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«LA VERA DIFFICOLTÀ DELL’UOMO È DI GODERE IL GODIMENTO,… » G.K. Chesterton

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«LA VERA DIFFICOLTÀ DELL’UOMO È DI GODERE IL GODIMENTO, DI MANTENERSI CAPACE DI FARSI PIACERE CIÒ CHE GLI PIACE».

IL PROTAGONISTA DI LE AVVENTURE DI UN UOMO VIVO DI G.K. CHESTERTON, DI MARZIA PLATANIA

- Scritto da Redazione de Gliscritti: 06 /07 /2012 –

Riprendiamo dal sito Cultura cattolica un articolo di Marzia Platania, apparso con il titolo L’innocente: Innocenzo Smith. Restiamo a disposizione per l’immediata rimozione se la presenza sul nostro sito non fosse gradita a qualcuno degli aventi diritto. I neretti sono nostri ed hanno l’unico scopo di facilitare la lettura on-line.
Il Centro culturale Gli scritti (9/7/2012)

L’innocente è naturalmente Innocenzo Smith, protagonista del romanzo “Le avventure di un uomo vivo”. Egli è un uomo decisamente stravagante e di primo acchito sembrerebbe tutto meno che innocente: sul suo capo pendono le accuse di tentato omicidio, abbandono del tetto coniugale, bigamia e forse uccisione delle sventurate mogli, furto.
Il romanzo è appunto diviso in due parti, la prima che enumera gli enigmi di Innocenzo Smith, la seconda alle prese con il processo casalingo che faticosamente li risolve. Tutte le apparenti stranezze del personaggio hanno la soluzione nel nome ch’egli stesso si è dato, annunciando il proprio arrivo: « manalive », l’uomovivo appunto. Il segreto di Innocenzo Smith è che egli si rifiuta di morire, finché è vivo
E poiché la vita è una sorpresa, una piacevole sorpresa nel sentimento immediato di Chesterton, ecco che la vera nemica della vita non é la morte, che ne é solo la fine, ma la noia, l’abitudine. Ciò che ci impedisce di godere delle cose come ne gode il bambino per il quale sono tutte nuove e quindi fatate, intriganti, è solo l’abitudine, la blasfema credenza che ci siano dovuto
“La vera difficoltà dell’uomo non è di godere i lampioni o i panorami, non di godere i denti-di-leone o le braciole, ma di godere il godimento, di mantenersi capace di farsi piacere ciò che gli piace” (GKC, Autobiografia, pag. 331).
L’esistenza di questa difficoltà, di questa sorta di inerzia che si oppone alla profonda felicità che deriverebbe all’uomo semplicemente dal fatto di essere vivo, quando potrebbe benissimo non esserlo, è resa intelligibile solo dalla dottrina della Caduta:
“II paradosso fondamentale del Cristianesimo è che la ordinaria condizione dell’uomo non è il suo stato di sanità e di sensibilità normale: la normalità stessa è un anormalità. Questa è la filosofia profonda della caduta” (GKC, Ortodossia, pag. 216).
Ecco il significato dell’innocenza di Innocenzo Smith. Egli si costringe a fare la più grande fatica per godere di quelle cose di cui tutti godono distrattamente, vale a dire che tutti di solito rinunciano a godere. Tutto ciò che egli fa, lo fa per recuperare quella posizione originale di sorpresa, di gratitudine e di letizia per l’esistenza stessa delle cose.
Così si è guadagnato l’accusa di tentato omicidio per aver puntato il suo revolver contro i pessimisti, perché faccia a faccia con la morte ammettessero la fallacia delle loro dottrine, liberando le loro vite dalla tristezza. Per questo egli lascia la propria moglie per rincontrarla e ricorteggiarla, ritrovando ogni volta i tremiti e gli abissi del primo amore, sicché tutte le mogli con le quali risultava sposato erano in definitiva sempre la sua unica moglie, persa e ritrovata.
Per questo egli entra nella propria casa dalle finestre o dai tetti come un ladro, per riscoprirne il valore e i tesori contenuti come farebbe un estraneo venuto per impossessarsene. Per questo egli ha abbandonato la propria casa, per tornarvi percorrendo in linea retta tutta la circonferenza del mondo.
Perché solo nel controluce della non-esistenza le cose, tutte le cose, manifestano il loro valore; solo davanti al rischio di andare perdute, le cose ritornano ai nostri occhi preziose. Dice Innocenzo Smith all’inizio del romanzo, sostenendo la creazione di uno Stato autonomo consistente nella sola pensione in cui si svolge l’azione, che egli ritiene poter essere autosufficiente: “Soltanto quando avete fatto naufragio sul serio, trovate sul serio ciò che vi occorre” (GKC, Le avventure di un uomo vivo, pag. 62).
“II valore delle cose sta nell’essere state salvate da un naufragio, ripescate dal Nulla all’esistenza. Ma io ho fantasticato (l’idea può sembrare pazzesca) che l’ordine e il numero delle cose non sia che il romantico avanzo del naviglio di Crusoe [...]. Gli alberi e i pianeti mi parevano come salvati dal naufragio, e quando vidi il Matterhorn fui contento che non fosse stato dimenticato nella confusione” (GKC, Ortodossia, pag. 89).
Si chiarisce cosi anche la ragionevolezza della posizione del patriota: dobbiamo fedeltà alle cose perché sono un dono, qualcosa che non ci era dovuto e ci è stato dato.
“Nessun uomo ha veramente misurato la vastità del debito verso quel qualsiasi essere che l’ha creato e che lo ha reso capace di chiamarsi qualcosa. Dietro il nostro cervello, per così dire, v’era una vampa o uno scoppio di sorpresa per la nostra stessa esistenza: scopo della vita artistica e spirituale era di scavare questa sommersa alba di meraviglia, cosicché un uomo seduto su una sedia potesse comprendere all’improvviso di essere veramente vivo, ed essere felice” (GKC, Autobiografia, pag. 94)
Lo stesso scopo Innocenzo Smith raggiunge con il puntare una rivoltella alla tempia dei pessimisti.
L’inizio delle sue avventure data appunto dal giorno in cui minacciò di morte il suo insegnante di filosofia, minacciando contemporaneamente se stesso; perché se il professore in cui aveva riposto tutta la sua giovanile fiducia, avesse realmente accettato la morte come una liberazione, così come stava dicendo dovesse fare ogni uomo ragionevole, egli avrebbe dovuto seguirlo sulla stessa via.
Per Innocenzo Smith, come per Chesterton, non vi può esser distacco tra la filosofia che si professa e i criteri secondo i quali si agisce. II professore, però, messo alle strette preferisce senza esitare la vita alle proprie teorie e si rifugia, per sfuggire al suo allievo improvvisamente « impazzito », sul cornicione della finestra.
Per lasciarlo tornare sano e salvo nella stanza Innocenzo esige da lui un atto religioso, un ringraziamento a Dio per averlo salvato dai propri sofismi. Ottenutolo insiste:
« Ringraziate Dio anche per le anatre giù nella vasca ». II celebre pessimista espresse a mezza voce il suo vivo desiderio di ringraziare Dio per le anatre della vasca. « E non dimenticate i paperi », insisté Innocenzo, implacabile. Eames concedette fievolmente anche i paperi. « Nulla, mi raccomando, dovete dimenticare. E cosi rendete grazie al Cielo per le Chiese, le Cappelle, i villini, la gente ordinaria, le pozzanghere, le pentole e i tegami, i bastoni, i cenci, gli ossi, e le tende a pallini ». « Sta bene, sta bene » ripeteva la vittima disperata « bastoni, cenci, ossi, tende ». « Tende a pallini, mi pare di avere detto » (GKC, Le avventure…, pag. 136).
Queste tende a pallini erano state pochi istanti prima portate dal professore Eames come prove della essenziale infelicità umana, di cui la loro bruttezza era un riflesso: da qui l’insistenza di Innocenzo perché egli ringrazi Dio in modo particolare per esse. Non solo le cose belle sono un dono, ma anche le cose brutte. Non solo la rosa ha un valore infinito, di fronte alla possibilità di un mondo che non conoscesse la bellezza di una rosa, ma anche i brutti lampioni verdi hanno un valore infinito, che tutti riconosceremmo se naufragassimo su un’isola deserta, senza nulla che ci faccia lume. Tutto è bello, se guardato da questo particolare punto di vista.
“Tutto era magnifico, paragonato al nulla” (Ibidem, pag. 140).
L’inconsistenza delle cose, la semplice constatazione che esse non si sono fatte da sé, non consistono in se stesse e perciò sono caduche, mortali, non conduce alla disperazione e al disprezzo per esse, ma alla gioia e alla riconoscenza: perché disperazione e disprezzo oblitererebbero un dato oggettivo, che esse, malgrado tutto, ci sono. Neppure la morte è male per l’uomo innocente: dice Innocenzo Smith nel corso del romanzo:
“Con il nostro spirito fiacco, empiremmo della nostra decrepitudine l’eternità, se non fossimo mantenuti giovani dalla morte. La Provvidenza ci ha tagliato l’immortalità a pezzetti, come la nutrice taglia a bastoncelli il pane imburrato al bambino” (GKC, Le avventure…, pag. 140).
Questa posizione originale non è però affatto semplice o immediata, è frutto, come dicevamo, di un lavoro. Dice il giornalista Moon che pure si fa difensore di Innocenzo Smith nel casalingo processo che offre la materia al romanzo:
“Non mettetevi in testa, vi prego, che un atteggiamento simile davanti alla vita mi sembri facile, o sollevi in modo particolare le mie simpatie. [...]. Per conto mio sento che l’uomo è legato ad un destino angoscioso; e che non c’è scampo alla trappola del dubbio e del decadere. Ma posto che un rimedio ci sia allora, per Cristo e san Patrizio, non può essere che cotesto. Per conservarsi felici come un bambino o come un cane, non c’è che essere innocenti come il bambino; o, come il cane, incapaci di peccato. [...]. Innocenzo è felice per la ragione ch’egli è innocente. Può sfidare le convenzioni appunto perché sa osservare i comandamenti” (Ibidem, pag. 217).
Quando uno dei due accusatori del processo obietta a questa teoria affermando di non credere che l’innocenza, la bontà, basti per essere felice, la risposta è definitiva: « E allora » riprese tranquillamente Michele « ditemi un po’ un’altra cosa. Chi di noi ci si è provato? » (Ibidem, pag. 217).
È difficile per l’uomo essere buono. L’innocenza di Innocenzo Smith è l’unica innocenza che all’uomo, dopo la Caduta, è concessa. Non un’innocenza primitiva, spontanea, ma una innocenza che deve essere continuamente riconquistata, attraverso un lavoro e una sorveglianza su di sé, attraverso una ascesi. È un’innocenza che consiste nell’osservare i comandamenti, che non erano necessari all’innocenza primeva, perché ha ormai conosciuto la colpa. In ognuno degli episodi criminosi, che poi rivelano avere di criminoso solo l’apparenza,
Innocenzo stesso o un altro dei personaggi coinvolti affermano di avere finalmente compreso la natura malvagia degli atti che si accingevano o credevano di compiere. Innocenzo dopo aver puntato la pistola contro il proprio professore: “Ho imparato per la prima volta che l’assassinio è veramente una colpa” (Ibidem, pag. 140). Il curato socialista che l’accompagna durante l’atto di derubare la propria casa: “per la prima volta capivo che, tutto considerato, rubare è veramente una colpa”. (Ibidem, pag. 163). Di nuovo Innocenzo Smith, parlando in Russia con un seguace di Ibsen: “M’avete persuaso che, abbandonando la propria moglie, uno realmente commette qualche cosa di iniquo e pericoloso”. (Ibidem, pag. 185).
L’innocenza agisce come una cartina di tornasole, distinguendo tra il vero male, la colpa da ciò che solo sembra male, il contravvenire alle convenzioni. Lavorando contro l’abitudine per recuperare la propria innocenza, sia Innocenzo che gli altri personaggi che vengono a contatto con la sua vivificante presenza riacquistano la limpidità di giudizio sul bene e sul male. Più profondamente, solo facendo l’esperienza del male e rifiutandola, l’uomo può ancora essere innocente. Quando fu chiesto a Chesterton perché fosse entrato nella Chiesa Cattolica egli rispose « per liberarmi dai miei peccati » (riferito da Chesterton stesso in Autobiografia, pag. 327).
L’innocenza non è più possibile senza la fatica di un lavoro su di sé come quello cui si sottomette Innocenzo, e più profondamente senza un luogo ove sia possibile il perdono. Solo nell’innocenza, però, diventa possibile la felicità. Fin dall’inizio Innocenzo Smith irrompe nel romanzo come un gran vento, un vento di gioia, di rumorosa e dirompente allegria, che meraviglia e conquista tutti; e solo la sua presenza permette agli altri personaggi di uscire da una oppressiva impasse che è una profonda incapacità di agire per la propria felicità.
L’innocenza del protagonista diventa così in un certo senso contagiosa, facendolo in qualche modo segno della Chiesa, luogo del perdono da cui l’uomo può continuamente ricominciare la sua via. Egli va via, lasciando dietro a sé due coppie in procinto di sposarsi, capaci finalmente di prendere una decisione impegnativa per la propria felicità.
Solo il medico cui ha sparato, mancandolo di proposito, poiché stava affermando che non avrebbe festeggiato il proprio compleanno, giacché la vita non è qualcosa che meriti di essere festeggiato, (evento che ha dato il via al processo casalingo), se ne va via tale quale, senza aver in nulla cambiato le proprie opinioni. Quando persino l’altro accusatore del processo gli grida dietro che in realtà il colpo sparato da breve distanza l’ha mancato di parecchi metri, Moon, il difensore, ribatte sottovoce che il colpo lo ha mancato di parecchi anni, che Innocenzo è arrivato tardi e ch’essi hanno parlato, in realtà, con un uomo che è già morto.

