saranno la misura della discendenza che Dio concederà ad Abramo e nella quale saranno benedette tutte le genti (Gen 22,17-18; Dt 1,10). La storia della salvezza comincia con un invito a scrutare il cielo… Già si è accennato al sogno di Giacobbe, con la scala che unisce cielo e terra e gli angeli che scendono e salgono (Gen 28,10-17): simbolo della provvidenza e della cura di Dio per i suoi figli. È ripresa poi in Gv 1,51, nel dialogo con Filippo, dove la scala diventa Gesù stesso, una volta «elevato». «Il Signore si è affacciato dall’alto del suo santuario, dal cielo ha guardato la terra, per ascoltare il gemito del prigioniero, per liberare i condannati a morte» (Sal 102,20-21; Is 66,2; Mt 6,11).   Gesù stesso, che procede dal Padre e a Lui ritorna, viene dal cielo e tornerà al cielo (Gv 3,13; 6,62; Mc 16,19); Egli è il pane vivo «disceso dal cielo»; nel suo battesimo, al fiume Giordano, sono i cieli ad aprirsi (Lc 3,21).   Nella testimonianza degli Atti degli apostoli, è il cielo aperto che Stefano, primo martire cristiano, vede comparire alla vigilia della sua passione (At 7,55-56). Fra i brani del NT con un collegamento al cielo e ai suoi fenomeni, domina senza dubbio l’episodio narrato da Matteo a proposito dei Magi: essi «scrutano il cielo» e riconoscono il momento della nascita del Messia, in base a un fenomeno astronomico di cui osservano (e forse prevedono) l’evolversi quando ancora sono lontani (Mt 2,1-12). Probabilmente dietro vi è la profezia presente in Nm 24,17.   Interessante anche l’episodio della vita di Gesù in cui i Farisei, per ottenere una dimostrazione «sperimentabile» della sua divinità, chiedono che egli invii «un segno dal cielo», cioè dalla sede di Dio (Mt 16,1-4). A essi Gesù risponde con un’analogia: come gli uomini sono capaci, dall’attenta «osservazione del cielo», di trarre conclusioni veritative sul clima e sulle evoluzioni dell’atmosfera, così devono essere capaci di riconoscere altri segni, ugualmente eloquenti, che mostrano la presenza di Dio in mezzo a loro, fra i quali il «segno» per eccellenza, quello della sua morte e risurrezione (Mt 12,39-40; Gv 2,19-22). A rendere difficile questo riconoscimento, come testimoniato anche da altri passi evangelici (Gv 15,22-24), non sarebbe l’ambiguità o la poca chiarezza dei segni, ma piuttosto il cuore chiuso in se stesso. L’ascensione di Gesù al cielo (Lc 24,50; At 1,6). «I cieli e la terra passeranno» (Mt 5,18; Mc 13,31; Lc 21,33).   «Un nuovo cielo e una terra nuova» (Ap 21,1), con la Gerusalemme gloriosa che discende dal cielo per venire incontro a Cristo suo sposo e inaugurare così il banchetto nuziale escatologico. Parallelismo con Genesi: insieme siamo chiamati a creare questo nuovo cielo e a rifinire l’abito della Gerusalemme sposa con i nostri atti d’amore (Ap 19,7-8). È quello che è prefigurato anche nella visione, sempre nel cielo, della donna di Ap 12: rappresenta la Chiesa, rivestita di sole (del Cristo); ha la luna sotto i suoi piedi e una corona di 12 stelle perché indica la sua missione di rinnovare il creato, come una nuova creazione, ricolmando ogni cosa della novità del Cristo risorto di cui è ricoperta. Ecco perché in At 1,10 i discepoli vengono invitati a non rimanere più con gli occhi per aria, a rimirare il cielo… Essi piuttosto sono chiamati a creare nella loro vita un nuovo cielo, instaurando rapporti autentici di amore: fare della terra il cielo nuovo…

don Luca Pedroli

Atti 9,26-31 – Testo e commento

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=Atti%209,26-31

IL SITO NICODEMO

BRANO BIBLICO SCELTO

Atti 9,26-31

In quei giorni Paolo, 26 venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo.
27 Allora Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. 28 Così egli poté stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome del Signore 29 e parlava e discuteva con gli Ebrei di lingua greca; ma questi tentarono di ucciderlo. 30 Venutolo però a sapere i fratelli, lo condussero a Cesarea e lo fecero partire per Tarso.
31 La Chiesa era dunque in pace per tutta la Giudea, la Galilea e la Samaria; essa cresceva e camminava nel timore del Signore, colma del conforto dello Spirito santo.

