1 maggio 2007 – San Giuseppe Lavoratore

dal sito:
http://www.floscarmeli.org/modules.php?name=News&file=article&sid=183
Papi e Concili su San Giuseppe
di B. Martelet
Dichiarando san Giuseppe patrono della Chiesa universale, il papa Pio IX non faceva altro che esprimere il sentimento del popolo cristiano e, allo stesso tempo, prolungare l’insegnamento dei suoi predecessori. Cosi fecero anche i Papi suoi successori. Leone XIII, dopo la magistrale enciclica Quamquam pluries, la prima dedicata a san Giuseppe, pubblico il breve Neminem fugit, col quale chiedeva alle famiglie cristiane di consacrarsi alla santa famiglia di Nazaret, «esemplare perfettissimo della società domestica e, insieme, un modello di ogni virtù e di ogni santità».
Pio X coltivava una grande devozione a san Giuseppe, suo patrono di battesimo. Egli approvo le litanie di questo santo e permise che fossero inserite nei libri liturgici (1909). In questo agì, dice egli stesso, in piena conformità coi suoi predecessori Pio IX e Leone XIII. Giuseppe, infatti, è un aiuto potente e utilissimo per la famiglia e per la società.
Benedetto XV, nel 1920, poco dopo la fine della prima guerra mondiale, pubblico un’enciclica sulla pace e, poi, un Motu proprio per invitare i vescovi del mondo intero a celebrare il centenario del patrocinio, esortando i fedeli a rinnovare la loro devozione a san Giuseppe e alla santa famiglia. Il ricorso a san Giuseppe è un rimedio « alla situæione difficile nella quale si dibatte oggi il genere umano ». I suoi esempi e la sua protezione tratterranno sulla via del dovere e preserveranno dalle false dottrine coloro che si guadagnano la vita col lavoro in tutto il mondo. Il 26 ottobre 1921, Benedetto XV estese a tutta
la Chiesa la festa della santa famiglia.
Pio XI, il Papa dell’Azione cattolica e delle missioni, pronunzio su san Giuseppe parole di eccezionale importanza. Questo Papa intrepido non può essere accusato di leggerezza dottrinale o di pietà sentimentale. Il 21 aprile 1926, in occasione della beatificazione di Giovanna Antida Thouret e di Andrea Uberto Fournet, egli precisa i fondamenti del patrocinio di san Giuseppe del quale si celebrava la festa quel giorno:
«Ecco un santo che entra nella vita e si spende interamente nell’adempimento d’una missione unica da parte di Dio, la missione di custodire la purezza di Maria, di proteggere nostro Signore e di nascondere, con la sua ammirabile cooperazione, il segreto della redenzione. Nella grandezza di questa missione ha le sue radici la santità singolare e incomparabile di san Giuseppe, poiché una tale missione non fu affidata a nessun altro santo… è evidente che, in virtù d’una missione così alta, Giuseppe possedeva già il titolo di gloria che è suo, quello di patrono della Chiesa universale. Tutta
la Chiesa, infatti, è già presente presso di lui allo stato di germe fecondo ».
Due anni più tardi, il 19 marzo 1928, nella festa di san Giuseppe, egli torna su questo argomento e dimostra che la missione di san Giuseppe è in un certo senso più importante di quella di san Giovanni Battista e dello stesso san Pietro. Fra le due missioni, di Giovanni Battista e di san Pietro, si colloca quella di san Giuseppe, «missione raccolta, silenziosa, inosservata e sconosciuta, missione compiuta nell’umiltà e nel silenzio… Là dove è più profondo il mistero, più densa la notte che lo copre e più grande il silenzio, là, giustamente, è più alta la missione e più splendido il corteggio delle virtù richieste e maggiori i meriti che ne derivano. Missione unica, altissima, quella di custodire la verginità e la santità di Maria, quella di partecipare al grande mistero nascosto agli occhi dei secoli e di cooperare così all’incarnazione e alla redenzione ».
