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GENESI 12,1-4A – COMMENTO BIBLICO

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GENESI 12,1-4A – COMMENTO BIBLICO

In quei giorni, 1 il Signore disse ad Abràm: « Vattene dal tuo paese, dalla tua patria e dalla casa di tuo padre, verso il paese che io ti indicherò. 2 Farò di te un grande popolo e ti benedirò, renderò grande il tuo nome e diventerai una benedizione.
3 Benedirò coloro che ti benediranno e coloro che ti malediranno maledirò e in te si diranno benedette tutte le famiglie della terra ».
4 Allora Abràm partì, come gli aveva ordinato il Signore.

COMMENTO
Genesi 12,1-4a

La chiamata di Abramo
Nella seconda parte della Genesi (Gn 12-50) si narrano le vicende dei Patriarchi, i quali sono presentati non solo come i progenitori, ma anche come i modelli di Israele nel suo rapporto con Dio. Il primo di essi è Abram, al quale verrà poi cambiato il nome in Abraham (Abramo: cfr. Gn 17,5). Abramo non è soltanto il primo dei patriarchi ma è anche quello che ha suscitato maggiore interesse nella riflessione religiosa di Israele. Nel ciclo a lui dedicato (Gn 12,1 – 25,18) si nota però una sproporzione tra la lunghezza del racconto e la povertà del materiale narrativo in esso contenuto. In realtà la storia di Abramo è costruita mediante un accavallarsi di racconti che spesso non sono altro che narrazioni dello stesso fatto desunte da diverse tradizioni. Molti racconti sono eziologie riguardanti l’origine di un luogo di culto. Dio è presentato come colui che dirige gli avvenimenti, entrando personalmente in scena e manifestando direttamente il suo volere.
Nelle vicende di Abramo si intrecciano due temi di grandissima importanza, quello relativo alle promesse divine e quello della fede con cui l’uomo si apre a Dio e alla sua iniziativa salvifica. La fede di Abramo è presentata non come qualcosa di perfetto fin dall’inizio ma piuttosto come un atteggiamento interiore che si sviluppa e giunge a maturazione attraverso difficoltà e prove, cadute e riprese coraggiose.
La vicenda di Abramo si apre con la sua chiamata da parte di Dio. Questa è presentata in un testo probabilmente di origine piuttosto tardiva (Gn 12,1-9) come l’atto di nascita di Israele. La liturgia ne riprende solo i primi versetti. Dio si rivolge ad Abramo con queste parole: «Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre verso la terra che io ti indicherò» (v. 1). Praticamente Dio gli chiede di abbandonare tutti i suoi legami naturali: patria, clan, famiglia. A quel tempo ciò significava trovarsi soli di fronte a un mondo ostile e pieno di pericoli (cfr. Gn 4,14). Dio inoltre chiede ad Abram di avviarsi verso un paese di cui non gli indica il nome e l’ubicazione. Il lettore può supporre che si tratti della terra di Canaan, verso la quale si era diretto Terach con la sua famiglia (cfr. 11,31), ma Dio non lo dice, e neppure spiega quale sarà il suo rapporto con tale paese. Ad Abramo non resta altro che andare verso l’ignoto, lasciandosi guidare ciecamente da Dio.
Alle richieste divine corrispondono due promesse. Anzitutto Abramo sarà il progenitore di un grande popolo. Umanamente parlando questa promessa non è realizzabile, perché, come il narratore ha annotato poco prima (Gn 11,30), la moglie di Abramo, Sarai, è sterile. Inoltre Dio benedirà Abramo, cioè, secondo la mentalità biblica, lo riempirà di favori e di benessere sia in campo materiale che spirituale. Inoltre renderà grande il suo nome, cioè lo renderà celebre: la grandezza del nome va di pari passo con il possesso di un grande potere. Questa promessa si aggancia al racconto della torre di Babele, dove si dice che l’umanità, ancora indivisa, aveva voluto farsi un nome, e con esso una potenza, mediante la costruzione della torre (cfr. Gn 11,4), e proprio per questo era stata dispersa: per volontà di Dio Abramo diventerà strumento di quell’unità che gli uomini avevano invano cercato di ottenere. Ciò non avrà però lo scopo di aumentare il suo potere, ma di realizzare un bene che viene da Dio e riguarda tutti.
Inoltre Dio farà di Abramo una benedizione. Questa promessa viene specificata in due affermazioni. Anzitutto Dio benedirà quelli che lo benediranno, e maledirà quelli che lo malediranno. Ciò significa che Abramo troverà in Dio la sua costante protezione, in quanto coloro che vorranno fargli del male saranno immediatamente puniti da Dio. Inoltre in lui tutte le famiglie della terra «si diranno benedette», cioè si augureranno l’una all’altra di essere benedette come Abramo (cfr. Gn 48,20); questa promessa ha un’apertura universalistica, che è resa esplicita nella traduzione greca dei LXX e nelle citazioni del NT, dove l’espressione «In te si diranno benedette» è tradotta «In te saranno benedette». Il nome di Abramo viene dunque usato per benedire e, di conseguenza, la benedizione di Abramo passerà a una moltitudine sterminata di gente. È chiaro che ciò avverrà mediante la sua discendenza. Questa promessa è in stridente contrasto con l’insicurezza a cui Abramo deve andare incontro lasciando la propria famiglia e con il fatto che egli non può avere un figlio.
Di fronte alla richiesta e alle promesse divine, Abramo non parla ma si mette in viaggio portando con sé il nipote Lot (v. 4a). In tal modo Abramo è presentato come il modello di una fede radicale nella parola di Dio.
A queste informazioni la tradizione sacerdotale ne aggiunge altre che non sono riprese dalla liturgia: Abramo aveva allora settantacinque anni e, lasciata Carran con la moglie, il nipote e tutti i suoi beni, giunse nella terra di Canaan (vv. 4b-5): in base ai dati riportati precedentemente (cfr. Gn 11,26.32) risulta che Abramo ha dovuto effettivamente separarsi da suo padre Terach che, al momento della sua partenza, era ancora vivo. La migrazione di Abramo richiama da vicino quella dei giudei ritornati nella loro terra al termine dell’esilio.
Il racconto continua con l’arrivo di Abramo a Sichem, presso la Quercia di More; il narratore annota che «nel paese si trovavano allora i cananei» (v. 6b). È solo in questo momento che Dio fa ad Abramo la terza promessa, quella cioè di dare proprio quella terra alla sua discendenza (v. 7). Anche qui si nota un evidente contrasto tra la promessa divina e l’impossibilità, umanamente parlando, che essa si attui. Per gli esuli, che vedevano tutte le difficoltà di un ritorno in quella che consideravano come la loro patria, doveva essere di grande incoraggiamento il potersi rifare a questa promessa totalmente gratuita di cui era portatore il loro lontano antenato. Ancora una volta Abramo tace. Ma proprio in quel luogo costruisce un altare al Signore. Poi si sposta verso sud e si accampa vicino a Betel, dove costruisce un altro altare e invoca il nome di JHWH; infine scende nel deserto del Negev e vi si stabilisce. Questi altari, eretti in una terra abitata da popolazioni straniere, sono piccoli segni di una fede che resiste alla prova e sa attendere che Dio attui le promesse.

Linee interpretative
La chiamata di Abramo ha tutte le caratteristiche dei numerosi racconti di vocazione che si trovano nella Bibbia. Essa mette in luce un progetto divino in base al quale verrà ridata a tutta l’umanità la salvezza (benedizione) persa col peccato. Dio conferisce dunque ad Abramo e, per mezzo suo, al popolo che nascerà da lui non un privilegio, ma un servizio di ampiezza universale. La benedizione che gli è promessa consiste in un grande benessere materiale, che viene visto come conseguenza di una vita giusta. È proprio questo benessere materiale che fa di lui il modello del giusto che attua nella sua vita una totale sottomissione a Dio e per questo viene riempito di doni da parte sua.
Nella risposta silenziosa del patriarca appaiono i connotati essenziali di una autentica esperienza di fede: ascolto, abbandono delle proprie sicurezze, fiducia, disponibilità a mettersi in cammino. Il suo atteggiamento non ha nulla però di una sottomissione cieca e meccanica. L’obbedienza a un comando preciso è una metafora per indicare la sua piena partecipazione a un progetto divino che lo supera, che forse non capisce fino in fondo, ma che dà un senso alle sue scelte di vita. Questo progetto consiste nella nascita di una nuova umanità il cui collante non sarà il potere ma l’amore. L’obbedienza incondizionata a questo progetto dovrà essere la caratteristica fondamentale del popolo che da lui nascerà. In questa prospettiva appare chiaro che non solo per Abramo, ma anche per tutti gli israeliti l’elezione ha senso unicamente se comporta la ricerca di un modo di essere che diventi esempio e modello per tutta l’umanità.

BRANO BIBLICO SCELTO – 2 MACCABEI 7,1-2.9-14

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BRANO BIBLICO SCELTO – 2 MACCABEI 7,1-2.9-14

In quei giorni, 1 ci fu il caso di sette fratelli che, presi insieme alla loro madre, furono costretti dal re a forza di flagelli e nerbate a cibarsi di carni suine proibite.
2 Il primo di essi, facendosi interprete di tutti, disse al re: « Che cosa cerchi di indagare o sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le patrie leggi ». 9 E il secondo, giunto all’ultimo respiro, disse: « Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re del mondo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna ».
10 Dopo torturarono il terzo, che alla loro richiesta mise fuori prontamente la lingua e stese con coraggio le mani 11 e disse dignitosamente: « Da Dio ho queste membra e, per le sue leggi, le disprezzo, ma da lui spero di riaverle di nuovo »; 12 così lo stesso re e i suoi dignitari rimasero colpiti dalla fierezza del giovinetto, che non teneva in nessun conto le torture.
13 Fatto morire anche questo, si misero a straziare il quarto con gli stessi tormenti. 14 Ridotto in fin di vita, egli diceva: « È bello morire a causa degli uomini, per attendere da Dio l’adempimento delle speranze di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te la risurrezione non sarà per la vita »