COMMENTO
Atti 9,26-31

Prima visita di Paolo a Gerusalemme
Nella seconda parte della sua opera (8,5–14,28) Luca descrive la prima espansione del cristianesimo in Palestina, Antiochia e poi in Siria e Anatolia. Dopo aver narrato l’evangelizzazione della Samaria e la conversione di un eunuco etiope per opera di Filippo, uno dei sette ellenisti scelti per il servizio delle mense, egli riferisce la conversione/vocazione di Saulo (9,1-19), di cui riporterà in seguito altri due resoconti mettendoli sulla bocca dello stesso protagonista (cfr. 22,3-21; 26,9-20). Questi era già venuto alla ribalta come fiero avversario dei seguaci di Gesù in occasione della morte di Stefano (cfr. 7,58; 8,1.3); ora egli fa una profonda esperienza interiore che lo porta a Cristo (cfr. Gal 1,11-19). Col nome di Paolo, egli sarà il grande testimone del vangelo e il protagonista del racconto degli Atti a partire dal c. 12. La liturgia non riporta tutto il racconto della vocazione di Paolo, ma si limita a proporre la lettura del testo in cui si narra la prima visita di Saulo alla comunità di Gerusalemme.
Subito dopo il suo battesimo Saulo si ferma per un po’ di tempo («alcuni giorni») con i cristiani di Damasco, presentandosi nelle sinagoghe e annunziando che Gesù è «il Figlio di Dio» (v. 20). I suoi ascoltatori «rimangono meravigliati» (existanto, erano fuori di sé) e si domandano: «Ma costui non è quel tale che a Gerusalemme infieriva contro quelli che invocano questo nome ed era venuto qua precisamente per condurli in catene dai sommi sacerdoti?» (v. 21). Il racconto continua: «Saulo frattanto si rinfrancava sempre più e confondeva i Giudei residenti a Damasco, dimostrando che Gesù è il Cristo» (v. 22). Saulo attribuisce dunque a Gesù i due titoli fondamentali della cristologia primitiva, quello di Cristo e quello di Figlio di Dio, che in questa fase della predicazione cristiana si identificano (cfr Mc 1,1). La sua dialettica irresistibile richiama quella del suo predecessore Stefano (cfr. 6,10), e come nel suo caso suscita una reazione violenta: «Trascorsero così parecchi giorni e i Giudei fecero un complotto per ucciderlo; ma i loro piani vennero a conoscenza di Saulo» (vv. 23-24a). È questa la prima manifestazione di un odio tenace contro il «disertore», un odio con cui Paolo si scontrerà per tutto il resto della sua vita. A differenza di Stefano però Saulo non si lascia cogliere di sorpresa, ma corre ai ripari: «Essi facevano la guardia anche alle porte della città di giorno e di notte per sopprimerlo; ma i suoi discepoli di notte lo presero e lo fecero discendere dalle mura, calandolo in una cesta» (vv. 24b-25). Nel suo resoconto personale Paolo dice invece che, dopo il suo incontro con il Risorto, era andato in Arabia e poi era tornato a Damasco (Gal 1,16-17); da lì era poi fuggito facendosi calare per il muro in una cesta per sfuggire al governatore del re Areta (2Cor 11,32-33). Dopo tre anni, non è detto se dalla sua vocazione o dal ritorno a Damasco, si era recato a Gerusalemme per consultare Cefa ed era rimasto presso di lui solo quindici giorni (cfr. Gal 1,18).
Luca racconta invece che, dopo aver lasciato Damasco, Saulo si reca a Gerusalemme, il luogo da cui era partito. Lì egli «cercava di unirsi ai discepoli», cioè di entrare a far parte della loro comunità, ma essi reagiscono con incredulità e paura «non credendo ancora che fosse un discepolo» (v. 26). La cosa è più che logica: il ricordo della sua avversione nei loro confronti doveva essere ancora vivo. Allora Barnaba, dimostrandosi fedele al suo nome («figlio della consolazione»), perora la causa di Saulo davanti agli apostoli (v. 27). Egli racconta loro che anche Saulo, durante il viaggio a Damasco, aveva visto il Signore (e non soltanto una grande luce, come si racconta in 9,3) che gli aveva parlato e in Damasco «aveva avuto coraggio nel nome di Gesù». L’espressione «avere coraggio» traduce il verbo parrêsiazomai, che deriva da parrêsia, la facoltà di «dire tutto», che era concessa ai cittadini della polis greca. Questa facoltà spettava solo agli uomini liberi, ma per avvalersi di essa era necessaria una buona dose di coraggio: essa diventa quindi sinonimo sia di libertà che di franchezza. Anche Saulo ha dunque dimostrato di possedere, nell’annunziare il nome di Gesù, quella parrêsia che caratterizzava la testimonianza degli apostoli (cfr. 2,29; 4,13).
In seguito all’intervento di Barnaba, Saulo entra a far parte della comunità di Gerusalemme (egli «andava e veniva» nella città: cfr. At 1,21), mostrando anche qui lo stesso coraggio (parrêsiazomai) che aveva avuto a Damasco nell’annunziare il nome del Signore (vv. 28-29). Come Stefano (cfr. 6,9), anche Saulo si mette a discutere con gli ellenisti, cioè i giudei di lingua greca (il gruppo a cui egli stesso aveva appartenuto) e come lui suscita il loro odio e la volontà di «ucciderlo» (anaireô, togliere di mezzo). I fratelli, avendolo saputo, lo conducono allora a Cesarea, da dove lo «inviano» (exapesteilan) a Tarso: quello che era un espediente per toglierlo da una situazione di pericolo, viene presentato implicitamente da Luca come un invio, il conferimento di una missione, la stessa che lo impegnerà per tutta la vita. Anche Paolo conferma la notizia del suo ritorno in patria («nelle regioni dell Siria e della Cilicia»: Gal 1,21) dopo la visita a Gerusalemme. Del periodo che egli trascorre nella sua città natale non viene detto nulla né da lui né da Luca. Questi ritornerà a parlare di Saulo in occasione della visita che gli farà Barnaba per condurlo ad Antiochia (11,25).
Luca conclude il brano e tutta la sezione dedicata alla vocazione di Saulo con il suo solito ritornello riguardante la pace e la crescita della chiesa (v. 31; cfr. 2,48; 6,7; 12,24).

Linee interpretative
Nella trama degli Atti l’adesione di Saulo al nascente movimento cristiano ha un’importanza decisiva. È lui infatti che porterà il vangelo fino a Roma, dando così attuazione al compito che il Risorto aveva affidato ai suoi discepoli (At 1,8). Egli però non è un discepolo della prima ora. Luca perciò si preoccupa di non dare l’impressione che la diffusione del cristianesimo tra i gentili sia opera di un personaggio di secondo piano, che non aveva nulla a che fare con il gruppo originario dei testimoni della risurrezione di Cristo. Perciò dispone con cura il suo racconto, mostrando anzitutto che Saulo è venuto alla fede mediante un’esperienza che, pur avendo avuto luogo quando le apparizioni ufficiali di Cristo erano ormai concluse, comportava un incontro diretto con il Risorto.
In questa prospettiva è importante per Luca sottolineare i contatti che Paolo ha avuto con la chiesa di Gerusalemme. Paolo affermerà sì di essersi recato a Gerusalemme tre anni dopo la sua vocazione, ma preciserà di esservi rimasto solo quindici giorni e di non aver incontrato nessuno se non Cefa e Giacomo, fratello del Signore (cfr. Gal 1,18-19). Egli aveva i suoi motivi per dare poca importanza a questa visita (cfr. Gal 1,11-12), mentre per Luca era determinante mostrare come il futuro protagonista dell’espansione del cristianesimo fino a Roma fosse diventato a tutti gli effetti membro della chiesa madre di Gerusalemme. Di conseguenza egli attribuisce tutta la responsabilità della sua espulsione da Gerusalemme alla persecuzione dei giudei e passa sotto silenzio le difficoltà che la comunità stessa poteva avere avuto nei suoi confronti, come prima le aveva avute con Stefano.
Al di là di una ricostruzione esatta dei fatti, oggi non più possibile, bisogna riconoscere che, nonostante i dissidi, Paolo stesso si è sentito molto legato alla comunità di Gerusalemme: lo accenna espressamente egli stesso al termine della lettera ai Romani, dove sottolinea che il suo apostolato ha avuto inizio proprio a partire da Gerusalemme (Rm 15,19), dove si sta recando per portare il denaro della colletta fatta nelle sue comunità (15,25). Paolo ha dunque avuto un’idea molto chiara dei rapporti che collegano tutto il movimento cristiano alla comunità dei primi testimoni costituitasi a Gerusalemme subito dopo la risurrezione di Gesù. Su questo punto egli è del tutto d’accordo con Luca. Tuttavia né l’uno né l’altro hanno inteso questo rapporto nei termini di una dipendenza gerarchica, bensì in quelli, molto più profondi, di una comunione nella fede in Gesù Cristo. È questo che Luca ha voluto esprimere in forma narrativa nel racconto della visita di Paolo a Gerusalemme.