IL PARADISO CI ATTENDE

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IL PARADISO CI ATTENDE

La Stampa, 19 settembre 2003

Per esprimere la festa che attende l’umanità al compimento della storia, la Bibbia si serve del linguaggio simbolico: un linguaggio aperto, evocativo e allusivo più che descrittivo, un linguaggio rispettoso del mistero, dell’alterità e, in particolare, dell’alterità di Dio. È un linguaggio poetico, e forse solo la creatività poetica può osare dire Dioe cercare di evocarne l’opera. Forse è per questo che la Bibbia si apre con un inno che celebra l’opera creazionale di Dio e si conclude con liturgie che cantano l’opera divina dei nuovi cieli e della nuova terra. E non è forse per questo che ogni intervento di Dio nella storia necessita, una volta riconosciuto e confessato, di una celebrazione, nella quale la musica, il canto, la poesia, la preghiera, la danza… sono i linguaggi che l’uomo utilizza per rispondere a Dio, per lodarlo. Capiamo allora l’importanza non solo del contenutodelle immagini che evocano il Regno celeste, ma anche del modoin cui se ne parla. Ebbene, ilparadiso è certamente l’immagine più nota della beatitudine finale. Nelle parole di Gesù al ladrone crocifisso accanto a lui – “Oggi sarai con me in paradiso!”Luca( 23,43) il significato del paradiso appare già collocato attorno alla figura di Cristo: il paradiso è essere con Cristo e, attraverso lui e in lui, con Dio. Nell’Antico Testamento esso indica il giardino dell’ “in principio” creazionale, cioè il luogo che Dio ha preparato per l’uomo, il luogo della comunione di Dio con l’uomo: un luogo teologicamente posto agli inizi, ma che in realtà profetizza la fine. Con i profeti, Ezechiele prima e poi Isaia, questo luogo arriva a simbolizzare il tempo della speranza escatologica, cioè la restaurazione del popolo: attesa di cui l’apocalittica intertestamentaria accentuerà il carattere proprio degli “ultimi tempi”. Significativamente, questo simbolo fa parte del racconto della creazione, degli eventi del principio, eventi che riguardano ogni uomo, l’umanità tutta. Questo ci dice anzitutto che le pagine della Genesi necessitano non solo di una lettura teologica, ma ancheteleologica: il paradiso arriva a designare il destino a cui tutta l’umanità è chiamata. La comprensione che i padri della chiesa ebbero del racconto creazionale tradusse questo principio in una formula molto efficace: “Dio creò l’uomo e lo pose nel paradiso, cioè in Cristo”. Il giardino della comunione piena e senza ombre con Dio non sta tanto alle spalle dell’uomo quanto davanti a lui. Se la storia è la nostra condizione, il paradiso, il Regno è la nostra vocazione; esso è il dono di Dio che ci attende, piuttosto che la realtà che abbiamo perduto. Non dicono forse i padri orientali: “L’uomo è un essere che ha ricevuto la vocazione di diventare Dio”? Le immagini poi che si accumulano nella testimonianza biblica per evocare questa realtà sono quelle della gioia piena dell’uomo, della pienezza di vita: immagini che evocano il cibo buono e abbondante, l’amore e la convivialità, la pace e la giustizia; immagini che si riferiscono a bisogni umani della sfera affettiva e sessuale, sociale e politica: il cibo, l’amore, l’incontro sessuale, l’amicizia, la convivenza pacifica… Ma trasposte sul piano escatologico, divenute azione universale di Dio nel suo giorno, queste immagini trasfigurano il bisogno in desiderio. E il desiderio, a differenza del bisogno, che resta chiuso nell’oggi, è profetico e aperto al futuro. Ora, queste realtà possono essere desiderate perché sono state promesse dal Dio fedele all’alleanza, dal Dio “amante della vita”, dal Dio compassionevole e misericordioso, longanime e ricco di grazia. Sono immagini tanto semplici quanto universalmente umane: il banchetto, le nozze, la pace tra i popoli, la concordia tra gli animali, tra uomini e bestie feroci… Il profeta Isaia sottolinea la dimensione ludica dell’era escatologica: “Il lattante giocherà sulla buca dell’aspide, il bambino metterà la mano nella buca del serpente velenoso” ( Isaia11,8), e Gesù stesso, quando ricorda la necessità di “diventare come i bambini per entrare nel Regno dei cieli” (cf. Matteo18,3), non indica un’esigenza morale, ma una condizione di stupore meravigliato. Né mi pare senza significato che l’animale con cui il bambino gioca senza aver nulla da temere è il serpente, che per la Bibbia è carico di una valenza negativa particolare, come appare dal racconto iniziale della Genesi. Ebbene: anch’egli è inoffensivo! Anche su di esso si stende, vittoriosa di una vittoria che non schiaccia ma converte e purifica, la regalità di Dio, il suo Regno… Potremmo ancora aggiungere le immagini della vita piena e della luce, dell’abbondanza e della fertilità, ma soprattutto sono significativi gli aspetti dell’eliminazione della morte e della scomparsa delle malattie e delle sofferenze, di tutte quelle realtà che gettano un’ombra di non pienezza, anzi di drammaticità, su ogni festa storica, su ogni festa che celebriamo nei nostri giorni. Aspetti evidentemente universali, che riguardano ogni uomo, ogni creatura: non si tratta di immagini particolarmente “spirituali”, ma umanissime, concrete, vitali. Ciò infatti che queste immagini vogliono esprimere è che la festa che esse intravedono dev’essereuniversale: perché la pasqua, la liberazione attesa, la salvezza invocata è tale solo se è per sempre e per tutti. Nel Nuovo Testamento la festa escatologica si delinea, prima ancora che nell’evento di Pasqua, nella notte della Trasfigurazione, in cui il volto di Gesù cambiò aspetto e divenne luminoso e raggiante. Troviamo in questa scena prefigurato il futuro del mondo, il mondo come Dio lo vede e lo vuole, il mondo che adempie la sua vocazione alla bellezza: se la creazione è stata opera artistica, di bellezza, se la sapienza creatrice era presente come fanciullo alla creazione e danzava davanti a Dio, ebbene questa gioia, questa bellezza, questa festa, questa danza sono la destinazione del mondo. La trasfigurazione, infatti, è mistero di bellezza, di radiosità di volti, di luce sul cosmo; è festa cosmica che, mentre mostra la carne umana di Cristo abitata dalla gloria divina, indica la vocazione di ogni volto, di ogni carne, del cosmo intero. Destinati alla bellezza, noi tutti siamo destinati alla beatitudine perché la bellezza si declina come comunione, universale sì, ma attraverso la comunione con ogni volto, perché ogni volto è immagine del Dio creatore. Mancherebbe qualcosa alla festa se mancasse anche uno solo di questi volti! Enzo Bianchi

IL PARADISO, IL PURGATORIO, L’INFERNO E LO SCANDALO DELLA LIBERTÀ – NON SAREMO COME ACCIUGHE IN UN BARILE

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IL PARADISO, IL PURGATORIO, L’INFERNO E LO SCANDALO DELLA LIBERTÀ – NON SAREMO COME ACCIUGHE IN UN BARILE

Il 9 settembre esce il quarto numero del 2009 della rivista del bimestrale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore « Vita e Pensiero ». Anticipiamo la riflessione che l’arcivescovo emerito di Bologna, cardinale del titolo dei Santi Giovanni Evangelista e Petronio ha dedicato al tema del giudizio finale e dell’aldilà.