COMMENTO
2 Maccabei 7,1-2.9-14

Martirio e risurrezione
Il secondo libro dei Maccabei si presenta come il riassunto dell’opera in cinque libri di Giasone di Cirene, andata persa. In esso viene preso in considerazione il periodo che va dal 180 al 160 a.C., cioè dal tempo del sommo sacerdote Onia III fino alla morte di Nicanore, generale di Demetrio I re di Siria. In pratica vengono narrate, sotto un’altra angolatura, solo le gesta di Giuda Maccabeo, già raccontate da 1Mac 1-9. L’autore mette in evidenza i compromessi della classe dirigente giudaica e la costanza dei martiri che si oppongono all’imposizione dei governanti con coraggio e costanza, nella speranza di ottenere un giorno da Dio la resurrezione dei loro corpi.
All’inizio sono narrati alcuni episodi riguardanti i rapporti con la Siria e l’introduzione degli usi greci da parte di Antioco IV Epifane (2Mac 3,1-6,17). Sono poi presentati due episodi di fedeltà alla fede: il primo narra del vecchio Eleazaro, uno scriba novantenne, che accetta di morire soffrendo atroci dolori pur di non mangiare carni suine (2Mac 6,18-31); il secondo è la storia di sette fratelli che hanno preferito morire piuttosto che tradire la loro fede (2Mac 7). Il brano liturgico riporta una parte di questo capitolo. Esso comincia prospettando il caso di questi giovinetti che sono portati con la mamma davanti al re in persona, il quale vuole costringerli a mangiare carne di maiale. A nome di tutti uno di loro dice: «Che cosa cerchi o vuoi sapere da noi? Siamo pronti a morire piuttosto che trasgredire le leggi dei padri» (vv. 1-2).
Nel brano successivo (vv. 3-8), omesso dalla liturgia, si racconta che il re comanda subito di tagliare la lingua a quello che si era fatto loro portavoce, di scorticarlo e tagliargli le estremità, sotto gli occhi degli altri fratelli e della madre e poi di accostarlo al fuoco e di arrostirlo. Nel frattempo gli altri si esortavano a vicenda e con la loro madre a morire da forti.
Viene poi la volta del secondo il quale subisce gli stessi tormenti del primo. Interrogato se è disposto a mangiare la carne suina, dice al re: «Tu, o scellerato, ci elimini dalla vita presente, ma il re dell’universo, dopo che saremo morti per le sue leggi, ci risusciterà a vita nuova ed eterna» (v. 9). Viene poi portato al re il terzo che, alla sua richiesta, mette fuori la lingua e stende con coraggio le mani dicendo: «Dal Cielo ho queste membra e per le sue leggi le disprezzo, perché da lui spero di riaverle di nuovo» (vv. 10-11). Lo stesso re e i suoi dignitari rimangono colpiti dalla fierezza di questo giovane, che non teneva in nessun conto le torture (v. 12). Anche il quarto, straziato con gli stessi tormenti, in punto di morte dice: «È preferibile morire per mano degli uomini, quando da Dio si ha la speranza di essere da lui di nuovo risuscitati; ma per te non ci sarà davvero risurrezione per la vita» (v. 14).

Linee interpretative
Il martirio dei sette fratelli viene presentato come l’unico mezzo che consente di essere fedeli a Dio, rifiutando le lusinghe del re che si dichiara disposto a dare i più grandi privilegi a chi accetta di rinnegare la sua fede anche solo mediante il semplice gesto di mangiare carne proibita. Il fatto che vi siano persone capaci di resistere fino in fondo alle richieste del re è visto come l’unico mezzo per preservare il popolo dalla rovina. Alla fine la violenta persecuzione lascia il posto alla rivincita, che ha luogo non tanto per la prodezza dei combattenti quanto piuttosto per l’eroismo dei martiri.
È precisamente nell’ambito della persecuzione che si comincia a pensare che i giusti, i quali hanno dato la vita per la loro fede, alla fine dei tempi, quando il popolo entrerà nella pienezza della comunione con Dio, usciranno dal regno dei morti e torneranno in vita per partecipare alla felicità dei loro fratelli. Non si tratta dunque di un ritorno alla vita di questo mondo, ma dell’ingresso nel regno di Dio in vista del quale i martiri hanno saputo donare la propria vita. Il fatto di riavere le proprie membra è quindi un’espressione simbolica per indicare la nuova vita che comporta l’attuazione di quei valori che i martiri hanno identificato con le leggi del loro popolo.

 

PAPA FRANCESCO – 31. IL PERDONO SULLA CROCE (CFR LC 23,39-43)

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PAPA FRANCESCO – 31. IL PERDONO SULLA CROCE (CFR LC 23,39-43)

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro

Mercoledì, 28 settembre 2016

31. Il Perdono sulla croce (cfr Lc 23,39-43)

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Le parole che Gesù pronuncia durante la sua Passione trovano il loro culmine nel perdono. Gesù perdona: «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34). Non sono soltanto parole, perché diventano un atto concreto nel perdono offerto al “buon ladrone”, che era accanto a Lui. San Luca racconta di due malfattori crocifissi con Gesù, i quali si rivolgono a Lui con atteggiamenti opposti. Il primo lo insulta, come lo insultava tutta la gente, come fanno i capi del popolo, ma questo povero uomo, spinto dalla disperazione dice: «Non sei tu il Cristo? Salva te stesso e noi!» (Lc 23,39). Questo grido testimonia l’angoscia dell’uomo di fronte al mistero della morte e la tragica consapevolezza che solo Dio può essere la risposta liberatrice: perciò è impensabile che il Messia, l’inviato di Dio, possa stare sulla croce senza far nulla per salvarsi. E non capivano, questo. Non capivano il mistero del sacrificio di Gesù. E invece Gesù ci ha salvati rimanendo sulla croce. Tutti noi sappiamo che non è facile “rimanere sulla croce”, sulle nostre piccole croci di ogni giorno. Lui, in questa grande croce, in questa grande sofferenza, è rimasto così e lì ci ha salvati; lì ci ha mostrato la sua onnipotenza e lì ci ha perdonati. Lì si compie la sua donazione d’amore e scaturisce per sempre la nostra salvezza. Morendo in croce, innocente tra due criminali, Egli attesta che la salvezza di Dio può raggiungere qualunque uomo in qualunque condizione, anche la più negativa e dolorosa. La salvezza di Dio è per tutti, nessuno escluso. E’ offerta a tutti. Per questo il Giubileo è tempo di grazia e di misericordia per tutti, buoni e cattivi, quelli che sono in salute e quelli che soffrono. Ricordatevi quella parabola che racconta Gesù sulla festa dello sposalizio di un figlio di un potente della terra: quando gli invitati non hanno voluto andare, dice ai suoi servitori: «Andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze» (Mt 22,9). Tutti siamo chiamati: buoni e cattivi. La Chiesa non è soltanto per i buoni o per quelli che sembrano buoni o si credono buoni; la Chiesa è per tutti, e anche preferibilmente per i cattivi, perché la Chiesa è misericordia. E questo tempo di grazia e di misericordia ci fa ricordare che nulla ci può separare dall’amore di Cristo! (cfr Rm 8,39). A chi è inchiodato su un letto di ospedale, a chi vive chiuso in una prigione, a quanti sono intrappolati dalle guerre, io dico: guardate il Crocifisso; Dio è con voi, rimane con voi sulla croce e a tutti si offre come Salvatore a tutti noi. A voi che soffrite tanto dico, Gesù è crocifisso per voi, per noi, per tutti. Lasciate che la forza del Vangelo penetri nel vostro cuore e vi consoli, vi dia speranza e l’intima certezza che nessuno è escluso dal suo perdono. Ma voi potete domandarmi: “Ma mi dica, Padre, quello che ha fatto le cose più brutte nella vita, ha possibilità di essere perdonato?” – “Sì! Sì: nessuno è escluso dal perdono di Dio. Soltanto deve avvicinarsi pentito a Gesù e con la voglia di essere da Lui abbracciato”. Questo era il primo malfattore. L’altro è il cosiddetto “buon ladrone”. Le sue parole sono un meraviglioso modello di pentimento, una catechesi concentrata per imparare a chiedere perdono a Gesù. Prima, egli si rivolge al suo compagno: «Non hai alcun timore di Dio, tu che sei condannato alla stessa pena?» (Lc 23,40). Così pone in risalto il punto di partenza del pentimento: il timore di Dio. Ma non la paura di Dio, no: il timore filiale di Dio. Non è la paura, ma quel rispetto che si deve a Dio perché Lui è Dio. E’ un rispetto filiale perché Lui è Padre. Il buon ladrone richiama l’atteggiamento fondamentale che apre alla fiducia in Dio: la consapevolezza della sua onnipotenza e della sua infinita bontà. E’ questo rispetto fiducioso che aiuta a fare spazio a Dio e ad affidarsi alla sua misericordia. Poi, il buon ladrone dichiara l’innocenza di Gesù e confessa apertamente la propria colpa: «Noi, giustamente, perché riceviamo quello che abbiamo meritato per le nostre azioni; egli invece non ha fatto nulla di male» (Lc 23,41). Dunque Gesù è lì sulla croce per stare con i colpevoli: attraverso questa vicinanza, Egli offre loro la salvezza. Ciò che è scandalo per i capi e per il primo ladrone, per quelli che erano lì e si facevano beffa di Gesù, questo invece è fondamento della sua fede. E così il buon ladrone diventa testimone della Grazia; l’impensabile è accaduto: Dio mi ha amato a tal punto che è morto sulla croce per me. La fede stessa di quest’uomo è frutto della grazia di Cristo: i suoi occhi contemplano nel Crocifisso l’amore di Dio per lui, povero peccatore. È vero, era ladrone, era un ladro, aveva rubato tutta la vita. Ma alla fine, pentito di quello che aveva fatto, guardando Gesù così buono e misericordioso è riuscito a rubarsi il cielo: è un bravo ladro, questo! Il buon ladrone si rivolge infine direttamente a Gesù, invocando il suo aiuto: «Gesù, ricordati di me quando entrerai nel tuo regno» (Lc 23,42). Lo chiama per nome, “Gesù”, con confidenza, e così confessa ciò che quel nome indica: “il Signore salva”: questo significa il nome “Gesù”. Quell’uomo chiede a Gesù di ricordarsi di lui. Quanta tenerezza in questa espressione, quanta umanità! E’ il bisogno dell’essere umano di non essere abbandonato, che Dio gli sia sempre vicino. In questo modo un condannato a morte diventa modello del cristiano che si affida a Gesù. Un condannato a morte è un modello per noi, un modello per un uomo, per un cristiano che si affida a Gesù; e anche modello della Chiesa che nella liturgia tante volte invoca il Signore dicendo: “Ricordati… Ricordati del tuo amore …”. Mentre il buon ladrone parla al futuro: «quando entrerai nel tuo regno», la risposta di Gesù non si fa aspettare; parla al presente: «oggi sarai con me nel paradiso» (v. 43). Nell’ora della croce, la salvezza di Cristo raggiunge il suo culmine; e la sua promessa al buon ladrone rivela il compimento della sua missione: cioè salvare i peccatori. All’inizio del suo ministero, nella sinagoga di Nazaret, Gesù aveva proclamato «la liberazione ai prigionieri» (Lc 4,18); a Gerico, nella casa del pubblico peccatore Zaccheo, aveva dichiarato che «il Figlio dell’uomo – cioè Lui – è venuto a cercare e a salvare ciò che era perduto» (Lc 19,9). Sulla croce, l’ultimo atto conferma il realizzarsi di questo disegno salvifico. Dall’inizio alla fine Egli si è rivelato Misericordia, si è rivelato incarnazione definitiva e irripetibile dell’amore del Padre. Gesù è davvero il volto della misericordia del Padre. E il buon ladrone lo ha chiamato per nome: “Gesù”. È una invocazione breve, e tutti noi possiamo farla durante la giornata tante volte: “Gesù”. “Gesù”, semplicemente. E così fatela durante tutta la giornata.