Questa missione unica di san Giuseppe sulla terra si traduce, in cielo, in un grande potere d’intercessione. Pio XI dichiara, il 19 marzo 1935: «Giuseppe è colui che tutto può presso il divino Redentore e presso la sua divina Madre in un modo e con un’autorità che superano quelle d’un semplice depositario». E il 19 marzo 1938: «L’intercessione di Maria è quella della madre; e non si vede che cosa il suo divin Figlio potrebbe rifiutare a una tal madre. L’intercessione di Giuseppe è quella dello sposo, del padre putativo, del capo di famiglia. Essa non può non essere onnipotente, poiché che cosa potrebbero Gesù e Maria rifiutare a Giuseppe che consacro a loro tutta la sua vita e al quale devono realmente i mezzi della loro esistenza terrena? ».
Per realizzare il suo motto: «La pace di Cristo nel regno di Cristo», Pio XI conta specialmente sull’intercessione di san Giuseppe. Nella sua celebre enciclica Divini Relemptoris, del 1937, egli dichiara: «Poniamo la grande azione della Chiesa Cattolica contro il Comunismo ateo mondiale sotto l’egida del potente Protettore della Chiesa, san Giuseppe. Egli appartiene alla classe operaia e ha sperimentato il peso della povertà per sé e per
la Sacra Famiglia di cui era il capo vigile ed affettuoso; a lui fu affidato il Fanciullo divino quando Erode sguinzaglio contro di lui i suoi sicari. Con una vita di fedelissimo adempimento del dovere quotidiano, ha lasciato un esemplo a tutti quelli che devono guadagnarsi il pane con il lavoro delle loro mani e merito di essere chiamato il Giusto, esempio vivente di quella giustizia cristiana, che deve dominare nella vita sociale ».
Pio XII volle cristianizzare la festa del lavoro del 1° maggio istituendo, per quel giorno, la festa di san Giuseppe lavoratore. Egli si impegno costantemente a presentare san Giuseppe come protettore ideale di tutte le classi della società e di tutte le professioni Parlo di questo santo agli operai, ai giovani sposi, ai militanti e ai bambini. Egli vide il patrocinio di san Giuseppe non come una bella formula teologica o una pia invocazione, ma come una verità fondamentale. Giuseppe, come Maria, è intimamente legato alla dottrina del Corpo mistico di Cristo, che è
la Chiesa del cielo e della terra.
Quanto a Giovanni XXIII, diede molte testimonianze della sua devozione a san Giuseppe. Confessava: «San Giuseppe! io lo amo molto, tanto che non posso cominciare né chiudere la mia giornata senza che la mia prima parola e il mio ultimo pensiero siano per lui ». Come nunzio a Parigi, egli visito la casa madre delle Piccole Sorelle dei Poveri e La-Tour-Saint-Joseph. In quella occasione, confido che intendeva ricevere la consacrazione episcopale nel giorno di san Giuseppe, «perché è il patrono dei diplomatici ».
E spiego: « Come san Giuseppe, i diplomatici, nel loro insieme, devono presentare Gesù e nasconderlo. Come san Giuseppe, essi devono saper tacere, misurare le parole, sapersi spendere senza badare alla dignità del servizio e, più ancora, sputare dolce e masticare amaro… ubbidire anche quando non si comprende, come san Giuseppe quando partì col suo asino».
Divenuto Papa, egli darà a tutti i cristiani queste direttive: dedicarsi alle umili incombenze come alle missioni interessanti, senza badare alla dignità di quello che si fa. Giuseppe, sposo di Maria, era un semplice artigiano che si guadagnava il pane col suo lavoro. Quello che conta davanti a Dio è la fedeltà. Alla sua elezione, egli rimpianse di non poter prendere il nome di Giuseppe per non andare contro la tradizione, ma scelse il 19 marzo come data della sua festa.
Il 19 marzo 1959, celebrando la messa per un gruppo di lavoratori della città di Roma, egli disse: « Tutti i santi canonizzati meritano certamente un onore e un rispetto particolari, ma è evidente che san Giuseppe ha giustamente un posto suo proprio più soave, più intimo, più penetrante nel nostro cuore ».