L’INCONTRO DI GESU’ CON NICODEMO: « RINASCERE DALL’ALTO » GV. 3,1-21

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L’INCONTRO DI GESU’ CON NICODEMO: « RINASCERE DALL’ALTO » GV. 3,1-21

Gv. 3,1-21
Vi era tra i farisei un uomo di nome Nicodemo, uno dei capi dei Giudei. Costui andò da Gesù, di notte, e gli disse: «Rabbì, sappiamo che sei venuto da Dio come maestro; nessuno infatti può compiere questi segni che tu compi, se Dio non è con lui».
Gli rispose Gesù: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce dall’alto, non può vedere il regno di Dio».Gli disse Nicodemo: «Come può nascere un uomo quando è vecchio? Può forse entrare una seconda volta nel grembo di sua madre e rinascere?».
Rispose Gesù: «In verità, in verità io ti dico, se uno non nasce da acqua e Spirito, non può entrare nel regno di Dio. Quello che è nato dalla carne è carne, e quello che è nato dallo Spirito è spirito. Non meravigliarti se ti ho detto: dovete nascere dall’alto. Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va: così è chiunque è nato dallo Spirito».
Gli replicò Nicodemo: «Come può accadere questo?».
Gli rispose Gesù: «Tu sei maestro d’Israele e non conosci queste cose? In verità, in verità io ti dico: noi parliamo di ciò che sappiamo e testimoniamo ciò che abbiamo veduto; ma voi non accogliete la nostra testimonianza. Se vi ho parlato di cose della terra e non credete, come crederete se vi parlerò di cose del cielo? Nessuno è mai salito al cielo, se non colui che è disceso dal cielo, il Figlio dell’uomo.
E come Mosè innalzò il serpente nel deserto, così bisogna che sia innalzato il Figlio dell’uomo, perché chiunque crede in lui abbia la vita eterna. Dio infatti ha tanto amato il mondo da dare il Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna.
Dio, infatti, non ha mandato il Figlio nel mondo per condannare il mondo, ma perché il mondo sia salvato per mezzo di lui. Chi crede in lui non è condannato; ma chi non crede è già stato condannato, perché non ha creduto nel nome dell’unigenito Figlio di Dio.
E il giudizio è questo: la luce è venuta nel mondo, ma gli uomini hanno amato più le tenebre che la luce, perché le loro opere erano malvagie. Chiunque infatti fa il male, odia la luce, e non viene alla luce perché le sue opere non vengano riprovate. Invece chi fa la verità viene verso la luce, perché appaia chiaramente che le sue opere sono state fatte in Dio».

Chi rappresenta Nicodemo?
Giovanni ci racconta di Nicodemo che cerca Gesù, nella prima visita alla città santa, il primo pellegrinaggio pasquale, dopo il battesimo al Giordano e lo Spirito che lo consacra Servo di Yahvè, figlio diletto. Vedremo Nicodemo come rappresentante dell’esperienza religiosa ebraica. In questo senso Nicodemo può pure rappresentare noi cristiani di oggi, che cerchiamo un’esperienza religiosa che ci scaldi il cuore, dopo periodi di delusione e stanchezza. In particolare ascolteremo, con Nicodemo, cosa significa nascere di nuovo; vogliamo anche noi vivere l’esperienza dello Spirito, come aria che respiriamo, come vento sulle nostre vele.
Con Nicodemo e con Giovanni conserveremo nel cuore l’eco delle parole di Gesù: “Dio ha tanto amato il mondo da donare l’unico Figlio”. Cosa significa, per noi oggi, che Dio ama tanto il mondo? Vogliamo scoprire nel volto di Gesù come Dio guarda noi, nati da donna; noi oggi, a volte inquieti nel vedere una storia umana che va avanti per conto suo come se Dio non ci mettesse mano.

Chi era Nicodemo?
Dunque, Nicodemo di Gerusalemme. È un notabile, un anziano, capofamiglia benestante; appartiene alle prime famiglie tornate da Babilonia, che hanno preso possesso delle terre migliori, lasciando a chi arriva dopo le colline seminate a sassi, dove gli altri capifamiglia aspettano in piazza di venire assunti a giornata come braccianti agricoli precari (Mt 20, 6-7).
È “maestro in Israele”, testimone della novità religiosa che la famiglia di Abramo conserva gelosamente di fronte alle altre religioni, tutte ‘pagane’. Sa che può dire la sua parola nel Consiglio del Sinedrio, dare del tu alle persone importanti del popolo. È uomo di cultura tra i colleghi Scribi, esperti di Bibbia e di leggi sociali, che sanno a chi va la casa della vedova e il campo dell’orfano.
L’iniziativa coraggiosa di Nicodemo per incontrare quel Gesù non amato da chi ha il potere nelle mani.
Nicodemo va da Gesù di notte. Fuori città, lontano dagli occhi dei colleghi. Essi provano fastidio per questo nuovo rabbì senza diploma, che viene da una Nazaret da niente, da una Galilea dei pagani da cui non è mai venuto fuori un profeta. Conosce bene il disprezzo dei colleghi per il popolo ignorante, che non conosce la Torà ed è maledetto (Gv 7, 49), e si lascia « abbindolare » da questo profeta dai sandali polverosi, che vende speranze a chi non ha roba da parte.
Nicodemo è stato colpito da Gesù, non lo cercava, non l’aspettava. A Gerusalemme la religione c’era già; il tempio era splendido, le liturgie solenni; le regole morali erano chiare fino ai dettagli. Non c’era nessun problema di fede, quella era già detta e ridetta. Restava il problema della morale, cioè di mettere in pratica i comandamenti e i precetti e le sante tradizioni. Perché c’è sempre chi cerca di farla franca con la moglie di un altro, chi non paga le decime per il tempio, chi ruba nel campo del padrone, le prostitute dei bassifondi. Piccole cose diciamo, bastano già i Farisei a ridire le regole e controllare i comportanti. Gesù era un di più, non era aspettato, tutto era già a posto.

Nicodemo si lascia affascinare da Gesù!
Ma Gesù lo ha colpito. Nessuno ha mai parlato come quest’uomo. Sembra acqua di sorgente, non quella tirata fuori dalla vecchia cisterna. Quando parla di Dio gli si illumina il volto, pare che lo veda con gli occhi. Già, come diceva Davide: “Il tuo volto, Signore, io cerco”.
Ma è vero! Gli altri esperti di religione e di riti sono fieri dei paramenti, sono protagonisti delle liturgie, sembrano incaricati di tirare l’attenzione; forse cercano solo la gloria gli uni dagli altri.

La novità di Gesù: « l’Abbà amabile »
Gesù è libero, è innamorato di Dio. Certo, lo chiama Abbà, lo chiama suo Padre; no, qui deve stare attento, gli chiederò spiegazioni. Ecco, Gesù ha spostato l’attenzione dalla Legge al volto di Dio. Siamo abituati a spiegare alla gente quello che deve fare per Dio, e Gesù spiega quello che Dio fa per l’uomo. Noi, a parte i grandi pellegrinaggi; noi abbiamo sempre il problema che la gente pratica poco, che è poco interessata. Ma quelli che vanno dietro a Gesù anche nei giorni feriali sembrano avere scoperto un Dio che attira; un Dio che, una volta incontrato, non hai più voglia di mollarlo. Gesù presenta un Dio amabile, quello che “la luce del suo volto” illumina i nostri volti, e anche i poveri sotto gli stracci sporchi si sentono importanti per Dio.