BRANO BIBLICO SCELTO – COLOSSESI 2,12-14

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BRANO BIBLICO SCELTO – COLOSSESI 2,12-14

Fratelli, 12 con Cristo siete stati sepolti nel battesimo, in lui siete anche stati insieme risuscitati per la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti.  13 Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti per i vostri peccati e per l’incirconcisione della vostra carne, perdonandoci tutti i peccati, 14 annullando il documento scritto del nostro debito, le cui condizioni ci erano sfavorevoli. Egli lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce.

COMMENTO Colossesi 2,12-14

Battesimo e perdono dei peccati L’esordio dello scritto ai Colossesi (Col 1,1-23) termina con una enunciazione dei temi che l’autore intende trattare. Essi sono: l’opera di Cristo per la santità dei credenti, la fedeltà al vangelo ricevuto, il vangelo annunziato da Paolo (cfr. 1,21-23). L’ultimo di questi temi è quello trattato per primo (1,24 – 2,5). Successivamente l’autore affronta il secondo tema, che riguarda la fedeltà al vangelo (2,6-23) e infine si concentra sull’opera di Cristo per la santità dei credenti (3,1 – 4,1). Al centro del secondo di questi tre sviluppi Paolo pone alcuni spunti cristologici, riguardanti il rapporto che i credenti hanno con Cristo (2,9-15). Nel testo liturgico è ripresa la parte finale di questo brano. Il pensiero in esso contenuto si sviluppa in due momenti: il battesimo con Cristo (v. 12); il perdono dei peccati (vv. 13-14).

Il battesimo con Cristo (v. 12) Prima di parlare del battesimo, l’autore si rivolge ai suoi interlocutori in seconda persona plurale. Ciò significa che egli suppone di avere di fronte un pubblico di gentili diventati cristiani. Egli afferma che in Gesù abita tutta la pienezza della divinità ed essi hanno avuto parte alla sua pienezza, che fa di lui il capo di ogni principato e di ogni potestà (Col 2,9-10). Egli continua, sempre  usando la seconda persona plurale, sottolineando che in lui essi hanno ricevuto non una circoncisione fatta da mano di uomo mediante la spogliazione del corpo di carne, cioè la circoncisione fisica, ma la vera circoncisione di Cristo (Col 2,11; cfr. Ef 2,11). Egli spiega poi in che cosa consiste la circoncisione di Cristo: «Con lui infatti siete stati sepolti nel battesimo, con lui siete anche risorti mediante la fede nella potenza di Dio, che lo ha risuscitato dai morti» (v. 12). Diversamente dalla circoncisione fisica, la «circoncisione di Cristo» ha luogo in rapporto con Cristo e in unione con lui. Essa consiste nel battesimo, che è presentato da Paolo, nella polemica contro i giudaizzanti, come la vera circoncisione (cfr. Fil 3,3). L’autore di Colossesi riprende questa immagine definendo il battesimo come un essere sepolti con Cristo, cioè come una partecipazione alla sua morte, e come una risurrezione con lui. È chiara l’allusione al rito del battesimo come immersione nella morte e risurrezione di Cristo di cui parla Paolo in Rm 6,3-4. L’autore di Colossesi sottolinea che ciò è avvenuto per mezzo della fede, non direttamente in Cristo, come avrebbe detto Paolo, ma nella potenza di Dio che lo ha risuscitato dai morti. La risurrezione, sia di Cristo che dei credenti, è dunque opera della potenza di Dio. Inoltre la risurrezione del credente viene presentata come un evento ormai realizzato (cfr. Col 3,1-4), mentre per Paolo era ancora un evento futuro (cfr. Rm 6,5). Nel contesto della crisi determinata dal ritardo della parusia, cioè del ritorno di Cristo, si tende a presentare la partecipazione alla risurrezione di Cristo come una realtà che non riguarda un futuro non precisabile, ma che è già presente e operante. I gentili diventati cristiani non hanno dunque bisogno del rito della circoncisione, che i falsi dottori di ispirazione giudaizzante volevano imporre loro, perché hanno il battesimo, che fin d’ora li fa partecipi della vita gloriosa di Cristo risorto.

Il perdono dei peccati (vv. 13-14) li effetti del battesimo vengono così descritti: «Con lui Dio ha dato vita anche a voi, che eravate morti a causa delle colpe e della non circoncisione della vostra carne, perdonandoci tutte le colpe e annullando il documento scritto contro di noi che, con le prescrizioni, ci era contrario: lo ha tolto di mezzo inchiodandolo alla croce» (vv. 13-14). Prima di diventare cristiani, i gentili erano morti a causa delle loro colpe e della loro incirconcisione. L’idea qui espressa si richiama chiaramente a Gal 2,15 dove Paolo definisce così la differenza tra giudei e gentili: «Noi che per natura siamo giudei, e non peccatori dalle genti…» (cfr. Ef 2,11): la circoncisione pone dunque in un mondo a parte, che contrasta con quello dei gentili dominati dal peccato, pur essendo fuori discussione che tutti, giudei e gentili, hanno bisogno di essere giustificati in Cristo. Perciò a questo punto l’autore della lettera passa dalla seconda alla prima persona plurale e afferma che noi tutti, giudei e gentili, abbiamo ricevuto in Cristo il perdono dei loro peccati. Egli descrive poi questo perdono simbolicamente come un annullare, cioè togliere valore, a un «documento scritto» (cheirographon), contenente delle «prescrizioni» (dogmata, clausole), il quale era contro di noi. E aggiunge che questo documento è stato inchiodato alla croce.  In questa frase non è chiaro che cosa l’autore intenda per «documento scritto». Normalmente si pensa che si tratti dell’elenco dei debiti, cioè delle colpe commesse, che stanno contro l’umanità non ancora giustificata come un atto d’accusa. Esse sarebbero state annullate per mezzo della croce di Cristo. Spesso si aggiunge che Cristo avrebbe annullato il nostro debito prendendo su di sé la pena che sarebbe spettata a noi. Ma è meglio ritenere che l’autore riprenda qui la polemica di Paolo nei confronti della legge, di cui i falsi dottori volevano forse imporre la pratica ai cristiani di Colosse. Alla luce delle argomentazioni paoline, egli presenta qui la legge come un documento scritto contenete precetti  che sono contro di noi, perché in quanto peccatori non siamo in grado di praticarli. Questa interpretazione è confermata dal confronto con la lettera sorella agli Efesini dove si dice che Cristo ha fatto di giudei e gentili un popolo solo, abbattendo il muro di separazione che era frammezzo, cioè l’inimicizia, «annullando, per mezzo della sua carne, la legge fatta di prescrizioni e di decreti (dogmata)…» (Ef 2,15). Portando all’estremo il discorso di Paolo, egli affermerebbe allora che la legge è stata eliminata da Dio stesso mediante la croce di Cristo in quanto, a causa del perdono e della vita nuova che egli ci ha dato in lui, essa non è più necessaria per far sì che l’uomo compia la volontà di Dio. Al termine del brano, nell’ultima parte omessa dalla liturgia, l’autore afferma che, così facendo, Dio ha spogliato i principati e le potestà e ne ha fatto pubblico spettacolo, trionfando su di loro in Cristo. Questa frase deve essere collegata con l’affermazione, contenuta nell’inno cristologico (Col 1,16), secondo cui i principati e le potestà sono stati creati per mezzo di Cristo. Si tratta probabilmente di quelle potenze spirituali che si riteneva avessero un potere tutelare nei confronti della legge e si servissero di essa per esercitare il loro potere sull’umanità peccatrice. Una volta che la legge è stata eliminata, anch’esse perdono il loro potere e vengono trascinate nel corteo trionfale di Cristo, cioè sono assoggettate a lui. Probabilmente l’autore si riferisce qui ai colossesi che, in nome di queste potenze, venivano attirati all’adesione alla legge mosaica.

Linee interpretative

L’autore di questo brano riprende temi paolini in funzione di comunità formate da gentili divenuti cristiani, i quali subiscono forti pressioni per aderire a una forma di religione nella quale svolge ancora un ruolo determinante la circoncisione e l’osservanza della legge come mezzo per stabilire un rapporto autentico con Dio. Egli vuole far loro capire che la circoncisione, pur avendo caratterizzato il popolo di Dio, or non ha più nessun valore. È attraverso l’adesione a Cristo, significata nel battesimo, che il credente riceve la partecipazione alla vita nuova di Cristo, e di conseguenza i suoi peccati sono perdonati. Il perdono di Dio non è solo una realtà intellettuale, ma piuttosto fa scattare la molla dell’impegno per compiere la volontà di Dio. In questa prospettiva non ha più senso parlare di legge. Questa aveva importanza solo prima del battesimo, in quanto metteva come dei paletti oltre i quali non si poteva andare. Ma ormai questo ruolo, in gran parte inefficace, è finito. Con la sua morte in croce Gesù ha aperto nuove prospettive che non hanno più nulla a che fare con la legge e con il peccato. Questo discorso sul peccato e sul perdono mette in luce l’importanza della fede e del battesimo ai fini di condurre una vita santa. Per l’uomo peccatore l’esistenza di una legge fa sì che egli sia coinvolto nella spirale peccato – legge – castigo. Chi si trova in questo circolo vizioso è sottoposto ai poteri che dominano il mondo, primi fra tutti il potere economico e politico. La morte di Cristo in croce, provocando il perdono di quelli che credono in lui, vince anche i poteri che dominano la società. È vero, non si tratta ancora di una vittoria piena e definitiva. Ma è proprio mediante coloro che credono in lui che Gesù continua a mettere un limite ai poteri di questo mondo e, in prospettiva escatologica, li destina ad essere sottomessi a lui. Il Paolo storico avrebbe parlato piuttosto di una distruzione dei poteri (cfr. 1Cor 15,25-27)

 

ESODO 3,1-8A.13-15 – COMMENTO BIBLICO

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ESODO 3,1-8A.13-15 – COMMENTO BIBLICO

1 In quei giorni, Mosè stava pascolando il gregge di Ietro, suo suocero, sacerdote di Madian, e condusse il bestiame oltre il deserto e arrivò al monte di Dio, l’Oreb. 2 L’angelo del Signore gli apparve in una fiamma di fuoco in mezzo a un roveto. Egli guardò ed ecco: il roveto ardeva nel fuoco, ma quel roveto non si consumava. 3 Mosè pensò: « Voglio avvicinarmi a vedere questo grande spettacolo: perché il roveto non brucia? ». 4 Il Signore vide che si era avvicinato per vedere e Dio lo chiamò dal roveto e disse: « Mosè, Mosè! ». Rispose: « Eccomi! ». 5 Riprese: « Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa! ». 6 E disse: « Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe ». Mosè allora si velò il viso, perché aveva paura di guardare verso Dio. 7 Il Signore disse: « Ho osservato la miseria del mio popolo in Egitto e ho udito il suo grido a causa dei suoi sorveglianti; conosco infatti le sue sofferenze. 8 Sono sceso per liberarlo dalla mano dell’Egitto e per farlo uscire da questo paese verso un paese bello e spazioso, verso un paese dove scorre latte e miele. 13 Mosè disse a Dio: « Ecco io arrivo dagli Israeliti e dico loro: il Dio dei vostri padri mi ha mandato a voi. Ma mi diranno: Come si chiama? E io che cosa risponderò loro? ». 14 Dio disse a Mosè: « Io sono colui che sono! ». Poi disse: « Dirai agli Israeliti: « Io-Sono » mi ha mandato a voi ». 15 Dio aggiunse a Mosè: « Dirai agli Israeliti: il Signore, il Dio dei vostri padri, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe mi ha mandato a voi. Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione ».

