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IL PROCEDERE SBILENCO, IL MISTERIOSO ZOPPICARE DELL’UOMO (DA HENRI DE LUBAC)

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IL PROCEDERE SBILENCO, IL MISTERIOSO ZOPPICARE DELL’UOMO (DA HENRI DE LUBAC)

Scritto da Redazione de Gliscritti: 05 /07 /2007

Sull’affermazione di san Bonaventura: «Nulla che sia inferiore a Dio può accontentare l’uomo», de Lubac commenta: «Da ciò deriva, in questa creatura a parte, tale « costituzione ontologica instabile », che la fa nello stesso tempo più grande e più piccola di se stessa. Da questo deriva questa specie di procedere sbilenco, questo misterioso zoppicare, che non è soltanto del peccato, ma prima ancora e più radicalmente proprio d’una creatura fatta di nulla, che, stranamente, confina con Dio: Deo mente consimilis. Nello stesso tempo, indissolubilmente, « nulla » e « immagine »; radicalmente nulla, e tuttavia sostanzialmente immagine: Esse imaginem non est homini accidens, sed potius substantiale. Per la sua stessa creazione, l’uomo è « compagno di schiavitú » di tutta la natura; ma allo stesso tempo, per il suo carattere d’immagine – in quantum est ad imaginem Dei – è « capace della conoscenza beatifica », ed ha ricevuto, nel fondo di se stesso, come diceva Origene, « il precetto della libertà »».

(da Henri de Lubac, citato nell’articolo Contro Hitler a partire da Tommaso, di Michele Dolz, pubblicato da Avvenire del 5 luglio 2007)
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LA DONNA È PER NATURA LA CREATURA CHE DONA LA GIOIA DI VIVERE (…NELL’ESEMPIO DI VITA DI MADRE TERESA)

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LA DONNA È PER NATURA LA CREATURA CHE DONA LA GIOIA DI VIVERE

L’AMORE E L’ACCOGLIENZA DELL’ALTRO NELL’ESEMPIO DI VITA DI MADRE TERESA

ROMA, 16 FEBBRAIO 2013 (ZENIT.ORG). IRENE BERTOGLIO |

Si sente spesso ripetere che preti e suore non dovrebbero esprimersi sull’educazione dei figli in quanto privi dell’esperienza della genitorialità. Questa critica non tiene conto della maternità e della paternità spirituale che, a volte, avrebbe davvero moltissimo da insegnare ai genitori biologici.
Il primo compito della madre è quello dell’accoglienza, la capacità di ricevere l’altro come un dono e un mistero prezioso con gratuità e riconoscenza. Chi, meglio di Madre Teresa di Calcutta, ha saputo accettare, accogliere e sacrificarsi per amore? I suoi non sono stati certamente figli di sangue, ma sono stati tutti figli del suo cuore. Non per niente il Premio per le madri d’Europa assegnato dal Movimento per la Vita lo scorso dicembre portava come titolo il suo nome.
Nella nostra attuale società i ruoli si stanno vistosamente invertendo: padri non più in grado di assumere decisioni e carenti di virilità, donne “gendarmi” che scimmiottano le caratteristiche prettamente maschili… Ecco perché in questa sede è opportuno ricordare a tutte le donne l’insegnamento di Madre Teresa: «Non permettere mai che qualcuno venga a te e vada via senza essere migliore e più contento. Sii l’espressione della bontà di Dio».
Come? Quali sono le credenziali della donna? «Bontà sul tuo volto e nei tuoi occhi, bontà nel tuo sorriso e nel tuo saluto […] Offri sempre un sorriso gioioso. Dà non solo le tue cure ma anche il tuo cuore». Nella loro semplicità queste parole di Madre Teresa esprimono la vera necessità dei nostri tempi; basta guardarsi intorno per vedere quanti bronci e quanta mancanza di tenerezza colmino certi volti di donna, certi volti di madre.
Secondo Madre Teresa bisogna invece condividere la gioia di amare e la gioia di condividere: «la gioia brilla negli occhi, esce attraverso le parole e va… Quando le persone vedranno una felicità continua nei vostri occhi, farà loro scoprire di essere figli amati da Dio. Senza la gioia non c’è amore e l’amore senza gioia non è vero amore». Ma come possiamo offrire sorrisi autentici e carichi di affetto se il nostro cuore è una tomba?
Madre Teresa non amava usare termini intellettuali, ma esprimeva molto bene il concetto di individualismo che oggi troneggia, sapendo che al mondo ci sono degli ammalati non infermi nel corpo, ma nell’anima, che spesso vogliono ammalarsi sempre di più: «c’è moltissima sofferenza nel mondo. La sofferenza materiale è la sofferenza di chi ha fame, di chi non ha una casa, di chi è malato, ma continuo a ritenere che la sofferenza più profonda sia quella di chi è solo, di chi non si sente amato, di chi non ha nessuno. La peggior malattia che un essere umano possa mai sperimentare è quella di non essere considerato».
La sensazione che qualcuno ci ami: ecco qual è la missione della madre. La donna è per natura la creatura che dona la gioia di vivere, la speranza, la sua tenera carezza d’amore. A questo proposito, la piccola matita di Dio, racconta un aneddoto: «Non dimenticherò mai quel giorno. Stavo camminando sulle strade di Londra quando incontrai un uomo apparentemente solo, così solo, così triste. Mi avvicinai, gli presi la mano e gliela strinsi (le mie mani sono sempre calde), lui mi guardò e disse: “Oh, dopo tanto, tanto tempo sento il calore di una mano umana”. Per molto tempo nessuno l’aveva toccato, nessuno gli aveva dimostrato amore: divenne una persona completamente diversa. Mi diede un così grande e bel sorriso perché sentì il calore dell’amore. Per questo dovete pregare affinché impariate questo dono di Dio… poiché Dio vi ha creati per questo. Niente di complicato. Dio ci ha creati per amare, ci ha donato un cuore per amare, perciò usate questo dono di Dio condividendo la gioia di amare concretamente».
Usa proprio il termine concretamente, perché amare non è semplicemente seguire la ricetta dello sperperare sorrisi (avete presente quelle giornate talvolta indette per abbracciarsi fra sconosciuti, senza impegno, senza senso?): «Quando moriremo saremo giudicati per quello che siamo stati gli uni per gli altri. Egli ha detto: “Avevo fame e mi hai dato da mangiare, ero ignudo e mi hai rivestito, non avevo una casa e mi hai offerto un tetto. Se accogli un bambino in Mio nome, tu accogli Me”».
Guardare negli occhi con gli occhi di chi guarda Dio. Non è facile amare come Dio ci chiede. Molte madri, spesso condizionate dall’ignavia di chi le sta accanto, decidono di sottoporsi alla disumana pratica dell’aborto, anche per evitare di assumersi le responsabilità che l’amore comporta. Altre madri vivono mettendo i figli in secondo piano, facendo prevalere il proprio ego e rinnegando il proprio ruolo di delicatezza e accoglienza: «L’amore, per essere vero, deve costare fatica, deve fare male, deve svuotarci del nostro io». Ci vuole coraggio per dare, per donarsi totalmente e pienamente senza riserve all’altro, specialmente ai più indifesi, che non hanno nulla da ricambiare. Dove trovare una fonte e una riserva per questa meravigliosa missione? Dal Fornitore di amore più grande, l’Amor che move il sole e l’altre stelle…

Publié dans:Approfondimenti, UOMO E DONNA |on 18 février, 2013 |Pas de commentaires »

« NON C’È UNITÀ DEI CRISTIANI SE NON C’È UNITÀ IN DIO » (PRIMA PARTE)

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« NON C’È UNITÀ DEI CRISTIANI SE NON C’È UNITÀ IN DIO » (PRIMA PARTE)

Alla vigilia della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani, monsignor Bruno Forte riflette sui temi dell’ecumenismo

Luca Marcolivio
ROMA, Thursday, 17 January 2013 (Zenit.org).
L’ecumenismo sta facendo grandi passi avanti, grazie anche a un pontefice come Benedetto XVI, che sta riformando la Chiesa in assoluta coerenza con l’insegnamento del Concilio Vaticano II. Lo afferma monsignor Bruno Forte, teologo di fama internazionale, grande fautore ed esperto di ecumenismo.
In qualità di arcivescovo di Chieti-Vasto, monsignor Forte si è recato nei giorni scorsi in visita ad limina dal Santo Padre, assieme agli altri vescovi dell’Abruzzo e del Molise. Durante il suo breve soggiorno romano, ZENIT ha incontrato e intervistato il teologo, cogliendo l’occasione per riflettere sui temi dell’ecumenismo, alla vigilia della Settimana di Preghiera per l’Unità dei Cristiani (18-25 gennaio).
Eccellenza, qual è lo stato di salute dell’ecumenismo a 50 anni dal Concilio Vaticano II?
Mons. Forte: Il beato Giovanni XIII, nel suo discorso d’apertura del Concilio (11 ottobre 2012), sottolineando quanto fosse importante vincere la sfiducia e guardare con fede all’azione di Dio nella storia, evidenziava come priorità del Concilio l’unità dei battezzati. Naturalmente l’unità tra tutti i cristiani non è realizzabile se alla base non c’è una profonda unità con Dio. In un certo senso l’ecumenismo non è la conversione da una chiesa all’altra ma la conversione di tutti i battezzati a Cristo.
Vedo poi una profonda continuità tra il Magistero di Benedetto XVI e l’insegnamento del Concilio. Ritengo che questo papa sia un riformatore e che lo sia proprio nel punto fondamentale proposto del Concilio, cioè la fede. Egli chiama la Chiesa a rinnovarsi non in un “aggiustamento di struttura” ma in un ritorno a Cristo, affermandone il primato assoluto e vivendo nella sequela e nella testimonianza di Lui. Quanto più la Chiesa realizzerà questo programma, tanto più potremmo dire che il cammino ecumenico crescerà.
Una seconda considerazione riguarda le differenze tra le chiese: se a volte il frutto dei dialoghi non è stato – come qualcuno, forse un po’ ingenuamente si aspettava – un immediato processo di riunificazione o comunque di forte riavvicinamento, è anche perché la riflessione sulla verità porta anche a conoscere le differenze. Naturalmente, alla luce dello spirito e della fede, le differenze non vanno riconosciute semplicemente per fissarle come elementi insuperabili ma per comprendere se, nonostante le differenze stesse, che vanno viste con estrema lucidità e chiarezza, non ci sia una sorgente di unità più profonda che, anche a livello dottrinale, può essere scoperta.
Quanto è stato fatto, in particolare, nel dialogo con le chiese ortodosse?
Mons. Forte: La Commissione Mista per il dialogo teologico tra la Chiesa Cattolica Romana e la Chiesa Ortodossa, di cui sono membro, ha prodotto nel 2007 il Documento di Ravenna dove per la prima volta tutte le autocefalie ortodosse hanno riconosciuto che il principio fondamentale dell’ecclesiologia orientale espresso nei Canoni degli Apostoli al n°21 (perché ci sia Chiesa occorre un primo e un capo). Questo principio, che le chiese ortodosse hanno sempre applicato a livello di Chiesa locale (alla base c’è il vescovo, poi il metropolita, infine, al vertice, il patriarca), è stato applicato anche a livello universale. C’è bisogno di un primo e di un capo a livello universale, che possa essere voce di tutta la Chiesa, e questo primo capo – lo riconoscono anche i fratelli ortodossi – non può che essere il vescovo di Roma, perché Roma è la prima della “pentarchia”, cioè delle cinque grandi chiese patriarcali del mondo antico. Sebbene talora questo dialogo abbia avuto dei contraccolpi alla base – alcune comunità ortodosse hanno accusato i loro patriarchi di essere troppo accondiscendenti verso Roma – si tratta di un cammino di grande e reciproco ascolto e di ascolto di Dio ed è la carità che deve sostenere l’impegno ecumenico.
All’inizio del suo pontificato, Benedetto XVI era stato visto come un papa che avrebbe frenato il dialogo ecumenico. I risultati di questi anni sembrano però dimostrare l’esatto contrario…
Mons. Forte: Innanzitutto dobbiamo sottolineare il rapporto profondo del magistero di Benedetto XVI con il Concilio Vaticano II. Egli, che del Concilio fu consulente teologico, ha ribadito più volte, che il Vaticano II – come disse anche il beato Giovanni Paolo II – resta la “bussola del nostro tempo”. È un papa che vuole rilanciare il Vaticano II ma vuole farlo nel modo giusto, cioè non in una superficiale contrapposizione tra “rottura” e “continuità”, quasi come se il Vaticano II fosse un elemento di lacerazione e rottura con la grande tradizione cattolica. Egli vuole invece evidenziare come, nel Vaticano II, lo spirito ha agito nella Chiesa, perché, nella fedeltà alla sua identità e al suo principio, che è il Cristo vivente, la Chiesa possa rinnovarsi e annunciare il Vangelo in modo comprensibile ed efficace per le donne e gli uomini di oggi. In questo spirito anche la causa dell’unità dei cristiani, è fatta propria da papa Benedetto in modo convinto, come dimostrano tutte le iniziative di questi anni di pontificato e tutte le occasioni in cui egli ha affermato che l’ecumenismo non è solo un’attività tra le altre ma una dimensione fondamentale della vita della Chiesa. Più che pensare, allora, come qualcuno vorrebbe suggerire, ad una sorta di cambiamento rispetto alle intuizioni del Concilio in campo ecumenico, il Papa rappresenta un approfondimento, che è qualcosa di ben diverso. Si tratta cioè di accogliere le grandi acquisizioni del Concilio e di portarle alla loro radice più profonda che è, appunto, una visione trinitaria della Chiesa, una visione che nella Trinità trova la sua origine. Così come nella Trinità, tre sono uno, pur essendo ognuno se stesso, così nella Chiesa c’è un’unità profonda nella Chiesa cattolica che si realizza nella varietà profonda delle chiese particolari, ovvero la dimensione storica di quest’unico mysterium ecclesiae.
Non bisogna avere la fretta di compiere passi compromissori ma bisogna avere la fiducia e la speranza di un cammino che porti alla piena realizzazione del disegno di Dio. In questa ottica il magistero di Benedetto XVI può essere colto in tutto il suo potenziale di profondità e di ricchezza nella continuità con il messaggio del Vaticano II.