Il 1° maggio 1960, Giovanni XXIII indirizzo un radiomessaggio a tutti coloro che lavorano e a tutti coloro che soffrono, iniziando con queste parole: «Il nostro pensiero si rivolge con naturalezza a tutte le regioni e a tutte le città in cui l’esistenza si svolge un giorno dopo l’altro: al focolare domestico, all’ufficio, al magazzino, alla fabbrica, all’officina, al laboratorio e a tutti i luoghi santificati dal lavoro intellettuale e manuale, sotto le forme svariate e nobili che esso riveste secondo le forze e le attitudini di ciascuno… Con l’aiuto di san Giuseppe, tutte le famiglie possono riprodurre l’immagine di quella di Nazaret… In pratica, il lavoro è una missione sublime che permette all’uomo di collaborare in modo intelligente ed efficace con Dio, che gli ha dato i beni della terra perché li usi e li faccia fruttificare».
La grande iniziativa di Giovanni XXIII fu la convocazione del Concilio Vaticano II. Nella lettera apostolica del 19 marzo 1961, egli spiega perché vuole che questo Concilio, così importante, sia posto sotto la protezione speciale di san Giuseppe. Comincia ricordando quello che hanno fatto i suoi predecessori per la gloria di san Giuseppe; poi spiega che il Concilio è fatto per tutto il popolo cristiano, che deve beneficiare d’una corrente di grazia per una maggiore vitalità. E aggiunge che non sa trovare un protettore migliore di San Giuseppe per ottenere il soccorso del cielo per la preparazione e lo svolgimento di questo Concilio, che deve segnare un’epoca.
Un’altra iniziativa importante di Giovanni XXIII fu quella di introdurre il nome di san Giuseppe nella preghiera eucaristica. Pio IX s’era arrestato di fronte a una simile decisione. Le richieste che erano state formulate nel Concilio Vaticano I erano state riprese in grandissimo numero nel secondo. I Padri del Concilio non dovevano deliberare su questo argomento, perché era un semplice rito liturgico di competenza dell’autorità pontificia.
Tuttavia, il Concilio fece sua questa decisione di Giovanni XXIII incorporando il passaggio della preghiera, nel quale si trova il nome di san Giuseppe, nella costituzione dogmatica Lumen Gentium. Questa costituzione parla del mistero della Chiesa, Corpo mistico di Cristo. Il capitolo VII si riferisce principalmente all’unione molto intima che lega i membri della Chiesa che camminano ancora sulla terra a quelli che già godono della pienezza della vita in cielo. Questa presenza invisibile dei santi nostri amici si attualizza quando siamo riuniti per la preghiera e, più particolarmente,
per la celebrazione eucaristica. Il testo merita di essere meditato, perché afferma che a san Giuseppe tocca un posto di privilegio:
«La nostra unione con
la Chiesa celeste si attua in maniera nobilissima poiché specialmente nella sacra Liturgia, nella quale la virtù dello Spirito Santo agisce su di noi mediante i segni sacramentali, in fraterna esultanza cantiamo le lodi della divina maestà, e tutti, di ogni tribù e lingua, di ogni popolo e nazione, riscattati col sangue di Cristo e radunati in un’unica Chiesa, con un unico canto di lode, glorifichiamo Dio uno e trino. Però, quando celebriamo il sacrificio eucaristico, ci uniamo in sommo grado al culto della Chiesa celeste, in comunione con essa e venerando la memoria soprattutto della gloriosa sempre Vergine Maria, ma anche del beato Giuseppe e dei beati apostoli e martiri e di tutti i santi » (LG 50).
Anche Paolo VI ha parlato spesso di san Giuseppe, non mirando tanto a mettere in evidenza le sue prerogative, ma piuttosto a ricordare la sua missione nella Chiesa di oggi: « La missione di Giuseppe nei riguardi di Gesù e Maria fu una missione di protezione, di difesa, di salvaguardia e di sussistenza…
La Chiesa ha bisogno di essere difesa; ha bisogno di essere conservata, alla scuola di Nazaret, povera e laboriosa, ma viva, cosciente e disponibile per la sua missione messianica. Questo bisogno di protezione, oggi, è grande per restare indenne e per agire nel mondo… La missione di san Giuseppe è la nostra: custodire il Cristo e farlo crescere in noi e intorno a noi» (Angelus, 19 marzo 1970).