COMMENTO Esodo 3,1-8a.13-15 La vocazione di Mosè Nella prima parte dell’Esodo si narra che i figli di Israele, arrivati nel paese del Nilo come un piccolo clan in cerca di rifugio a causa di una carestia, si sono moltiplicati e i loro discendenti sono stati sottoposti dai faraoni a duri lavori (Es 1). Dio allora salva Mosè dalle acque e lo chiama, conferendogli l’incarico di liberare il popolo (Es 2,1-7,7); dopo una serie di piaghe dolorose inflitte da Dio agli egiziani (Es 7,8-13,16), gli israeliti escono dall’Egitto e giungono nelle vicinanze del monte Sinai (Es 13,17-18,27). Il secondo periodo di spostamenti nel deserto è narrato in Nm 11-36. L’intervento divino in favore del popolo oppresso ha inizio con la vocazione di Mosè (Es 3,1-15). Questo episodio, narrato con materiale tradizionale, è modellato secondo lo schema tipico delle vocazioni bibliche: apparizione divina, missione, obiezione del pre­scelto, conferimento di un segno (cfr. Gdc 6,11-24; 13,1-25).

La visione di Mosè (vv. 1-12) Mosè attraversa il deserto con il gregge del suocero, che qui viene chiamato Ietro (cfr. Es 18,1), e giunge al «monte di Dio»: questo appellativo deriva dal fatto che qui avrà luogo la teofania, ma è possibile che già precedentemente vi fosse un santuario dedicato a qualche divinità. Il monte è chiamato Oreb secondo l’uso soprattutto del Deuteronomio, mentre altre tradizioni usano il nome Sinai. Qui Mosè vede un roveto che arde senza consumarsi e, in mezzo a esso, gli appare «l’angelo (mal<ak) di JHWH», espressione con cui si designa il Dio trascendente in quanto agisce in questo mondo (cfr. Es 23,20). Quando Mosè, attratto dalla visione, si avvicina al roveto per guardare, è Dio stesso che lo chiama per nome. Egli risponde: «Eccomi». Dio allora gli dice: «Non avvicinarti! Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è una terra santa!» (v. 5). L’atto di togliersi i sandali è un segno di rispetto, universalmente diffuso in Oriente, a cui tutti sono tenuti quando entrano nella sfera del sacro. È possibile che in questo racconto sia conservata un’antica leggenda che spiegava l’origine del santuario situato nel monte di Dio. Ma ora colui che si presenta a Mosè è il Dio dei padri, che gli comunica di aver udito il grido degli israeliti oppressi dagli egiziani e di aver deciso di mandarlo dal faraone per imporgli di lasciar uscire il suo popolo, gli israeliti. La prima reazione di Mosè è quella di velarsi il volto, in ossequio all’idea biblica secondo cui chi vede Dio deve morire (v. 6). Egli presenta poi le sue obiezioni: «Chi sono io per andare dal faraone e per far uscire dall’Egitto gli israeliti?». Dio allora lo rassicura e gli dà un segno: «Quando tu avrai fatto uscire il popolo dall’Egitto, servirete Dio su questo monte» (vv. 7-12). Il nome divino (vv. 13-15) Il racconto prosegue con la rivelazione del nome divino  che, secondo i sostenitori dell’ipotesi documentaria, porta il marchio specifico della tradizione elohista. Siccome il segno promesso da Dio vale solo per le generazioni successive, Mosè presenta un’ulteriore richiesta: quando arriverà dagli israeliti e dirà loro che il Dio dei loro padri l’ha mandato, essi gli chiederanno: «Qual è il suo nome?», che cosa dovrà rispondere? (v. 13). La necessità di sapere il nome di Dio è comprensibile in un ambiente politeistico, nel quale ogni divinità si distingue dalle altre mediante un suo nome proprio; la tradizione lascia supporre che, prima dell’esodo dall’Egitto, gli israeliti, pur adorando il Dio dei padri, non ne conoscessero il vero nome, anche se questo, secondo altri testi, era noto fin dalla creazione (cfr. Gn 4,26). Per gli israeliti, così come in genere per gli antichi semiti, il nome non è puramente convenzionale, ma esprime, e in qualche modo contiene, la potenza vitale di chi lo porta. L’attesa degli israeliti, di cui Mosè si fa interprete, è perciò ambigua: in quanto implica il desiderio di entrare in un rapporto personale con Dio (culto) essa è legittima, ma diventa inaccettabile nella misura in cui contiene la pretesa superstiziosa di catturare la potenza divina per servirsene a proprio uso e consumo (magia). L’interpretazione del nome divino presenta numerose difficoltà. Anzitutto non è sicuro il modo preciso in cui esso si legge. Gli israeliti infatti, per eccesso di rispetto, a un certo punto della loro storia non lo hanno più pronunziato, e al suo posto hanno letto ’Adonaj, che significa Signore (in greco Kyrios). Siccome l’ebraico, come tutte le lingue semitiche, è scritto con le sole consonanti, di questo nome sono rimaste sole quattro lettere (J H W H), e di conseguenza esso è spesso chiamato il «sacro tetragramma». Quando nel testo ebraico sono state indicate, mediante lineette e puntini, le vocali, sotto queste quattro lettere sono state poste, per comodità del lettore, le vocali del nome ‘Adonaj. Leggendo le consonanti del nome divino con le vocali di ‘Adonaj si è avuto il nome «Jehova» (Geova), usato dai cristiani fino a qualche decennio fa: in realtà, questo nome è frutto di un’errata lettura del sacro tetragramma. La lettura moderna (Jahweh) è una ricostruzione scientifica del modo in cui originariamente era pronunziato il nome divino: essa si basa su vari indizi, quali le regole semantiche ebraiche, la pronunzia dei nomi biblici che contengono l’elemento divino, i reperti archeologici e le antiche traduzioni. Dal punto di vista storico, si è avanzata l’ipotesi che il nome JHWH  fosse utilizzato proprio dai madianiti, con i quali Mosè è venuto a contatto durante il suo esilio, ma ciò è difficilmente dimostrabile. Comunque è ormai certo che esso fosse noto nell’area medio-orientale già prima di Mosè, in quanto sembra attestato nei testi di Ugarit, nei nomi propri amorrei e, da ultimo, nei testi di Ebla del 3° millennio a.C. In questo nome, di cui non si sa quando sia entrato effettivamente nella vita religiosa di Israele, la tradizione ha visto la descrizione più esauriente della natura profonda del Dio dell’al­leanza. Questa intuizione è stata espressa mediante un’etimologia popolare, cioè presentando il nome divino come terza persona singolare del verbo «essere», che al futuro è abbastanza simile a esso (jihjeh). Naturalmente, sulla bocca di Dio il nome è espresso alla prima persona singolare e per di più è stranamente raddoppiato: «Io sono (sarò) colui che sono (sarò)» (‘ehjeh ‘asher ‘ehjeh). Questa formula è stata interpretata in modi diversi, perché in ebraico il tempo futuro può esprimere in certi casi anche il presente e l’imperfetto. In greco essa è stata tradotta «Io sono l’Ente», dando così adito a una interpretazione di tipo filosofico: Dio è l’essere pieno e infinito, che dà l’esistenza a tutte le cose senza dipendere da esse. Alcuni studiosi, invece, l’hanno tradotta «io sono quello che sarò», e vi hanno visto un riferimento all’eternità divina. Altri ancora vi hanno letto un’allusione al fatto che solo Dio può dare la vita («Io sono colui che fa essere»). Secondo la maggior parte degli studiosi moderni, ambedue i verbi della formula sono al presente e si spiegano tenendo conto del fatto che in ebraico il verbo «essere» non indica un semplice «sussistere» ma un «essere con», in senso attivo e dinamico. Perciò l’espressione «Io-sono» indica direttamente la propensione divina a essere presente accanto al popolo in vista della sua liberazione. Collegando il nome divino con il verbo «essere», si è dunque inteso affermare che la vera «natura» di Dio consiste nel volere la salvezza del suo popolo, e nell’essere capace di realizzarla intervenendo potentemente in suo favore. Il fatto che l’espressione «Io sono» sia raddoppiata si spiega alla luce di un testo parallelo in cui Dio afferma di se stesso: «Farò grazia a chi farò grazia» (Es 34,19). In questo testo la ripetizione del verbo sottolinea l’assoluta libertà con cui interviene per liberare Israele, senza esservi costretto da alcuno. Nello stesso modo quando rivela il proprio nome a Mosè, Dio lo mette in guardia contro ogni tentativo di strumentalizzarlo per scopi magici: nessuno può servirsi indebitamente del suo nome, e quindi della sua potenza straordinaria, per ottenere vantaggi di qualsiasi tipo. Linee interpretative La tradizione ha situato di proposito la rivelazione del nome divino nel contesto dell’esodo, affinché fosse chiaro che esso rappresenta la più significativa manifestazione di ciò che effettivamente JHWH ha dimostrato di essere per Israele, cioè il «Dio con noi» (cfr. Is 7,14); ma al tempo stesso ha sottolineato che egli resta l’Essere trascendente di cui nessuno potrà mai servirsi per i propri scopi egoistici. Il nome divino diventa così la sintesi più completa del progetto di liberazione che gli esuli ritornati da Babilonia si erano prefissi, sulla linea di quanto le tradizioni anteriori attribuivano a Mosè. Questo stretto collegamento di Dio con il popolo di Israele è il “dogma” fondamentale della religione biblica. L’interpretazione del nome divino in chiave di alleanza porta inevitabilmente con sé il rischio di un esclusivismo nei confronti degli altri popoli. Questo rischio è stato parzialmente superato con la concezione di JHWH come creatore di tutto il cosmo e di tutta l’umanità e con quella di un compimento escatologico al quale tutte le nazioni sono chiamate. Dio è presente in tutta l’umanità e la conduce a un fine di salvezza. Il suo nome rappresenta una garanzia che Dio non verrà mai meno al suo progetto di salvezza che non può non abbracciare tutti. Ma è stato soltanto il cristianesimo che ha messo pienamente in luce la dimensione universalistica della religione biblica.