di Giacomo Biffi

« Verrà a giudicare i vivi e i morti », diciamo nel Credo. Questa formula è tra le più antiche del linguaggio cristiano ed era di uso comune nella prima comunità. È riportata negli Atti (10, 42). La troviamo usata nella prima lettera di Pietro: « Dovranno rendere conto a colui che è pronto a giudicare i vivi e i morti » (1 Pietro, 4, 5), e nella lettera seconda a Timoteo: « Ti scongiuro davanti a Dio e a Gesù Cristo, che giudicherà i vivi e i morti… » (ii Timoteo, 4, 4. Per gli scritti postapostolici, cfr. Barnaba, 7, 2; Policarpo, Epistola, 2, 1; 2 Clemente, 1, 1). Che significa questa espressione?
Il significato vero è quello letterale: si vuol dire che Gesù sottoporrà al suo giudizio non solo quelli che troverà in vita alla sua venuta, ma anche tutti gli uomini del passato, che hanno già incontrato la morte. Più semplicemente si vuol dire – attraverso l’uso semitico del binomio di totalità, che indica l’intero mediante la distinta elencazione delle parti (per esempio « il cielo e la terra », per dire « tutto ») – che sarà giudicata tutta l’umanità, senza alcuna eccezione.
Oltre l’universalità delle persone, la Rivelazione ci parla di una universalità dei fatti umani: niente di ciò che è umano sfuggirà alla valutazione del giudice. Non si dovranno offrire vuote frasi adulatrici (Matteo, 21-23), ma si dovrà presentare la totalità delle opere compiute (Matteo, 16, 27; Romani, 2, 6; II Corinzi, 5, 10); e non appena sulle opere saremo giudicati, ma anche sulle parole (Matteo, 12, 36), sulle omissioni (Matteo, 25, 35-46), sui pensieri segreti (1 Corinzi, 4, 5).
Nelle pagine della Bibbia troviamo ricordati alcuni elementi che entrano a comporre la scenografia del giudizio, in un quadro che ha sempre eccitato la fantasia, ma che chiede piuttosto di essere letto, anche nei particolari pittoreschi, secondo il suo vero significato concettuale. Il profeta Gioele colloca il giudizio in una misteriosa « Valle di Giosafat » (Gioele, 4, 2), solo tardivamente – a partire dal IV secolo dopo Cristo – identificata con la valle del Cedron, a sud-est della spianata del tempio. Ancora oggi arabi ed ebrei ambiscono essere seppelliti sull’uno e sull’altro versante dell’avvallamento, per essere più pronti a rispondere all’ultimo appuntamento.
In realtà il nome ci rivela con molta chiarezza nella sua composizione la sua natura simbolica: Giosafat significa Jahvè giudica. Del resto, poco più avanti lo stesso profeta usa un altro nome, ugualmente significativo: « Valle della Decisione » (Gioele, 4, 14). Daniele delinea davanti a noi una vera e propria azione processuale con un giudice, una corte, i libri degli atti (Deuteronomio, 7, 9-10). L’immagine del processo si conserva fino alla predicazione di Gesù, anche se si sovrappongono altre raffigurazioni, come quella del pastore che alla sera esamina attentamente il suo gregge (Matteo, 25, 31-46). Ma, di là dai particolari fantastici, è possibile appurare come avverrà concretamente il nostro giudizio? Pensiamo di sì.
Il nostro mondo è caratterizzato da una quasi totale discordanza tra i valori reali e la loro esterna apparenza, sicché non è di solito possibile assegnare agli uomini e alle cose il giusto prezzo che hanno in faccia a Dio. Questa discordanza ha raggiunto il grado sommo – e ne è stata condannata – al momento dell’uccisione del Figlio di Dio, quando colui che era la nostra stessa « giustizia, santità, redenzione » (1 Corinzi, 1, 30), « è stato annoverato tra i malfattori » (Isaia, 53, 12). L’esecuzione di Gesù fuori della porta di Gerusalemme, cioè « fuori della vigna » che era la sua eredità (cfr. Marco, 12, 8), raffigura e avvera la sconfitta di Dio, che oggi appare come estromesso dal mondo che è suo. Dio è sconfitto, e non tanto dall’uomo che pecca, quanto dall’uomo che, peccando, appare bello, forte, felice, soddisfatto; mentre colui che, tentando di conformarsi alla volontà del Padre, incontra la derisione, la sofferenza, la morte, è associato al mistero della sconfitta del suo Creatore. Il momento del giudizio è appunto la fine di questo stato irrazionale e blasfemo.
Esso perciò consisterà essenzialmente nella brusca lacerazione del velo della esteriorità, così che tutta la creazione appaia « nuda e aperta » agli occhi di tutti, come è nuda e aperta da sempre agli occhi di Dio (Ebrei, 4, 13). Il suono della tromba finale – particolare del quadro che significativamente ritorna sempre nelle descrizioni bibliche della fine (Matteo, 24, 31; 1 Corinzi, 15, 22; 1 Tessalonicesi, 4, 15; Atti degli apostoli, 11, 15) – farà crollare la scena di questo mondo come le trombe di Giosuè squassarono, lasciandole diroccate, le mura di Gerico (Giosuè, 6, 20), e ciascuno sarà visto con la sua interiore ricchezza o con la sua interiore miseria.
Il primo che sarà « manifestato » sarà il Cristo, capo dell’universo e centro della storia umana, fino allora nascosto e quasi sopraffatto dalla futilità del mondo. E ogni essere, improvvisamente privato della maschera che impediva ogni autentico esame, apparirà nella sua vicinanza a lui o nella sua lontananza: questo sarà il giudizio. Gesù sarà dunque l’unico punto di riferimento dal quale tutto sarà misurato: per questo egli sarà il « giudice ». Allora finalmente sarà rovesciato il ricamo della nostra storia, e si potranno contemplare nella loro piena evidenza la bontà, l’armonia, la saggezza del disegno condotto a compimento da Dio, che senza una fede robusta ci è così difficile ravvisare oggi nei casi della storia mondana.
Che cosa determina nella realtà la vicinanza o la lontananza da Cristo? In altre parole, su quale legge saremo giudicati? Certo, saremo giudicati sulla nostra fedeltà alla legge di Dio, perché Gesù non ha abrogato il decalogo, il quale resta per gli uomini di tutti i tempi il codice di comportamento. Ma, poiché il Signore stesso ha chiarito che la legge di Dio ha come compendio, come anima, come significato sostanziale l’amore di Dio sopra ogni altro amore e l’amore del prossimo, come inveramento concreto dell’amore di Dio, possiamo ben dire che « all’ultimo dei giorni – come si esprime san Giovanni della Croce – saremo giudicati sull’amore » (cfr. Matteo, 25, 31-46).
« Tutti risorgeranno – dice il concilio Lateranense quarto – con i loro propri corpi, gli stessi che possiedono ora ». È un’affermazione categorica, ma in fondo non è che l’insegnamento della Sacra Scrittura: « Da Dio ho ricevuto queste membra; queste per le sue leggi disprezzo; queste da lui spero di avere di nuovo », dice il terzo dei fratelli prima del martirio, nella narrazione del secondo libro dei Maccabei (7, 11). E Paolo: « È necessario che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità » (1 Corinzi, 15, 53).
Cristo stesso – archetipo degli uomini che rinascono dalla morte – riprende dal sepolcro lo stesso corpo che è stato spento sul Calvario. Del resto, l’ipotesi di una risurrezione con un corpo diverso rivela una concezione dell’uomo che neppure sul piano di un’antropologia puramente razionale possiamo accettare. Tale ipotesi suppone infatti che l’anima stia nel corpo come una spada nel fodero; e che, come la spada, possa tranquillamente cambiare di fodero senza per questo mutare essa stessa. Ci sembra di dover ammettere con san Tommaso che l’anima intellettiva è l’unica « forma sostanziale » dell’uomo, sicché l’ipotesi fatta ci appare non solo teologicamente errata, ma anche filosoficamente assurda: non solo risorgeremo con il nostro identico corpo, ma neppure possiamo risorgere con un corpo diverso. Se il fatto della identità è fuori discussione, si discute molto sul modo di concepirla. La soluzione più semplice sta forse nel capire che lo stesso principio spirituale che anima il composto umano è la vera ragione della identità corporea. Poiché è la « forma sostanziale » dell’uomo, l’anima informando qualunque materia dà sempre origine allo stesso corpo, tanto che l’identità del nostro corpo è sempre salvata lungo l’arco della nostra vita, nonostante il continuo fluire degli elementi materiali. Intesa così – e forse non è possibile intenderla diversamente – la dottrina della identità scioglie immediatamente tutte le difficoltà che a prima vista essa stessa sembrerebbe provocare.
Un altro interrogativo, suscitato dall’argomento che stiamo trattando, si riferisce alla condizione dei corpi risorti, che certo non potrà ripetere lo stato di miseria proprio del corpo terrestre. Da parte mia, non credo che saremo tutti come le acciughe nel barile. Io credo che effettivamente i rapporti umani ci saranno. Anche l’amicizia ci sarà.
Non è il caso di anticipare con la fantasia una conoscenza che ci è stata riservata per quel giorno. Né ci sentiamo di seguire con animo tranquillo quei teologi che dal testo di san Paolo prima citato si pensano autorizzati a precisare le prerogative del corpo glorioso nei loro particolari. Tuttavia la Sacra Scrittura ci offre un principio e un modello, come dati sicuri per una riflessione sulla sorte che attende le nostre membra. Il principio è enunciato da san Paolo, quando ci parla di corpo « spiritualizzato » (1 Corinzi, 15, 44). Nel linguaggio dell’apostolo questo significa che la nostra carne, che ci appare così spesso ribelle alla volontà di Dio, sarà docilmente sottoposta all’azione dello Spirito Santo, che tutto trasforma e assimila a sé.
In altre parole, quella trasfigurazione che lo Spirito di Dio opera fin da adesso nel mondo interiore dell’uomo, si estenderà a tutto il nostro essere, così che anche esteriormente riesca visibile la nostra rinnovazione.
Il modello poi è lo stesso Gesù risorto, che dalle testimonianze apostoliche sappiamo sovranamente libero nella sua azione, senza che le cose materiali o le forze della natura gli diano impaccio alcuno, e senza che i dolori o la morte gli possano più recare alcun danno. A lui già ci siamo interiormente conformati, quando siamo passati dalla vita di colpa a quella di grazia. E a lui ci conformeremo totalmente (Filippesi, 3, 21), quando anche il nostro corpo, dopo la purificazione di una morte cristiana, obbedirà alla sua vocazione di gloria.
Come già s’è detto, l’idea di un « giudizio » porta implicita l’idea di una discriminazione, anzi, poiché si tratta del giudizio ultimo e senza appello, l’idea di una discriminazione definitiva. La riflessione sulla glorificazione dell’uomo non può non coinvolgere dunque una riflessione simmetrica sulla dannazione dell’uomo. Difatti la stessa Rivelazione che ci parla di un premio eterno ci parla anche di un castigo eterno: la proposta di Dio non può essere accolta con beneficio d’inventario; o l’accettiamo o la rifiutiamo in blocco. Perciò la terribile e insopportabile prospettiva di un destino di punizione e di sofferenza è necessaria per una visione non snaturata dell’escatologia cristiana.
Gesù per spiegare la condizione del dannato è ricorso soprattutto al concetto di esclusione: « La porta fu chiusa » (parabola delle vergini: Matteo, 25, 10); « gettatelo fuori » (parabola dei talenti: Matteo, 25, 30); « via lontani da me, maledetti » (Matteo, 25, 41) (cfr. anche Apocalisse, 22, 15). Paolo dà una versione sportiva dello stesso concetto, ricorrendo all’immagine della « squalifica » (1 Corinzi, 9, 27). Occorre però capire bene quanto spaventevole sia questo « star fuori » dalla Gerusalemme celeste, che ha Iddio stesso come fonte della sua luce.
Noi riceviamo tutto da Cristo: siamo stati modellati su di lui, siamo stati creati per manifestare le sue perfezioni, riceviamo da lui continuamente l’alimento della nostra vita. Possiamo dire che tutti, anche i peccatori e gli infedeli, hanno, sia pure in diverso grado e natura, qualche legame con il Verbo incarnato: tutti infatti o sono inseriti o sono inseribili nel suo Corpo mistico. Tutti perciò sono in qualche modo raggiunti dalla sua grazia. All’inferno, l’uomo è invece totalmente avulso da questo Corpo, pur conservando una fondamentale ordinazione a esso: il dannato continua a essere creato a immagine del Salvatore e a glorificare con il suo stesso essere colui che rinnega e bestemmia con la sua volontà; continua ad avere un’assoluta necessità di incorporarsi in colui dal quale si mantiene avulso nel suo odio ostinato.