Il 19 marzo 1973, Paolo VI diceva: «Giuseppe è il protettore del Cristo al suo ingresso nel mondo, il protettore della Vergine Maria, della sacra famiglia, il protettore della Chiesa, il protettore di coloro che lavorano. Tutti noi possiamo dire: il nostro protettore».
Le liturgie orientali fanno eco agli insegnamenti dei Papi: «O Giuseppe! gloria a colui che ti ha onorato, gloria a colui che ti ha incoronato, gloria a colui che ti ha fatto patrono delle nostre anime» (rito melchita).
«O Giuseppe! porta a Davide la buona novella: ecco, sei padre di Dio. Tu hai visto
la Vergine incinta, coi pastori tu hai cantato Gloria, coi Magi ti sei prostrato, con l’angelo hai trattato delle cose divine. Prega dunque il Cristo, nostro Dio, che salvi le nostre anime » (rito bizantino).
dal sito della Radio Vaticana :
Senza il riconoscimento della dignità inviolabile di ogni persona non ci sarà giustizia nel mondo :così il Papa alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali
Se gli esseri umani non sono visti come persone dotate di una dignità inviolabile, sarà ben difficile raggiungere una piena giustizia nel mondo. E’ quanto scrive il Papa in un messaggio inviato in occasione della plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, che si è conclusa oggi in Vaticano e ha avuto al centro dei lavori il tema: « Carità e giustizia nei rapporti fra Popoli e Nazioni ». Ce ne parla Sergio Centofanti.
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Nel suo messaggio, indirizzato alla professoressa Mary Ann Glendon, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, il Papa afferma che “il perseguimento della giustizia e la promozione della civiltà dell’amore sono aspetti essenziali” della missione della Chiesa “a servizio dell’annuncio del Vangelo di Gesù Cristo”. Ribadisce comunque “che, anche nella più giusta delle società, ci sarà sempre posto per la carità” in quanto “non c’è nessun ordinamento statale giusto che possa rendere superfluo il servizio dell’amore ».
Al centro del magistero della Chiesa, che – ricorda il Papa – “si rivolge non soltanto ai credenti ma anche a tutti gli uomini di buona volontà” vi è “il principio della destinazione universale di tutti i beni della creazione. Secondo tale fondamentale principio, tutto ciò che la terra produce e tutto ciò che l’uomo trasforma e confeziona, tutta la sua conoscenza e tecnologia, tutto è destinato a servire lo sviluppo materiale e spirituale della famiglia umana e di tutti i suoi membri”.
In questa prospettiva il Papa fa riferimento a tre sfide che oggi il mondo si trova ad affrontare: “la prima sfida riguarda l’ambiente e uno sviluppo sostenibile. La comunità internazionale – afferma il Papa – riconosce che le risorse del mondo sono limitate e che è dovere di ogni popolo attuare politiche miranti alla protezione dell’ambiente, al fine di prevenire la distruzione di quel patrimonio naturale i cui frutti sono necessari per il benessere dell’umanità”. Benedetto XVI sottolinea che nell’applicare soluzioni a livello internazionale “particolare attenzione deve essere rivolta al fatto che i Paesi più poveri sono quelli che sembrano destinati a pagare il prezzo più pesante per il deterioramento ecologico”.
La seconda sfida – scrive il Papa – chiama in causa il concetto di persona umana: “se gli esseri umani non sono visti come persone, maschio e femmina, creati ad immagine di Dio (cfr Gn 1, 26), dotati di una dignità inviolabile, sarà ben difficile raggiungere una piena giustizia nel mondo. Nonostante il riconoscimento dei diritti della persona in dichiarazioni internazionali e in strumenti legali, occorre progredire di molto per far sì che tale riconoscimento abbia conseguenze sui problemi globali, come quello del crescente divario fra Paesi ricchi e Paesi poveri; l’ineguale distribuzione ed assegnazione delle risorse naturali e della ricchezza prodotta dall’attività umana; la tragedia della fame, della sete e della povertà in un pianeta in cui vi è abbondanza di cibo, di acqua e di prosperità; le sofferenze umane dei rifugiati e dei profughi; le continue ostilità in molte parti del mondo; la mancanza di una sufficiente protezione legale per i non nati; lo sfruttamento dei bambini; il traffico internazionale di esseri umani, di armi, di droghe; e numerose altre gravi ingiustizie”.