BRANO BIBLICO SCELTO – ISAIA 6,1-2A.3-8

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BRANO BIBLICO SCELTO – ISAIA 6,1-2A.3-8

1 Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio. 2 Attorno a lui stavano dei serafini, ognuno aveva sei ali e 3 proclamavano l’uno all’altro: « Santo, santo, santo è il Signore degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria ». 4 Vibravano gli stipiti delle porte alla voce di colui che gridava, mentre il tempio si riempiva di fumo. 5 E dissi: « Ohimè! lo sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, il Signore degli eserciti ». 6 Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. 7 Egli mi toccò la bocca e mi disse: « Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua iniquità e il tuo peccato è espiato ». 8 Poi io udii la voce del Signore che diceva: « Chi manderò e chi andrà per noi? ». E io risposi: « Eccomi, manda me! ».   COMMENTO Isaia 6,1-2a.3-8 La vocazione di Isaia

La vocazione di Isaia viene narrata dal profeta stesso in un brano che si trova all’inizio non di tutto il libro, come solitamente, ma del «Libretto dell’Emmanuele» (Is 6-12), cioè della seconda raccolta di oracoli che presuppone un’attività del profeta anteriore alla guerra siro-efraimita (Is 1-5). I motivi di questa collocazione non sono indicati, ma si può supporre che i redattori finali del libro abbiano voluto situare il messaggio negativo affidato al profeta sullo sfondo dell’insuccesso da lui sperimentato nella prima fase della sua missione. Isaia ambienta la sua vocazione nel contesto di una visione inaugurale avvenuta nel tempio: e di fatto gli elementi simbolici con cui è costruito il racconto sono ricavati da rappresentazioni tipiche del culto. È questa un’ulteriore conferma degli stretti legami che esistevano tra Isaia e Gerusalemme, di cui il tempio era il centro religioso e sociale. Il brano si divide in tre parti: ambientazione (vv. 1-4); indegnità e purificazione del profeta (vv. 5-7); missione (vv. 8-13).

Ambientazione (vv. 1-4) Il profeta inizia il suo racconto indicando il tempo e il luogo in cui si trovava quando ha avuto per la prima volta la manifestazione di Dio: «Nell’anno in cui morì il re Ozia, io vidi il Signore seduto su un trono alto ed elevato; i lembi del suo manto riempivano il tempio» (v. 1). L’anno della morte del re Ozia potrebbe essere, come si è visto, il 740 a.C. Isaia non dice in quale luogo si trovava quando ha avuto la visione, ma si può supporre che si trattasse del cortile esterno del tempio, perché l’ingresso nell’edificio sacro era riservato ai sacerdoti. Dio gli appare dunque al di là del secondo velo, nella stanza più interna (il santo dei santi), assiso su di un trono alto ed elevato: questa immagine è suggerita dal fatto che il coperchio dell’arca dell’alleanza (espiatorio) era considerato appunto come il trono di Dio (cfr. Es 25,17-21; 1Sam 4,4). In realtà il profeta vede i lembi del manto divino, i quali, prendendo il posto della nube, simbolo della gloria di Dio (cfr. Es 40,34; 1Re 8,10-11), riempiono tempio (hêkal), cioè la prima stanza, chiamata anche il «santo». Accanto a Dio il profeta vede degli esseri animati: «Attorno a lui stavano dei serafini, ognuno aveva sei ali; con due si copriva la faccia, con due si copriva i piedi e con due volava» (v. 2). La presenza di questi esseri potrebbe essere suggerita dall’idea della corte celeste che, secondo la mitologia orientale, circondava la divinità oppure dal fatto che nel tempio due figure alate, chiamate cherubini, sovrastavano il coperchio dell’arca. Nella visione di Isaia questi esseri ricevono invece l’appellativo di «serafini» (serafîm, brucianti), forse in riferimento al fuoco della teofania. Essi sono forniti di sei ali: due servono loro per coprirsi il volto in segno di sacro terrore nei confronti di JHWH, due per coprirsi i piedi (eufemismo per indicare i genitali, che non devono essere esposti in luogo sacro: cfr. Es 20,26; 28,42-43) e due per volare. I serafini sono dunque davanti a Dio in un atteggiamento di adorazione e di lode come appare anche dal loro canto: «Proclamavano l’uno all’altro: Santo, santo, santo è JHWH degli eserciti. Tutta la terra è piena della sua gloria» (v. 3). Con queste parole si afferma che JHWH, il liberatore e la guida delle schiere di Israele, è tre volte santo, cioè è santo in senso pieno, in quanto è totalmente separato da tutti i limiti e i peccati dell’uomo (trascendenza) (cfr. Os 11,9). Al tempo stesso però la sua «gloria», cioè la sua presenza luminosa, riempie tutta la terra: egli è presente in tutto l’universo che governa secondo i suoi progetti. In altre parole Dio si rende presente nella storia umana, ma non accetta di diventare connivente con il peccato dell’uomo, e di conseguenza lo elimina, comunicando al popolo la sua santità (cfr. Es 19,6; Lv 19,2), oppure riversando i suoi castighi sui peccatori. La rivelazione di Dio è accompagnata da un forte fragore e da uno spesso fumo: «Vibravano gli stipiti delle porte alla voce di colui che gridava, mentre il tempio si riempiva di fumo» (v. 4): anche queste immagini sono suggerite dal modo in cui veniva rappresentata nel culto la manifestazione di Dio (cfr. Es 19,16-19; 1Sam 4,5; 1Re 8,10-12).

Indegnità e purificazione del profeta (vv. 5-7) A questa esperienza Isaia reagisce con una confessione di indegnità: «E dissi: Ohimè! Io sono perduto, perché un uomo dalle labbra impure io sono e in mezzo a un popolo dalle labbra impure io abito; eppure i miei occhi hanno visto il re, JHWH degli eserciti» (v. 5). Di fronte al Dio santo, l’uomo non può far altro che confessare il suo limite: Isaia si sente solidale con il peccato di tutto il popolo, e lo vede come focalizzato nelle labbra, in quanto impedisce loro di rivolgere a Dio la lode che gli compete. Alla confessione di Isaia fa seguito la sua purificazione: «Allora uno dei serafini volò verso di me; teneva in mano un carbone ardente che aveva preso con le molle dall’altare. Egli mi toccò la bocca e mi disse: Ecco, questo ha toccato le tue labbra, perciò è scomparsa la tua iniquità e il tuo peccato è espiato» (vv. 6-7). Con questo gesto simbolico si vuole significare che Dio ha il potere di perdonare il peccato: l’uomo, se sa riconoscere il suo limite, è salvo e può cominciare una vita nuova.

Missione (vv. 8-13) E di fatti Isaia, dopo che è stato purificato, avverte la chiamata di Dio: «Poi io udii la voce di JHWH che diceva: Chi manderò e chi andrà per noi?» (v. 8a). Mentre il peccato fa sì che l’uomo si chiuda in se stesso, nei suoi desideri egoistici, la purificazione lo rende capace di ascoltare la voce di JHWH che esprime il desiderio di mandare qualcuno a Israele. La reazione di Isaia è immediata: «E io risposi: Eccomi, manda me!». La vocazione comprende dunque due movimenti: quello di Dio che si rivolge all’uomo e quello dell’uomo che si mette liberamente a sua disposizione. A questo punto viene affidato a Isaia un compito da svolgere: «Va’ e riferisci a questo popolo: Ascoltate, ma senza comprendere, guardate, ma senza conoscere» (v. 9). Gli israeliti non vengono chiamati da Dio «mio popolo» ma, con un senso di profondo distacco, «questo popolo». Il messaggio assegnato a Isaia è espresso mediante due verbi all’imperativo, «ascoltate» (šime’û) e «guardate» (re’û), rafforzati ciascuno mediante la ripetizione della stessa radice all’infinito assoluto (ascoltate bene; guardate bene). Ciascuno di essi è seguito da un verbo all’imperfetto preceduto dalla congiunzione we e dall’avverbio negativo al, con significato iussivo (‘al tabînû, non comprendete, ‘al teda’û, non conoscete): Dio comanda dunque agli israeliti di compiere con grande intensità una duplice azione, che metaforicamente significa l’obbedienza al messaggio che egli invia loro, ma sapendo già in partenza che i loro sforzi sono destinati all’insuccesso. Il profeta riceve poi un compito ulteriore: «Rendi insensibile il cuore di questo popolo, appesantisci i suoi orecchi e acceca i suoi occhi» (v. 10a). Il comando di Dio viene espresso mediante tre verbi all’imperativo causativo: «rendere insensibile» (dalla radice saman, essere grasso) il cuore del popolo, «appesantire» (dalla radice kabad, essere pesante) i suoi orecchi e «accecare» (dalla radice ša’a', essere cieco) i suoi occhi. Se si prescinde dalla vocalizzazione masoretica, questi verbi potrebbero essere letti come futuri, prima persona singolare (io renderò insensibile il cuore, appesantirò gli orecchi, accecherò gli occhi…). A questi tre comandi fa seguito una proposizione finale: «affinché non veda con gli occhi né oda con gli orecchi né comprenda con il cuore» (v. 10b). In questa frase la congiunzione finale negativa pen (affinché non) regge tre verbi all’imperfetto, i quali hanno per soggetto il popolo e riprendono in ordine chiastico i precedenti imperativi: il profeta deve esplicitamente impedire che il popolo veda, ascolti e comprenda. Infine la frase finale viene prolungata mediante altri due verbi retti dalla stessa congiunzione pen: «(affinché) non si converta e non sia guarito» (v. 10c). Il profeta deve dunque far sì che il popolo si indurisca proprio perché non si converta (šûb, ritornare, convertirsi) e non sia guarito (rafa’). Ciò significa che JHWH non è disponibile ad accettare una conversione in extremis che comporterebbe la guarigione del popolo perché non ritiene più che essa sia possibile. Il messaggio assegnato a Isaia rientra nella tematica biblica riguardante la ribellione del popolo nei confronti del suo Dio: quando trasgredisce i suoi comandamenti, Israele manifesta un atteggiamento interiore, analogo alla perdita di funzionalità delle facoltà più importanti, cioè il cuore, la vista e l’udito. L’indurimento del cuore indica il blocco delle facoltà interiori, l’accecamento sottolinea maggiormente la mancanza di conoscenza, mentre la sordità riguarda soprattutto l’opposizione della volontà: in pratica però le diverse immagini vengono a coincidere (cfr. Ger 5,21; Ez 12,2). In Is 6,9-10 subentra però una sfumatura nuova: non è il popolo a indurirsi, a diventare sordo o cieco, ma è Dio stesso che, per mezzo del suo profeta, produce in esso questo stato d’animo. Questa idea riappare in altri due testi: Dt 29,1-3 e Is 29,10 nei quali la colpa del popolo si tramuta in una pena comminata da Dio stesso, come era avvenuto per il faraone, che di fronte al comando di lasciar partire Israele si era indurito (Es 7,13.14; 8,15; 9,35 ecc.), ma al tempo stesso era stato indurito da JHWH (Es 4,21; 7,3; 9,12 ecc.), il quale aveva così potuto dimostrare di essere più potente di lui (Es 10,1; 14,4.17). La stessa reazione di rifiuto è stata provocata da Dio nei cananei (Dt 2,30; Gs 11,20), nei figli di Eli (1Sam 2,25) e nel re Roboamo (1Re 12,15).