Anch’io Gesù ho bisogno di parlarti!
E Nicodemo va. Sa che Gesù coi suoi amici è accampato sotto gli alberi, dorme sotto gli olivi. “Sì, Gesù, ho bisogno di parlarti, di ascoltare da te altre cose. Sono sicuro che vieni da Dio, benedetto il suo Nome. Ascoltate dalla tua bocca, le parole del Signore riprendono il sapore del miele, come diceva il nostro padre Davide. E poi, le opere che fai, di sicuro vengono dall’alto. Pare che Dio metta di nuovo mano al mondo, porti a compimento l’opera iniziata, restauri la sua casa caduta in rovina. Ci fai incontrare un Dio che si impegna per l’uomo, e vuole che la festa non finisca. E la festa sono le nozze, l’Alleanza, sentirci dentro la storia di Dio che ama il suo popolo. A volte pare che il suo braccio si sia fatto corto, che sia mutata la destra dell’Altissimo. Perché la miseria lima gli orfani e le vedove e i forestieri; i malati non hanno nessuno che li guardi; i ricchi portano animali da sacrificare al tempio, ma non si curano delle vere pecore, che è il popolo dei poveri di Yahvè. La religione vera non può essere una liturgia di sacrifici, senza la misericordia della vita. Ecco, Gesù, vorrei ascoltare da te parole che mettono luce nuova alle mie conoscenze”.
Forse hai messo i comandamenti al primo posto; prova a metterci l’Amore, cambierà tutto.
Ma non si tratta di aggiungere capitoli nuovi alle conoscenze antiche: si tratta di nascere di nuovo. Non basta mettere in bella l’insegnamento già dato, bisogna essere persone nuove, uscite inedite da un grembo che genera vita. No, non parlo del grembo della tua vecchia madre, inaridito come quello di Sara. Ciò che nasce dalla carne è carne. Bisogna nascere dallo Spirito, per essere figli di Dio, a immagine e somiglianza di chi ci ha fatti con sapienza e amore. Perché eterno è il suo amore per noi. Invece Dio dice, per bocca di Osea profeta: “L’amore del mio popolo è breve come la rugiada del mattino, che secca al primo sole”. È lo Spirito che ci fa partecipi della Vita che è in Dio. È lo Spirito che ci fa vivere al ritmo dell’Amore che Dio ha per noi. Solo chi nasce dallo Spirito può avere questa qualità di Vita, questa qualità di Amore. Cos’è la vita, senza l’Amore? Avete messo i comandamenti al primo posto; prova a metterci l’Amore, cambierà tutto. Cosa dobbiamo fare per avere questo? Ma è dono! Senti il vento tra gli alberi: non lo vedi, ma fa danzare le foglie. Lo Spirito di Dio è gratuito come il vento, come l’aria da respirare, ma fa danzare l’anima di festa.

Il segreto della felicità: sentirsi amati e poter amare.
Perché i bambini sono felici? Perché sanno di essere amati. La felicità è qui, il senso della vita è qui: sentirsi amati e poter amare. Chi si lascia colmare dall’amore, farà traboccare questo amore come sorgente che non secca, come la sorgente di Siloe che non secca nella lunga arsura estate. È Dio, questa sorgente di Siloe, come diceva Isaia. È Dio, che non desidera altro che effondere il suo amore, e colmarci, e renderci capaci di amare. Ecco: Dio ha tanto amato il mondo, da donare l’unico figlio. Sì, hai capito giusto. Dio non ha mandato il Figlio a giudicare il mondo, ma a farlo vivere.
Avete troppo insistito sulla legge. La Legge è stata data per mezzo di Mosé, la grazia e la verità per mezzo del Figlio. Grazia, gratuità, volto grazioso del nostro Dio: tu queste cose le sai. Verità è la stessa cosa che fedeltà: Dio è Amore, non può essere altro che Amore. L’Amore può essere festa, può essere dolore, ma sarà sempre soltanto amore, amore a caro prezzo. Le grandi acque non possono spegnere l’Amore, e il vento « dello spirito » le rafforza

L’anelito del rinascere di nuovo, vedi l’esperienza dell’iniziazione in Africa.
In varie luoghi dell’Africa ho notato che si realizza ancora, sebbene ora con minor durata, un antico rito di iniziazione, che permette ai ragazzi di diventare adulti e poter così assumere una vita di responsabilità con tutti i suoi diritti e doveri. In questa esperienza di iniziazione, obbligatoria per far parte del clan, viene chiesto al giovane di dire addio alla vita passata da bambino e di non voltarsi indietro quando lascia i suoi genitori per andare nella foresta, sebbene la madre pianga a causa della paura e del timore di perdere per sempre il proprio figlio.
Al giovane iniziato viene insegnata la saggezza degli antenati, i comportamenti da assumere in ogni situazione di vita; gli vengono anche presentati modelli di vita vissuta per imitarli. L’iniziato poi deve dimostrare di saper costruire la propria casa, di aver il coraggio di cacciare animali pericolosi, passare varie prove di resistenza e di isolamento e lasciarsi incidere sul proprio corpo il segno di appartenenza (v. circoncisione).
Alla fine di tutto per accedere alla comunità degli adulti, viene chiesto all’iniziato di affrontare il saggio maestro mascherato che lo aspetta sotto l’albero (simbolo della vita), il quale lo esamina bene e poi gli chiede di avvicinarsi a lui e di imitare la nascita di un bambino. Alla fine di tutto gli rivela che ora è rinato ad una nuova vita, la vita della comunità degli adulti, i quali ora possono contare su di lui in qualsiasi momento.
Da quel momento gli viene dato un nome nuovo, un padrino che lo accompagna nella vita, gli viene preparato un bagno di purificazione e lo si accoglie con danze e gioia grande. Da qui in poi potrà assumere incarichi per il bene di tutti e potersi anche formare una famiglia. Questa esperienza fatta, non potrà più dimenticarla perché viene ritenuta sacra.
Quante analogie ci sono con il nostro cammino cristiano di iniziazione (l’addio alla vita di bambino, il padrino, gli istruttori, la comunità, gli insegnamenti, le prove, le esperienze pratiche, il nome nuovo, il bagno con l’acqua, la festa, la possibilità di accedere alla vita degli adulti, vedi con i sacramenti,… ), ma ciò che più segna è la convinzione di essere rinato nuovamente.
La comunità o il clan, solo ora lo potrà ritenere una persona a pieno titolo, rimarcandogli che ha lasciato per sempre « quel bambino che era prima e le cose usate nella sua infanzia ». Ora avrà davanti a se nuovi ideali, un modo nuovo di vivere e dovrà fare scelte coraggiose e responsabili, dove potrebbe anche essere disposto a perdere la vita per il bene della sua comunità.

La rigenerazione dell’Africa o « rinascita dall’alto » in Comboni.
Che stupendi insegnamenti di vera saggezza di vita si trovano proprio in questi luoghi della terra sperduti in questo continente, ma altrettanto amati da Dio e anche dal caro Daniele Comboni. Lo stesso Comboni ci ha insegnato che Gesù lo ha chiamato a collaborare per la rigenerazione dell’Africa per mezzo degli stessi africani, cioè farla rinascere nuovamente con la forza della Parola del Vangelo e dello Spirito donato dal Salvatore. Ora se ci abita nel cuore la stessa passione del Comboni e permettiamo a Dio di farci rinascere dall’alto, possiamo dire che tocca a noi fare la nostra parte, affinché la pienezza della vita del Figlio di Dio sia offerta a tutta l’umanità.