E poiché è il nostro legame con Gesù a consentirci di essere veramente uniti tra noi, colui che è all’inferno è disperatamente solo. Mentre la sua natura resta una natura sociale, anzi resta chiamata a una comunione soprannaturale – perché la vocazione di Dio è senza pentimenti e rimane anche su chi l’ha rifiutata – è tagliato fuori da qualunque convivenza d’amore, da qualunque amicizia. Anche per questo aspetto il dannato è una natura che si contraddice.
Ma questa avulsione da Dio e dal Regno di Dio non è l’unica ragione di sofferenza nell’inferno, anche se è la principale. La Scrittura – in parte già l’abbiamo visto – parla frequentemente di « fuoco ». È possibile intendere questo fuoco solo come una immagine che rappresenta il grande dolore di chi è perduto per sempre? La cosa è sotto il profilo strettamente esegetico del tutto improbabile. In primo luogo non abbiamo notizia dell’uso di una tale metafora per indicare una pena puramente interiore. Inoltre tale interpretazione non sembra dare sufficientemente conto né della frequenza del termine, né del senso preciso di alcuni passi in particolare (cfr. Matteo, 25, 41, dove il fuoco è detto « preparato » per i cattivi; Matteo, 13, 40-42, dove il fuoco è l’unico elemento parabolico conservato anche nella spiegazione).
Ovviamente non è necessario ritenere che il fuoco infernale abbia la stessa natura del nostro. Sarà sufficiente pensare a esso come a un elemento materiale estrinseco che, in qualunque modo, influisca tormentosamente sul dannato. Il destino umano sembra governato dal principio della « trasnaturazione »: come lo spirito del giusto è divinizzato con la grazia e il corpo è spiritualizzato con la risurrezione, così la dannazione proietta l’uomo in opposta direzione, materializzandone per così dire lo spirito e sottomettendo lo spirito così materializzato alla schiavitù della materia.
Non è possibile pensare che tutti si salvino? Non basta ammettere l’esistenza dell’inferno? Bisogna proprio pensare anche che ci stia effettivamente qualcuno? La dottrina rivelata, che ci obbliga a credere nella possibilità di dannarci, evita di darci qualche indicazione numerica circa i dannati. Anzi, rigorosamente parlando, non ci impone neppure di ritenere per fede che qualche uomo di fatto ci vada. Tuttavia affermare che l’inferno sia perfettamente vuoto è asserzione infondata, incauta e superficiale.
In primo luogo non si vede in forza di quali argomentazioni possa essere sostenuta. Non avendo nessun argomento « a posteriori » – per il quale, in mancanza di una Rivelazione, ci vorrebbe una esplorazione diretta – è fatale che un simile atteggiamento si appoggi, più o meno consapevolmente, su argomenti « a priori » (come la misericordia di Dio, l’impossibilità di compiere un vero peccato mortale e così via.). Ora gli argomenti « a priori », se provassero, proverebbero non solo la non esistenza ma anche la impossibilità. Il che sarebbe incompatibile con la dottrina rivelata.
In secondo luogo, la Rivelazione ci parla della effettiva riprovazione eterna dei demoni. Sicché non si eliminerebbe neppure il disagio psicologico di pensare a un essere personale prigioniero di una condizione così crudele. E dal momento che la Rivelazione richiama tanto spesso l’idea del castigo eterno, sarà meglio affidarsi a questa divina pedagogia, senza vanificarla con supposizioni che, per quel che ne sappiamo noi, non hanno fondamento.
Non dobbiamo mai dimenticare che chi ci ha parlato con più chiarezza dell’inferno, della sua pena, della sua eternità, è stato Gesù Cristo, cioè colui che più di ogni altro ha conosciuto e rivelato il cuore misericordioso del Padre e più di ogni altro ha avuto amore e compassione per gli uomini. Certo la dannazione resta una realtà misteriosa e incomprensibile. « Sarà soltanto quando saremo passati dall’altra parte che si risolveranno gli ultimi problemi, che cesserà per noi lo « scandalo », che la bontà divina ci apparirà infinita, non soltanto in tutto ciò che essa crea, ma anche nella pazienza che le fa tollerare la rivolta delle sue creature libere. Finché vivremo, il pensiero dell’inferno ci sconvolgerà: è una spina nel nostro cuore, che ci fa tremare di fronte ai giudizi di Dio, ci fa invocare una fede più pura, ci fa supplicare perché siano forzate le nostre volontà ribelli, perché nessuno tra gli uomini resista alle premure amorose di quella bontà infinita di cui l’apostolo scrive che è follia prenderla alla leggera (Galati, 6, 7) » (Charles Journet, Il male: saggio teologico, Torino, Borla, 1963, pagine 246).
L’inferno insomma è un pensiero insopportabile. Ma l’esistenza umana non ha un lieto fine immancabile, come nei vecchi film americani.
La risurrezione corporea è l’aspetto più appariscente ed esterno di una condizione nuova dell’umanità, che trova la sua radice e insieme la sua dimensione più profonda in un rapporto nuovo con Dio, che eccede l’ambito puramente creaturale. Gesù sembra alludervi, secondo il vangelo di Giovanni, proprio nella sua prima manifestazione, la mattina di Pasqua: « Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro » (Giovanni, 20, 17). L’elemento più importante dello stato di gloria verso cui siamo incamminati sarà appunto una comunione con il Padre così forte e saziante da superare ogni attesa e ogni immaginazione.
Se già la risurrezione è un evento che va oltre ogni capacità di comprensione, il possesso di Dio trascende assolutamente ogni prospettiva e pone in luce ancora più intensa la generosità del piano divino e la grandezza del destino che ci è stato assegnato.
In che cosa consisterà questa intimità con il Padre? Sarà senza dubbio una unione d’amore, e come tale ha già le sue premesse nella vita di grazia. La carità infatti – che ci assimila a Cristo nella sua perfetta adesione al Padre – è la costante che accomuna lo stato del giusto durante il cammino terrestre e la sua condizione finale, ed è ciò che ci consente di essere già adesso nella « vita eterna », secondo l’insegnamento di Giovanni. Perciò san Paolo dice: « La carità non avrà mai fine » (1 Corinzi, 13, 8). La differenza sta nel fatto che l’amore del cristiano sulla terra nasce da una conoscenza che è sì soprannaturale e divinizzante, ma è velata e indiretta; nasce cioè dall’atto di fede, che è la radice e il fondamento di tutta la vita battesimale. Invece l’amore dell’uomo glorificato scaturirà dalla visione immediata di Dio. Dio che, secondo l’insegnamento biblico, è l’Invisibile e l’Inaccessibile, sarà contemplato senza intermediari: « La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che ero da bambino l’ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto » (1 Corinzi, 13, 9-12). La contemplazione diretta di Dio porrà nella massima evidenza il nostro stato di creature divinizzate e di figli che entrano in possesso della loro eredità.
E come il battesimo inizia in noi la presenza di una vita e di una ricchezza « ecclesiali », così la suprema fioritura di questa vita ci troverà partecipi di una « città santa », di un « popolo nuovo », della « Chiesa escatologica », insomma: « Vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una voce potente che usciva dal trono: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi: non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate » (Apocalisse, 21, 2-4). Vedremo dunque Dio « a faccia a faccia » e sarà una conoscenza ben diversa da quella che oggi ci è consentita. Quanto al purgatorio, è una cosa, da un certo punto di vista, molto semplice. Nel disegno di Dio bisogna purificarsi, non basta dire: io ho sbagliato. Sono però da considerarsi errate le tendenze della pietà popolare e di una certa teologia che ha interpretato il purgatorio come un piccolo inferno. Il clima del purgatorio è la serenità. Le anime sono in grazia di Dio. Il cardinale Schuster diceva che il purgatorio è come un corso di esercizi spirituali: uno riflette, pensa, vede le cose sbagliate che ha fatto, gli dispiace, si purifica. Mi piace pensare che il nostro purgatorio, il purgatorio di ciascuno, sia quello di vedere tutte le stupidaggini che abbiamo fatto nella vita. Mi è congeniale in questo senso la descrizione dantesca delle anime « che vanno a farsi belle ».
Le narrazioni del Nuovo Testamento circa l’ultimo giorno parlano tutte di uno sconvolgimento cosmico terrificante. Citiamo per esempio la seconda lettera di Pietro: « Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c’è in essa sarà distrutta » (ii Pietro, 3, 10, cfr. anche Matteo, 24, 29; Apocalisse, 6, 12-14). Ma è difficile assegnare un contenuto preciso a queste descrizioni, che appartengono al genere letterario apocalittico e non devono essere prese alla lettera.
Quanto alla data, è sempre stata oggetto di curiosità viva e morbosa in tutte le epoche della storia cristiana. San Paolo aveva già bisogno di ammonire severamente su questo punto la comunità di Tessalonica, che nella convinzione della imminente fine aveva a buon conto smesso di lavorare. In particolare, l’apostolo raccomanda – e non solo ai Tessalonicesi, visto che anche ai nostri tempi ogni tanto questo stato d’animo rinasce – che non ci si debba attenere a rivelazioni private o ad annunci divini o a lettere apostoliche che dichiarano prossimo il giorno del Signore (II Tessalonicesi, 2, 2).
Se c’è una cosa chiara nella Rivelazione, è la non conoscibilità della data: il Padre se l’è riservata come un segreto geloso e ogni notizia che circola a questo proposito non può certo essere considerata di provenienza divina: « Quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli del cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre » (Marco, 14, 32).
Resta da vedere se la Rivelazione ci indichi chiaramente dei segni premonitori della fine. Il segno che più ha colpito la fantasia popolare è la venuta di uno speciale nemico di Gesù che l’apostolo Giovanni chiama appunto Anticristo (1 Giovanni, 2, 18) e che san Paolo qualifica come l’Uomo del peccato, il Figlio della perdizione, l’Avversario, l’Iniquo (II Tessalonicesi, 2, 3-10). Egli si manifesterà negli ultimi tempi e sarà distrutto dall’alito della bocca del Signore e dallo splendore della sua venuta (II Tessalonicesi, 2, 8).
Ma se la comparsa di questo misterioso personaggio è certa, la sua natura è discussa, e gli uomini di tutte le epoche non hanno mancato di riconoscerlo in qualche abominato contemporaneo. Già san Giovanni, dicendo che « gli anticristi sono molti » (1 Giovanni, 2, 18), pone le premesse per una interpretazione collettivistica, che riconosca questo avversario di Dio in tutte le forze del male agenti lungo la storia, le quali si scateneranno con particolare violenza prima della loro finale eliminazione. In connessione con l’ »Uomo di iniquità », san Paolo parla anche di « apostasia » che dovrà colpire i cristiani, senza offrirci però nessuna notizia particolare (II Tessalonicesi, 2, 1).
Nel discorso escatologico, poi, Gesù ha preannunciato l’universale predicazione del vangelo in tutto il mondo abitato, e solo dopo, ha detto, « verrà la fine » (Matteo, 24, 14). Ma poiché il contesto sembra riferirsi piuttosto alla distruzione di Gerusalemme, anche questa profezia deve considerarsi compiuta con la missione apostolica in tutto il mondo greco-romano. Infine san Paolo predice in termini abbastanza espliciti la conversione della nazione giudaica, che avrebbe dovuto essere la prima a entrare nel Regno e che invece sarà l’ultima, secondo un oscuro e sapiente piano di provvidenza (Romani, 11, 25-36). Ma non ci dice nulla sulla vera natura e sulle modalità di questo ritorno.
Come si vede, nessuno di questi segni è tale da togliere o sminuire il carattere di « sorpresa », così ripetutamente attribuito dal libro sacro all’ultimo giorno della nostra storia.