Di fronte a una prospettiva così terribile Isaia domanda: «Fino a quando?». La risposta è drastica: fino a che le città siano devastate, le case senza abitanti, la campagna deserta e desolata. JHWH scaccerà la gente finché ne resti solo ne resti solo una decima parte e anche questa sarà preda della distruzione (vv. 11-13a). La totalità della rovina viene paragonata a quella di una quercia o a terebinto che sono caduti e dei quali non resta che il ceppo. Ma le ultime parole contengono un messaggio di speranza: «progenie santa sarà il suo ceppo» (v. 13b). Anche se JHWH «ha nascosto il volto alla casa di Giacobbe» Isaia continua ad avere fiducia in lui (cfr. Is 8,17). Egli infatti un giorno darà al suo popolo la vista e l’udito e rinnoverà il suo cuore (Is 32,2-4). Ma è dubbio che in questo contesto Isaia abbia voluto esprimere questa speranza perché le ultime parole del v. 13 mancano nei LXX e potrebbero rappresentare un’aggiunta posteriore

Linee interpretative Il modo in cui Isaia presenta la sua chiamata si ispira al modello classico delle vocazioni bibliche (manifestazione divina, sgomento dell’uomo cosciente della sua inadeguatezza, segno, missione). Il carattere contraddittorio della missione affidata al profeta si comprende supponendo che egli, dopo un certo periodo di predicazione, sia giunto alla conclusione che la sua opera è destinata al fallimento a causa dell’ostinazione del popolo. In questa situazione però il profeta, illuminato da Dio, scopre che Dio stesso permette questo indurimento, anzi vuole portarlo alle sue estreme conseguenze per farla finita con il popolo peccatore e per ricominciare da capo la sua opera salvifica. Egli comprende allora che il suo ruolo è proprio quello di spingere il popolo verso il suo tragico destino, annunziandogli insistentemente un messaggio che è già stato rifiutato in partenza. In altre parole il suo invito alla conversione provocherà quasi sicuramente un ulteriore indurimento degli ascoltatori, ma non per questo si sente autorizzato a tacere, perché ormai l’unica speranza è che Dio ricominci da zero la sua opera salvifica.

 

«MARIA SI MISE IN VIAGGIO VERSO LA MONTAGNA E RAGGIUNSE IN FRETTA UNA CITTÀ DI GIUDA» (LC 39-40).

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LA GRAZIA DI DIO NON CONOSCE RITARDI   «MARIA SI MISE IN VIAGGIO VERSO LA MONTAGNA E RAGGIUNSE IN FRETTA UNA CITTÀ DI GIUDA» (LC 39-40).

È una bella immagine questa di Maria, giovane ragazza coraggiosa e determinata, che, aggregandosi a qualche carovana in marcia verso Gerusalemme, “in fretta” vuole raggiungere l’anziana cugina ad Ain Karen, quasi 150 km a sud di Nazaret. Questo aspetto dinamico della Visitazione è sempre stata fonte di ispirazione e di riflessione per la Chiesa. La mariologia conciliare e quella contemporanea hanno continuato a mettere in rilievo questa “itineranza” di Maria, vedendovi in essa un modello per l’intera Chiesa vista come popolo in cammino verso Dio. Non solo ma anche per ogni singolo discepolo di Cristo alla sequela del Maestro (si veda anche il concetto di “peregrinatio fidei” di Maria in Lumen Gentium n. 58 e Redemptoris Mater n. 2). Come Gesù è la Via al Padre (Gv 14,6), la Chiesa ha sempre indicato Maria come la più perfetta discepola di Cristo (la prima vera “cristiana”), e quindi la via più sicura per andare a Lui e con Lui al Padre. Maria è la “Odighitria” cioè colei che indica la strada per andare a Cristo. L’evangelista Luca aggiunge che Maria aveva “fretta” di raggiungere Elisabetta e di mettersi al suo servizio. Una fretta divina (non quella nostra spesso di natura nevrotica), una fretta posta in lei dallo Spirito. Sant’Anbrogio scriverà: “La grazia dello Spirito Santo non conosce ritardi”. Chi è guidato dallo Spirito non indugia in calcoli umani, spesso solo umani e quindi egocentrici. “Intuiamo che è lo Spirito a muovere Maria e a donarle tale libertà, tale creatività nell’uscire dalle abitudini” (Carlo M. Martini). Maria dopo l’Annunciazione è ormai la “kekaritomene” cioè “colei che è la ricolma di grazia” cioè ricolma di Dio e del suo Dono, lo Spirito. Lei non solo è la “cristofora” perché porta Cristo nel suo grembo, ma è anche la “pneumatofora” cioè “portatrice dello Spirito”. Ma nello stesso tempo è lei stessa portata dal Figlio e dallo Spirito. Quello stesso Spirito presente e determinante per lei non solo nell’Annunciazione, ma anche in seguito: sarà infatti lui che la sosterrà, la consolerà, e la guiderà gradualmente alla verità su Gesù.

Maria è portatrice di pace «Entrata nella casa di Zaccaria salutò Elisabetta». Un saluto alla maniera ebraica, in cui ci si augura la “pace” (Shalom), la vera pace che può essere data solo dal Signore perché “la visita del Signore è la pace per la casa dell’uomo”. Un saluto speciale tra due donne, una era madre ancora vergine, l’altra madre dopo che era stata sterile, l’una giovanissima e l’altra anziana, parenti tra di loro, tutte e due incinte e rese protagoniste dalla bontà divina, sorrette e guidate dallo Spirito. Maria, segno del Nuovo che realizza l’Antico Testamento porta in sé la beatitudine di quel dono che è Dio stesso, principio e principe della pace, compimento di ogni desiderio umano. Il racconto della Visitazione, unico del genere in tutto il Nuovo Testamento, è pieno di bellezza e di delicatezza femminili. Una pagina biblica di vero protagonismo femminile. Ha scritto suor Maria Ko Ha Fong: “Maria ed Elisabetta: due donne protese verso il futuro del loro grembo, due donne che custodiscono dentro di sé un mistero ineffabile, un miracolo stupendo. La coscienza di essere rese oggetto di particolare predilezione di Dio le unisce, la missione comune di collaborare con Dio per un progetto grandioso le entusiasma e le fa esplodere in benedizione ed in canto di lode, l’esperienza della maternità prodigiosa le rende solidali. Il prodigio di Dio in Elisabetta è stato per Maria un segno che l’ha aiutata a pronunciare il suo fiat; ora il prodigio di Dio in Maria è segno per Elisabetta, un segno che suscita in lei una confessione di fede. Così le due donne, sono, l’una per l’altra, luogo di scoperta di Dio, epifania della sua grandezza e motivo per cui lodarlo e ringraziarlo” (Lectio Divina, in Theotokos 1997, p. 177-195). Per questo motivo Elisabetta, guidata dallo Spirito, esulta lei stessa e sente sussultare di gioia il suo bambino. Lei infatti riconosce in Maria il compimento delle promesse fatte ad Israele. In Maria, Elisabetta vede l’Arca della nuova Alleanza, e come l’Arca di Dio portava gioia e benedizione solo con la sua stessa presenza (2 Sam 6,2-11), così Maria. E così, mossa dallo Spirito, Elisabetta la chiama la “Madre del mio Signore”, cioè la Madre del Figlio di Dio, del Messia, invocato e sospirato per tanti secoli. Proprio quella sua giovane cugina portava in grembo l’Atteso delle genti, il Salvatore promesso.

È propriamente la Visitazione di Cristo a Giovanni C’è un bel commento di Sant’Ambrogio su questo incontro di Maria ed Elisabetta: “Elisabetta udì per prima la voce, ma Giovanni percepì per primo la grazia; essa udì secondo l’ordine della natura, egli esultò in virtù del mistero; essa sentì l’arrivo di Maria, egli del Signore; la donna l’arrivo della donna, il bambino l’arrivo del bambino. Esse parlano delle grazie ricevute, essi nel seno delle loro madri realizzano la grazia ed il mistero della misericordia a profitto delle madri stesse: e questo per un duplice miracolo profetizzano sotto l’ispirazione dei figli che portano. Del figlio si dice che esultò, della madre che fu ricolma dello Spirito, ma fu il figlio, ripieno dello Spirito Santo a ricolmare anche la madre. Esultò Giovanni, esultò anche lo Spirito di Maria. Ma mentre di Elisabetta si dice che fu ricolma di Spirito Santo allorché Giovanni esultò, di Maria, che era già ricolma di Spirito Santo, si dice che allora il suo spirito esultò. Colui che è incomprensibile operava in modo incomprensibile nella madre. L’una, Elisabetta, fu ripiena di Spirito Santo dopo la concezione, Maria invece prima della concezione” (Lc 2,19-22). E Adrienne von Speyr precisa: “La visita, nel suo più profondo significato, non è una visita di Maria ad Elisabetta, ma una visita di Cristo a Giovanni. Entrambe le madri fungono ora solo da mediazione per i figli”. Come si vede anche nella Visitazione il protagonista dell’incontro è lo Spirito Santo, lo Spirito di quel Gesù che deve ancora nascere, ma al quale sta preparando il terreno ispirando parole profetiche ad Elisabetta e santificando il figlio. Questi diventerà il “profeta dell’Altissimo, camminerà davanti al Signore” (Lc 1,76), sarà come la sintesi di tutti i profeti perché il precursore di Cristo, il Messia. Due Bambini, ma che differenza tra loro. Commenta San Gregorio di Nazianzio: “Dopo la prima incerta luce del precursore, viene la Luce stessa, che è tutto fulgore. Dopo la voce, viene la Parola, dopo l’amico dello Sposo, viene lo Sposo stesso” (Discorso 45,28).

Maria è la prima missionaria di Cristo Gesù Cristo è stato definito il primo Missionario, cioè il primo inviato ad annunciare il Regno di Dio; per questo egli stesso si autodefinì spesso “Colui che il Padre ha mandato”. Anche Maria è Missionaria, perché, come afferma Giovanni Paolo II nella RM n. 20, essendo Madre di Gesù, è diventata “in un certo senso, la prima discepola di suo Figlio”. Nella stessa enciclica (n. 21) viene messa in risalto la sua sollecitudine materna per gli uomini, “il suo andare incontro ad essi nella vasta gamma dei loro bisogni”. Il suo stile è attivo, solidale, interessato, intraprendente e anche creativo (ricordiamo le nozze di Cana e anche la Visitazione). Anche il Papa Paolo VI così si esprime: “La donna contemporanea, con lieta sorpresa, constaterà che Maria di Nazaret, pur completamente abbandonata alla volontà del Signore, fu tutt’altro che donna passivamente remissiva o di una religiosità alienante… e riconoscerà in lei una donna forte, che conobbe povertà e sofferenza, fuga ed esilio…” (Marialis Cultus, n. 37). Il viaggio di Maria quindi è un viaggio di natura missionaria. Dopo l’Annunciazione lei stessa si percepisce come “Colei che è stata ricolmata di grazia” da parte del Signore Altissimo, che è stata amata totalmente ed “evangelizzata per prima” avendo ricevuto la lieta notizia dell’Incarnazione, prima di tutti gli altri. Nella Visitazione abbiamo insieme la prima evangelizzata che diventa la prima evangelizzatrice diventando così come il prototipo di tutti i missionari proprio perché sospinta solo dall’amore di e per Cristo (2 Cor 5,14). Origene, un Padre della Chiesa, ha scritto: “Gesù, che era nel seno di lei, aveva fretta di santificare Giovanni che si trovava nel grembo della madre” (Omelie su Luca VII, 1). Ecco che Maria diventa lo strumento per attuare questa “fretta evangelizzatrice” di Gesù verso il cugino. Vangelo significa “buona o bella notizia” ed è quella che ha annunciato Gesù Cristo portando nel mondo la salvezza, la riconciliazione con Dio e la gioia. Sono infatti le belle notizie che ridanno la gioia persa ed il coraggio di andare avanti. Il Vangelo è Gesù Cristo stesso (Origene parla di “Autobasileia”), la vera bella notizia che ha riportato nel mondo la gioia, cominciando dalla Madre Maria, da Elisabetta e da Giovanni.