Contro una morale di plastica

http://www.atma-o-jibon.org/italiano4/rit_belardinelli1.htm

Contro una morale di plastica

«Stiamo piegando i valori etici alle esigenze della vita sociale,
ma questo impedisce di distinguere fra bene e male».

Sergio Belardinelli
(« Avvenire », 9/6/’07)

Il Dio di Abramo e di Gesù Cristo è soprattutto un Dio che ama. « Deus caritas est ». Non è dunque un Dio che guarda il mondo con indifferenza, un giudice severo e inflessibile, un Dio che « è politica o niente », secondo la nota affermazione dell’ayatollah Khomeini; ma non è nemmeno un Dio da coccolare in privato o nel quale proiettare semplicemente i nostri desideri, una sorta di « oppio » per il popolo, un Dio che serva alla morale, all’ordine sociale, alla giustizia, all’identità di una cultura o semplicemente a farci essere più buoni. È un Dio che, amandoci, ci fa vedere la possibilità di un’altra storia, ci sollecita ad amare a nostra volta, a uscire dal nostro « isolamento », a scoprire l’incommensurabile dignità di ognuno di noi, nonostante le nostre manchevolezze; è un Dio misericordioso che redime e salva e che, proprio e soltanto per questo, ci spinge « a trasformare il mondo », a lavorare per rendere più umana la nostra vita sociale e individuale.
Se il mondo in generale, secondo una linea di pensiero oggi assai condivisa, non è altro che « caso e necessità »; se ciò che chiamiamo mondo umano non è altro che l’ultimo stadio di sviluppo di antichissime comunità batteriche, è evidente che in tale contesto diventa piuttosto difficile parlare di libertà. E questo è quanto meno curioso, visto che, proprio in nome della libertà, si è costituito principalmente il cosiddetto mondo moderno, con la rivendicazione di sempre maggiori diritti in ogni ambito della vita individuale e sociale. Per dirla con le parole di Benedetto XVI, qui siamo di fronte a «un autentico capovolgimento del punto di partenza della nostra cultura, che era una rivendicazione della centralità dell’uomo e della sua libertà».
Forse non è esagerato sostenere che gran parte della filosofia moderna è alla vana ricerca di una sorta di equivalente funzionale di quanto l’amore di Dio è in grado di offrire, ontologicamente, prima ancora che eticamente, a garanzia della bontà dell’essere. Charles Taylor ha mostrato tutto questo in modo, a mio avviso, assai convincente, così come Friedrich Nietzsche, con la sua disperata lucidità, ne ha mostrato i tratti distruttivi e inquietanti. Gli sforzi moderni di costruire una società più giusta, fatta di uomini capaci di riconoscersi reciprocamente, « come se Dio non ci fosse », alla fine si sono rivelati un fallimento (si pensi all’esperienza totalitaria); le odierne tecnologie della vita, una cultura che, in nome della libertà, le vorrebbe utilizzare senza limiti, elaborando contemporaneamente le condizioni affinché la libertà non abbia più senso, rendono questo fallimento ancora più inquietante. E Benedetto XVI se ne rende conto pienamente; vede il nesso che sussiste tra le ontologie e le cosmologie dominanti e la crisi dell’etica contemporanea, la quale, non per nulla, viene ricondotta prevalentemente « entro i confini del relativismo e dell’utilitarismo, con l’esclusione di ogni principio morale che sia valido e vincolante per se stesso ».
Proprio come auspicava Emile Durkheim, certamente uno dei padri della cultura che pervade il nostro tempo, stiamo subordinando l’elemento morale alle esigenze della vita sociale, mettendo così fuori gioco il senso stesso di qualcosa che valga e che obblighi incondizionatamente. Per dirla con le parole del sociologo francese, la nostra morale è diventata « plastica »; «Nulla è indefinitamente e incondizionatamente buono»; abbiamo una morale totalmente funzionalizzata alle esigenze della vita sociale. In linea di principio, quindi, anche l’uccisione di un innocente può diventare legittima, se si riesce a dimostrare, cosa sempre piuttosto semplice, che è per il bene della società. Utilitarismo, relativismo e funzionalismo, in effetti, non conoscono limiti di principio; pongono volta a volta, a seconda delle convenienze, alcuni valori di riferimento e a questi commisurano tutti gli altri. Se, poniamo, si tratta in primo luogo di produrre merci a costi più bassi possibile, diventa irrilevante che ciò avvenga in condizioni quasi disumane, come accade ad esempio in Cina. Se, per fare un altro esempio, si tratta di abbassare i livelli demografici di una determinata popolazione, di per sé, non si può escludere che si faccia ricorso, come in effetti accade, a pratiche di sterilizzazione coatta. Se, per fare un altro esempio ancora, l’uso di embrioni umani può far avanzare la ricerca medica, nulla deve impedirlo. Se, infine, si tratta di soddisfare un desiderio di maternità o di paternità, le conseguenze morali della tecnica cui si fa ricorso diventano indifferenti, poiché ciò che conta è semplicemente il risultato. E si potrebbe continuare.
In ogni caso sono proprio questi esempi che ci fanno comprendere l’importanza di qualcosa che nella nostra vita individuale e sociale obblighi «incondizionatamente». È proprio il caso di dire, con la « Deus caritas est » di Benedetto XVI, che esiste una inscindibile «unificazione dell’uomo con Dio». Ragionando «come se Dio non ci fosse», si arriva, o si potrebbe arrivare, a ragionare come se non ci fosse nemmeno l’uomo. Questo, a mio modo di vedere, è lo sfondo che anima il Discorso di Verona e che presumibilmente animerà tutto il pontificato di Benedetto XVI.

I GIOVANI E LO SPIRITO DI DIO

dal sito:

http://www.zenit.org/article-26921?l=italian

I GIOVANI E LO SPIRITO DI DIO

di padre Renato Zilio*

LONDRA, mercoledì, 1° giugno 2011 (ZENIT.org).- In prossimità ormai della Pentecoste mi viene in mente un’esperienza pastorale, che non potrò facilmente dimenticare, in una parrocchia della diocesi di Versailles. Per la cresima dei nostri giovani c’era stata una piccola battaglia. I genitori dei giovani non volevano il Vicario generale come programmato da tempo, ma domandavano la venuta del Vescovo stesso: e così è stato. Aveva anche lui compreso la ragione; era per sentirsi tutti più responsabili in questa diocesi, incontrandolo direttamente. Ma era anche per premiare il lungo cammino di due anni di preparazione per una settantina di giovani, francesi e portoghesi insieme. Erano tanti. Ancora un’altra battaglia: per non allungare i tempi della celebrazione, il Vescovo stesso, Jean-Charles Thomas, indicava di presentarli al momento opportuno tre a tre.
E a quel punto era emozionante vedere con quale sorriso, con quale trasporto e quali energie interiori si lanciasse lui stesso verso ognuno di loro, uno in alto sui gradini e due più in basso. Lentamente ne scandiva il nome, ungendo tutta la fronte di olio benedetto con un ampio gesto di croce, mentre gli usciva una frase che sembrava fatta apposta per quel giovane: “La gioia del Signore ti accompagni sempre e renda la tua vita un’avventura bella e coraggiosa per gli altri!”. Parole luminose, incoraggianti per assicurargli sui suoi passi la presenza dello Spirito di Dio. Ogni giovane, immobile senza battere ciglio, assorbiva come una spugna la frase diretta a lui. Sì, era stato un lungo cammino. Una trentina di giovani dell’età di 15 e 16 anni apparteneva alla nostra comunità di migranti portoghesi e altrettanti erano alla parrocchia francese; l’impegno preso dagli animatori era per un cammino comune di formazione. Dove anche qualità culturali differenti si ritrovavano insieme: un più grande senso di preghiera per i portoghesi; più portati, invece, alla riflessione i giovani francesi.
Prepararsi alla cresima era anzitutto una loro decisione. Responsabilmente avevano detto sì a questo percorso di due anni, mentre molti altri vi avevano rinunciato. Non importava. Per crescere nella fede toccava ormai ad ogni giovane decidere, non più ai genitori. Era questa la prima tappa del loro cammino. Poi, gli incontri con loro si erano succeduti una volta al mese lungo tutto il pomeriggio e la serata del sabato. Il team degli animatori – anch’essi metà francesi e metà emigranti portoghesi – si adoperava per lanciare chi un canto, chi una riflessione, chi delle spiegazioni o altre attività… Al terzo incontro i giovani potevano già scegliere una serie di testimoni della fede da incontrare – impegnati nella pastorale dei sacramenti, della carità, della liturgia – e da invitare per una intervista. Ricordo la sorpresa degli animatori nel vedere come nella scelta vi fosse anche l’equipe che incontrava le famiglie in lutto. Nella parrocchia essa presenta in casa le condoglianze, informa e prepara insieme alla famiglia la celebrazione. Ascoltare, allora, la testimonianza di fede di Alice, parlando del funerale di due giovani portoghesi fu qualcosa di scioccante e di emozionante per tutti. Quando muore un giovane, è vero, è il mondo intero ad essere sconvolto. Ma per molti è anche momento di coraggio, di speranza, e di fede senza misura. Le sue parole semplici per sentimenti così grandi li aveva incantati.
Poi, un lungo, intero fine settimana, lo avevano vissuto chiusi in un monastero. Ed era l’esperienza senz’altro più ardua e più bella per loro. Vivere al ritmo dei monaci, della loro preghiera, del silenzio, della semplicità di vita si rivelava tonificante per ognuno. Così, la serietà e la bellezza di una comunità in preghiera, i lavori quotidiani, la fratellanza, le parole di testimonianza di un monaco cariche di humour e di delicatezza li aveva segretamente trasformati. Infine, ogni giovane scriveva una lettera al Vescovo. Era un compito personale: vi metteva dentro i motivi per cui chiedeva di essere cresimato, ma anche gli aspetti, le scoperte o i piccoli impegni della sua stessa fede. Compito laborioso, prezioso, fatto da tutti con buona volontà: sapevano che andava direttamente nelle mani del loro Vescovo. E poi nella celebrazione li vedevi attentissimi, perchè nell’omelia lui ne faceva uno stupendo bouquet, presentando i passaggi che aveva assaporato a tutta l’assemblea degli adulti.
La celebrazione continuava, poi, con testi e canti in due lingue, manifestando la giovane fede dei cristiani di domani. Ancora una lezione di ecclesialità. La Chiesa è comunione e la diversità delle proprie culture e tradizioni ne è componente vitale: lo Spirito di Dio saprà crearne una misteriosa unità. Si arrivava, così, all’ultima pagina del libretto che avevano tra le mani. Stampata a grandi caratteri un’unica frase: “Ed ora lotta per una grande causa!”. Sì, per la giustizia, per la pace o la solidarietà che attendono incessantemente gli inviati di Dio. “Andate, la vostra missione ora incomincia!”. Le ultime parole del Vescovo cadevano come un sigillo.“Rendiamo grazie a Dio!”, rispondevano degli occhi luminosi, spalancati sul mondo, che non dimenticheremo più.
———
*Padre Renato Zilio è un missionario scalabriniano. Ha compiuto gli studi letterari presso l’Università di Padova, e gli studi teologici a Parigi, conseguendo un master in teologia delle religioni. Ha fondato e diretto il Centro interculturale di Ecoublay nella regione parigina e diretto a Ginevra la rivista « Presenza italiana ». Dopo l’esperienza al Centro Studi Migrazioni Internazionali (Ciemi) di Parigi e quella missionaria a Gibuti (Corno d’Africa), vive attualmente a Londra al Centro interculturale Scalabrini di Brixton Road. Ha scritto “Vangelo dei migranti” (Emi Edizioni, Bologna 2010) con prefazione del Card. Roger Etchegaray.

Lo stupore e il respiro : La poesia come domanda, incontro, comunicazione

dal sito:

http://www.cci.progettoculturale.it/questionedio/progetto_culturale_/iniziative_a_cura_del_progetto_culturale/00008376_Lo_stupore_e_il_respiro_.html

Lo stupore e il respiro   

La poesia come domanda, incontro, comunicazione

Aveva ragione Vico: risalendo fino alle origini delle espressioni artistiche dell’uomo, ci accorgiamo che quelle poetiche sono molto più antiche. Se per la prosa dobbiamo attendere le « Confessioni » di Sant’Agostino, per la poesia ci avviciniamo alla nebulosa delle origini. 
A patto però di non pensare alla poesia come sistema metrico codificato, bensì ad un atteggiamento – ecco dove stanno le ragioni di Vico – di stupore e di ricerca del senso ultimo, del respiro di Dio.
Perché, come avevano intuito grandi « moderni » come William Blake, Paul Ricoeur e Northrop Frye, il linguaggio poetico è strettamente connesso a quello religioso.
C’è nella poesia l’abissale nostalgia della creazione, della comunione con il tutto, del fiato di Dio che è anche quello del poeta, perché la ricerca del ritmo metrico non è altro che il tentativo di tornare a respirare come all’origine del tutto, con l’universo: potrebbe essere questa la spiegazione del perché spesso la poesia torna alla natura.
Nel Medioevo molte testimonianze, quella di Ilario di Poitiers, cui è attribuita un’opera in esametri sulla vita di Cristo, o quella del « Dittochaeon » (illustrazione in quartine degli affreschi in una chiesa), ci dicono che la poesia non è solo un espediente per richiamare la memoria in un momento in cui era difficile accedere alla scrittura (è la tesi di Havelock), ma altro, un « altro » che è anche ricerca di altrove, come nel romantico « sehnsucht nach dem tode », struggente nostalgia di ciò che si nasconde dietro la morte. Basta leggere Baudelaire per capirlo. Dietro di lui non c’è il nulla, come alcuni hanno scritto, ma la ricerca disperata di un senso.
Basterebbe un altro nome, Thomas Stearns Eliot, per capire come la modernità poetica non sia altro che ripresa della ricerca di quel respiro originario. Guardiamo al tema delle ossa che riprendono vita: si parte da Ezechiele, si passa per Origene, Riccardo di san Vittore, Emilio Draconzio fino ad arrivare ad Eliot, che al colmo della nausea della « Terra desolata » (1922) riprende quel tema apparentemente disperato e che in realtà richiama la speranza della resurrezione e di una Vita Nuova.
Le visioni di morte della « Terra desolata » sembrano un proclama di resa al nulla, e sono in realtà il riposo prima della primavera: così a Phlebas il fenicio cui « una corrente sottomarina/ spolpò l’ossa in mormorii », risponde qualche anno più tardi, il « Mercoledì delle ceneri » (si guardi alla estrema pregnanza « penitenziale » del titolo) con il canto di rinascita: « Sotto un ginepro le ossa cantarono, disperse e rilucenti/ Noi siamo liete d’essere disperse, poco bene facemmo l’una all’altra,/ nella frescura del giorno sotto un albero, con la benedizione della sabbia,/ dimenticando noi stesse e l’un l’altra, unite/ nella serenità del deserto ». Il deserto diviene sereno, perché la morte (« un pecchione che pungeva » l’aveva definita in quegli stessi anni Chesterton) non ha più senso nella prospettiva cristiana.
C’era stato però un inizio, un punto di svolta assoluto, dopo il quale la poesia non fu più se stessa: Dante, come tutti, nessuno escluso, hanno capito, da Eliot a Pound, da Claudel a Luzi, da Blake a Bonnefoy. L’Alighieri segna il confine più lontano raggiungibile dal verso umano, perché in lui i versi stessi non sono più figura retorica, ma senso, carne, dolore, umore e preghiera. Vita, insomma. Dopo di lui questa unità si è dissolta, lasciando intravedere, talvolta, bagliori di inquietante bellezza. Petrarca, il cantore di una sola donna, concretizzazione estrema della bella dama senza pietà provenzale, chiude il « Canzoniere » con l’implorazione di Grazia alla vera Signora, consapevole dell’errore di aver amato la creatura al posto del suo Creatore. E si prenda Leopardi, materialista ed ateo secondo molti, ma che altri hanno avvicinato alla concezione apofatica della divinità, secondo la quale non è possibile trovare attributi umani al Numinoso. Si pensi a Mario Luzi che, attraverso la guerra, il macello, la colpa, distilla un verso macerato e insieme sereno, memore del Fiorentino, in cui tutto sembra tornare ad unità: Dio e la donna, il Medioevo e l’oggi. E come non pensare a Wislawa Szymborska, in cui colloquialità, amore e bellezza di Dio costituiscono un tutt’uno? E per rimanere nell’universo femminile, come dimenticare il passaggio nella notte della follia per risalire -ancora una volta l’ombra di Dante!- a riveder le stelle di Margherita Guidacci e Alda Merini? E come ignorare la ricerca della bellezza divina nelle schegge di autentico fulgore di Cristina Campo, alias Vittoria Guerrini?
Se poi ci ricordiamo che in Italia i nomi della lirica contemporanea sono, dopo Ungaretti e il « caso » Rebora, grande poeta chiusosi in convento, molti e qualificati, da Giovanni Raboni a David Maria Turoldo e a Umberto Marvardi, da Davide Rondoni a Roberto Mussapi, e tantissimi altri, ci accorgiamo che la poesia è poesia, e basta, e non ha bisogno di aggettivi, perché è ricerca pura, vale a dire risalita del fiume verso la grande Origine.
 
Marco Testi
critico letterari

Publié dans:Approfondimenti |on 28 avril, 2011 |Pas de commentaires »

La morte è vinta: le finalità ultime secondo i Padri della Chiesa

dal sito:

http://www.tradizione.oodegr.com/tradizione_index/escatologia/mortefindeseille.htm

La morte è vinta: le finalità ultime secondo i Padri della Chiesa

Padre Placide Deseille

Scopo della creazione

Il Cristiano è un uomo che attende. Il Signore ci dice nel Vangelo: “Tenete sempre la cintura ai fianchi e le lampade accese; siate simili a quei servi che attendono il padrone, che ritorna dalle nozze, per aprirgli al momento che verrà e busserà” (Lc 12, 35-36). Pochi testi ci rivelano tanto perfettamente quali debbano essere il senso e l’orientamento profondo della vita cristiana.

Scopo della creazione è la deificazione dell’uomo e dell’universo. Tutta l’economia della salvezza, l’opera redentrice di Cristo, l’azione santificante dello Spirito, hanno come scopo ricondurre l’umanità decaduta al fine per cui è stata creata, verso la pienezza della deificazione. Col ritorno di Cristo, che aspettiamo, si realizzerà il completamento supremo di questo disegno di Dio, questa economia della salvezza raggiungerà la sua definitiva realizzazione.

Se vogliamo ritrovare un cristianesimo vivente, che sia per noi fonte perpetua di gioia e di slancio spirituale, dobbiamo ricollocare al centro della nostra vita cristiana il desiderio impaziente e la certezza del ritorno glorioso del Signore, quel desiderio e quella certezza che animavano le prime generazioni cristiane.

Lo Spirito e la Sposa dicano: “Vieni!”. Colui che ascolta dica:“Vieni!”. Colui che ha sete venga e colui che lo desideri prenda l’acqua della vita, gratuitamente (Ap 22, 17).