 

PRIMI SEGNI E PRODIGI DI GESÙ (LC 4,31-44)

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PRIMI SEGNI E PRODIGI DI GESÙ (LC 4,31-44)

Carlo Cravero

Si delinea un profilo del ministero di Gesù caratterizzato dai tratti del profeta liberatore. Essendo tale azione di Gesù possibile sotto l’azione dello Spirito, si sottolinea la sua qualità di guaritore della totalità della persona umana e non soltanto di taumaturgo. Ecco dunque perché, secondo Luca, la chiamata di Pietro è successiva a questa serie di miracoli. Quando Gesù manderà i discepoli a svolgere la loro prima missione, egli darà loro autorità di compiere gli stessi prodigi di esorcismo e guarigione, ma sempre in relazione con l’annuncio del regno di Dio (Lc 9,20).
Il profilo di Gesù presentato in questi episodi motiva e convalida il messaggio del Messia e la sua identità profetica, rendendo visibile come Dio attraverso queste opere visita il suo popolo (Lc 24,19; At 2,22). Inoltre, si sviluppa un nesso specifico tra sabato e santità, già chiaro nel Decalogo (Es 20,9.11; Dt 5,12). Esorcizzando il demonio e liberando l’uomo dalla possessione, Gesù si avvicina all’opera di Dio che fece uscire il popolo dalla schiavitù dell’Egitto «con mano potente e braccio teso» (Dt 7,19). Facendo le opere di Dio, Gesù manifesta la sua santità (v. 34) a cominciare dal silenzio imposto al nemico, che rappresenta tutte le forze ostili all’uomo.

Che c’è fra te e noi, Gesù nazareno? (4,31-37)
Dopo l’inaugurazione del ministero a Nàzaret Gesù discende a Cafarnao e Luca sintetizza in modo magistrale il ministero del Messia in gesti e parole: alla potenza e autorità della sua parola segue l’efficacia dei suoi gesti; il miracolo è parola in azione. Questi primi due miracoli, l’esorcismo e la febbre, hanno come referenti un uomo e una donna, segno eloquente dell’universalità dell’azione di Gesù; la salvezza portata da Cristo non fa distinzione di sessi.
Gesù scende a Cafarnao (4,31); precisando che è una città della Galilea, Luca localizza l’annuncio della parola. Essa avviene di sabato, il giorno del riposo della creazione. La venuta di Gesù nel sabato esprime così l’aurora del sabato definitivo, l’ottavo giorno della festa, in cui l’eternità di Dio ha fatto irruzione nel mondo: Gesù è l’eterno divenuto oggi.
La predicazione di Gesù in questo contesto vede il riconoscimento quale parola di autorità, senza alcun riferimento agli scribi. La reazione della gente a tale parola è segnalata dallo stupore[3]. Questo non indica necessariamente la fede, ma apre le porte a un cammino di ricerca; non sempre infatti questo stupore porta al riconoscimento dell’identità di Gesù, come già mostra l’episodio della sinagoga di Nàzaret.
L’indemoniato rappresenta al meglio la situazione dell’uomo alienato, completamente in balia dell’avversario e del male, e privo della sua libertà[4]. Questa situazione di dolore viene collocata dentro la sinagoga: nessun ambiente può dirsi al sicuro dal male, nessuno è salvo per meriti personali. Questa impurità, che si cela nei luoghi propri dell’ascolta della Parola e della vita della comunità riunita in preghiera, si rivela minacciosa di fronte alla santità di Gesù ed esplode in un alto grido di terrore, di chi vuole mettere paura. Il demonio conosce bene Gesù dalla frase che gli dice contro, ma conosce anche molto bene che Gesù è il più forte; per questo, non potendo vincerlo, non gli resta che urlare.
L’espressione «che c’è tra noi e te» impone uno stacco e un abisso assoluto tra il potere delle tenebre e del male rispetto a Gesù; è un’opposizione tra forze, resa ancora più eloquente dal forte utilizzo dei pronomi «noi» e «tu», quali rappresentanti accreditati di forze opposte. Il «noi» si contrappone al «Santo». Così il primo esorcismo già contiene in sé tutte le caratteriste dell’agire di Gesù. Ma nelle stesse parole del demonio è anche contenuto l’esito dell’incontro-scontro con il Cristo: non si può resistere a lui, ogni tentativo è vano, perché Gesù è nettamente più forte. L’avversario stesso lo riconosce in modo disarmante: egli viene per la sua rovina. Il diavolo non cerca nemmeno di lottare, perché conosce la superiorità di Gesù.
A differenza di Marco, Luca accentua ancora di più la potenza del Messia con l’effetto immediato della liberazione dopo una semplice parola d’ordine. Gesù impone il silenzio. Il verbo utilizzato è molto forte: letteralmente significa «mettere la museruola». Gesù dissocia il male dal malato e zittisce il male, non il malato! Proprio per questo Gesù è estremamente duro con il male: lui, che è venuto per liberare l’uomo (Lc 5,31), si rivolge direttamente al male per sciogliere l’uomo che ne è vittima. Davanti al Signore il male riconosce la sua difformità e, proprio in quanto male, urla la libertà e la santità di Dio come una rovina. La potenza della Parola è così evidente, che il demonio si sottomette silenziosamente e totalmente, tanto da uscire dal corpo dell’uomo senza contorcerlo e fargli alcun male, ma solo buttandolo nel mezzo.
Il commento della gente (vv. 36-37) aumenta il valore di tale gesto, a dimostrazione dell’autorità e della potenza della Parola. Ora, dal momento che si presenta con tale autorità verso i ministri del “regno” demoniaco, Gesù si rivela come il ministro del «regno di Dio» (v. 43), il forte predetto da Giovanni (Lc 3,16); questa stessa autorità verrà conferita in seguito ai suoi discepoli (Lc 9,1; 10,19).
Al demonio non si insegna, si ordina! L’esorcismo contiene così una lieta notizia: il male dell’uomo è vinto. Ecco l’importanza di questo episodio narrato all’inizio del ministero pubblico di Gesù; questo è il suo programma di vita, addirittura incluso nella duplice menzione del potere della sua parola (vv. 32.36). Indica il frutto maturo di questa parola: la riduzione al silenzio e la messa in fuga definitiva del male (v. 35).