Maria è portatrice di gioia, segno della Nuova Alleanza Ogni nuova vita nel mondo non è che un piccolo riflesso di Dio Creatore ed un invito da parte sua a sperare nel futuro. Lui stesso, Dio della vita e di ogni vita, non può non sorridere davanti ad ogni forma di vita. Ma lo fa specialmente davanti ad un bambino. Dio Padre, anche lui, avrà sorriso di gioia davanti a quelle sue due figlie, ambedue donne incinte e future madri, felici e festanti, perché si sentivano benedette dall’Alto.

Commenta ancora Maria Ko Ha Fong: “La gioia di Maria è ben più grande di quella di qualsiasi madre. Il Figlio nascosto nel suo grembo non è solo un sorriso di Dio, ma è il Dio del sorriso, il Dio della gioia, di una letizia contagiosa, coinvolgente… Intorno a Maria la gioia si espande. Alla sua presenza, anche Zaccaria, chiuso nel suo mutismo incredulo, sente avvicinarsi l’adempimento della promessa fattagli dall’angelo «Avrai gioia ed esultanza» (Lc 1,149)”.

Ed il teologo Bruno Forte precisa ancora: “La gioia nasce dal sentirsi amati: perciò il cristiano, che sa nella fede di essere infinitamente amato da Dio, avvolto e custodito dalla tenerezza del suo amore fedele, è fatto per la gioia… La gioia scaturisce dall’umile riconoscimento dei tanti doni che riempiono l’esistenza, dal cielo sopra di noi, al cuore che batte in noi, all’amore che ci dona coraggio e vita… La gioia è proclamata in maniera nuova e definitiva dalla buona novella dell’Avvento del Dio con noi: «Non temete, ecco vi annuncio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore» (Lc 2,10)”.

La Visitazione sembra proprio costituire il primo lampo di gioia messianica portata dalla presenza di Gesù in sua Madre Maria. Quella stessa gioia che sarà portata dal Vangelo predicato e testimoniato da tanti altri missionari e missionarie nel nome di Gesù e sull’esempio di Maria.

Mario Scudu                                                                                                    

GESÙ INCONTRA DELLE DONNE: GESÙ E IL GESTO DELLA VEDOVA

 http://www.cenacoloitalia.it/fermarsi_ripartire/Gesuelavedovaaltempio.html

GESÙ INCONTRA DELLE DONNE: GESÙ E IL GESTO DELLA VEDOVA  

di Giuliana Babini  

Gesù stesso insegna ai suoi discepoli a rileggere le Scritture alla luce degli eventi e a comprendere gli eventi alla luce delle Scritture (cf  Lc 24): invochiamo lo Spirito perché ci aiuti a “vedere” e a “compiere” gesti che  sono  segni di un autentico vissuto, forse anche  inconsapevole, profondamente evangelico.  

Marco 12, 41-44  Seduto di fronte al tesoro, osservava come la folla vi gettava monete. Tanti ricchi ne gettavano molte. Ma, venuta una vedova povera, vi gettò due monetine, che fanno un soldo. Allora, chiamati a sé i suoi discepoli, disse loro: «In verità io vi dico: questa vedova, così povera, ha gettato nel tesoro più di tutti gli altri. Tutti infatti hanno gettato parte del loro superfluo. Lei invece, nella sua miseria, vi ha gettato tutto quello che aveva, tutto quanto aveva per vivere». Nel Vangelo di Marco (e  anche in quello di Luca) la visita finale di Gesù al tempio, dopo le dispute con i “grandi” che vi si sentono a casa (farisei, sadducei, scribi), si conclude con Gesù che si siede di fronte alle cassette in cui coloro che si recavano al tempio facevano le loro offerte per il mantenimento del tempio stesso e per i poveri (almeno così doveva essere !). Immaginiamo di essere anche noi lì ad osservare con Gesù chi passa e getta monete. Mostrare di essere generosi è da sempre un piacere  per uomini e donne, ma Gesù, come sempre, non si lascia ingannare dall’esterno, dalla quantità, e guarda all’intimo del cuore, al centro della persona: per lui è questo il vero tempio in cui il Signore viene riconosciuto o ridotto a cosa di poca importanza, a oggetto di ostentazione e mercato. Il tempio di pietre era un  segno come  luogo di preghiera per tutte le genti, luogo di aggregazione, di convergenza sulla Signoria di Dio, ma era diventato un mercato e Gesù aveva cercato di farlo capire (Mc 11,15s). Ma anche il cuore dell’uomo può diventare un mercato ed essere uno spazio in cui passano una infinità di pensieri, sentimenti, illusioni, emozioni  che lo inquinano. Ecco che Gesù vede una persona dal  cuore integro che dona al tempio del Signore, sua roccia, tutto ciò che ha per vivere. Sono due spiccioli, pochissima cosa,  potrebbe calcolare  “uno per me e uno per l’altro (il Signore o il povero)”, invece si affida totalmente nella sua mancanza assoluta di possibilità per il futuro.  Questa persona è una  “vedova”, e una vedova  sola, come appare questa donna, era in Israele figura massima di povertà, di mendicità, anche se la comunità, forse il tempio stesso, avrebbe dovuto soccorrerla, ma non vi era  mai certezza che questo accadesse. Questa vedova, che si ritrova queste due monetine, forse ricevute in offerta, come unica sicurezza per il domani, le “getta” senza che ne abbia l’obbligo, senza che le sia richiesto, le dona ben sapendo che nessuno ci farà caso: la casa del Signore  è la sua casa, il suo baluardo, non vuole altro: è tutta lì nel suo gesto. E Gesù fa notare ai suoi, e a noi lì con Lui nella preghiera, la portata della sua offerta; lei non lo sa, ma Gesù se ne serve per indicare ai discepoli con quale cuore dovrebbero affrontare la prova che li attende, con quale atteggiamento di offerta e affidamento dovrebbero porsi di fronte al nuovo tempio che è Gesù stesso, che sta per consegnarsi   totalmente, quale  seme gettato  in terra per portare frutto di redenzione per tutti (cf Mc 14,35; Lc 13,19; Gv 12,24). Il tutto è troppo duro per i discepoli che restano legati al tempio di pietra, di cui  Gesù annuncerà subito dopo  la distruzione. Si può essere “vuoti”, “mancanti”, ma sempre resteranno due spiccioli di possibilità di relazione che, offerti senza riserva e senza paura dell’insicurezza, faranno fiorire  comunione. La comunione con il Signore e con gli altri poveri è per questa vedova essenziale più del pane. E per noi è forse troppo alto il prezzo?  Quante e quali riserve abbiamo pronti? Maria ai piedi della Croce, “vedova e ormai sola”  getta nelle mani del Signore suo Dio tutto quanto ha per vivere, come un giorno aveva fatto dei suoi sogni di fanciulla. La sua è adesione totale,  integra, al mistero del Figlio nuovo tempio del Signore. Pare che sia lui, il nuovo tempio distrutto e non l’antico, ma Maria con la sua presenza mostra che ha vissuto nella fedeltà, affidata all’unica certezza che quel Figlio gli era stato dato da quel  Dio, a cui lei aveva affidato  gli spiccioli che erano la  sua piccola vita di donna di un oscuro paese di Palestina. In lei anche la Chiesa tutta e ciascuno di noi è chiamato a questo nascosto offrirsi  con cuore integro (solo il Signore lo saprà!) al di là della situazione di vita in cui si ritrova a vivere: solo in offerte così  rifiorisce la speranza e il futuro.  La generosità si misura più da ciò che non si vede che da quello che si vede, è presenza, adesione interiore con il cuore “vedovo”, vuoto di sé e di ogni altro possibile progetto che non sia il gettare tutto nel tempio del Signore che siamo noi stessi, in quella parola che Lui ha pronunciato chiamandoci alla vita. Il Signore ci conduca!

“Signore nelle tue mani è la mia vita e la mia morte” (cf Sl 15,5) 