(L’Osservatore Romano 6 settembre 2009)

L’ALTRO VOLTO DI GIBRAN

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_roncalli2.htm

LETTERATURA

L’autore di origine libanese non fu solo un noto poeta.
Esce ora un saggio sulla sua produzione pittorica casta e visionaria.

L’ALTRO VOLTO DI GIBRAN

Marco Roncalli

(« Avvenire », 25/8/’07)

La meta è lassù, sul monte, in un vecchio monastero nella roccia trasformato in museo e pronto a svelarsi dopo gli ultimi tornanti, lasciata alle spalle la Gola di Kadisha, dove tra vigne e uliveti riposano per sempre i primi patriarchi maroniti. La meta è un villaggio libanese dai tetti rossi chiamato Bsherri, nel nord del Paese. Adesso però non è traguardo per turisti: poco lontani, da giorni, continuano i combattimenti tra esercito regolare e miliziani del gruppo ultra-radicale palestinese « Fatah al-Islam », asserragliati nei campi profughi, novanta chilometri a nord di Beirut. Negli intervalli tra una guerra e l’altra i « tour operator » più gettonati proponevano in un solo giorno la visita alla Città vecchia di Tripoli – con le sue moschee e « madrasse » – e l’escursione a Bsherri, nella regione dei Cedri cantati dal « Salmo 104″ (oggi un po’ « spelacchiata »). Qui infatti si trova la chiesa rupestre del convento di Mar Sarkis, con la tomba semplicissima del nostro personaggio, e non lontana, la piccola e modesta casa che lo vide nascere. « Alfa » e « omega » della vita di quest’uomo stanno lì, sullo stesso fazzoletto di terra, dove al convento-museo e alla casa natale tocca la custodia dei suoi scritti e dei suoi quadri . Parliamo di un mistico creatore di formule visionarie, e, al contempo, di uno scrittore i cui libri passano di mano in mano, generazione dopo generazione. Già, chi non conosce titoli come « Il profeta » o « Le ali spezzate », « Gesù il figlio dell’uomo » o « Gli dei della terra »? Sì, parliamo di Khalil Gibran, – o meglio di Gubran Halil Gubran – libanese d’origine e statunitense d’adozione, uno capace di armonizzare le influenze più disparate: dal Vangelo a Nietzsche, dal Corano agli artisti rivoluzionari di Parigi e New York, da Dante alle « Upanishad », da Avicenna a Beethoven, dai « Preraffaelliti » a Blake. E capace d’influenzare con questi densi miscugli larga parte della cultura degli Anni ’50 e ’60 che l’ha venerato come un veggente straordinario per la sua visione del mondo. Affidata oltre che ai suoi scritti a tanti dipinti, questi però meno noti (in Italia ne finirono in mostra alcuni nel 1977 quando ci fu la canonizzazione del monaco libanese maronita Charbel). Ad offrirci un saggio del Gibran pittore (che frequentò l’«Académie des Beaux-Arts» di Parigi e le cui tele Auguste Rodin paragonò alle opere visionarie di William Blake) è Francesco Medici, tra i maggiori studiosi italiani di questo autore che più volte ne ha demolito lo stereotipo del «maestro spirituale», descrivendoci invece la sua «normalità», la sua «indole fragile e solitaria», le due anime: orientale e occidentale, spirituale e mondana. Ora ci propone « Venti disegni » (Edizioni « Giuseppe Laterza », 156 pp., 30 euro), riproposta di « Twenty Drawings », l’unico libro d’arte pubblicato in vita dell’Autore, apparso a New York nel 1919. La versione italiana è una sorta di « book in book », fedele all’originale, ma arricchita di nuovi testi. Quello introduttivo di Medici, la prefazione di un altro noto gibranista Edoardo Scognamiglio, frate conventuale minore e docente di teologia dogmatica, la postfazione di Curzia Ferrari, scrittrice e studiosa d’arte. Cuore dell’opera, con i suggestivi acquerelli « gibraniani » realizzati tra il 1916 e il 1919 e raffiguranti figure umane nude venate di spiritualità e senza « eros » (era Gibran a spiegare «Voglio rappresentare la Vita. E la Vita è nuda. La gente deve « reimparare » la castità del nudo»), due rari scritti dell’autore con testo arabo originale a fronte: una canzone (peraltro cantata da Fayrouz, celebre cantante mediorientale) e un racconto giovanile (dagli impressionanti toni « nietzschiani »). Per Medici, inserire Gibran, sia come pittore che come scrittore, nel vortice « new-age », esoterismo, è errato. «Vicino all’Islam e alle grandi religioni d’Oriente – per certi versi anche allo Zarathustra nietzschiano – spiega – , Gibran nacque in una famiglia di fede maronita (cristiana di rito orientale). Sviluppò da adulto un personale credo, da molti definito gibranismo». Un bel « sincretismo », insomma. «Sosteneva che l’uomo più religioso è quello che non pratica alcuna religione e si definiva un praticante della « Religione della Vita »», continua Medici, che aggiunge: «Resta tuttavia Gesù, per Gibran, il sommo « Maestro di Luce », mito ineguagliabile di bellezza spirituale e di indomita fierezza». Già. Solo un mito. Il mito di uno scrittore-pittore libanese, pronto a confidare a un amico che gli chiedeva perchè avesse scritto « Gesù, il Figlio dell’Uomo »: «Sono stanco di sentire la gente parlare di Lui come di una gentile signora con la barba». Un Gesù lontano da quello autentico del cristianesimo? Conclude Medici: «Il suo Gesù è incarnazione dell’Uomo Perfetto (concetto caro ai « sufi », i mistici islamici), colui cioè che ha conseguito lo stato più elevato di prossimità a Dio, e insieme prova certa dell’assoluta presenza di Dio all’uomo».

«RIMETTERE CRISTO AL CENTRO DELLA STORIA»

http://www.lanuovabq.it/it/articoli-rimettere-cristo-al-centro-della-storia-7808.htm

«RIMETTERE CRISTO AL CENTRO DELLA STORIA»