A casa di Simone (4,38-41)
L’orizzonte spaziale si sposta dalla sinagoga a una casa privata, la casa di Simone. Gesù è il dominatore del male in ogni gesto e atteggiamento; se la potenza della Parola vince il male, si è finalmente liberi per servire. Questo servizio è il programma del Messia: rendere l’uomo come lui, ossia come colui che serve (Lc 22,27). Egli domina la febbre della donna con un comando, non c’è bisogno nemmeno di toccarla; basta la sua posizione: in piedi e davanti a lei, che invece giace impotente in preda alla febbre. Gesù non si avvicina solamente al letto dell’ammalata, ma le si accosta e minaccia la febbre, come aveva minacciato lo spirito immondo nella sinagoga. Così nell’emissione della parola di intimazione alla malattia Gesù si china di fronte al dolore dell’umanità. La sua autorità di Messia si esprime nel servizio al povero e al bisognoso; essere capo e maestro non è inteso nell’ottica del potere, ma del servizio. Nella persona di Gesù, che da ricco che era si è fatto povero per arricchire tutti noi (cf. 2Cor 8,9), ogni miracolo è frutto del chinarsi di Dio sull’umanità. Come per l’episodio precedente, al comando della Parola segue l’esecuzione immediata della liberazione.
Si noti come opportunamente Luca utilizzi lo stesso verbo di comando come nel v. 35, in modo tale da stabilire un legame tra l’esorcismo e la guarigione. Medesimo è l’esito: la fuga. Così al gesto e alla parola di Gesù segue la perfetta reintegrazione della donna all’interno del suo mondo familiare: essa si alza immediatamente e si mette a servizio del Signore; la vera libertà esiste come tale solo in un’ottica di servizio[5]. Il servizio della donna non significa solo che è guarita dal male fisico, ma indica una guarigione più profonda: la donna è liberata da quella febbre e da quello spirito che impediscono di servire e costringono a servirsi degli altri per essere serviti. Se il servirsi degli altri è sinonimo di schiavitù, servire è il principio della liberazione; il primo è espressione di egoismo, il secondo di amore. Nel servizio l’uomo diventa se stesso e rivela Dio, di cui è immagine e somiglianza[6].
La casa di Simone è il campo di battaglia dove l’uomo è alle prese con la malattia; è il luogo dello scontro, dove il male sembra essere notevolmente più forte dell’uomo, fino alla venuta di Gesù. La febbre paralizza e colui che ne è la causa impedisce di servire; così come la morte e la malattia, che impediscono all’uomo di rimanere in piedi. Solo Gesù può donare la forza per rialzarsi, cioè ritornare alla vera vita.
Simone non pronuncia una parola e non manifesta alcuna reazione alla guarigione della suocera. È ancora necessario che trascorra del tempo insieme con Gesù perché lo possa riconoscere come il Cristo di Dio (Lc 9,20); in ogni caso resta il primo ad aver accolto Gesù nella sua casa (v. 38). In questa bellissima immagine lucana con Simone la Chiesa è già presente in figura fin dal primo giorno del ministero di Gesù.
È evidente il parallelismo con la scena precedente: l’immediata guarigione indica l’assoluta superiorità di Gesù rispetto al male, l’attenzione all’integralità della persona umana e la portata universale della salvezza. Inoltre, questa donna diventa il modello di ogni credente: la liberazione operata da Gesù non raggiunge il suo scopo nella retta professione di fede che fanno i demoni (vv. 34.41; Gc 2,19), ma nel servizio. La suocera di Pietro è il frutto del vangelo: incarna lo Spirito di Gesù ed è tipo di tutti coloro che ne seguiranno la Parola.
Ecco allora perché la narrazione a questo punto prende in esame un moltitudine di persone che si presentano a Gesù. Prima un esorcismo per un uomo e una guarigione per una donna; ora miracoli per l’umanità! Ciò che Luca ha tratteggiato in due racconti, ora viene riportato con un racconto complessivo. Prima il male interiore, poi il male fisico, ora tutto insieme. Si completa così lo sguardo introduttivo su Gesù: gli uomini lo vedono come il salvatore, i demoni lo gridano Figlio di Dio e lo conoscono come Cristo. Gesù, da parte sua, si proclama evangelizzatore del regno di Dio, spinto dalla necessità di annunciare alle città la buona notizia (v. 43).
La notte indica anche il tempo indisponibile per l’uomo. Con le tenebre cessa, infatti, ogni attività umana e tutto si placa. La notte è anche simbolo della morte, tempo assolutamente indisponibile, che Gesù stesso conoscerà, dall’oscurarsi del sole del venerdì fino alla luce nuova del «primo giorno dopo il sabato». Il fatto prodigioso è proprio che Gesù operi di notte, al buio. Se di giorno aveva operato miracoli, ecco che di sera opera un’infinità di prodigi in favore di tutti gli uomini che ricorrono a lui e si prende cura di ciascuno (v. 40). Che Luca voglia dire anticipatamente che Gesù agisce definitivamente alla fine del suo giorno? Egli infatti salverà l’uomo di notte, durante la «sua» notte (Lc 4,1; 22,53; 23,44); questo sole che tramonta è il Cristo crocifisso che si china sulle notti dell’uomo e le illumina. Se la prospettiva del giorno dell’uomo è la sera, l’oscurità e la morte, la prospettiva di Dio in Cristo è la vittoria sul male e sulla morte: la notte così non è solo il luogo della verità dell’uomo che riconosce la sua debolezza; è anche il luogo della verità di Dio, che dal nulla fa tutte le cose.
Si nota una differenza di rilievo rispetto ai miracoli precedenti: qui Gesù impone le mani. Lo fa non in modo confuso o generalizzato, ma su ciascun malato, in modo personale. La sua è la mano di Dio che si tende sull’umanità ferita e stanca; il contatto indica la comunione con Dio e la liberazione: dove arriva Dio il male è sconfitto. I demoni dopo la loro espulsione riconoscono la forza di Gesù, però questo non li porta alla conversione. Nella distorsione demoniaca tale professione di fede diventa bestemmia; la sola conoscenza non opera la salvezza, perché soltanto il riconoscimento del vero essere di Gesù può dare la salvezza all’uomo.

Un nuovo giorno (4,42-44)
Si cambia decisamente scena con l’inizio del nuovo giorno (v. 42). Gesù si trova in un luogo non ben precisato, ma desertico; le folle lo raggiungono e tentano di trattenerlo, ma lui si sottrae: non si può limitare l’azione di Gesù, né tanto meno manipolarlo. A Nàzaret viene cacciato, mentre a pochi chilometri di distanza lo si vuole trattenere; da una parte lo si rifiuta, dall’altra lo si vorrebbe forzare a rimanere. La fede, invece, è adesione alla sua persona nel modo concreto del servizio. Gesù si sottrae a questo tentativo di sequestrare privatamente la salvezza, perché essa è un dono per tutti, non solo per alcuni: bisogna che lui annunci la Parola.
Tutto è concentrato nella rapida risposta di Gesù, dove il suo andare altrove trova piena corrispondenza con l’ubbidienza all’imperativo divino. È suo compito rimanere inserito nelle cose del Padre (Lc 2,49). Questo è l’orientamento del percorso per l’annuncio del vangelo: la meta è Gerusalemme, dove si compirà la volontà del Padre e da dove inizierà un viaggio universale per i suoi discepoli, fino ai confini della terra (cf. At 1,8). Questo passo rivela già una comprensione di Gesù in chiave post-pasquale.
Per la prima volta compare l’espressione «annunciare il regno di Dio» quale senso della missione di Gesù (ricorrerà altre 37 volte). Il regno di Dio è un evento che supera il semplice insegnamento, è sempre in relazione con la Parola; esso è legato in modo indissolubile con la persona di Gesù, le sue azioni riprendono e rendono attuali le promesse dei profeti. In questo consiste il vero compimento: Gesù avvera le profezie perché le fa sue; è compimento perché con lui l’antico diventa nuovo. Non è un semplice adeguamento delle promesse, perché il nuovo che dona Gesù è assolutamente l’antico che risplende con maggiore magnificenza.
Nella conclusione del v. 44. si delinea l’apertura della salvezza: essa era iniziata nella sinagoga di Nàzaret (4,14) e si conclude nelle sinagoghe della Giudea (4,44), passando attraverso le città della Galilea. È l’itinerario del Signore nella prospettiva del viaggio: come il Messia liberatore ha camminato per le strade, così la sua Parola dovrà correre fino ai confini del mondo (At 1,8).
[1] Risulta sicuramente interessante al riguardo studiare la proposta di struttura e commento realizzata da R. Meynet, Il Vangelo secondo Luca. Analisi retorica, EDB, Bologna 2003, pp. 203-213.
[2] Nella traduzione della Conferenza episcopale italiana è reso con «ordinare», «comandare».
[3] G. Rossé, Il Vangelo di Luca, Città Nuova, Roma 2001, p.162, fa notare che l’evangelista utilizza la parola «logos», che identifica la parola di Dio, come in Lc 5,1; 8,21. Negli Atti il termine indica il vangelo proclamato agli uomini (4,4.29).
[4] S. Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Luca, EDB, Bologna 1994, p.110, dice che «il senso profondo dell’esorcismo è rendere l’uomo a se stesso, e quindi a Dio di cui è immagine, liberandolo da quel male che gli fa perdere Dio e quindi se stesso».
[5] È bene ricordare in chiave teologica il momento dell’esodo del popolo ebraico. Si diventa veramente liberi solo quando si serve Dio nella terra promessa nel passaggio dalla schiavitù al servizio.
[6] Per quanto concerne la dimensione del servizio è forte il richiamo di 1Gv 3,18. Fausti osserva come il servizio «è la caratteristica speciale e fondamentale di Gesù, lasciata in eredità ai suoi discepoli prima di morire (Lc 22,24-27; Gv 13,1-17)» (Fausti, Una comunità legge il Vangelo di Luca, p. 114).