L’essenza del messaggio cristiano, la “buona novella” della salvezza, è l’annuncio della resurrezione, dell’irruzione della vita nuova e immortale nel nostro mondo destinato alla sofferenza e alla morte, per il peccato dell’uomo. Questa irruzione della vita vera si è realizzata, fondamentalmente, nella resurrezione del Cristo, nel suo passaggio pasquale dalla morte alla vita. La morte è stata già vinta, la vita ha già trionfato. Ma occorre che ciascuno di noi, nel corso della propria vita, e la Chiesa nel corso della sua storia, faccia proprio questo passaggio, che lo riviva con Cristo – o meglio che Cristo lo riviva in lui – apportando il consenso della propria libertà all’opera della grazia divina. La Parusia di Cristo, la sua venuta gloriosa alla fine dei tempi, manifesterà tutto ciò che era contenuto virtualmente nella resurrezione di Cristo nel giorno di Pasqua, facendo partecipare tutto il suo Corpo, che è la Chiesa, al suo trionfo definitivo sul peccato, sulla sofferenza e sulla morte. Questa è la speranza della Chiesa e la sua certezza fondamentale.

L’attesa dei defunti

Su questo punto, il pensiero dei Padri della Chiesa era diverso da quello che, a partire dal Medioevo, è divenuto posizione comune nel cristianesimo occidentale.

In questa epoca, infatti, l’accento si sposta sulla fine ultima dell’individuo; si considera che la sorte eterna di ciascuno viene fissata definitivamente al momento della morte: i santi vanno direttamente in cielo, i peccatori non pentiti vanno all’inferno, e quelli che ancor hanno qualche pena da espiare vanno al purgatorio per un tempo più o meno lungo, ma la loro salvezza finale è assicurata. La resurrezione finale apporterà solo un completamento accidentale alla beatitudine già plenaria degli eletti, o al castigo dei dannati. Il giudizio finale manifesterà soltanto la sentenza già definitiva data nel “giudizio particolare”, al momento della morte.

Da allora, l’importanza data alla Parusia come fine della storia, la tensione escatologica nella vita del cristiano e nella vita della Chiesa, sono singolarmente diminuite.

Secondo i Padri della Chiesa, è solo con la Parusia che gli uomini entreranno nel loro destino definitivo, e la sorte finale di molti sarà fissata solo al momento del giudizio finale. Fino alla resurrezione, gli stessi santi, benché vicini a Cristo, sono in uno stato di attesa.

La maniera in cui la Chiesa antica concepiva la situazione delle diverse categorie di defunti nell’attesa della Parusia potrebbe essere riassunta così: innanzi tutto, il pensiero cristiano è assolutamente unanime nell’affermare che la nostra esistenza terrena è unica. La fede cristiana è inconciliabile con ogni altra idea di vite successive e di reincarnazione. Sono concezioni che si ritrovano spesso in correnti filosofiche o religiose non cristiane, soprattutto di origine estremo-orientale, e sono assolutamente estranee al cristianesimo. E’ un dato fondamentale della fede cristiana che la vita terrena è unica e che il destino eterno dell’uomo si gioca durante questa unica esistenza terrena.

Dopo la morte, l’anima resta altrettanto viva, altrettanto cosciente, altrettanto attiva come durante la vita terrena, sebbene in maniera diversa. Ma essa non può (fare) più nulla per la propria salvezza. Non può neppure entrare in comunicazione con i viventi, se non con permesso divino, ed ogni forma di evocazione magica dei defunti, di comunicazione medianica con loro e di spiritismo è stata condannata tanto dalla Parola di Dio nell’Antico Testamento quanto dalla coscienza cristiana lungo i secoli: “Non ci sia fra i tuoi alcuno che si dedichi alla divinazione e alla magia…, che faccia ricorso a sortilegi, che consulti evocatori e indovini e che interroghi i morti. Ogni uomo che fa queste cose, infatti, è in odio al Signore” (Dt 18, 10).

Nella tradizione ortodossa, che si fonda sulle visioni accordate a certi santi, si stima che, durante i primi due giorni dopo la morte, l’anima resti ancora sulla terra, a percorrere i luoghi in cui ha vissuto e ai quali è stata legata durante la vita terrena. Dopo il terzo giorno, passa da quello che i Padri della Chiesa chiamano “posto di pedaggio”.

Nelle visioni di Sant’Antonio il Grande, raccontateci da Sant’Atanasio, i “pedaggi” vengono rappresentati nel modo seguente: «Un giorno, al momento di mangiare, mentre era ancora in piedi per pregare verso l’ora nona, vide se stesso rapito in spirito. Cosa straordinaria, in piedi, vide se stesso fuori di se stesso come se fosse condotto in aria da alcuni personaggi; poi ne vide altri, amari e crudeli, in piedi nell’aria che volevano impedirgli di salire. Poiché coloro che lo portavano lo difendevano, gli altri chiesero se fosse sottomesso ad essi e vollero fargli rendicontare a cominciare dalla sua nascita. Le guide di Antonio vi si opposero, dicendo agli avversari: il Signore ha rimesso i peccati commessi dopo la sua nascita; gli potete chiedere conto di quelli che ha commesso dopo che si è fatto monaco e consacrato al Signore. Gli avversari lo accusavano, senza potere provare nulla. La strada fu libera e senza ostacoli. Allora Antonio si vide rinvenire; in piedi davanti a sé, e di nuovo fu sé stesso. Dimenticando il suo pasto, passò il resto del giorno e la notte tra gemiti e preghiere. Ammirava con quale lotta e quali travagli si deve attraversare l’aria e si ricordava di ciò che disse l’Apostolo del principe della potenza dell’aria (Ef 2, 2). Il nemico ha potere di combattere e di ostacolare coloro che salgono attraverso l’aria. Faceva dunque soprattutto questa esortazione: “Per questo prendete l’armatura di Dio, per potere resistere ai giorni cattivi in modo che l’avversario rimanga confuso: non avendo alcuna (cattiveria) da dire su di noi (2 Cor 12, 2).

In seguito, ebbe una controversia con alcuni visitatori riguardo al passaggio e al soggiorno dell’anima dopo la morte; la notte seguente, qualcuno lo chiamò dall’alto: “Antonio, alzati e guarda”. Egli uscì, perché sapeva a chi si doveva ubbidire; alzando gli occhi, vide un essere gigantesco, mostruoso terribile, in piedi alto sino alle nuvole. Esseri che sembravano alati salivano. Il gigante stendeva le mani, ostacolava gli uni; mentre gli altri, volando al di sotto, attraversavano, erano condotti in alto senza essere disturbati. Per questi ultimi, il gigante strideva i denti; ma godeva di vedere cadere gli altri. Subito Antonio sentì una voce: “Comprendi quello che vedi”. Lo spirito gli fu aperto: capì che era il passaggio delle anime, che il gigante in piedi era il nemico che ha invidia dei fedeli, regna su coloro che gli si sono sottomessi e impedisce loro di passare; ma non può dominare dall’alto coloro che non si sono lasciati persuadere da lui. Avvertito da questa nuova visione, lottava sempre di più per progredire ogni giorno»[1].

Così, per i quaranta giorni che precedono l’attribuzione all’anima del defunto della dimora provvisoria sino alla Parusia, i demoni presentano tutto ciò che essa ha potuto commettere come colpe durante la vita terrena; suo solo soccorso è il pentimento che avrà manifestato per i peccati che gli sono imputati, le buone azioni che avrà compiuto durante la vita terrena e l’intercessione della Chiesa e dei santi. La preghiera per i defunti riveste così, dal momento della morte, una grande importanza; protegge l’anima e la difende contro le imprese dei demoni.

Il luogo di ristoro e di riposo

Se l’anima attraversa vittoriosamente questi posti di pedaggio, se i demoni non trovano in lei nulla che essi possano rivendicare, allora viene introdotta dagli angeli nel paradiso o seno di Abramo, in quel “luogo di luce, di ristoro e di riposo, dove non c’è dolore, né lacrime”, ma dove, anzi, in compagnia dei santi gode una ineffabile felicità.

In un bellissimo articolo dedicato a “La beatitudine nell’Oriente cristiano”[2], Myrrha Lot-Borodine riassumeva così l’insegnamento della tradizione patristica su questo soggiorno dei felici:

«“Requies aeterna: requies beata [riposo eterno: riposo dei felici]”. Espressione consacrata dalla Chiesa, presentata come voto supremo a coloro che si sono addormentati nel Signore, a quei destinati postumi che ai nostri occhi non hanno più forma. Espressione che si deve intendere innanzitutto come cessazione di ogni attività esterna “in absolutione corporis [nella liberazione dal corpo]”. L’immagine troppo familiare del sonno, tanto vicina – in apparenza – alla morte, può dare adito a confusione e tradire una realtà altrettanto singolare e profonda. Vi si dovrebbe piuttosto riconoscere quello stato di calma mentale, chiamato dai Greci “apatheia”, o “impassibilità perfetta”, che imita quella divina. Secondo San Massimo che riprende, correggendolo, l’ideale degli Alessandrini, essa è un’assenza totale di turbamento, di pensiero, una stabilità permanente dello spirito che non aspira più al cambiamento. Una tranquillità serena, la “magna tranquillitas” (sant’Ambrogio) che governa l’essere semplificato ridotto alla sua sola essenza, con la sospensione o l’assopimento delle potenze. Oasi della Pace, al di sopra di ogni pace, quella che il mondo non ci dà, ristoro e riposo nel paese della Consolazione: “Gloriosa requies futura [il glorioso riposo che verrà]” (sant’Ambrogio).

Ecco il “beatum esse” [l’essere felice] della prima resurrezione. Questo riposo inalterabile, che non esclude la coscienza né la vita interiore, immanente a questo nuovo modo esistenziale, è uno stato eminentemente contemplativo il cui cuore resta il simbolo. La Scrittura lo paragona al riposo divino della Genesi. Sul suo modello, infatti, il Creatore istituì il sabato di Israele, prototipo del sabato paradisiaco. L’autore dell’Epistola agli Ebrei, riprendendo l’antica minaccia del Signore corrucciato contro razza infedele: “non entreranno nel mio riposo” (Ps 94, 11) aggiunge subito: “C’è dunque un riposo del sabato riservato al popolo di Dio. Perché colui che entra nel riposo di Dio si riposa delle proprie opere, come Dio si è riposato delle sue” (Eb 14, 19) Paragone illuminante, che si trova nello stupendo ufficio ortodosso del Sabato della Passione, quel “sabato dei sabati”, in cui Cristo nel Sepolcro, avendo completato la sua opera salvifica, entrò nel riposo benedetto del triduum. Ed ecco l’ultima alta parola dell’Apocalisse: “Sì, disse lo Spirito, che adesso essi (i Santi) si riposino, perché le loro opere sono appresso a loro” (Ap 14, 13). Parola che sta a significare la fine di ogni travaglio, sia esso fatica o schiavitù. E d’altronde il lino puro che indosserà tutta la Chiesa trionfante, sono le opere stesse dei Santi (Ap. 19, 8). Simili ai gigli dell’evangelo, che non tessono e non filano, le anime quiescenti si espandono, profumate super omnia armata [oltre ogni immaginabile profumo] dalle loro virtù. Si espandono nella libertas paradisi [libertà del paradiso] in unione a Cristo che le porta con Lui. E’ la felice armonia, l’accordo definitivo, il non turbam del requies aeterna [l’impertubabilità dell’eterno riposo], implicando quest’ultimo aggettivo un’altra ottica del tempo, incompatibile con la nostra: la durata senza durata o senza successione di stati. Quietudine che presuppone il non posse peccare [incapacità di peccare] della perfezione, finalmente raggiunta con la similitudo [la somiglianza (a Dio)]. Perfezione del volere e del potere, infinitamente superiore a quella degli avi, ancora in divenire. E con essa, sarà il dono totale dell’impertubatus amor [l’amore senza faglia], l’agape divina e la gioia perpetua del vacare Deo [Nome di Dio] conosciuti e gustati solo da coloro che, avendo maturato e portato i loro frutti terreni, si fondono col silenzio dei doni celesti. Come la sposa del Cantico, con l’anima quiescente fa sentire la confessione segreta della sua veglia: Ego dormio sed cor meum vigilat [io dormo ma il mio cuore vigila]. Sonno mistico della micra anastasis [la “piccola” o prima resurrezione]»[3].