DI MASSIMO INTROVIGNE

25-11-2013

Il 24 novembre Papa Francesco ha concluso l’Anno della fede, prima di ricordare all’Angelus due anniversari: uno ucraino, alla presenza dei Patriarchi delle Chiese Orientali cattoliche, «l’80° anniversario dell’Holodomor, la « grande fame » provocata dal regime sovietico che causò milioni di vittime», e uno californiano, relativo al «Beato Junípero Serra [1713-1784], missionario francescano spagnolo, di cui ricorre il terzo centenario della nascita». Due riferimenti non banali, se si considera che l’Olocausto ucraino fu censurato dagli storici per decenni prima di essere «sdoganato» dal beato Giovanni Paolo II (1920-2005), e che il beato Serra è la «bestia nera» di un certo progressismo che accusa le missioni francescane di avere sradicato la cultura – ritenuta, a torto, superiore e più «ecologica» – delle tribù indiane d’America.
La celebrazione più solenne è stata dedicata, nella festa di «Cristo Re dell’universo, coronamento dell’anno liturgico», alla «conclusione dell’Anno della fede, indetto dal Papa Benedetto XVI, al quale va ora il nostro pensiero pieno di affetto e di riconoscenza per questo dono che ci ha dato», che Francesco ha definito «provvidenziale iniziativa».
Perché provvidenziale? A che cosa è servito, a che cosa doveva servire l’Anno della fede? A rimettere al centro del messaggio della Chiesa una verità insieme semplice e complessa, ha detto il Papa: «la centralità di Cristo. Cristo è al centro, Cristo è il centro. Cristo centro della creazione, Cristo centro del popolo, Cristo centro della storia».
Questa centralità, ricordata dalla festa di Cristo Re, ha un forte radicamento nella Scrittura. San Paolo presenta Gesù «come il Primogenito di tutta la creazione: in Lui, per mezzo di Lui e in vista di Lui furono create tutte le cose. Egli è il centro di tutte le cose, è il principio: Gesù Cristo, il Signore. Dio ha dato a Lui la pienezza, la totalità, perché in Lui siano riconciliate tutte le cose».
Se «Gesù è il centro della creazione», l’Anno della fede e la festa di Cristo Re ci ricordano che «l’atteggiamento richiesto al credente, se vuole essere tale, è quello di riconoscere e di accogliere nella vita questa centralità di Gesù Cristo, nei pensieri, nelle parole e nelle opere. E così i nostri pensieri saranno pensieri cristiani, pensieri di Cristo. Le nostre opere saranno opere cristiane, opere di Cristo, le nostre parole saranno parole cristiane, parole di Cristo». Invece, «quando si perde questo centro, perché lo si sostituisce con qualcosa d’altro, ne derivano soltanto dei danni».
Tutta la storia d’Israele è la storia della ricerca di un re saggio e giusto. «Attraverso la ricerca della figura ideale del re, quegli uomini cercavano Dio stesso: un Dio che si facesse vicino, che accettasse di accompagnarsi al cammino dell’uomo, che si facesse loro fratello». Con la venuta di Cristo, la storia trova il suo re. «Cristo, discendente del re Davide, è proprio il « fratello » intorno al quale si costituisce il popolo, che si prende cura del suo popolo, di tutti noi, a costo della sua vita. In Lui noi siamo uno; un solo popolo uniti a Lui, condividiamo un solo cammino, un solo destino. Solamente in Lui, in Lui come centro, abbiamo l’identità come popolo».
La regalità di Cristo – la centralità di Cristo, che per un anno l’Anno della fede ha cercato di ricordarci ogni giorno – è insieme sociale e individuale. «Cristo è il centro della storia dell’umanità, e anche il centro della storia di ogni uomo. A Lui possiamo riferire le gioie e le speranze, le tristezze e le angosce di cui è intessuta la nostra vita. Quando Gesù è al centro, anche i momenti più bui della nostra esistenza si illuminano». È capitato al buon ladrone, citato nel Vangelo della domenica, nei cui confronti «Gesù pronuncia solo la parola del perdono, non quella della condanna; e quando l’uomo trova il coraggio di chiedere questo perdono, il Signore non lascia mai cadere una simile richiesta».
«Oggi tutti noi – ha detto il Papa – possiamo pensare alla nostra storia, al nostro cammino. Ognuno di noi ha la sua storia; ognuno di noi ha anche i suoi sbagli, i suoi peccati, i suoi momenti felici e i suoi momenti bui. Ci farà bene, in questa giornata, pensare alla nostra storia, e guardare Gesù, e dal cuore ripetergli tante volte, ma con il cuore, in silenzio, ognuno di noi: « Ricordati di me, Signore, adesso che sei nel tuo Regno! Gesù, ricordati di me, perché io ho voglia di diventare buono, ho voglia di diventare buona, ma non ho forza, non posso: sono peccatore, sono peccatore. Ma ricordati di me, Gesù! Tu puoi ricordarti di me, perché Tu sei al centro, Tu sei proprio nel tuo Regno! »».
È il Vangelo della misericordia di Papa Francesco: «la grazia di Dio è sempre più abbondante della preghiera che l’ha domandata. Il Signore dona sempre di più, è tanto generoso, dona sempre di più di quanto gli si domanda: gli chiedi di ricordarsi di te, e ti porta nel suo Regno!».
Entrare nel Regno, personale e sociale, di Gesù Cristo significa metterlo al centro. Al servizio di questo progetto l’Anno della fede ci lascia due documenti: l’enciclica «Lumen fidei», che Papa Francesco ricorda quasi ogni settimana e che molti nella Chiesa hanno troppo presto dimenticato, un grande affresco del ruolo della fede nella costruzione di una civiltà dove Gesù possa regnare; e l’esortazione apostolica «Evangelii gaudium», simbolicamente consegnata alla Chiesa domenica e che sarà pubblicata martedì. Come sempre, se non si studiano i documenti difficilmente si capisce il senso degli avvenimenti ecclesiali

NASCE A POMPEI L’OASI « VERGINE DEL SORRISO » – CENTRO PER IL BAMBINO E LA FAMIGLIA « GIOVANNI PAOLO II »

http://www.zenit.org/it/articles/nasce-a-pompei-l-oasi-vergine-del-sorriso

NASCE A POMPEI L’OASI « VERGINE DEL SORRISO »

SABATO L’INAUGURAZIONE DELLA PRIMA OPERA DEL CENTRO PER IL BAMBINO E LA FAMIGLIA « GIOVANNI PAOLO II »

POMPEI, 04 DICEMBRE 2013 (ZENIT.ORG) GIOVANNA ABBAGNARA

Sabato 7 dicembre, vigilia dell’Immacolata Concezione della Beata Vergine Maria, verrà inaugurata a Pompei l’Oasi Vergine del Sorriso, la prima opera del nascente Centro per il Bambino e la Famiglia Giovanni Paolo II. Il 7 ottobre 2003 Giovanni Paolo II, in visita pastorale al Santuario di Pompei, concluse il suo discorso con queste parole: “Siate “operatori di pace”, sulle orme del Beato Bartolo Longo, che seppe unire la preghiera all’azione, facendo di questa Città mariana una cittadella della carità. Il nascente Centro per il bambino e la famiglia, che gentilmente mi si è voluto intitolare, raccoglie l’eredità di questa grande opera”. Oggi il sogno diventa realtà. Vengono spalancate le porte della prima casa di accoglienza grazie alla disponibilità di una coppia di sposi della Fraternità di Emmaus, Alfredo e Roberta Cretella che insieme ai cinque figli e l’ultima in arrivo tra pochi giorni, hanno scelto di lasciare la loro casa per condividere la loro quotidianità con i più piccoli. Un carisma, quello della preghiera che si intreccia con la carità, che è uno dei pilastri fondamentali di questo giovane movimento ecclesiale nato intorno agli anni ’90 per opera di un sacerdote, don Silvio Longobardi e che oggi vede la presenza di altre Oasi, oltre che in Italia, anche in Burkina Faso e in Ucraina. Un’attenzione particolare alla famiglia nata sotto l’impulso del magistero di Giovanni Paolo II che si concretizza in una attenta azione culturale e in una generosa condivisione quotidiana grazie alla disponibilità di tante famiglie. “Abbiamo lasciato la nostra casa per iniziare questa avventura di carità, spinti dal desiderio di rispondere ad un invito di Dio. L’eucarestia quotidiana e la concreta condivisione con i nostri amici della Fraternità di Emmaus sono la nostra forza” affermano trepidanti ma sereni Alfredo e Roberta e aggiungono: “quando abbiamo incontrato l’arcivescovo di Pompei, Mons. Tommaso Caputo, ci ha condotti davanti al quadro della Madonna di Pompei, da poco restaurato e lì ci ha benedetti. Da quel momento sappiamo che Maria accompagna e guida i nostri passi”. Una scelta, quella della famiglia Cretella, che pone l’accento sul protagonismo dei laici nella Chiesa, in piena continuità con il pensiero e l’opera del beato Bartolo Longo che scelse di restare laico e in prima persona consumò la sua vita nel servizio alla Chiesa attraverso la preghiera e la carità. La presenza di una piccola cappellina con Gesù Eucarestia all’interno dell’Oasi Vergine del Sorriso sottolinea maggiormente che il servizio sgorga limpido dalla preghiera e dall’ascolto. Solo in ginocchio si impara ad amare l’altro e a servirlo. Con grande gioia S.E. Mons. Caputo, che ha seguito e ha fortemente voluto l’apertura di questa prima opera, ha salutato l’evento: “Con la Casa Famiglia Oasi Vergine del Sorriso, affidata alla Fraternità di Emmaus, diamo il via al « Centro per il Bambino e la Famiglia Giovanni Paolo II », nuova realtà di accoglienza, sorta tra le antiche mura delle « Case Operaie », per proseguire il cammino tracciato dal nostro fondatore, il Beato Bartolo Longo, con il suo stesso spirito di carità e di servizio, perché Pompei risponda sempre più alla sua vocazione: essere una cittadella dell’amore, aperta a tutti, senza discriminazioni e dove nessuno si senta escluso ». Anche il Sindaco di Pompei, Claudio D’Alessio, che ha seguito per conto della Regione i lavori di ristrutturazione del Centro, ha dichiarato: “Siamo felici di aver contribuito alla realizzazione di un’opera di accoglienza in linea con le tradizioni della nostra Città. Tradizioni dettate dai principi di solidarietà, accoglienza e carità tramandate dal fondatore della Valle di Pompei, il Beato Bartolo Longo”. L’inaugurazione verrà preceduta da una celebrazione eucarestica, presieduta dall’arcivescovo di Pompei, che si celebrerà presso la Cappella Bartolo Longo alle ore 17.30.

PERCHÉ, PER ESSERE CRISTIANI, È NECESSARIO ANDARE A MESSA? – (intervista Zenith.org)

http://www.zenit.org/it/articles/perche-per-essere-cristiani-e-necessario-andare-a-messa

PERCHÉ, PER ESSERE CRISTIANI, È NECESSARIO ANDARE A MESSA?

INTERVISTA A DON RICARDO REYES CASTILLO, AUTORE DI « LETTERE TRA CIELO E TERRA », MANUALE DI FACILE LETTURA PER RISCOPRIRE IL VALORE FONDAMENTALE DELL’ESPERIENZA EUCARISTICA DELLA MESSA

ROMA, 11 APRILE 2013 (ZENIT.ORG) SALVATORE CERNUZIO

A volte da una chiacchierata a cena tra amici può nascere un frutto benefico per tutta l’umanità. E’ bastata una semplice domanda di un cattolico non-praticante sull’importanza della Messa, perché don Ricardo Reyes Castillo, sacerdote di Grenoble, incardinato a Roma, desse il via ad un lungo epistolario in cui, grazie ai suoi studi al Pontificio Istituto Liturgico Sant’Anselmo di Roma, spiegasse perché, per essere cristiani, è fondamentale vivere l’Eucarestia. Il risultato è “Lettere tra Cielo e Terra”, volume suddiviso in dodici lettere, scritto in un linguaggio accessibile e rivolto a credenti e non per aiutarli a riscoprire il valore della Messa e la bellezza di Dio.
Il libro, già alla sua seconda edizione con Cantagalli, verrà presentato dal card. Antonio Cañizares Llovera, Prefetto della Congregazione per il Culto divino, e da padre Giuseppe Midili, O. Carm., direttore dell’Ufficio Liturgico Vicariato di Roma, lunedì 15 aprile, alle 21, nella Parrocchia di San Roberto Bellarmino (la parrocchia di cui era titolare il cardinale Bergoglio). ZENIT ha intervistato l’autore.