La terza sfida – leggiamo nel messaggio – si rapporta ai valori dello spirito. “Incalzati da preoccupazioni economiche – rileva il Pontefice – tendiamo a dimenticare che, al contrario dei beni materiali, i beni spirituali che sono tipici dell’uomo si espandono e si moltiplicano quando sono comunicati: al contrario dei beni divisibili, i beni spirituali come la conoscenza e l’educazione sono indivisibili, e più vengono condivisi, più vengono posseduti”. “Sempre più importante, perciò, è il bisogno di un dialogo che possa aiutare le persone a comprendere le proprie tradizioni nel momento in cui entrano in contatto con quelle degli altri, al fine di sviluppare una maggiore autocoscienza di fronte alle sfide recate alla propria identità, promuovendo così la comprensione e il riconoscimento dei veri valori umani all’interno di una prospettiva interculturale. Per affrontare positivamente tali sfide è urgentemente necessaria una giusta uguaglianza di opportunità, specie nel campo dell’educazione e della trasmissione della conoscenza. Purtroppo – nota il Papa – l’educazione, specialmente al livello primario, rimane drammaticamente insufficiente in molte parti del mondo”.
“Per affrontare tali sfide – conclude Benedetto XVI – solo l’amore per il prossimo può ispirare in noi la giustizia a servizio della vita e della promozione della dignità umana. Solo l’amore all’interno della famiglia, fondata su un uomo e una donna, creati a immagine di Dio, può assicurare quella solidarietà inter-generazionale che trasmette amore e giustizia alle generazioni future. Solo la carità può incoraggiarci a porre la persona umana ancora una volta al centro della vita nella società e al centro di un mondo globalizzato, governato dalla giustizia”.
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Ieri pomeriggio, nella penultima giornata della plenaria della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, è intervenuto anche il cardinale segretario di Stato Tarcisio Bertone con una relazione su « giustizia internazionale e governance internazionale nel contesto della crisi del multilateralismo ». « Occorre passare da una governance debole che troppo spesso si affida alla guerra, in quanto non è capace di prevenire mediante lo sviluppo e la giustizia – ha affermato il porporato – ad una governance ad alta intensità etica che produca un ordine nel bene ». In questi giorni durante la plenaria si è dunque parlato di carità, giustizia e integrazione nella società contemporanea. A questo proposito Fabio Colagrande ha raccolto il commento del prof. Maurizio Ambrosini, docente di sociologia dei processi migratori dell’Università Statale di Miliano, tra i relatori alla plenaria:
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R. – Abbiamo avuto sia testimonianze di dialogo concreto, di convivenza difficile, ma anche feconda tra popoli e religioni diverse, sia speranze e aperture, sia la prospettiva di un avanzamento nella capacità di governare i conflitti e promuovere la cooperazione internazionale, attraverso il rafforzamento di istituzioni internazionali. Il cardinal Bertone ha molto ben sottolineato il fatto che bisogna passare da una governance puramente intesa in senso tecnico, “in senso debole” lui diceva, una governance che abbia una sostanza etica, che abbia un più profondo incardinamento in un sistema di valori. Questo credo sia un grande obiettivo cui tendere.
D. – Si può dire, prof. Ambrosini, che in Europa ci siano politiche di resistenza alle migrazioni?
R. – Certamente, c’è una dimensione di chiusura che fa parlare di “fortezza Europa”, una tensione tra un’economia anche delle famiglie – non dimentichiamolo – che hanno bisogno di immigrati, che li attirano e, dall’altra parte, delle istituzioni politiche, delle opinioni pubbliche, che invece vogliono più restrizioni, più controlli, più frontiere. In questa tensione noi siamo diventati importatori riluttanti di immigrati: ne abbiamo bisogno, ma non li vogliamo.
D. – A che punto è la messa a punto di meccanismi che permettano l’integrazione economico-sociale degli immigrati in Europa?