Tra i santi e il mondo dei viventi, nessuna comunicazione “naturale” o di tipo spiritico può essere stabilita legittimamente (cfr. sopra). Ma esiste tra gli eletti e la Chiesa terrena un altro modo di comunicare, puramente spirituale, ma non meno reale. Nella preghiera possiamo rivolgerci a loro; essi possono assisterci costantemente. Tra la liturgia celeste che essi celebrano con gli angeli e le nostre liturgie terrene, esiste una misteriosa compenetrazione che viene evocata nei mosaici e negli affreschi delle nostre chiese.

Qualunque sia la felicità di cui godono così i santi, essi però sono ancora sotto il segno dell’attesa. La loro beatitudine non sarà perfetta se non il giorno in cui Cristo ritornerà, il giorno della resurrezione finale.

L’Ade

Quanto ai peccatori che non hanno potuto superare vittoriosamente la prova dei “posti di pedaggio” perché il loro pentimento non era stato sufficiente e toppo rare le loro buone opere, essi vanno in un luogo di sofferenza dove sono tormentati dai demoni. Anche qui, la visione dei Padri della Chiesa diverge da quella che ha prevalso in Occidente nel Medioevo.

In primo luogo, questa sofferenza non ha un carattere espiatorio e di “soddisfazione” penale temporanea. Il defunto non può (fare) più nulla per se stesso, e la sua sofferenza non può in alcun modo contribuire alla sua liberazione. Egli non è condannato ad una pena più o meno lunga, al termine della quale sarebbe immancabilmente salvato. Non “in purgatorio”, ma nell’Ade, all’inferno, e il suo tormento, di per sé, non avrà fine.

Ma, in secondo luogo, questa sofferenza non ha necessariamente un carattere definitivo. Il pensiero comune della Chiesa antica è, infatti, che prima del giudizio finale, i dannati potranno essere salvati, ma ciò solo e unicamente grazie alla preghiera dei membri della Chiesa terrena. Per questo motivo la preghiera dei defunti riveste, nella coscienza della Chiesa antica e della Chiesa ortodossa odierna, un’importanza estrema: non si tratta, infatti, solo di pregare perché il loro “tempo del purgatorio” sia accorciato, ma perché siano liberati dall’inferno eterno. Lo attestano tutte le liturgie antiche della Chiesa, ivi compresa la liturgia romana così come è stata in vigore fino a poco tempo addietro: sempre, nella preghiera per i defunti, La Chiesa ha chiesto la “liberazione delle anime dal purgatorio”; tutte le formule liturgiche chiedono a Dio di essere misericordioso nel suo giudizio e di liberare il defunto dalla morte eterna. La Chiesa prega da una parte perché i defunti siano protetti dalla misericordia divina al momento del passaggio attraverso i “posti di pedaggio” e giungano in paradiso, e dall’altra, se sono già condannati, perché Dio li salvi nella sua misericordia.

Il ritorno di Cristo e la fine dei tempi

Oggetto dell’attesa ardente della Chiesa, dei vivi e dei morti (che sono altrettanto vivi) è il ritorno di Cristo. La fine dei tempi non deve essere concepita dal cristiano come una catastrofe da temere, ma come la vittoria definitiva del bene sul male, di Dio e del suo regno sul Maligno ed i suoi alleati. La Parusia è la risposta cristiana al problema del male. Essa sarà il compimento finale del mistero della Pasqua, l’ultimo passaggio dalla croce delle prove terrene (e quelle degli ultimi tempi, la “grande tribolazione” escatologica sarà temibile per la Chiesa) alla gioia radiosa della resurrezione.

In questa prospettiva dobbiamo guardare il giudizio finale. Come tutti i “giudizi” divini nella Bibbia, esso sarà essenzialmente un atto di liberazione e di salvezza. Coloro che saranno condannati, sono coloro che volontariamente si saranno identificati con le forze del male, con l’opposizione al regno di Dio, al suo disegno di salvezza e di felicità infinita per le sue creature. Alla loro sconfitta definitiva si oppone la vittoria di tutti coloro che avranno accettato di essere salvati, di essere amati e di amare Colui che li ha amati: “Sforziamoci dunque innanzitutto di portare dentro di noi il segno e il sigillo del Signore, perché quando verrà il Giudizio, quando si vedrà il rigore di Dio” (cfr. Rm 11, 22), quando tutte le tribù della terra e tutto il Genere umano (Adamo) saranno riuniti, quando il pastore chiamerà le sue pecore, tutti coloro che avranno il suo segno riconosceranno il loro pastore, e il pastore riconoscerà coloro che porteranno il suo sigillo speciale. Egli li riunirà da tutte le nazioni. Perché “i suoi ascoltano la sua voce e lo seguono” (Gv 10, 27). Il mondo infatti verrà diviso in due: da un alto, il gregge scuro che andrà al fuoco eterno; dall’altro, il gregge risplendente di luce, che sarà condotto verso la sua eredità celeste. Ebbene sarà precisamente ciò che sin da adesso possediamo nella nostra anima, che allora risplenderà, si manifesterà e rivestirà di gloria i nostri corpi.

Nel mese dello xantico, le radici sotterrate producono ciascuna i propri fiori e i propri frutti con la loro bellezza, e fruttificano. Le buone radici e quelle che portano spine diverranno manifeste. E’ così che in quel Giorno ciascuno rivelerà col fulgore del suo corpo le proprie azioni passate; il bene e il male saranno manifesti. In questo infatti consistono tutto il giudizio e la ricompensa[4].

L’apocatastasi

Apocatastasi è una parola greca che significa restaurazione di uno stato anteriore, il ritorno ad una situazione originaria. Applicata all’escatologia cristiana, esprime una teoria secondo cui, alla fine dei tempi, tutto l’universo creato sarà ristabilito nella sua armonia originaria e tutti saranno salvati, ivi compresi i dannati e i demoni.

Questa concezione si collega alla visione “mitica” del cosmo elaborata da Origene (185 – 254). Questi pensava che in origine Dio avesse creato un universo composto di esseri puramente spirituali; facendo cattivo uso della loro libertà, tutti – ad eccezione dell’anima di Cristo – avrebbero peccato più o meno gravemente, e pertanto sarebbero stati rivestiti di corpi più o meno “densi”, e così sarebbero divenuti angeli, uomini o demoni. Alla fine dei tempi, dopo successive purificazioni, tutti ritornerebbero alla loro prima condizione e ricostituirebbero l’originaria enade, cioè l’unità primigenia delle creature spirituali.

Questa concezione della salvezza universale, che nega l’eternità dell’inferno, misconosce sia l’insondabile mistero dell’amore di Dio, che trascende ogni nostra concezione razionale o sentimentale, sia il mistero della persona umana e della sua libertà. L’amore di Dio implica un totale rispetto delle sue creature, andando sino ad una “impotenza volontaria” di fronte all’eventuale rifiuto della loro libertà. I testi della Scrittura ci obbligano a mantenere le due affermazioni antitetiche della totale vittoria di Dio sul male alla fine dei tempi, e della possibilità della dannazione eterna, essendo la seconda l’inverso della prima. Qui, dinanzi al mistero si addice solo il silenzio dell’intelletto.

Per questo la dottrina dell’apocatastasi, accettata da San Gregorio di Nissa e, poi, dai grandi mistici siriani Isacco di Ninive e Giuseppe Hazzaya, è stata condannata nel 553 dal V Concilio ecumenico, contestualmente ad un certo numero di elementi della dottrina di Origene, ridotta a sistema da tardivi discepoli. Il rifiuto dell’affermazione della salvezza universale da parte della tradizione ortodossa non impedisce evidentemente l’intercessione ardente per la salvezza di tutti e la speranza della loro conversione finale.

L’epictasi

Ancora un’altra domanda può essere fatta a proposito della beatitudine eterna degli eletti: essa deve essere concepita come una contemplazione immobile e saziante, o può comportare una crescita, una scoperta incessantemente rinnovata da una Realtà inesauribile?

Uno degli aspetti più originali del pensiero di San Gregorio di Nissa è la sua dottrina dell’epictasi, secondo cui la divinizzazione dell’uomo, quaggiù e nell’eternità, implica un progresso e una tensione che non ha fine, illustrata dall’immagine del corridore dell’Epistola ai Filippesi (3, 13): “Dimenticando il cammino percorso, vado dritto in avanti, con tutto il mio essere proteso (épeicteimenos: donde il termine epictasi) e corro verso la meta…”. Come spiega Jean Daniélou, uno dei migliori conoscitori del grande Cappadoce: “C’è per l’anima contemporaneamente un aspetto di stabilità, dato dalla sua partecipazione a Dio, e un aspetto di movimento, dato dallo scarto sempre infinito fra ciò che essa possiede e ciò che è Dio… La vita spirituale è pertanto una trasformazione perpetua dell’anima in Gesù Cristo sotto forma di un ardore crescente, la sete di Dio aumenta a misura in cui Egli è sempre più partecipato, e di una stabilità crescente, unendosi e fissandosi l’anima sempre più in Dio”[5].

Senza prendere in considerazione l’idea di una crescita nella beatitudine, numerosi autori dell’epoca patristica – in particolare San Massimo il Confessore – hanno utilizzato il tema del desiderio, dell’assenza di sazietà in seno stesso alla visione di Dio per esprimere l’eterna novità della gioia degli eletti. In Occidente, se ne ritrova l’eco in Gregorio il Grande. Si trattava per lui di conciliare due affermazioni antitetiche della Scrittura: “Gli angeli desiderano fissare i loro sguardi su di Lui” (1Pt 1, 12); e “In cielo i loro angeli vedono incessantemente il volto di mio Padre che è nei cieli” (Mt 18, 10): se si confrontano queste due affermazioni, si constaterà che esse non si contraddicono in nulla. Perché gli angeli, contemporaneamente, vedono Dio e desiderano vederlo; hanno sete di contemplarlo e lo contemplano. Se lo desiderassero senza godere dell’effetto del loro desiderio, questo desiderio sterile sarebbe causa di ansietà, e l’ansietà di sofferenza. Ma felici gli angeli sono lungi da ogni sofferenza di ansietà, poiché sofferenza e beatitudine non sono compatibili… Perché dunque non vi sia ansietà nel desiderio essi sono sazi pur desiderando, e perché la sazietà non comporti disgusto, essi desiderano pur essendo sazi… sarà così pure per noi quando giungeremo alla fonte della Vita: proveremo con delizia, insieme sete e sazietà[6].

