Archive pour le 1 septembre, 2009

Il deserto del Negev, Israele

Il deserto del Negev, Israele dans immagini belle SaharaMorocco

Il deserto del Negev, Israele
Israele è riuscito nella coltivazione di fiori nel Deserto del Negev, con tale successo che Israele è uno dei principali esportatori di fiori all’Europa (incluso di tulipani all’Olanda).

http://www.imninalu.net/Israel-Arabi.htm

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IL SALMO 23 – COMMENTO

dal sito:

http://www.parrocchiasantarita.net/Salmo23.html

IL SALMO 23 – COMMENTO

Sal 23
 
Il Signore è il mio pastore: non manco di nulla; su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce. Mi rinfranca, mi guida per il giusto cammino, per amore del suo nome.

Se dovessi camminare in una valle oscura, non temerei alcun male, perché tu sei con me. Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza.

Davanti a me tu prepari una mensa sotto gli occhi dei miei nemici; cospargi di olio il mio capo. Il mio calice trabocca.

Felicità e grazia mi saranno compagne tutti i giorni della mia vita, e abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni.

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Commento

Questo salmo è forse il più famoso e amato fra tutti, ed è stato composto da Davide, « il soave cantore di Israele ».

Il salmo lo abbiamo cantato tantissime volte nella liturgia delle Messe domenicali o feriali, ed esprime la gioia serena, fiduciosa di un’anima che ha trovato la pace della mente e del cuore nella sua unione contemplativa con Dio, eppure forse non lo conosciamo.

Nei molti anni in cui Davide si era preso cura delle pecore, aveva imparato che questi animali indifesi richiedevano un’attenzione particolare, continua, in una terra dove le belve selvatiche vagavano liberamente e pecore e agnelli erano facile preda anche di animali di modeste dimensioni (non scordiamo che stiamo parlando di un periodo di migliaia di anni fa): così egli ha applicato questa conoscenza al nostro rapporto con Dio.

Ecco perché il salmo 23 è chiamato il « salmo del pastore », perché parla di un pastore, anzi del Signore sorto a immagine del pastore, e ne sviluppa il simbolo.

Non solo, dal v.5 in avanti è delineata un’altra immagine, quella dell’ospite che invita a cena: « Davanti a me tu prepari una mensa… ».

Quindi due sono i simboli: il pastore e colui che ci invita a cena trattandoci regalmente e facendoci stare con sé.Tanto da esprimere ottimamente la tensione spirituale, psicologica, umana e teologica del testo, riassumendo tutto con un’espressione di grande fiducia: « Tu sei con me ».

Cerchiamo ora di capire che cosa in pratica significa.

Dopo il titolo, vediamo di sottolineare i personaggi, i soggetti che agiscono nel testo. Sono due: il Signore e l’individuo, cioè colui che parla.

* Le azioni attribuite al Signore sono nove: egli è il mio pastore; mi fa riposare; mi conduce; mi rinfranca; mi guida; è con me; mi dà sicurezza; prepara una mensa; cosparge di olio. Nove designazioni che indicano la cura, la premura, l’attenzione, espresse con metafore, con parabole, con simboli: esse definiscono il Signore come colui che si prende cura di ognuno.

* Di fronte a questo soggetto principale, c’é l’individuo che afferma di non mancare di nulla, di non temere alcun male, afferma che il calice trabocca; che sente la felicità e la grazia come compagne di vita, che vuole abitare nella casa del Signore.

 Come possiamo osservare si tratta di un dialogo affettuoso, fiducioso, familiare tra il Signore e l’individuo: che cosa è lui, che cosa fa per ognuno, che cosa gli diciamo. E’ una preghiera semplicissima, che non chiede, in pratica nulla, non ringrazia, non loda, ma proprio per questo è ricchissima.

Rileggiamo ora le strofe dal punto di vista delle immagini, come se l’individuo fossimo noi stessi. Abbiamo già parlato delle due fondamentali: il pastore e l’ospite, cioè l’immagine del pascolo e l’immagine della convivialità, dell’ospitalità a mensa.