R. – La messa a punto di meccanismi è abbastanza debole e come sappiamo lascia morti e feriti sul campo. Ciò nonostante i migranti stessi, tra mille difficoltà, promuovono processi di integrazione, attraverso i ricongiungimenti familiari, attraverso l’educazione, la scolarizzazione, per esempio delle seconde generazioni, cui tengono molto in generale, attraverso la promozione di nuove attività segnatamente di lavoro autonomo, che rappresenta la principale via di miglioramento della condizione degli immigrati nelle nostre società.
D. – Cosa dice di fronte a chi teme che l’identità culturale italiana possa essere in qualche modo attaccata e, quindi, annacquata da una presenza troppo ampia di stranieri? Questa è un’opinione piuttosto diffusa tra la gente…
R. – E’ un timore che effettivamente esiste. La cosa strana, però, è che non ci rendiamo conto che i maggiori danni all’identità culturale italiana forse vengono da altre parti. Pensiamo ai modelli di consumo americani, che sono diffusi dalla televisione, dal cinema, dai mass media in generale. Mi sembra che stiano cambiando molto di più la nostra vita questi modelli, per esempio in campo familiare, di quanto non avvenga con l’arrivo di popolazioni immigrate. Forse le nostre paure, che ci sono e hanno dei fondamenti, stanno individuando un bersaglio sbagliato su cui appuntarsi. Io penso che anche la diversità religiosa possa essere un’occasione per approfondire e capire meglio i fondamenti della nostra fede religiosa, per farla crescere con quella umiltà teologica, che ci richiamava il rabbino David Rosen.
dal sito:
Data pubblicazione: 2007-04-30
Conservare il sangue del cordone ombelicale per salvare vite umane
Intervista alla Direttrice di VidaCord, la dottoressa Mónica López Barahona
ROMA, lunedì, 30 aprile 2007 (ZENIT.org).- Conservare il sangue del corone ombelicale per salvare vite umane è l’obiettivo per cui nasce VidaCord, istituzione privata che combina ricerca scientifica e rispetto della vita umana, secondo quanto spiega
la Direttrice generale del settore scientifico e tecnico.
Finora Direttrice dell’Istituto di bioetica dell’Università Francisco de Vitoria di Madrid, la dottoressa Mónica López Barahona (Madrid, 1965) afferma che per una madre conservare il cordone ombelicale del figlio “può essere utile al punto da poter salvare la sua vita o quella di un suo fratello”.
Nominata di recente membro ordinario della Pontificia Accademia per la vita, la dottoressa Mónica López ha rilasciato una intervista a ZENIT.
Cosa è VidaCord? A cosa si dedica e che finalità ha?
López Barahona: VidaCord è una banca privata dedita alla crioconservazione del sangue del cordone ombelicale per le famiglie che lo desiderino. L’impegno in favore della salute, di VidaCord, è quello di stare vicini alle persone in un momento unico e irripetibile, quello della nascita di un bebé, rendendo possibile la conservazione delle cellule madre, presenti nel cordone ombelicale, in quanto possono rivelarsi utili nel corso della vita del bambino, per preservare la sua salute, quella di un suo fratello, o persino di altre persone.
VidaCord si pone al servizio della libertà dei genitori, permettendo loro di fare la scelta migliore al fine di tutelare ciò che considerano come un valore per la loro famiglia: la salute presente e futura.
La sua attività si avvale di un organo consultivo scientifico ed etico di primo piano a livello internazionale. Tra i suoi membri figurano il dottor John Wagner, riferimento mondiale per i trapianti di cellule del cordone.
Tra i suoi obiettivi a breve termine vi è quello di avviare le proprie attività a Madrid in questo mese di marzo.
Una volta iniziata l’attività di crioconservazione del sangue del cordone, VidaCord prevede di avviare indirizzi di ricerca che consentano una più approfondita conoscenza di questo tipo di cellule e che contribuiscano all’avanzamento nelle potenzialità applicative terapeutiche.
Per quale motivo ha accettato la direzione scientifica e tecnica di VidaCord?