Opuscolo edito dal
Monastero Saint-Antoine-le-Grand,
26190 St-Laurent-en-Royans, France.
Riprodotto nella rivista Le chemin n 33 (1996)
 

Traduzione dal francese del prof. G. M.
Tradizione Cristiana
Agosto 2005

[1] S. Athanase d’Alexandrie, Vie de saint Antoine, c. 65-66.

[2] Myrrha Lot-Borodine, “La béatitude dans l’Orient chrétien”, in Dieu Vivant, 15 (1950), pp. 85 ss.

[3] Idem., pp. 106-107.

[4] Macaire d’Égypte, Homélies spirituelles, 12, 13-14, (“Spiritualité orientale”, n° 40), Abbaye de Bellefontaine, 1984, p. 170.

[5] J. Daniélou, Platonisme et théologie mystique, Paris, 1944, pp. 305-307.

[6] S. Grégoire le Grand, Morales sur Job, 18, 54, 91; PL 76, 94ac.

Publié dans:Approfondimenti, biblica |on 29 octobre, 2009 |Pas de commentaires »

Lettera ai malati e sofferenti del mondo per l’Anno sacerdotale

dal sito:

http://www.zenit.org/article-19828?l=italian

Lettera ai malati e sofferenti del mondo per l’Anno sacerdotale

A firma del Presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari

CITTA’ DEL VATICANO, venerdì, 9 ottobre 2009 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito la Lettera ai malati e sofferenti del mondo inviata, in occasione dell’Anno sacerdotale, dal Presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, mons. Zygmunt Zimowski.

* * *

Cari Fratelli e Sorelle Malati e Sofferenti

Venerati Fratelli Vescovi e Sacerdoti responsabili per la pastorale dei malati,

Stimate Associazioni dei Malati

Tutti Voi che prestate il prezioso servizio agli Infermi e ai Sofferenti

Siamo nel pieno svolgimento dell’Anno Sacerdotale indetto da Benedetto XVI il 19 giugno 2009 in occasione del 150° anniversario della nascita di Giovanni Maria Vianney, il Santo Patrono di tutti i parroci del mondo. Nella Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale il Santo Padre scrive: «Tale anno vuole contribuire a promuovere l’impegno d’interiore rinnovamento di tutti i sacerdoti per una loro più forte ed incisiva testimonianza evangelica nel mondo di oggi». In questo tempo di grazia tutta la comunità cristiana è chiamata a riscoprire la bellezza della vocazione sacerdotale e, quindi, a pregare per i sacerdoti.

Il sacerdote accanto al capezzale del malato rappresenta lo stesso Cristo, Medico Divino, al quale non è indifferente la sorte di chi soffre. Anzi, tramite i sacramenti della Chiesa, amministrati dal sacerdote, Gesù Cristo offre al malato una guarigione attraverso la riconciliazione e il perdono dei peccati, attraverso l’unzione con l’olio sacro e infine nell’Eucaristia, nel viatico in cui Egli stesso diventa, come soleva dire san Giovanni Leonardi, « “il Farmaco dell’immortalità” per il quale: “siamo confortati, nutriti, uniti, trasformati in Dio e partecipi della natura divina” (cf. 2Pt 1,4)». Nella persona del sacerdote è quindi presente, accanto al malato, lo stesso Cristo che perdona, guarisce, conforta, prende per mano e dice: «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno” (Gv 11,25).

L’Anno Sacerdotale si concluderà con la solennità del Sacratissimo Cuore di Gesù il prossimo mese di giugno 2010, anno in cui il Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari celebrerà il 25° anniversario della sua istituzione. Il Servo di Dio Giovanni Paolo II, di venerata memoria, ha infatti fondato questo Dicastero Pontificio l’11 febbraio 1985 nella memoria della Beata Maria Vergine di Lourdes, allo scopo di manifestare «la sollecitudine della Chiesa per gli infermi aiutando coloro che svolgono il servizio verso i malati e sofferenti, affinché l’apostolato della misericordia, a cui attendono, risponda sempre meglio alle nuove esigenze» (Pastor Bonus, art. 152).

A motivo di tale provvidenziale ricorrenza, sono vicino a ciascuno di Voi e Vi invito, cari fratelli e sorelle ammalati, a rivolgere incessantemente le vostre preghiere e l’offerta delle sofferenze al Signore della vita a favore della santità dei vostri beneamati sacerdoti, affinché svolgano con dedizione e carità pastorale il ministero a loro affidato da Cristo Medico del corpo e dell’anima. Vi esorto a riscoprire la bellezza della preghiera del Santo Rosario a beneficio spirituale dei sacerdoti, in particolar modo nel mese di ottobre. Oltre a ciò, il primo giovedì e il primo venerdì di ogni mese, rispettivamente dedicati alla devozione eucaristica e al Sacro Cuore di Gesù, sono giorni particolarmente adatti per la partecipazione alla Santa Messa e all’adorazione del Santissimo Sacramento.

Vorrei farvi presente che, pregando per i sacerdoti, si possono ottenere quest’anno speciali indulgenze. Il Decreto della Penitenzieria Apostolica prescrive:

«Agli anziani, ai malati, e a tutti quelli che per legittimi motivi non possano uscire di casa, con l’animo distaccato da qualsiasi peccato e con l’intenzione di adempiere, non appena possibile, le tre solite condizioni, nella propria casa o là dove l’impedimento li trattiene, verrà ugualmente elargita l’Indulgenza plenaria se, nei giorni sopra determinati, reciteranno preghiere per la santificazione dei sacerdoti e offriranno con fiducia a Dio per mezzo di Maria, Regina degli Apostoli, le malattie e i disagi della loro vita. È anche concessa l’Indulgenza parziale a tutti i fedeli ogni qual volta reciteranno devotamente cinque Padre Nostro, Ave Maria e Gloria, o altra preghiera appositamente approvata, in onore del Sacratissimo Cuore di Gesù, per ottenere che i sacerdoti si conservino in purezza e santità di vita».

Vorrei affidare anche alle vostre preghiere il pellegrinaggio dei cappellani ospedalieri che, in occasione del 25° anniversario dell’istituzione del Pontificio Consiglio, si svolgerà nel prossimo mese di aprile, prima a Lourdes e dopo ad Ars. Esiste infatti uno stretto e profondo legame tra queste due cittadine francesi. Parlando proprio di questo provvidenziale nesso nella Lettera per l’indizione dell’Anno Sacerdotale, Benedetto XVI ha richiamato l’osservazione del beato Papa Giovanni XXIII che aveva scritto: «“Poco prima che il Curato d’Ars concludesse la sua lunga carriera piena di meriti, la Vergine Immacolata era apparsa, in un’altra regione di Francia, ad una fanciulla umile e pura, per trasmetterle un messaggio di preghiera e di penitenza, di cui è ben nota, da un secolo, l’immensa risonanza spirituale. In realtà la vita del santo sacerdote, di cui celebriamo il ricordo, era in anticipo un’illustrazione vivente delle grandi verità soprannaturali insegnate alla veggente di Massabielle” (…). Il Santo Curato ricordava sempre ai suoi fedeli che “Gesù Cristo dopo averci dato tutto quello che ci poteva dare, vuole ancora farci eredi di quanto egli ha di più prezioso, vale a dire della Sua Santa Madre”».

Infine a Voi, cari fratelli e sorelle malati e sofferenti, affido la Chiesa, che ha bisogno delle Vostre preghiere e dell’offerta delle vostre sofferenze, la persona del Santo Padre Benedetto XVI, i Vescovi e i sacerdoti di tutto il mondo, i quali si prodigano quotidianamente per la vostra santificazione. Vi chiedo una preghiera speciale per i sacerdoti ammalati e provati nel corpo i quali sperimentano ogni giorno come voi il peso del dolore, insieme alla forza della grazia salvifica che consola e risana l’anima. Pregate anche per la Beatificazione e Canonizzazione del Servo di Dio Giovanni Paolo II. Pregate con insistenza per le sante vocazioni sacerdotali e religiose. Al riguardo Vi propongo una bella orazione di Giovanni Paolo II che potete recitare ogni giorno. Pregate anche per me! Anch’io, come sacerdote e Vescovo, conto su di Voi e sull’offerta delle vostre sofferenze affinché possa svolgere al meglio, nel timore di Dio, il compito di Presidente del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, affidatomi dal Santo Padre. Da parte mia, Vi assicuro che pregherò per Voi, insieme ai miei collaboratori del Pontificio Consiglio, ogni giorno nell’ora dell’ “Angelus” con le parole di Benedetto XVI:

Preghiamo per tutti i malati,

specialmente per quelli più gravi,

che non possono in alcun modo provvedere a se stessi,

ma sono totalmente dipendenti dalle cure altrui:

possa ciascuno di loro sperimentare,

nella sollecitudine di chi gli è accanto,

la potenza dell’amore di Dio e la ricchezza della sua grazia che salva.

Maria, salute degli infermi, prega per noi! (Angelus, 8.02.2009)

Con questo spirito di reciproca preghiera impartisco a tutti Voi, ai Vostri cari e a coloro che si prendono cura di Voi la mia benedizione: nel nome del Padre e del Figlio, e dello Spirito Santo.

+ Zygmunt Zimowski

Presidente del Pontificio Consiglio

per gli Operatori Sanitari

Vaticano, 1 ottobre 2009

Publié dans:ANNO SACERDOTALE, Approfondimenti |on 10 octobre, 2009 |Pas de commentaires »

Lavoro: luogo di speranza?

dal sito:

http://www.diocesi.torino.it/ascolto2007/lavoro-speranza.htm

DIOCESI DI TORINO

In ascolto. Il lavoro

Lectio Divina – Quaresimale
Santuario della Consolata, 16 marzo 2007

Lavoro: luogo di speranza?
Don Daniele Bortolussi

La Chiesa è convinta che il lavoro costituisce una dimensione fondamentale dell’esistenza dell’uomo sulla terra. La Chiesa, tuttavia, attinge questa sua convinzione soprattutto dalla Parola di Dio rivelata e, perciò, quella che è una convinzione dell’intelletto acquista in pari tempo il carattere di una convinzione di fede. La ragione è che la Chiesa crede nell’uomo, pensa all’uomo e si rivolge a lui non solo alla luce dell’esperienza storica, non solo con l’aiuto dei molteplici metodi della conoscenza scientifica, ma in primo luogo alla luce della parola rivelata del Dio vivente. Riferendosi all’uomo, essa cerca di esprimere quei disegni eterni e quei destini trascendenti, che il Dio vivente, creatore e redentore, ha legato all’uomo.
La Chiesa trova già nelle prime pagine del Libro della Genesi la fonte della sua convinzione che il lavoro costituisce una fondamentale dimensione dell’esistenza umana sulla terra. L’analisi di tali testi ci rende consapevoli del fatto che in essi sono state espresse le verità fondamentali intorno all’uomo, già nel contesto del mistero della Creazione. Sono queste le verità che decidono dell’uomo sin dall’inizio e che, al tempo stesso, tracciano le grandi linee della sua esistenza sulla terra.