ACCOGLIERE I REGNO DI DIO COME UN BAMBINO

http://www.mistagogia.net/D20.asp

ACCOGLIERE I REGNO DI DIO COME UN BAMBINO

Il biblista Don Luciano Sole propone alcune considerazioni sul seguente brano di Marco, dove Gesù parla del regno di Dio. Mettiamoci in atteggiamento di profonda risonanza nel cuore.

Dal Vangelo secondo Marco
Gli presentavano dei bambini perché li toccasse, ma i discepoli li rimproverarono.
Gesù, al vedere questo, s’indignò e disse loro: «Lasciate che i bambini vengano a me, non glielo impedite: a chi è come loro infatti appartiene il regno di Dio. In verità io vi dico: chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso». E, prendendoli tra le braccia, li benediceva,imponendo le mani su di loro.
(Mc10,13-16 )

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Vediamo che cosa voglia dire Gesù con questa frase : » chi non accoglie il regno di Dio come lo accoglie un bambino, non entrerà in esso».
Innanzitutto cosa è il regno di Dio? Quando noi sentiamo parlare del regno di Dio pensiamo subito al Paradiso; certo il regno di Dio è anche ciò che noi possiamo immaginare del paradiso, ma il regno di Dio, è Dio stesso che si manifesta in tutta la sua onnipotenza, il suo amore, la sua salvezza, il suo perdono. Questo è il regno di Dio, poi certo, in pienezza, sarà il paradiso. Quindi è il presentarsi di Dio che richiede da parte dell’uomo un’accoglienza di Dio, di Dio che ti ama, di Dio che ti parla, di Dio che ti salva, di Dio che ti viene incontro. Questo regno di Dio si manifesta poi nella persona di Gesù Cristo in tutta la sua verità, in tutto il suo amore in quell’Ostia consacrata che non è altro che Gesù che si offre. Questo è il regno di Dio!
Qui Egli dice, prima ancora di entrare in questo regno, di accoglierlo, e per accoglierlo bisogna avere il cuore libero, aperto, disponibile, non indurito. Perché si tratta di un dono meraviglioso che il Signore ci offre nel regno, pertanto ogni altra cosa passa in secondo piano rispetto a questo dono meraviglioso che il Signore ci fa del suo amore e della sua grazia.
Gesù poi parla di appartenenza: a chi è come loro appartiene il regno di Dio », cioè una volta che si accoglie l’amore sconfinato di Dio, questo amore ti appartiene, ne diventi il proprietario, diventi colui che custodisce il regno, lo fa proprio perché gli appartiene, gli è stato dato. Pertanto Dio, con il suo infinito amore, mandando Gesù, ti si offre e ne diventi veramente il proprietario.
Però qui Gesù specifica quale deve essere il comportamento dell’uomo « come i bambini », parla ai grandi e dice “come i bambini” parla agli adulti che cacciavano i bambini, magari erano anche gli apostoli che li sgridavano, mentre Gesù li richiama e dice agli adulti di stare attenti e di imitare i bambini. A volte uno pensa “i bambini sono innocenti” , ma non è vero i bambini sono anche cattivi, dispettosi, non sono educati. Non è che Gesù vuole mettere in evidenza l’aspetto dell’innocenza , vuole invece mettere in evidenza un altro aspetto del bambino ossia quello, egli è che nella vita non ha ancora realizzato niente, non ha un curriculum, non ha meriti, non ha prodotto qualche cosa di importante a tal punto di meritare il regno di Dio. Anche colui che diventerà un grande musicista o un grande poeta o scienziato, quando è bambino è uguale a ogni altro, non ha ancora realizzato nulla nella vita, pertanto ha bisogno di tutti, e accogliendo il regno deve accoglierlo nella sua profonda piccolezza.
Questo è il primo atteggiamento, poi c’è l’atteggiamento profondo che tocca l’animo del bambino il quale ha bisogno di tutti, prima dei genitori, dei maestri, di tutori, ossia è in mano ad altri, cioè da solo non può sopravvivere.
Così deve essere l’atteggiamento del cristiano, del piccolo, che ha continuamente bisogno del sostegno degli altri, soprattutto del sostegno di Dio; e questo è proprio l’atteggiamento che Gesù vuol mettere in evidenza. Per questo prende i bambini, li accarezza, li benedice, perché sono esposti ad ogni realtà, anche negativa, ed hanno bisogno di essere protetti, assistiti. Pertanto colui che è come questo bambino, che ha questi atteggiamenti, può accogliere veramente il regno.
Poi c’è una frase stranissima perché Gesù dice: a chi è come un bambino appartiene il regno. Ora se il Regno è pensato come un grande tesoro, come si fa a darlo in mano ad un bambino?! Sembra strano, il più povero, il meno indicato, diventa il più ricco, ha il regno di Dio a sua disposizione . E allora ogni giorno attinge: attinge all’amore di Dio, alla verità di Dio, al Suo sostegno. Certo Dio si serve della Madonna, degli angeli, dei santi, si serve di tutto ciò che comporta il manifestarsi del regno per cui dopo di che non bisogna avere il cuore indurito. Gesù parla del cuor indurito…che cos’è il cuore? Non è solo la sede degli affetti, è anche la sede della mente, del pensiero, delle decisioni, delle volontà. Il cuore non deve essere sclerotico, duro, come una pietra, ottuso, indurito, al punto che non si lascia muovere da Dio, dal suo amore. Il bambino non ha il cuore indurito, è più facile che sia l’adulto ad avere un cuore indurito, non più duttile, difficile da modellare. Dio vuole modellare il nostro cuore per renderlo santo.

DON LUCIANO SOLE

COLTIVARE E CUSTODIRE… LA VITA

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COLTIVARE E CUSTODIRE… LA VITA

« Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden perchè lo coltivasse (avad) e lo custodisse (shamar)” (Gn 2,15).