* L’immagine del pastore, molto usata nella Bibbia fino al discorso di Gesù sul buon pastore, in Giovanni 10, viene specificata: « su pascoli erbosi mi fa riposare, ad acque tranquille mi conduce ». E’ la sosta del gregge su pascoli verdi e presso acque tranquille.

 Chi è stato in pellegrinaggio in Palestina, sa come è difficile trovare un pascolo verde; quindi quando un pastore riesce a scoprirlo, egli è davvero la gioia del gregge; chi ha provato la sete del deserto (siete mai stati nel deserto del Negev?), può comprendere che cosa significa incontrare qualcuno capace di indicare dove c’é una sorgente d’acqua (oggi noi cercheremmo un bar), magari nascosta sotto le pietre.

Quindi il pastore del salmo sa fare sostare il gregge nei luoghi giusti. Inoltre sa far viaggiare: c’é infatti l’immagine del gregge in sosta su pascoli erbosi e c’é quella del gregge in movimento, guidato per sentieri giusti, per piste che portano a buon fine (similmente come le guide turistiche che portano a visitare il deserto).

 In questo viaggio si può anche « camminare in una valle oscura » (pensiamo per un istante al deserto di Giuda e alle sue valli pietrose, incassate, dirupate, molto pericolose se di notte ci si perde e se inciampando, si cade in qualche baratro!), il pastore del salmo sa guidare pure in una valle oscura, di notte.

Le immagini si moltiplicano: quella del bastone e del vincastro. Probabilmente per bastone si intende una mazza corta e adatta a difendere il gregge; il vincastro invece, è quello che oggi è il pastorale del Vescovo, un bastone lungo e ricurvo, su cui il pastore si appoggia, che serve per appendervi il sacco o per tastare il terreno, per tenere lontani i cani randagi. Una metafora molto pittoresca, che evoca tutto quanto il pastore fa per amore del suo gregge, per condurlo; ed è ciò che il Signore fa per ognuno.

*Seguono le immagini conviviali: « davanti a me tu prepari una mensa ». Figuriamoci di trovarci sotto una tenda (chi ha fatto campeggio se ne può rendere conto), su una stuoia stesa per terra, e su un tavolo basso vassoi con cibi succulenti, che si prendono con le mani, si mette un poco di focaccia in una salsa e vi si intingono bocconcini di carne; figuriamoci di godere ore e ore in questa cena in comune, fraterna e allegra.

 Non solo, prima che la cena abbia inizio, l’ospite che ha invitato cosparge di profumo, « cosparge di olio il capo », proprio come ha fatto Maria di Betania quando Gesù entra nella sua casa. Sulla mensa c’é anche una coppa, un calice traboccante di vino spumeggiante, che dà brio e vivacità.

Le immagini conviviali sfociano nell’immagine della casa del Signore: « abiterò nella casa del Signore per lunghissimi anni »; la tenda ospitale diventa, a un certo punto, il tempio, la casa di Dio (dove c’é accoglienza e amicizia, c’ é Dio), dove si è veramente a casa.

Ma potremmo soffermarci anche su altre metafore.

Per esempio, che cosa significa « acque tranquille »? Evidentemente non soltanto pozze di acqua da cui si beve in pace e senza pericoli; in realtà, è evocato un cammino di pace, un cammino spirituale verso la pace interiore, dove ci si ristora alla fine di un viaggio pericoloso, irto di difficoltà (il mondo e l’efficienza materialistica).

E ancora, cosa significa « valle oscura, tenebrosa »? Non si tratta soltanto di un abisso dove non giunge la luce, dove la notte è fonda; nella psicologia della persona umana, è piuttosto la paura del buio,della morte, quella paura che affiora nella coscienza e che non si placa, a meno che non venga una voce dall’alto a portare parole di conforto.

Passando alla meditazione, riformuliamo la domanda iniziale pensando a noi: qual è il messaggio del salmista per me, per te, per noi tutti? Che cosa dice questa poesia religiosa oggi?