Genesi: Capitolo 2,1-9.15
1Così furono portati a compimento il cielo e la terra e tutte le loro schiere. 2Allora Dio, nel settimo giorno portò a termine il lavoro che aveva fatto e cessò nel settimo giorno da ogni suo lavoro. 3Dio benedisse il settimo giorno e lo consacrò, perché in esso aveva cessato da ogni lavoro che egli creando aveva fatto. 4aQueste le origini del cielo e della terra, quando vennero creati.
4bQuando il Signore Dio fece la terra e il cielo, 5nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata – perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo 6e faceva salire dalla terra l`acqua dei canali per irrigare tutto il suolo -; 7allora il Signore Dio plasmò l`uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l`uomo divenne un essere vivente.
8Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l`uomo che aveva plasmato. 9Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l`albero della vita in mezzo al giardino e l`albero della conoscenza del bene e del male.
15Il Signore Dio prese l`uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.

L’uomo è immagine di Dio per il mandato ricevuto dal suo Creatore di soggiogare, di dominare la terra. Nell’adempimento di tale mandato ogni essere umano riflette l’azione stessa del Creatore dell’universo.
Il lavoro suppone uno specifico dominio dell’uomo sulla «terra» ed a sua volta conferma e sviluppa questo dominio. Così quelle parole, poste all’inizio della Bibbia, non cessano mai di essere attuali. Esse abbracciano ugualmente tutte le epoche passate della civiltà e dell’economia, come tutta la realtà contemporanea e le fasi future dello sviluppo, le quali, in qualche misura, forse si stanno già delineando, ma in gran parte rimangono ancora per l’uomo quasi sconosciute e nascoste.
Se a volte si parla di periodi di «accelerazione» nella vita economica e nella civilizzazione dell’umanità o delle singole Nazioni, unendo queste «accelerazioni» al progresso della scienza e della tecnica e, specialmente, alle scoperte decisive per la vita socio-economica, si può dire al tempo stesso che nessuna di queste «accelerazioni» supera l’essenziale contenuto di ciò che è stato detto in questo antichissimo testo biblico. Diventando – mediante il suo lavoro – sempre di più padrone della terra, e confermando – ancora mediante il lavoro – il suo dominio sul mondo visibile, l’uomo, in ogni caso ed in ogni fase di questo processo, rimane sulla linea di quell’originaria disposizione del Creatore, la quale resta necessariamente e indissolubilmente legata al fatto che l’uomo è stato creato, come maschio e femmina, «a immagine di Dio». Questo processo è, al tempo stesso, universale ed insieme è un processo che si attua in ogni uomo, in ogni consapevole soggetto umano. Tutti e ciascuno sono contemporaneamente da esso abbracciati.
Tutti e ciascuno, in misura adeguata e in un numero incalcolabile di modi, prendono parte a questo gigantesco processo, mediante il quale l’uomo «soggioga la terra» col suo lavoro.

Questa universalità e, al tempo stesso, questa molteplicità del processo gettano luce sul lavoro umano, poiché il dominio dell’uomo sulla terra si compie nel lavoro e mediante il lavoro. Emerge così il significato del lavoro in senso oggettivo, il quale trova la sua espressione nelle varie epoche della cultura e della civiltà. L’agricoltura costituisce un campo primario dell’attività economica e un indispensabile fattore, mediante il lavoro umano, della produzione. L’industria, a sua volta, consisterà sempre nel coniugare le ricchezze della terra ed il lavoro dell’uomo, il lavoro fisico come quello intellettuale. Ciò vale anche nel campo della cosiddetta industria dei servizi, e in quello della ricerca, pura o applicata.
Oggi nell’industria e nell’agricoltura l’attività dell’uomo ha cessato in molti casi di essere un lavoro prevalentemente manuale, poiché la fatica delle mani e dei muscoli è aiutata dall’opera di macchine e di meccanismi sempre più perfezionati. Non soltanto nell’industria, ma anche nell’agricoltura, siamo testimoni delle trasformazioni rese possibili dal graduale e continuo sviluppo della scienza e della tecnica. E questo, nel suo insieme, è diventato storicamente una causa di grandi svolte della civiltà, dall’origine dell’«èra industriale» alle successive fasi di sviluppo per il tramite di nuove tecniche, come quelle dell’elettronica o dei microprocessori negli ultimi anni.
Se può sembrare che nel processo industriale «lavori» la macchina mentre l’uomo solamente attende ad essa, rendendo possibile e sostenendo in diversi modi il suo funzionamento, è anche vero che proprio per questo lo sviluppo industriale pone la base per riproporre in modo nuovo il problema del lavoro umano. Sia la prima industrializzazione che ha creato la cosiddetta questione operaia, sia i successivi cambiamenti industriali, dimostrano eloquentemente che, anche nell’epoca del «lavoro» sempre più meccanizzato, il soggetto proprio del lavoro rimane l’uomo.
Intesa in questo caso non come una capacità o una attitudine al lavoro, ma come un insieme di strumenti dei quali l’uomo si serve nel proprio lavoro, la tecnica è indubbiamente un’alleata dell’uomo. E’ un fatto, peraltro, che in alcuni casi la tecnica da alleata può anche trasformarsi quasi in avversaria dell’uomo, come quando la meccanizzazione del lavoro «soppianta» l’uomo, togliendogli ogni soddisfazione personale e lo stimolo alla creatività e alla responsabilità; quando sottrae l’occupazione a molti lavoratori prima impiegati, o quando, mediante l’esaltazione della macchina, riduce l’uomo ad esserne il servo.
La recente epoca della storia dell’umanità, e specialmente di alcune società, porta con sé una giusta affermazione della tecnica come un coefficiente fondamentale di progresso economico; al tempo stesso, però, con questa affermazione sono sorti e continuamente sorgono gli interrogativi essenziali riguardanti il lavoro umano in rapporto al suo soggetto, che è appunto l’uomo. Questi interrogativi racchiudono in sé una carica particolare di contenuti e di tensioni di carattere etico ed etico-sociale. E perciò essi costituiscono una sfida continua per molteplici istituzioni, per gli Stati e per i governi, per i sistemi e le organizzazioni internazionali; essi costituiscono anche una sfida per la Chiesa.

Per continuare l’analisi del lavoro legata alla parola della Bibbia, in forza della quale l’uomo deve soggiogare la terra, bisogna che concentriamo la nostra attenzione sul lavoro in senso soggettivo. L’uomo deve soggiogare la terra, la deve dominare, perché è una persona, cioè un essere capace di agire in modo programmato e razionale, capace di decidere di sé e tendere a realizzare se stesso. Come persona, l’uomo è quindi soggetto del lavoro.
Non c’è, quindi, alcun dubbio che il lavoro umano abbia un suo valore etico, il quale senza mezzi termini e direttamente rimane legato al fatto che colui che lo compie è una persona, un soggetto consapevole e libero, cioè un soggetto che decide di se stesso.
Il cristianesimo, ampliando alcuni aspetti propri già dell’Antico Testamento, ha operato una fondamentale trasformazione di concetti, partendo dall’intero contenuto del messaggio evangelico e soprattutto dal fatto che Gesù, il quale essendo Dio è divenuto simile a noi in tutto, dedicò la maggior parte degli anni della sua vita sulla terra al lavoro manuale, presso un banco di carpentiere. Questa circostanza costituisce da sola il più eloquente «Vangelo del lavoro», che manifesta come il fondamento per determinare il valore del lavoro umano non sia prima di tutto il genere di lavoro che si compie, ma il fatto che colui che lo esegue è una persona. Ciò vuol dire che il primo fondamento del valore del lavoro è l’uomo stesso. A ciò si collega subito una conclusione molto importante di natura etica: per quanto sia una verità che l’uomo è destinato ed è chiamato al lavoro, però prima di tutto il lavoro è «per l’uomo», e non l’uomo «per il lavoro». Dato questo modo di intendere, e supponendo che vari lavori compiuti dagli uomini possano avere un maggiore o minore valore oggettivo, cerchiamo tuttavia di porre in evidenza che ognuno di essi si misura soprattutto con il metro della dignità del soggetto stesso del lavoro, cioè della persona, dell’uomo che lo compie. A sua volta: indipendentemente dal lavoro che ogni uomo compie, e supponendo che esso costituisca uno scopo – alle volte molto impegnativo – del suo operare, questo scopo non possiede un significato definitivo per se stesso. Difatti, in ultima analisi, lo scopo del lavoro, di qualunque lavoro eseguito dall’uomo – fosse pure il lavoro più monotono, nella scala del comune modo di valutazione, addirittura più emarginante – rimane sempre l’uomo stesso.

Proprio queste affermazioni basilari sul lavoro sono sempre emerse dalle ricchezze della verità cristiana, specialmente dal messaggio stesso del «Vangelo del lavoro», creando il fondamento del nuovo modo di pensare, di valutare e di agire degli uomini. Nell’epoca moderna, fin dall’inizio dell’èra industriale, la verità cristiana sul lavoro doveva contrapporsi alle varie correnti del pensiero materialistico ed economicistico.
Ancora oggi per alcuni fautori di tali idee, il lavoro è inteso e trattato come una specie di «merce», che il lavoratore vende al datore di lavoro. Il pericolo di trattare il lavoro come una «merce», o come una anonima «forza» necessaria alla produzione, esiste sempre.
Uno stimolo per questo modo di pensare e di valutare è costituito dall’accelerato processo di sviluppo della civiltà unilateralmente materialistica, nella quale si dà prima di tutto importanza alla dimensione oggettiva del lavoro, mentre tutto ciò che è in rapporto indiretto o diretto con lo stesso soggetto del lavoro rimane su di un piano secondario. In tutti i casi di questo genere, in ogni situazione sociale di questo tipo avviene una confusione o, addirittura, un’inversione dell’ordine stabilito all’inizio con le parole del Libro della Genesi: l’uomo viene trattato come uno strumento di produzione, mentre egli dovrebbe essere trattato come suo soggetto efficiente e suo vero artefice e creatore.

Perciò, bisogna continuare a interrogarsi circa il soggetto del lavoro e le condizioni in cui egli vive. Per realizzare la giustizia sociale nelle varie parti del mondo, nei vari Paesi e nei rapporti tra di loro, sono necessari sempre nuovi movimenti di solidarietà degli uomini del lavoro e di solidarietà con gli uomini del lavoro. Tale solidarietà deve essere sempre presente là dove lo richiedono la degradazione sociale del soggetto del lavoro, lo sfruttamento dei lavoratori e le crescenti fasce di miseria e addirittura di fame. La Chiesa è impegnata in questa causa perché la considera come sua missione, suo servizio, come verifica della sua fedeltà a Cristo, onde essere veramente la «Chiesa dei poveri». E i «poveri» compaiono sotto diverse specie, in diversi posti e in diversi momenti; compaiono in molti casi come risultato della violazione della dignità del lavoro umano: sia perché vengono limitate le possibilità del lavoro – cioè per la piaga della disoccupazione -, sia perché vengono svalutati il lavoro ed i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua famiglia.