López Barahona: Nel corso della mia vita professionale ho sempre cercato di trovare una dimensione trascendente che vada al di là della mera tecnica o ricerca. Ho studiato chimica (con specializzazione in biochimica) e ho svolto la mia tesi dottorale presso il MD Anderson Cancer Center di Houston. Il mio indirizzo di ricerca si è sempre sviluppato intorno alle basi molecolari del cancro, sia nei centri nazionali (Hospital Gregorio Marañón, CISC, Antibióticos Farma….), sia nei centri internazionali (Max-Planck Institut, IMP di Vienna, MD Anderson Cancer Center di Houston o Bristol-Myeres Squibb a Princeton).
Non v’è dubbio che la struttura nella quale ho trascorso i miei ultimi dieci anni di vita professionale, l’Università Francisco de Vitoria, un’istituzione del Regnum Christi, retta dai Legionari di Cristo, mi ha offerto l’opportunità di compiere uno sviluppo accademico, professionale e spirituale che mi sento di condividere. Alla Francisco de Vitoria si è sviluppata, in particolare, quella parte della mia carriera scientifica legata alla bioetica.
VidaCord è una banca privata del sangue del cordone ombelicale, aconfessionale, che mi offre la possibilità di dimostrare, sulla base della ricerca e della bioetica, ciò che affermo con forza da molti anni: non è né scientificamente logico, né eticamente accettabile, fare ricerca sulle cellule madre embrionali, in quanto, per ottenerle è necessario uccidere un embrione, mentre le sue applicazioni terapeutiche ad oggi sono inesistenti.
Uccidere un embrione? L’embrione umano è vita potenziale o vita umana esistente?
López Barahona: L’embrione umano è vita umana. Un individuo della specie umana, titolare di tutti i diritti e meritevole della stessa dignità di cui godono gli altri individui della specie umana, quale che sia la fase del ciclo vitale in cui si trovi. É una vita umana in atto e non in potenza, un essere umano reale e non virtuale.
Pertanto, qualunque tecnica che comporti la distruzione di un embrione costituisce un atto positivo che ne provoca la morte.
Quali sono gli obiettivi che lei vuole raggiungere in VidaCord?
López Barahona: Il primo è quello di stabilire parametri qualitativi che assicurino buone procedure per la crioconservazione del sangue da cordone ombelicale delle famiglie che desiderino avvalersi del nostro servizio.
Il secondo è di avviare indirizzi di ricerca che consentano una più approfondita conoscenza delle cellule del cordone e delle sue possibili future applicazioni terapeutiche, il cui studio inizia solo ora a svilupparsi.
Qual è la sua opinione sul decreto spagnolo che regolamenta le banche del cordone ombelicale?
López Barahona: Ritengo che non sia rispettoso della libertà delle famiglie, poiché esige che ogni famiglia, desiderosa di conservare il sangue del cordone del proprio figlio in Spagna, lo debba donare. Credo che qualsiasi donazione debba essere sempre volontaria e che lo Stato non possa obbligare a donare qualcosa.
Ciò nonostante, il rispetto delle disposizioni in esso contenute sarà assoluto da parte di VidaCord.
È utile conservare il cordone ombelicale del proprio figlio in una banca privata?
López Barahona: Può essere utile al punto da poter salvare la sua vita o quella di un suo fratello. Le possibilità di compatibilità tra fratelli sono molto elevate. Sebbene l’uso autologo del sangue del proprio cordone ombelicale può verificarsi, e difatti esistono casi pubblicati di trapianti autologhi avvenuti con successo, le possibilità di un uso intrafamiliare sono molto alte.
In ogni caso, il cordone è un materiale biologico che offre possibilità molto ampie e che in nessun caso dovrebbe essere gettato via. Donarlo o conservarlo, nel pieno esercizio della libertà di ogni famiglia, ma mai gettarlo, sarebbe la mia raccomandazione.
A suo avviso esiste qualche problema etico nella conservazione del cordone?
López Barahona: Non esiste alcun problema etico nella conservazione del sangue da cordone ombelicale o nella sua donazione. Si tratta di un qualcosa che ha le stesse implicazioni etiche della donazione o conservazione del sangue periferico per un intervento chirurgico. Si tratta di un tessuto, non di vita umana, e di un tessuto di dimostrata efficacia terapeutica.
I limiti etici sulla ricerca con embrioni umani, limitano e si oppongono allo sviluppo scientifico e alle speranze terapeutiche dell’umanità?
