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La prima volta di Benedetto XVI in America latina
Molti si aspettano che il papa finalmente parli ai cinquecento milioni di cattolici del continente, che da lui si sono sentiti fin qui trascurati. Ad Aparecida il possibile inizio d’un secondo tempo del pontificato
di Sandro Magister
ROMA, 26 aprile 2007 – A San Paolo del Brasile e al santuario dell’Aparecida, sul tropico del Capricorno, è autunno e le temperature sono miti. Ma il suo prossimo viaggio in quelle terre, dal 9 al 14 maggio, sarà per Benedetto XVI una prova del fuoco.
In due anni di pontificato né il Brasile né l’America latina sono mai apparsi al centro della sua attenzione, nonostante lì vivano cinquecento milioni di cattolici, quasi la metà del miliardo e cento milioni di cattolici di tutto il pianeta.
Lampi di passione per questo continente Joseph Ratzinger li aveva fatti balenare nei primi mesi dopo l’elezione a papa.
Aveva fissato lui, il 7 luglio del 2005, il tema della quinta conferenza generale dei vescovi dell’America latina e dei Caraibi: “Discepoli e missionari di Gesù Cristo”. Quinta dopo quelle di Rio de Janeiro nel 1955, di Medellín nel 1968, di Puebla nel 1979 e di Santo Domingo nel 1992:
Aveva voluto lui che che l’altra frase del titolo: “Perché tutti abbiano la vita” finisse specificando: “in Lui”. E che fosse aggiunta l’affermazione dello stesso Gesù: “Io sono la via, la verità e la vita”.
Aveva stabilito lui la data e il luogo. Nell’ottobre del 2005, durante il sinodo dei vescovi, incontrando alcuni cardinali sudamericani chiese loro a bruciapelo quale fosse in Brasile il più frequentato santuario della Madonna. “L’Aparecida”, gli risposero. E il papa: “Vi riunirete lì. Nel maggio del 2007. E io ci sarò”.
Poi però ha interamente delegato ad altri la fase preparatoria: in curia al cardinale Giovanni Battista Re, prefetto della congregazione per i vescovi e presidente della pontificia commissione per l’America Latina, e oltre Atlantico al cardinale Francisco Javier Errázuriz Ossa, arcivescovo di Santiago del Cile e attuale presidente del CELAM, il consiglio episcopale latinoamericano.
Il cardinale Re è da anni il principale responsabile delle nomine dei nuovi vescovi in America latina, con questo e con il precedente papa. Si deve in buona parte a lui, quindi, se oggi l’episcopato latinoamericano è così povero di figure di spicco, di guide sicure e di grande visione. Le eccezioni sono rare. Il cardinale argentino Jorge Mario Bergoglio è una di queste: ma dalla preparazione della conferenza di Aparecida si è tenuto lontano e ha opposto un diniego insuperabile alla richiesta fattagli dallo stesso Benedetto XVI di trasferirsi a Roma a capo di un dicastero curiale.
In Vaticano il papa ha poi fatto venire, lo scorso ottobre, l’arcivescovo di San Paolo del Brasile, il cardinale Cláudio Hummes, come prefetto della congregazione per il clero. Ma senza alcun effetto visibile, sinora.
Hummes sa per esperienza diretta che il clero è uno dei punti critici della Chiesa del continente. Tranne che in Messico, Colombia, Cile e Argentina, in tutti gli altri paesi i preti indigeni sono pochissimi, uno ogni quindicimila battezzati, in proporzione dieci volte di meno che in Europa o nel Nordamerica dove pure il loro numero ha subito un forte ribasso.
Oltre che pochissimi, i preti sono male istruiti. Nelle aree rurali e sulle Ande il concubinato è prassi corrente. In molte chiese e parrocchie la messa domenicale è celebrata di rado e spesso in forma arbitraria: il che spiega i bassi indici di partecipazione regolare alla messa in questo continente pur così diffusamente cattolico.
I seminari sono anch’essi di qualità molto disuguale. Là dove le vocazioni al sacerdozio sono in ripresa – in qualche diocesi più viva, in qualche comunità carismatica – la difficoltà maggiore per il vescovo o il capo di comunità è trovare un seminario affidabile.
Tutto ciò è arcinoto, ma nei testi preparatori della conferenza di Aparecida e persino nella bozza del lunghissimo documento finale, predisposto in segreto negli uffici vaticani, se ne trova solo una flebile traccia.