Don Ricardo, raccontiamo innanzitutto come è nata l’idea di questo libro….
Un mio amico avvocato, un uomo molto istruito, di buona cultura, un giorno mi ha detto: “Ricardo, io ho studiato in istituti cattolici, conosco la Messa a memoria, ma ho una difficoltà di coerenza nell’andare a Messa, perché mi trovo a dire tante parole o fare tanti gesti di cui non so il vero significato. E per me le parole e i gesti hanno un peso; io non posso andare davanti a un Giudice e dire o fare qualcosa che non abbia una intenzione ben precisa”. Allora mi sono proposto di spiegargli ogni singola parola o gesto della Messa, in un primo momento attraverso brevi messaggi via e-mail, diventati poi vere e proprie lettere che hanno preso la forma di un libro.

Qual è il messaggio o, se vogliamo, la sfida che lancia questo libro?
Che il vero rinnovamento liturgico passa attraverso l’educazione liturgica. Secondo me, oggi non bisogna soffermarsi sui grandi concetti, considerando anche il fatto che la cultura in cui viviamo non è più una cultura cristiana o di fede. Bisogna ripartire dalle basi: cosa significa nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo? Cosa vuol dire ‘Che il Signore sia con voi’? Concretamente le formule recitate durante la Messa cosa hanno a che fare con la nostra vita? Nel libro ho cercato di rispondere a tali quesiti attraverso 12 lettere, in cui ho mantenuto tre punti: la parte della Liturgia in questione, un brano della Scrittura e la mia esperienza personale.

Qual è la sua esperienza personale?
Mi riferisco soprattutto a quello che ho vissuto nell’ultimo anno in cui ho scritto il libro. Esperienze di gioia e di dolore che appaiono continuamente nelle varie lettere: dalla morte di uno dei miei più cari amici, fino alla pastorale nella parrocchia di San Basilio, una zona molto difficile di Roma, dietro il carcere di Rebibbia, caratterizzata da problemi di droga e delinquenza, ma allo stesso tempo da una ricca di umanità. Convivere con questi disagi, mi ha fatto capire che c’è bisogno di tornare alle cose essenziali. Ho avuto la conferma vedendo tanta gente della Parrocchia, gente umile, che ha letto il libro e lo ha compreso, ha trovato delle risposte, è stata aiutata a vivere meglio la celebrazione. Questo mi ha consolato molto.
Sarà merito anche del linguaggio semplice utilizzato nel libro. Ha trovato difficoltà nel rendere fruibili temi così complessi per un pubblico non solo di studiosi e specialisti?
Di certo, non è stato un lavoro facile. Oltre alla richiesta del mio amico, il libro nasce anche dalla ‘sfida’ che il card. Cañizares mi ha lanciato dopo la discussione della tesi di Dottorato in Sacra Liturgia al Sant’Anselmo. Il cardinale mi ha detto: “Bravo, ora però devi ‘tradurre’ tutto quello che hai scritto nella tesi e portarlo agli uomini e le donne di oggi”. In questo lavoro, mi sono stati d’aiuto i miei studi, ma anche opere di autori come Luis e Tolkien che nei loro libri hanno tradotto grandissimi concetti della nostra fede in un linguaggio attraente per la gente comune. Credo che sia molto importante, soprattutto oggi, introdurre il cristiano a certe nozioni che sono alla base della sua fede. Io ho cercato di farlo, evitando però un linguaggio ‘infantile’, ma seguendo piuttosto lo stile di un manuale, un manuale ‘semplice’ che si può leggere tutto d’un fiato e che, al contempo, è uno strumento di approfondimento.
Uno stile che ricorda quello delle omelie e dei discorsi di Papa Francesco: essenziali, brevi, efficaci, ricchi di contenuti. Cosa pensa lei di questo Papa?
Sono molto grato a Dio per il Papa. È una ventata di speranza che mi ha dato personalmente un desiderio di ripartire, di ricominciare. Mi incoraggia anche la gioia che grazie a Lui vedo nella gente, nei miei parrocchiani, la quantità di persone che vengono a confessarsi perché “il Papa ha detto che Dio è misericordioso”. Penso, però, che dobbiamo aspettare ancora un po’ di tempo per conoscerlo meglio e capire qual è il suo vero “stile”. Anche dal punto di vista liturgico…
Il suo precedente volume trattava il tema de “L’unità nel pensiero liturgico di Joseph Ratzinger”. Vede aspetti di continuità tra i due Pontefici, in particolare dal punto di vista liturgico?
Quello che ci ha lasciato la Liturgia di Ratzinger, non è la modalità, ma l’equilibrio. Benedetto XVI ha aperto una finestra verso alcuni aspetti, come ad esempio la dimensione escatologica dell’Eucarestia, questo “cielo che si apre”, o il concetto dell’orientamento, cioè quanto sia importante pregare verso Oriente. Ma anche il crocifisso sull’altare, il latino e via dicendo. La grandezza di Ratzinger, però, è stata nell’illuminare l’importanza di questi aspetti, senza pretendere di dover tornare ad essi, ma solo di riscoprirne il valore per utilizzarli nelle modalità attuali. Papa Francesco ora sta portando tutto quello che il suo predecessore aveva introdotto ad una dimensione di semplicità. Ma una cosa non nega l’altra: bisogna uscire da quella visione dualistica della liturgia: o riformista o tradizionalista. La liturgia è ampia, è questa la sua bellezza, e noi dovremmo essere in grado di leggere la bellezza della semplicità liturgica che ci sta dando papa Bergoglio, senza pensare che sia forzatamente opposta alla bellezza offerta da Ratzinger. Anzi, credo proprio che il grande insegnamento di Benedetto XVI, nonostante fosse considerato tradizionalista, ci abbia preparato ad accogliere la genuinità di papa Francesco.
Lei, nel libro, parla molto della sofferenza, affermando che è evidente quanto l’uomo di oggi soffra, “basta salire su una metro in una qualsiasi città europea”, colpa anche di una dilagante scristianizzazione e crisi di fede. Che risposta dà il volume a questo?
La risposta è che bisogna tornare all’Eucarestia, che è il cuore della nostra fede, la fonte e il fine del nostro essere cristiani. In fondo, noi siamo chiamati ad essere Eucarestia vivente, ad essere uomini e donne capaci di spezzarsi per gli altri. Quindi, dobbiamo ritornare a scoprire questo nutrimento spirituale. È nel vivere l’Eucarestia che noi viviamo. Non è una cosa in più che potrebbe aiutare, è l’esigenza primaria del cristiano di oggi, oltre che uno dei doni che il Signore ci ha lasciato e che dobbiamo vivere fino in fondo, altrimenti non viviamo il nostro Battesimo, ma viviamo‘spaccati dentro’.

BATTESIMO E PRESENTAZIONE DEL SIGNORE – Risponde padre Edward McNamara

 http://www.zenit.org/article-34950?l=italian

BATTESIMO E PRESENTAZIONE DEL SIGNORE

Risponde padre Edward McNamara, L.C., professore di Teologia e direttore spirituale

ROMA, Friday, 11 January 2013 (Zenit.org).

Un lettore di lingua inglese ha posto la seguente domanda a padre Edward McNamara: Nella liturgia dopo il Natale, il Battesimo del Signore precede la festa della Presentazione al Tempio. Per quale motivo? — C.T., Johannesburg, Sudafrica
Padre McNamara ha risposto nel modo seguente:
La festa della Presentazione è legata al rito ebraico della purificazione della madre, la quale doveva avvenire secondo la legge di Mosè 40 giorni dopo la nascita di un figlio maschio (Levitico 12,2-6).
Per la legge ebraica, solo la madre aveva bisogno di essere purificata, ma come figlio primogenito Gesù doveva essere riscattato (Esodo 13,11 ss). Per questo motivo, la festa della Presentazione viene dunque celebrata esattamente 40 giorni dopo Natale, ossia il 2 di febbraio.
A fornire le prime notizie riguardanti la celebrazione di questa festività è Egeria, una donna che fece un lungo pellegrinaggio in Terra Santa verso l’anno 390. Anche se non menziona l’uso di candele, Egeria racconta nel suo Itinerarium che la predica fosse ispirata dalle parole di Simeone che definiscono Gesù “luce delle genti” (cfr. Luca 2,25 ss).
Da qui dunque l’usanza di accendere torce e ceri, come chiaramente attestata solo pochi decenni dopo in Egitto (circa 440) e a Roma (tra il 450 e il 457).
Più complessa è la storia della festa del Battesimo del Signore. Le origini della festa dell’Epifania (ἐπιφάνεια in greco significa “manifestazione” o “rivelazione”) sono da cercare tra i cristiani d’Oriente. Vengono celebrate insieme tre manifestazioni della divinità di Cristo: la sua manifestazione ai Magi, il suo battesimo nel Giordano, e le nozze di Cana, con il primo miracolo compiuto da Gesù.
Anche se nel rito romano della celebrazione dell’Epifania la manifestazione di Cristo ai Magi occupa un posto privilegiato, le preghiere della Messa e l’ufficio divino conservano ancora tracce di questo precedente triplice memoriale.
A Roma, probabilmente a causa di influenze bizantine, il battesimo di Nostro Signore, pur non essendo propriamente una festa, è stato commemorato in modo particolare nell’ottava dell’Epifania a partire dal secolo VIII. I principali uffici utilizzano gli stessi salmi del 6 gennaio, ma le antifone fanno riferimento al battesimo di Gesù.
L’ottava dell’Epifania, insieme a molte altre, fu soppressa da papa Giovanni XXIII nel 1960. Ma lo stesso Pontefice decise di dare maggiore importanza alla preesistente memoria del battesimo di Cristo, trasformandolo in una commemorazione speciale del Signore celebrata il 13 gennaio, l’ex ottava dell’Epifania.
La riforma liturgica dopo il Concilio Vaticano II ha fissato la festa del Battesimo del Signore nella domenica dopo l’Epifania, chiudendo in questo modo ufficialmente il periodo natalizio ed inaugurando il tempo ordinario.
Prima della riforma di Giovanni XXIII, il periodo natalizio si concludeva con la Presentazione. Questa festa rimane come una sorta di appendice al Natale, come testimoniano alcune tradizioni popolari, come lasciare il presepe fino al 2 febbraio, come è prassi in piazza San Pietro.
*I lettori possono inviare domande all’indirizzo liturgia.zenit@zenit.org. Si chiede gentilmente di menzionare la parola “Liturgia” nel campo dell’oggetto. Il testo dovrebbe includere le iniziali, il nome della città e stato, provincia o nazione. Padre McNamara potrà rispondere solo ad una piccola selezione delle numerosissime domande che ci pervengono.