PROVERBI. 9, 1-6 – COMMENTO

http://www.qumran2.net/parolenuove/commenti.php?mostra_id=29791

PROVERBI. 9, 1-6

don Raffaello Ciccone

Dopo aver sviluppato una lunga introduzione alla raccolta dei detti sapienziali, attribuiti a Salomone, re sapiente di Israele (sec X), incontriamo, a modo di parabola, due donne che rappresentano la Sapienza e la Follia.
Già in precedenza, l’autore ne ha parlato, ma qui colloca le due donne nella loro casa, aperta ad ogni persona, invitata ad incontrare colei che può dare felicità e gusto della vita.
Nel testo di oggi viene ricordata la casa ed il profilo della Sapienza. Un casa splendida con sette colonne che ricordano la stabilità e la perfezione: le colonne erano solo nelle case nobili per poter avere sale spaziose e protette, il numero sette richiama lo splendore e la completezza.
La tavola è imbandita e, dai punti più alti della città, viene proclamato il messaggio ad ogni persona. Le ancelle, poi, vanno per le strade ad incoraggiare gli inesperti e chi si rende contro di mancare di intelligenza e di preparazione nella vita. Perciò il messaggio e l’invito valgono per tutti, ma, prima di tutti, sono invitati quelli che hanno bisogno e sono poveri di comprensione.
Anche Donna Follia ha imbandito un banchetto (9,13-18). Essa però non va in cerca, ma « sta seduta alla porta di casa, su un trono in luogo alto della città » e invita gli stessi passanti, rintracciati dalle ancelle della Sapienza: « gli inesperti e i privi di senno ». La Sapienza offre da mangiare il pane e da bere il vino.
La Follia non ha vino (il vino è la gioia messianica) ma acqua: « le acque furtive sono dolci » e il pane gustoso perché « preso di nascosto » ( si gioca sul gusto del proibito). La Sapienza incoraggia a istruire ed educare, tenendo presente che « principio della Sapienza è il Timore del Signore ».
Timore del Signore non è la paura ma la consapevolezza che bisogna evitare il male, la stessa impressione che ci viene se sporchiamo il mondo, inquiniamo il terreno, mentre abbiamo maturato il rispetto del creato. Il timore di Dio è il timore di offendere, disgustare, rovinare, disprezzare ciò che vale.
In questi giorni l’inizio della scuola è un tempo importante per tutta la nostra comunità: qualcuno esperto in diverse materie si prende carico delle nuove generazioni e aiuta a superare l’inesperienza e la mancanza di sapienza. Ma se la conoscenza può essere data a scuola, la Sapienza è anche frutto di interventi diversi: la conoscenza, il saper valutare il valore di una cosa o di un’azione, il desiderio di costruire insieme, il coraggio di aiutare chi è in difficoltà, la forza di affrontare senza paura la fatica in vista di un progetto grande. Solo la scuola non riesce a dare la Sapienza ai giovani, se non ci sono gli altri contributi di soggetti vicini: in particolare, la famiglia, gli amici, la Comunità cristiana, gli stessi adulti vicini o gli adulti « modello ». La conoscenza che si riceve a scuola ha bisogno di tanti altri collaboratori che, mentre la valorizzano, la stimano, la cercano, la promuovono in tutto il contesto in cui si vive.
La Sapienza è personificata, è donna che invita e richiama, è maestra che vuole istruire tutti, uomini e donne, chiamati ad essere suoi discepoli. Essa si preoccupa per loro, per il loro cammino e per il loro destino. Donna Sapienza ha di che preoccuparsi, perché in città si trova anche un’altra maestra, Donna Follia, che pure invita gli alunni alla sua anti-scuola, dove insegna il gusto del proibito e il fascino dell’insensato e, così facendo, conduce alla morte (9,13-18)

1 CORINZI 7,32-35 -COMMENTO

http://www.nicodemo.net/NN/commenti_p.asp?commento=1%20Corinzi%207,32-35

1 CORINZI 7,32-35

Fratelli, 32 Io vorrei vedervi senza preoccupazioni: chi non è sposato si preoccupa delle cose del Signore, come possa piacere al Signore; 33 chi è sposato invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, 34 e si trova diviso!
Così la donna non sposata, come la vergine, si preoccupa delle cose del Signore, per essere santa nel corpo e nello spirito; la donna sposata invece si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito.
35 Questo poi lo dico per il vostro bene, non per gettarvi un laccio, ma per indirizzarvi a ciò che è degno e vi tiene uniti al Signore senza distrazioni.

COMMENTO
1 Corinzi 7,32-35
Il celibato cristiano
Nel c. 7 Paolo risponde a uno dei quesiti che i corinzi gli avevano posto per iscritto, quello cioè riguardante la vita sessuale nel matrimonio e nel celibato. L’esposizione si apre con alcune direttive pratiche riguardanti anzitutto i coniugi, i non sposati e le vedove (vv. 1-16); egli passa poi a delineare il principio generale a cui si ispira, quello cioè secondo cui ciascuno deve restare nella condizione di vita in cui si trovava al momento della conversione (vv. 17-24). Infine ritorna alle situazioni specifiche, soffermandosi soprattutto sul tema del celibato (vv. 25-40). In questa parte del capitolo egli, dopo aver raccomandato il celibato, accenna all’imminente fine del mondo e a ciò che essa implica per il credente; poi torna alla situazione in cui vengono rispettivamente a trovarsi, in questo contesto, i celibi, confrontandola con quella degli sposati. Egli si introduce con un principio generale (v. 32a) che esplicita poi in riferimento a uomini e donne sposati e non sposati (vv. 32b-34) e termina con una frase conclusiva (v. 35).
Egli esordisce con le parole: «Io vorrei che foste senza preoccupazioni (amerimnoi)» (v. 32a). Il termine amerimnoi deriva da merimnaô, che significa, in senso negativo, essere ansiosi, aver paura di perdere o di non conseguire qualcosa che sta a cuore (cfr. Mt 6,25-34), ma può significare anche in senso positivo «prendersi cura di»: ambedue sono presenti nel verbo italiano «preoccuparsi di». A prima vista sembrerebbe che egli voglia sollevare i suoi interlocutori da qualsiasi preoccupazione. Dal seguito del discorso appare invece che egli vuole evitare solo un certo tipo di preoccupazioni che, cozzando con altre, portano a una divisione.
Paolo passa poi a mettere in luce il tipo di preoccupazioni a cui si riferisce; egli si esprime con due frasi parallele, in cui considera rispettivamente la situazione dell’uomo e quella della donna. Chi non è sposato si preoccupa (merimnâi) delle cose del Signore, come possa piacere al Signore mentre chi è sposato si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere alla moglie, e perciò è diviso (memeristai) (vv. 32b-33a). Parallelamente la donna non sposata, così come la vergine (parthenos), si preoccupa delle cose del Signore per essere santa nel corpo e nello spirito, mentre la donna sposata si preoccupa delle cose del mondo, come possa piacere al marito (v. 34b); è sottinteso che anche costei si trova divisa. In questo contesto il Signore (Kyrios) è Gesù (cfr. il precedente v. 25).
Si suppone che la preoccupazione per le cose del Signore sia comune alle persone sposate così come a quelle celibi: si tratta infatti di cristiani che hanno fatto una scelta fondamentale per il Signore e sono preoccupati di «piacere» (o «far piacere») a Lui in ogni cosa. Chi non è sposato può dedicarsi totalmente a questa preoccupazione. Per quanto riguarda la donna non sposata l’apostolo aggiunge che la rinunzia al matrimonio le conferisce una «santità», cioè un’intima comunione con Dio, che coinvolge tutta la sua persona (corpo e spirito). Chi è sposato invece deve preoccuparsi anche di «piacere» (o far piacere) al proprio coniuge. E questo, secondo l’apostolo, crea una divisione, cioè una lacerazione interiore. È chiaro che il celibato viene qui raccomandato in vista di un rapporto personale più intimo e profondo con il Signore. Non si tratta dunque esattamente del celibato «per il regno dei cieli» di cui parla Gesù nel vangelo (cfr. Mt 19,12), ma è chiaro che l’adesione a Cristo implica la disposizione a ricevere il regno e quindi a mettersi in sintonia con esso.
A conclusione di questa riflessione l’apostolo soggiunge che, se ha consigliato ai corinzi questa scelta, lo ha fatto per il loro bene, non per gettare loro un «laccio» (brochon), ma per indirizzarli a «ciò che è degno» (euschêmon) e a ciò che li tiene «assiduamente uniti» (euparedron) al Signore «senza distrazioni» (aperispastôs) (v. 35). Il celibato è lo stato di vita più raccomandabile, in quanto rappresenta un mezzo per realizzare un’unione più profonda con Cristo, senza quelle divisioni che la vita coniugale comporta. Ma resta la possibilità che esso diventi un laccio, cioè un ostacolo che può arrecare gravi danni alla persona proprio nel suo cammino di fede: è sottinteso che uno, per scegliere questo tipo di vita, deve averne il dono corrispondente (cfr. v. 7). Ma al di là di tutto, ciò che interessa a Paolo è l’unione personale e profonda dei credenti con Dio. L’espressione «senza distrazioni», che richiama una terminologia familiare al filosofo Epitetto, denota un certo influsso filosofico sulle valutazioni dell’apostolo, anche se il contesto religioso e culturale è diverso. Non è chiaro se questa unione piena con Cristo è possibile anche per le persone sposate, ma da quanto precede sembrerebbe di no: essa si attua soltanto nel celibato, il quale appare così come una via migliore per raggiungere una vita spirituale più alta.

Linee interpretative
Paolo riconosce l’importanza del matrimonio con tutto ciò che esso comporta, ma non nasconde la sua preferenza per il celibato. Egli esprime il suo punto di vista sullo sfondo di un mondo la cui fine è stata ormai decretata, nel quale il credente può vivere correttamente solo relativizzando tutte le realtà terrene, di cui pure deve fare uso. In questa prospettiva il celibato appare come una libera scelta, che uno fa per esprimere in un modo più radicale il suo distacco da un mondo destinato a finire e la sua ricerca di una dedizione totale a Cristo. Appunto nell’imminenza della fine il celibato permette al credente di superare meglio la tribolazione finale, togliendogli quelle preoccupazioni che invece lo stato matrimoniale comporta.
L’apostolo non pensa certo che il celibato possa eliminare del tutto le preoccupazioni legate alla vita in questo mondo, ma è convinto che possa attenuarle, affinché il credente sia unicamente preoccupato per le cose del Signore. In altre parole vorrebbe che il cuore del credente non fosse diviso tra due preoccupazioni che tendono ad escludersi l’una con l’altra, ma che fosse totalmente proiettato verso Cristo e verso i valori del mondo futuro. Secondo lui chi ha rinunziato al matrimonio ha trovato la sua unità profonda nell’appartenere totalmente a Cristo. Chi invece è sposato deve tendere anche lui alle realtà ultime del regno, ma servendosi di un mezzo, il proprio coniuge, che facilmente, per la debolezza umana, tende a separarlo da Cristo e a porsi come fine autonomo della sua vita. Per questo il matrimonio è da lui considerato come meno idoneo del celibato alla situazione escatologica del credente. Pur essendo in se stesso buono e compatibile con la vita cristiana, esso fa parte di quelle realtà di cui bisogna usufruire «come se» non si possedessero, creando così una tensione interiore che egli vorrebbe risparmiare ai suoi destinatari.
È chiaro quindi che la proposta del celibato non si basa su una svalutazione del matrimonio o della sessualità, ma sull’attesa della venuta ormai imminente degli ultimi tempi e del regno di Dio. Paolo non può ignorare che anche il matrimonio cristiano ha senso solo se è vissuto in vista del regno di Dio (cfr. Ef 5,21-33). Sembra inoltre che egli proponga il celibato ponendone in luce soprattutto i vantaggi, mentre a proposito del matrimonio sottolinea specialmente i limiti. Infine egli rischia di fare del coniuge un potenziale concorrente di Dio nel cuore del credente. Se è vero che l’impegno per il coniuge e per la famiglia può ostacolare la piena dedizione a Dio e ai fratelli, non bisogna ignorare che anche il celibato comporta il rischio di uno spiritualismo che non fa i conti con le esigenze reali delle persone. Il matrimonio infatti impone un continuo e diretto confronto con l’altro (il coniuge, i figli e la società), al quale il celibe può facilmente sfuggire.
La scelta celibataria mantiene tutto il suo valore anche per chi non pensa più ad una prossima fine del mondo, ma è convinto della sua transitorietà e caducità. Tuttavia la preferenza che Paolo esprime per il celibato rappresenta un aspetto marginale del suo messaggio, influenzato dalle attese di una fine imminente tipiche dei primi decenni del cristianesimo. Più che la priorità di uno stato di vita sull’altro è invece utile sottolineare l’esigenza di una loro interazione all’interno della comunità.

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