Il 20 gennaio di quest’anno e poi il 17 febbraio Benedetto XVI ha letto i due soli discorsi fin qui da lui dedicati al tema: il primo rivolto ai membri della pontificia commissione per l’America Latina e il secondo ai nunzi di quel continente. Discorsi entrambi di routine, prodotti negli uffici del cardinale Re, senza un passaggio che denotasse la mano e la mente del papa, ben riconoscibili quando scrive di suo pugno.
Altrettanto di routine è stata la nomina dei 266 partecipanti alla conferenza di Aparecida, tra membri, invitati, osservatori ed esperti. Dei sedici la cui scelta spettava a Benedetto XVI undici erano d’obbligo in quanto capi di altrettanti uffici curiali. Dei rimanenti cinque, l’unico di rilievo è il cardinale Marc Ouellet, arcivescovo di Québec, canadese ma molto più competente in materia di tanti suoi colleghi latinoamericani.
Eppure grosse ragioni ci sarebbero perché Aparecida entri nella storia, come – per altre ragioni – due delle riunioni continentali che l’hanno preceduta: Medellín, in Colombia, nel 1968 e Puebla, in Messico, nel 1979.
Il discorso che Giovanni Paolo II pronunciò a Puebla ebbe un impatto forte, inaugurò la decennale battaglia che Roma avrebbe poi combattuto e vinto, con l’apporto inflessibile dell’allora cardinale Ratzinger, contro l’utopia marxista nelle vesti della teologia della liberazione.
Da allora però moltissimo è cambiato. Quando Karol Wojtyla mise piede in Messico nel 1979 e l’anno dopo in Brasile, in vari paesi del continente erano al potere regimi reazionari e anche sanguinari. Oggi per
la Chiesa la sfida è opposta e per certi aspetti ancora più ardua.
In Brasile, Cile, Uruguay, Argentina governano i progressisti di Lula, Michelle Bachelet, Vázquez, Kirchner, portatori di una visione laica simile a quella del Nord secolarizzato del mondo. Mentre in Venezuela, Bolivia, Ecuador, Nicaragua domina il populismo di Chávez, Morales, Correa, Ortega. Il marxismo caro alla teologia della liberazione resiste solo a Cuba. La religione dei nuovi regimi populisti è semmai l’indigenismo, sono i miti dell’America precristiana.
Ma un cambiamento non meno forte è avvenuto sul terreno religioso. Nel 1980, quando Giovanni Paolo II si recò per la prima volta in Brasile, i cattolici avevano il quasi monopolio, erano l’89 per cento della popolazione. Al censimento del 2000 erano scesi al 74 per cento e oggi a San Paolo, a Rio e nelle aree urbane sono addirittura sotto il 60 per cento.
Contemporaneamente sono aumentati i senza religione – dall’1,6 per cento del 1980 al 7,4 per cento del 2000 – ma soprattutto i protestanti d’impronta pentecostale. Questi ultimi sono passati dal 5 per cento del 1980 al 15 per cento e nelle aree urbane anche al di sopra del 20.
Ma c’è di più: lo spirito del pentecostalismo raccoglie un numero crescente di seguaci anche tra chi continua ad appartenere alla Chiesa cattolica. Il Pew Forum on Religion & Public Life, in un’accurata indagine del 2006, ha accertato che in Brasile un cattolico su tre può essere oggi ascritto a questa tendenza. Che è in larga misura reattiva alla pressione secolarizzante e ama un cristianesimo puritano, comunitario, ispirato dall’alto, difensore della vita e della famiglia, impegnato sulla scena pubblica, con forte spirito di missione.
Giovanni Paolo II, a Santo Domingo nel 1992, bollò come “lupi rapaci” le comunità pentecostali protestanti, che in effetti sono spesso aggressive contro i simboli del cattolicesimo, dalla Madonna al papa.
Lo stesso Ratzinger, in una conferenza del 13 maggio 2004, accusò gli Stati Uniti di promuovere “la protestantizzazione dell’America latina e il dissolvimento della Chiesa cattolica”.
Ma da papa, lo scorso 17 febbraio, ha richiamato piuttosto
la Chiesa a interrogare se stessa.
Se tanti fedeli l’abbandonano e passano alle comunità pentecostali – fenomeno che interessa massicciamente anche l’Africa, l’Asia e il Nordamerica – è perché hanno sete di un Gesù vivo e vero che
la Chiesa annuncia troppo debolmente. Come il Gesù umanizzato e politicizzato dei libri di Jon Sobrino, il teologo della liberazione condannato lo scorso inverno dalla congregazione per la dottrina della fede.
In definitiva, per Benedetto XVI, la questione capitale è Gesù, anche per l’America latina. Chissà a San Paolo e ad Aparecida come saprà finalmente parlarle, e toccarla nel cuore.