« LA RELIGIONE È IL PIÙ POTENTE COSTRUTTORE DI COMUNITÀ CHE IL MONDO ABBIA CONOSCIUTO » – Rabbino capo del Commonwealth

http://www.zenit.org/article-34749?l=italian

« LA RELIGIONE È IL PIÙ POTENTE COSTRUTTORE DI COMUNITÀ CHE IL MONDO ABBIA CONOSCIUTO »

Riflessione del rabbino capo del Commonwealth, Jonathan Sacks

ROMA, Friday, 28 December 2012 (Zenit.org).
“L’idea che la società possa farne a meno è contraria alla storia e, ora, alla biologia evoluzionistica”. Lo scrive il rabbino capo del Commonwealth, Jonathan Sacks, in un articolo pubblicato nei giorni scorsi sul New York Times e sull’International Herald Tribune sotto il titolo The moral animal, cioè “L’animale morale”.
Nel suo articolo, Lord Jonathan Sacks, che nel dicembre dell’anno scorso è stato ricevuto in udienza da Benedetto XVI e ha tenuto anche una conferenza presso la Università Pontificia Gregoriana, osserva che dicembre è “il periodo più religioso dell’anno”. “Entri in qualsiasi città americana o britannica e vedrai il cielo notturno illuminato da simboli religiosi, certamente decorazioni natalizie e probabilmente anche una menorah gigante”, scrive Sacks. “La religione in Occidente sembra essere viva e in buona salute”.
Ma lo è davvero o sono solo simboli “svuotati di contenuto, nient’altro che uno sfondo scintillante per la nuova fede occidentale, il consumismo, e per le sue cattedrali laiche, i centri commerciali?”, si chiede Lord Sacks.
A prima vista – continua il rabbino capo delle Congregazioni Ebraiche Unite del Commonwealth – “la religione è in declino”. Dai dati del censimento nazionale del 2011 emerge – spiega Sacks – che in Gran Bretagna un quarto della popolazione dichiara di non avere una religione, vale a dire quasi il doppio rispetto a dieci anni fa.
Ma guardando questi dati da un altro punto di vista, essi raccontano, secondo Sacks, “una storia differente”. Infatti, “sin dal XVIII secolo, molti intellettuali occidentali hanno predetto l’imminente morte della religione”. Ma nonostante gli attacchi, fra cui quelli più recenti da parte dei cosiddetti “nuovi atei”, alla fine oggi tre persone su quattro in Gran Bretagna e ben quattro persone su cinque in America si dichiarano o si ritengono “devote ad una fede religiosa”.  “Ed è questo, in un’età della scienza, che è veramente sorprendente”, sottolinea Sacks, autore di libri comeFrom Optimism to Hope e The Great Partnership: Science, Religion, and the Search for Meaning.
Come osserva Sacks, l’ironia della sorte vuole che molti dei nuovi atei sono seguaci di Charles Darwin. “Noi siamo quello che siamo, sostengono, perché che ci ha permesso di sopravvivere e di passare il nostro codice genetico alla generazione successiva”. Colpisce allora che “la religione è il più grande sopravvissuto di tutti“. Come mai?
Secondo Sacks, è lo stesso Darwin a suggerire quella che è probabilmente la risposta giusta. Lui fu molto colpito da un fenomeno che “sembrava contraddire la sua tesi più basilare, cioè che la selezione naturale dovrebbe favorire i più spietati”. Invece, “tutte le società valorizzano l’altruismo, e qualcosa di simile può essere visto anche tra gli animali sociali”.
Come funziona, lo spiega la neuroscienza: “Abbiamo neuroni specchio che ci portano a provare dolore quando vediamo soffrire altri. Siamo programmati per l’empatia. Siamo animali morali”.
Questo ha implicazioni importanti: “Passiamo i nostri geni come individui ma sopravviviamo come membri di un gruppo, e i gruppi possono esistere solo quando gli individui non agiscono esclusivamente per il proprio bene ma per il bene dell’insieme del gruppo”.
A livello cerebrale, l’uomo ha due modalità di reazione, “una che si concentra su un potenziale pericolo per noi, come individui, e l’altra, situata nella corteccia prefrontale, che pondera di più le conseguenze delle nostre azioni per noi e gli altri”. “La prima è immediata, istintiva ed emotiva. La seconda è riflessiva e razionale”, sintetizza il rabbino capo.
L’uomo risulta dunque preso tra due pensieri o percorsi, quello veloce, che “ci aiuta a sopravvivere, ma può anche portarci ad azioni impulsive e distruttive”, e quello lento, che “ci porta ad un comportamento più ponderato, ma viene spesso sopraffatto nella foga del momento”. Infatti, “siamo peccatori e santi, egoisti e altruisti, esattamente come hanno sostenuto a lungo filosofi e profeti”.
“Se è così, possiamo capire come la religione ci abbia aiutato a sopravvivere nel passato – e perché ne avremo ancora bisogno nel futuro”. La religione, continua Sacks, “rafforza e accelera il percorso lento”. Essa “riconfigura i nostri circuiti neurali, trasformando l’altruismo in istinto, attraverso i rituali che eseguiamo, i testi che leggiamo così come le preghiere che preghiamo. Rimane il più potente costruttore di comunità che il mondo abbia conosciuto”.
Essa “lega gli individui in gruppi attraverso comportamenti di altruismo, creando relazioni di fiducia abbastanza forti da sconfiggere emozioni distruttive”. Perciò, “ben lontani dal confutare la religione, i neo-darwinisti ci hanno aiutati a capire perché è importante”.
Essa è infatti “il miglior antidoto all’individualismo dell’epoca del consumismo”. Perciò, “l’idea che la società possa farne a meno è contraria alla storia e, ora, alla biologia evoluzionistica”.
In conclusione, per Sacks, c’è una cosa che le società libere dell’Occidente non devono mai fare: “perdere il loro senso di Dio”.

IL BLOG DEL VESCOVO PRIGIONIERO…il vescovo di Shanghai mons. Ma Daqin …

http://www.zenit.org/article-33008?l=italian

IL BLOG DEL VESCOVO PRIGIONIERO

Da tre mesi agli arresti domiciliari per la sua ribellione al potere politico cinese, il vescovo di Shanghai mons. Ma Daqin continua a scrivere sul suo portale

ROMA, sabato, 6 ottobre 2012 (ZENIT.org) – «L’hanno isolato quasi completamente. Il seminario di Sheshan, a poca distanza da Shanghai, è diventata la sua gabbia dorata, dopo che ai seminaristi è stato impedito di rientrare per riprendere l’anno accademico. Dicono che il vescovo sia dimagrito, pallido: speriamo che continui a resistere».
Così una fonte che chiede di restare anonima racconta a MissiOnLine la situazione di mons. Taddeo Ma Daqin, giovane ausiliare di Shanghai (44 anni), da tre mesi agli arresti domiciliari. Il vescovo è stato privato della libertà per punizione contro il suo gesto di ribellione pubblico al potere politico cinese: il 7 luglio scorso, durante la sua ordinazione episcopale, Ma ha avuto il coraggio (o la sfacciataggine, secondo Pechino) di annunciare pubblicamente le dimissioni dall’Associazione patriottica dei cattolici cinesi, l’organismo politico con il quale il Partito comunista controlla la vita della cosiddetta « Chiesa ufficiale » in Cina.
Nella medesima occasione mons. Ma aveva rifiutato l’imposizione delle mani da un vescovo scomunicato presente alla cerimonia per imposizione del governo (mons. Zhan Silu, vescovo di Mindong nel Fujian) e aveva evitato di bere al suo stesso calice, rendendo così evidentissima la presa di distanza da quanti non sono in comunione con il Papa e la volontà di non sottostare alla politica del governo che cerca di « mescolare » il più possibile, in occasione di celebrazioni pubbliche (Messe, ordinazioni sacerdotali ed episcopali), i vescovi legittimi e in comunione col Papa e quelli ordinati senza l’approvazione di Roma.
Le dimissioni dall’Associazione patriottica erano state, a quel punto, la logica conclusione di un atteggiamento di coraggio e resistenza. L’Apcc è indicata apertamente da Benedetto XVI, nella Lettera ai cattolici cinesi del 2007, come un grosso ostacolo al processo di riconciliazione interno della Chiesa cinese e al cammino verso la normalità della vita ecclesiale.
La scelta di abbandonare l’Apcc sta costando al vescovo Ma un isolamento quasi totale. Mandati a casa d’imperio i giovani che vi risiedevano, il seminario è stato svuotato per trasformarsi in « residenza provvisoria » del presule. L’unico contatto con l’esterno è il blog che mons. Ma continua a tenere, naturalmente premurandosi di non toccare argomenti sgraditi al regime. Ecco perché, da letterato e amante della tradizione classica cinese qual è, il vescovo ricorre a citazioni di opere classiche o di autori da lui amati, come nel caso di Simone Weil, filosofa e mistica francese di origine ebrea: in uno degli ultimi articoli pubblicati, mons. Ma presenta alcune riflessioni spirituali sul tema della sofferenza e del dolore proprio da testi di questa grande figura di credente, spesso citata, peraltro, dai « cristiani culturali » cinesi.
In altri casi, il blog di mons. Ma diffonde musica via Internet, « una musica triste che penso voglia esprimere la sofferenza della sua solitudine forzata », azzarda la nostra fonte.
Da quando il suo blog è stato riaperto, il 16 luglio scorso (dopo un black out imposto dalle autorità), il vescovo Ma ha caricato, oltre ad alcuni articoli, il testo di un’opera cinese in 6 scene (da lui composta) su Xu Guangqi e sulla sua amicizia con Matteo Ricci, spiegando di aver voluto così celebrare il 450esimo anniversario della nascita di Xu Guangqi, che cade proprio quest’anno. Alcuni cattolici cinesi – riferisce Asia News – hanno risposto ai suoi articoli inviando il proprio saluto, sostegno e preghiere per il vescovo.
L’ultimo post pubblicato sul blog del vescovo Ma Daqin risale al 21 settembre. Mentre proprio ieri l’agenzia UcaNews ha dato notizia dei «corsi di rieducazione da dodici ore al giorno» cui sono attualmente sottoposti quelli che erano i suoi collaboratori. Chiediamo ai nostri lettori di sostenere la battaglia del vescovo Ma Daqin inviando una mail all’indirizzo della nostra redazione mondoemissione@pimemilano.com con nell’oggetto la frase «SOLIDALI CON IL VESCOVO MA DAQIN».


[Articolo tratto dal sito MissiOnLine, del Pime]

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