López Barahona: La ricerca sulle cellule madre embrionali deve essere scartata per ragioni di natura scientifica su cui si basano le ragioni di natura etica.
L’embrione umano è un individuo della specie umana, sin dal momento in cui è generato, ovvero sin dal momento in cui l’ovulo viene fecondato dallo spermatozoo, generando lo zigote o embrione unicellulare: una nuova vita umana.
Per questo, l’embrione umano possiede una dignità equivalente ad ogni altro individuo della specie umana, anche se si trova in una fase diversa dello sviluppo.
Inoltre, i tentativi fatti in vitro e su modelli di sperimentazione animale, in cui si è cercato di mutare le cellule madre embrionali in altri tipi di cellule, hanno evidenziato che queste cellule generano tumori altamente aggressivi.
Per questo, oggi non esiste alcuna sperimentazione clinica approvata con cellule madre embrionali, rispetto alle più di 500 attualmente in corso con cellule madre adulte e alle più di 50 con cellule da cordone ombelicale (www.clinicaltrials.gov).
In definitiva quindi, i dati oggettivi che la scienza ci propone, indicano che questo indirizzo di ricerca non ha, ora come ora, alcuna applicazione terapeutica. In ogni caso, se pure ci fosse un’applicazione terapeutica reale, non è eticamente accettabile distruggere una vita umana nella sua fase di sviluppo embrionale, per fare ricerca al fine di trovare cure per altri esseri umani. La vita di ogni essere umano è egualmente degna, indipendentemente dal suo stadio di sviluppo o dal suo stato di salute.
Il cammino di Papa Benedetto
dolce battito d’ali,
fremito di corpo ignaro,
sorpassa una soglia,
d’invisibile percezione…
denso, corporeo, spazio,
inimmaginabile sogno,
realtà splendente,
attende…
un uomo impaziente,
appassionato cuore,
tende al passaggio,
sorpassa la soglia…
luce come di corallo
azzurro di mare profondo
biancore della piccola neve
e qualcuno…
l’umana numerologia
perde valore
Uno e Tre, Tre ed Uno,
lo stesso sempre diverso…
Una donna “vestita di Luce”
grida di gioia per i figli nati
ed accoglie il pellegrino
dell’amore…
Come un novello Dante
è giunto in Paradiso
il bianco-estito lo confonde
tra gli eletti…
biancovestito amore,
Signore e Figlio,
Maestro e bimbo
nostro: Benedetto,
Gabriella
dal sito EAQ:
Catechismo della Chiesa cattolica
§ 232-234, 237
« Io e il Padre siamo una cosa sola »
I cristiani vengono battezzati « nel nome del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo » (Mt 28,19). Prima rispondono: « Credo » alla triplice domanda con cui ad essi si chiede di confessare la loro fede nel Padre, nel Figlio e nello Spirito: « La fede di tutti i cristiani si fonda sulla Trinità » (San Cesario di Arles). I cristiani sono battezzati « nel nome » – e non « nei nomi » – del Padre e del Figlio e dello Spirito Santo; infatti non vi è che un solo Dio, il Padre onnipotente e il Figlio suo unigenito e lo Spirito Santo: la Santissima Trinità.
Il mistero della Santissima Trinità è il mistero centrale della fede e della vita cristiana. È il mistero di Dio in se stesso. È quindi la sorgente di tutti gli altri misteri della fede; è la luce che li illumina. È l’insegnamento fondamentale ed essenziale nella gerarchia delle verità di fede. Tutta la storia della salvezza è la storia del rivelarsi del Dio vero e unico: Padre, Figlio e Spirito Santo, il quale riconcilia e unisce a sé coloro che sono separati dal peccato.
La Trinità è un mistero della fede in senso stretto, uno dei misteri nascosti in Dio, che non possono essere conosciuti se non sono divinamente rivelati. Indubbiamente Dio ha lasciato tracce del suo essere trinitario nell’opera della creazione e nella sua rivelazione lungo il corso dell’Antico Testamento. Ma l’intimità del suo Essere come Trinità Santa costituisce un mistero inaccessibile alla sola ragione, come pure alla fede d’Israele, prima dell’incarnazione del Figlio di Dio e dell’invio dello Spirito Santo.