Ci conviene toccare, almeno sinteticamente, alcuni problemi che definiscono più da vicino la dignità del lavoro umano, poiché permettono di caratterizzare più pienamente il suo specifico valore morale. La fondamentale e primordiale intenzione di Dio nei riguardi dell’uomo, che Egli «creò … a sua somiglianza, a sua immagine», non è stata ritrattata né cancellata neppure quando l’uomo, dopo aver infranto l’originaria alleanza con Dio, udì le parole: «Col sudore del tuo volto mangerai il pane». Queste parole si riferiscono alla fatica a volte pesante, che da allora accompagna il lavoro umano; però, non cambiano il fatto che esso è la via sulla quale l’uomo realizza il «dominio», che gli è proprio, sul mondo visibile «soggiogando» la terra. Questa fatica è un fatto universalmente conosciuto, perché universalmente sperimentato. Lo sanno gli uomini del lavoro manuale, svolto talora in condizioni eccezionalmente gravose. Lo sanno, al tempo stesso, gli uomini legati al banco del lavoro intellettuale, lo sanno gli scienziati, lo sanno gli uomini sui quali grava la grande responsabilità imprenditoriale e dirigenziale. Lo sanno i medici e gli infermieri, che vigilano giorno e notte accanto ai malati. Lo sanno le donne,che, talora senza adeguato riconoscimento da parte della società e degli stessi familiari, portano ogni giorno la fatica e la responsabilità della casa e dell’educazione dei figli. Lo sanno tutti gli uomini del lavoro e, poiché è vero che il lavoro è una vocazione universale, lo sanno tutti gli uomini.
Il lavoro è un bene dell’uomo, perché mediante il lavoro l’uomo non solo trasforma la natura adattandola alle proprie necessità, ma anche realizza se stesso come uomo ed anzi, in un certo senso, «diventa più uomo».

Confermata in questo modo la dimensione personale del lavoro umano, si deve poi arrivare al fatto che il lavoro è il fondamento su cui si forma la vita familiare, la quale è un diritto naturale ed una vocazione dell’uomo. Questi due cerchi di valori – uno congiunto al lavoro, l’altro conseguente al carattere familiare della vita umana – devono unirsi tra sé correttamente e correttamente permearsi. Il lavoro è, in un certo modo, la condizione per rendere possibile la fondazione di una famiglia, poiché questa esige i mezzi di sussistenza, che in via normale l’uomo acquista mediante il lavoro. Lavoro e laboriosità condizionano anche tutto il processo di educazione nella famiglia, proprio per la ragione che ognuno «diventa uomo», fra l’altro, mediante il lavoro, e quel diventare uomo esprime appunto lo scopo principale di tutto il processo educativo.
Nell’insieme si deve ricordare ed affermare che la famiglia costituisce uno dei più importanti termini di riferimento, secondo i quali deve essere formato l’ordine socio-etico del lavoro umano. Infatti, la famiglia è, al tempo stesso, una comunità resa possibile dal lavoro e la prima interna scuola di lavoro per ogni uomo.

Lavoro: luogo di speranza?
La nostra realtà attuale:

lavoro precario
lavoro flessibile
contratti interinali
morti sul lavoro
delocalizzaione delle imprese
disoccupazione
concorrenza
formazione continua sistema scolastico all’altezza della domanda del mercato del lavoro
educazione al lavoro delle giovani generazioni
l’uscita dal ciclo produttivo degli over 40
la fatica di creare il lavoro
la fatica di rimanere sul mercato
la responsabilità sociale delle imprese
lavoro a misura di famiglia?

La speranza
La Chiesa è chiamata ad alimentare le speranze terrene con la speranza teologale, fondata sul Dio di Gesù Cristo. La caratteristica della speranza cristiana è quella di essere certa e conclusiva, diversamente dalle altre che pur hanno alla base la ricerca del bene per l’uomo in ogni sua dimensione. Prepararsi a vivere la Pasqua meditando il mistero cristiano come culmine e fonte della nostra speranza è fondamentale, ma anche estremamente concreto.
Questo rende ragione dell’approccio del cristiano ai problemi del mondo, compresi quelli del lavoro, che non è un approccio solo tecnico-funzionale, ma innanzitutto spirituale, inteso come “vita nello Spirito di Gesù Cristo”. Di fronte alle questioni complesse che anche il mondo del lavoro offre, l’approccio spirituale rimane, per il cristiano, la chiave di lettura, la via al discernimento autentico nella ricerca di soluzioni durature e per il bene dell’uomo a tutti quei problemi che sappiamo essere presenti sulla questione del lavoro umano.
Quando il giorno di Natale risuona l’annuncio della nascita del Verbo di Dio sappiamo bene quanto il termine “logos” si possa anche interpretare come il senso ultimo di tutta la creazione, Colui che dona il senso, il significato profondo, la prospettiva ad ogni dimensione dell’uomo, e noi oggi affermiamo anche alla dimensione del lavoro. L’annuncio di Pasqua conferma questo dato, esplicitando il metodo utilizzato da Dio per proclamare questa verità profonda confermata ed alimentata proprio dall’amore inesauribile di Gesù, dimostrato nell’avere donato la sua vita per noi, in modo gratuito e incondizionato. La morte e la risurrezione di Cristo sono la risposta concreta dell’amore di Dio per l’uomo, anche nella sua dimensione del lavoro, attraverso quell’aspetto, oggi non così popolare, della “gratuità” che rimane la chiave di lettura della vita cristiana e quindi, anche del lavoro. L’attività umana intesa come lavoro dipendente o autonomo o imprenditoriale può essere ricondotta all’aspetto vocazionale e all’esperienza della gratuità, intendendo in questo modo la giusta retribuzione come un diritto, un premio, ma non in grado di esaurire totalmente il valore e il suo significato dell’opera compiuta che sempre trascendono la il valore monetario. L’uomo al centro del lavoro significa, quindi, ricondurre l’opera umana all’interno di un mistero dove, ancora una volta, Dio è protagonista e fonte del suo senso più profondo e che si riconduce, ancora una volta, alla logica del dono quotidiano della vita.

Don Daniele Bortolussi
Direttore Ufficio Pastorale Sociale e del Lavoro

Publié dans:Approfondimenti, diocesi |on 25 septembre, 2009 |Pas de commentaires »

Cardinale Caffarra: “L’etica è la verità circa il bene dell’uomo”

dal sito:

http://www.cardinalrating.com/cardinal_213__article_9156.htm

Cardinale Caffarra: “L’etica è la verità circa il bene dell’uomo”

Sept 20, 2009

L’Arcivescovo di Bologna critica l’utilitarismo e incoraggia i medici a seguire la ragione etica

ROMA, martedì, 15 settembre 2009 (ZENIT.org).- Su invito della Società Medica Chirurgica di Bologna il 12 settembre, nella sala dello Stabat Mater dell’Archiginnasio, il Cardinale Carlo Caffarra ha tenuto una relazione sul tema “Ratio ethica e ratio technica: alleanza, separazione o conflitto?”.

“La questione del rapporto fra la ragione tecnica e la ragione etica – ha esordito l’Arcivescovo di Bologna – è uno dei nodi dell’attuale dibattito contemporaneo sull’uomo”.

Il Cardinale ha spiegato che l’abilità tecnica “dispone l’uomo a produrre bene”, mentre la sapienza pratica “dispone l’uomo ad agire bene”, cioè “a compiere quelle scelte che sono conformi al bene della persona come tale, e sono capaci di realizzare una buona vita umana”.

“La ragione etica – ha precisato il porporato -, non si accontenta di chiedere se l’azione che la persona umana sta per compiere è tecnicamente possibile, ma se è un’azione buona o cattiva, giusta o ingiusta”.

Dopo aver ribadito che “la logica etica è la logica della verità circa il bene della persona”, il Cardinale Caffarra si è opposto al luogo comune che vede la tecnica e l’etica come alternative.

Secondo l’Arcivescovo di Bologna “l’optare per l’una o per l’altra è sempre un impoverimento dell’uomo” e “una cultura che non coniuga assieme le due possibilità è una cultura povera”.

Per il Cardinale Caffarra, “ragione tecnica e ragione etica si propongono lo stesso fine: il bene della persona umana” e “la ragione etica è la ricerca del senso della vita”.

A fronte di queste evidenti realtà, l’Arcivescovo di Bologna ha denunciato la moderna pratica in cui “una tecnica insubordinata all’etica porta alla devastazione dell’humanum e del cosmo” con tecnicismo e scientismo che vengono utilizzati come “colpi mortali inferti alla ragione”.

A dimostrazione di questa deriva, il presule ha indicato la decisione del Consiglio di Amministrazione dell’AIFA (Agenzia del farmaco) di autorizzare il commercio della pillola abortiva RU486 come la “prassi di una tecnocrazia inappellabile”.

Il Cardinale Caffara si è detto convinto che il sequestro della ragione etica da parte della ragione tecnica, e l’avvento della tecnocrazia siano la diretta conseguenza “dell’ingresso nella coscienza europea della definizione dell’uomo come soggetto utilitario”.

L’utilitarismo è quindi la ragione prima di questa riduzione dell’umano.

In questo contesto l’Arcivescovo di Bologna si è appellato ai medici perché, come mostra il giuramento di Ippocrate, “la professione medica è l’incrocio della ragionevolezza etica con la ragionevolezza scientifico-tecnica”.

L’esercizio della professione medica, infatti, lungo i secoli è andata elaborando un suo codice etico – una sua deontologia – risultato della simultanea coniugazione e di ragionevolezza etica e di esperienza professionale.

Ma questa integrità socialmente condivisa e riconosciuta rischia – secondo il Cardinale Caffarra – di essere erosa e cancellata dalla mentalità utilitaristica, con la cessazione dell’alleanza terapeutica, tra medico e paziente, e una professione che si configura sempre più come prestazione d’opera per soddisfare un desiderio, un bisogno.

“Il sequestro della ragionevolezza etica da parte della ragionevolezza tecnica – ha sottolineato – non sta risparmiando la professione medica. Anzi, è uno dei luoghi in cui è più agevole vederne gli effetti devastanti [assieme al campo dell’attività economica]. Uno di questi è la degradazione della professione medica”.

“E la ‘sconfitta’ della ragione etica – ha affermato l’Arcivescovo -, è in realtà la sconfitta dell’uomo in quanto tale, la sua riduzione ad oggetto”.

“L’etica – ha concluso il Cardinale Caffarra – è la verità circa il bene dell’uomo – dell’uomo concreto, in carne ed ossa – perché Dio non è il Dio dei morti, ma il Dio dei viventi; e la suprema decisione cui è chiamata oggi la libertà dell’uomo è se considerare se stesso solo dal punto di vista del tempo o anche e soprattutto dal punto di vista dell’eternità. L’etica è il respiro dell’eternità nell’uomo”.

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