‘Prendere’ l’uomo e ‘stabilirlo’ sono termini che evocano l’uscita dall’Egitto e l’introduzione nella terra promessa. Sono termini che rimandano all’origine di un popolo libero e non più schiavo, un popolo in grado di riconoscere il proprio Dio, come colui che rimane accanto e, nello stesso tempo, di accogliere da Lui un dono e un compito.
Il verbo ‘coltivare’ significa ‘servire’, ‘lavorare’, indica la fatica che dissoda il terreno, il lavoro che sa trasformare e produrre frutto; mentre il verbo ‘custodire’ è l’azione che accoglie il dono e fedelmente lo conserva; significa anche ‘osservare’ ed è riferito spesso alla sentinella che vigila, ma anche, e soprattutto, all’osservare e custodire la Parola di Dio. Dice la cura che deve essere presente nelle varie attività degli esseri umani; una cura che è consapevole dell’avere tra le mani un dono prezioso che non appartiene a se stessi, ma che è di Dio.
Vuol dire, inoltre, ri-cordare, rimettere nel cuore, quella Parola che sola può aiutare a comprendere quello che magari non si capisce. Viene in mente ciò che si dice di Maria nel Nuovo Testamento: « custodiva tutte queste cose nel suo cuore” (Lc 2,50). Faceva, cioè, ‘tesoro’ di tutto ciò che avveniva, serbandolo nel profondo, custodendo e meditando ogni cosa nel proprio cuore. In mezzo agli avvenimenti a volte ‘oscuri’, custodire può aiutare a scoprire il ‘movimento’ dello Spirito per comprendere almeno quel poco che serve per proseguire il cammino.
Compito dell’uomo è quindi quello di ‘coltivare e custodire’ il creato, ma anche la propria vita, entrambi doni di Dio, riconoscendo in essi la Sua opera. È un’indicazione data da Dio all’adam, il ‘terrestre’, prima ancora della differenziazione sessuale, all’inizio della storia, ma anche in ogni tempo e a ciascuno: chiede di far crescere il mondo con responsabilità, ‘trasformandolo’ con il nostro lavoro e la nostra vigilanza perchè ridiventi giardino, luogo abitabile per tutti. Coltivare e custodire sono attività che rendono l’essere umano ‘simile’ a Dio, al suo Creatore. Dio si ‘ritira’ lasciando spazio all’uomo, affinchè agisca sulle opere delle sue mani.
Nel primo capitolo della Genesi, pur scritto in epoca più tarda, il maschio e la femmina creati a ‘immagine di Dio’ ricevono un comando analogo: « Siate fecondi…” (Gn 1,22), donate vita. Non dobbiamo dimenticare, per cogliere l’importanza di questo passo biblico, che il testo è nato in un ambiente di ‘morte’ perchè Israele era in esilio a Babilonia dopo la deportazione. I regni erano stati conquistati da un popolo invasore, il tempio e le case distrutte, le famiglie smembrate, i più giovani e forti, in grado di lavorare, sradicati dalla loro terra per essere condotti in terra straniera.
È un’esperienza di morte molto forte e reale, causata non solo dalla sofferenza fisica, dalla pesantezza dell’oppressione, ma anche dal non capire più cosa stava succedendo e soprattutto dal non sentire più Dio vicino. Dov’era il loro Dio in mezzo a quella desolazione? In questo contesto viene scritto il primo capitolo, a confermare che Dio c’è e ha creato cose belle e buone, e allora si può anche attraversare la morte perchè ‘oltre’ c’è la vita, sempre. Per questo è possibile dare il comando « Siate fecondi…dominate la terra”: è un diritto dovere che appartiene ad ogni essere umano, perchè ogni uomo e ogni donna sono ‘a immagine di Dio’ e spetta a tutti -e non solo ad alcuni- la responsabilità del mondo, condividendo lo sguardo ammirato di Dio su ogni cosa: « E Dio vide che ciò era buono”.
Rappresentanze dei popoli indigeni a Piazza S. Pietro all’udienza generaleCustode del creato, l’uomo è anche custode dell’altro, di tutti i fratelli e le sorelle in umanità: l’essere stati creati dall’unico Dio ci rende fin dall’origine uniti in questo vincolo che ci chiama ad essere ‘custodi’ l’uno dell’altro/a. Il volto degli altri ci guarda e ci testimonia che il nostro ‘io’ non è tutto, che ciascuno si deve misurare con i bisogni degli altri, con l’esigenza che ciascuno, in fondo, porta nel profondo, di amare e di essere amati.
Custodi del creato e dell’altro, ognuno di noi è chiamato anche ad essere ‘custode’ di Dio. In tempi non sempre facili e comprensibili, dove spesso il rifiuto e la chiusura dominano le relazioni, è necessario ‘coltivare’ la presenza di Dio in noi, come annotava Etty Hillesum: « Ti aiuterò Dio, a non spezzarti in me…l’unica cosa che in questo periodo possiamo salvare, ed è l’unica cosa, questa, che davvero importi: un pezzo di te in noi stessi Dio…la tua abitazione in noi, dove davvero vivi, noi dobbiamo difenderla fino all’ultimo:” (Diario, 12 luglio 1942)
C’è un passo nel Vangelo che può diventare modello interpretativo di ciò che Gesù intenda con il compito di ‘coltivare e custodire’ ed è la ‘parabola del fico’ raccontata in Luca 13,6-9.
Abbi pazienza ancora per un anno…Nella parabola, il padrone di un campo che aveva piantato nella sua vigna un albero di fichi, non trovando da tre anni frutti su quella pianta, ordinò al vignaiolo di tagliarla perchè sfruttava inutilmente il terreno. La replica del vignaiolo è uno stupendo esempio della misericordiosa pazienza di Dio che non si arrende e lascia aperto il tempo del cambiamento, della conversione: « Padrone, lascialo ancora quest’anno, finchè gli avrò zappato intorno e gli avrò messo il concime”.
I fichi e la vigna hanno sempre avuto per gli Israeliti un significato tutto particolare perchè erano segno dell’insediamento nella terra promessa, oltre a ricordare il ‘paradiso perduto’, l’Eden.
La storia del fico è, in fondo, anche la nostra storia, storia di aspettative e delusioni, di attese e aridità, di ‘raccolti’ mancati; ma ci mostra soprattutto la ‘giustizia’ di Dio, che non si riduce a estirpare il ‘male’, eliminando ciò che all’apparenza è inutile. Giovanni il Battista aveva presentato un’altra immagine di Dio: « Razza di vipere che vi ha fatto credere di poter sfuggire all’ira imminente? …già la scure è posta alla radice degli alberi; perciò ogni albero che non dà buon frutto viene tagliato e gettato nel fuoco” (Lc 3,7.9). Le parole del vignaiolo e del padrone della vigna, sembrano invece un dialogo tra la giustizia e la misericordia: « lascialo ancora per un anno…”. La storia va avanti nell’attesa che la nostra esperienza porti frutto. Il tempo non ci appartiene, è il tempo della pazienza di Dio e nostra, dell’azione di Dio e nostra. Deve essere però un’attesa operosa: bisogna rompere la terra intorno, una terra diventata dura nel tempo e che necessita di essere mossa, ammorbidita, per far penetrare il concime, per ‘nutrire’. E la condizione essenziale per poter ‘dare frutto’ è rimanere in Cristo: « Chi rimane in me, e io in lui, porta molto frutto” (Gv 15,5).
Tempo e amore rendono possibile il progetto di Dio e ‘il coltivare’ di ciascuno di noi, lasciando che il Vangelo invada a poco, a poco, tutto lo spazio disponibile affinchè la misericordia abbia sempre la meglio sul giudizio e ciascuno possa, con speranza, dire ogni giorno: « Oggi posso ripartire a ‘coltivare’ il mio rapporto con Dio, la mia vita, le mie relazioni, l’ambiente in cui vivo. Oggi posso ricominciare”. 

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