Cerchiamo ancora una volta le parole chiave del messaggio, che a mio avviso sono quattro:

- non manco di nulla;

- tu sei con me;

- mi dai sicurezza col tuo bastone e il tuo vincastro;

- abiterò nella casa del Signore.

Ecco il messaggio di fiducia: Signore, io non manco di nulla perché tu sei con me, mi dai sicurezza e abito nella tua casa.

Cari fratelli e sorelle, per potere dire sul serio queste parole, è necessario chiederci su chi cadono, e la risposta al quesito per me è ovvia: cadono oggi su cuori sofferenti, sulle nostre ansietà, sulle nostre paure, sulle nostre insicurezze, sulle nostre miserie e debolezze umane che ci rendono schiavi di noi stessi.

Amen, alleluia,amen.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura, salmi |on 1 septembre, 2009 |Pas de commentaires »

I santi sanno ridere

dal sito:

http://www.zenit.org/article-19288?l=italian

I santi sanno ridere

ROMA, sabato, 29 agosto 2009 (ZENIT.org).- Riportiamo uno stralcio del libro di Ferdinando Castelli, “All’uscita del tunnel. Panoramiche religiose dell’odierna letteratura” (Città del Vaticano, Libreria editrice vaticana, 2009, pagine 214, euro 16), apparso su “L’Osservatore Romano”.

* * *

di Ferdinando Castelli

«La letteratura antica non conosce — questo è caratteristico — l’umorismo, ma solo il comico: l’umorismo è serbato al cristiano quale espressione della sua nuova libertà, che lo innalza, come creatura spirituale, sopra tutte le creature non libere» (Giuseppe Sellmair). E ancora: «Noi siamo dei comici. Dovremmo vederci sotto questo aspetto. Solo l’umorismo, rosa o nero o crudele, solo l’umorismo può renderci la serenità». L’affermazione è di Ionesco. Con essa il drammaturgo rumeno vuol ricordarci che la sola maniera di poterci consolare dell’infelicità di sentirci perduti in questo mondo votato alla morte è l’evasione nell’umorismo. Dunque, suggerisce: ridere della nostra comicità di creature che non riescono mai a sentirsi a loro agio in un’esistenza tallonata dalla sofferenza e dalla morte; ridere per sfuggire alla disperazione e alla follia; ridere per non essere sempre costretti a vedersi dinanzi il muro del mistero (o dell’assurdo).

In realtà, molti testi teatrali di Ionesco fanno ridere, divertono, trasportano in mondi surreali: si pensi a La lezione, Le sedie, La cantatrice calva, Il rinoceronte. Danno anche la serenità? Ne dubitiamo. L’umorismo, nero e crudele, che da essi si sprigiona, offre un divertimento che sa di desolazione.

È indubbio però che l’umorismo è un mezzo regale per stabilirci nella serenità. Esso fa parte della saggezza che è dono dello Spirito Santo; «occupa un posto molto importante nella vita religiosa», anzi «è il sale della vita, e in un certo senso è il sale della vita religiosa, il quale la preserva da ogni guasto».

Padre Benson non esitava a definire l’umorismo di santa Teresa d’Avila «dono divino», dono che ha reso la vita di tanti santi un’avventura piena di fascino: si pensi a Francesco di Sales, Tommaso Moro, Filippo Neri, Ignazio di Loyola, Papa Giovanni, Giorgio La Pira. Il Roche arriva ad affermare che «la storia di tante eresie è in molta misura una storia di perdita del senso dell’umorismo. Non si potrebbero altrimenti spiegare, lasciando da parte l’opera del demonio, certe loro aberrazioni e assurdità».

Bisogna pertanto concludere che c’è umorismo e umorismo. Altro è l’umorismo di George Bernard Shaw, intriso di amara ironia, altro quello di Gilbert Keith Chesterton, sapido di saggezza umana e cristiana; altro l’umorismo di Voltaire, corrosivo e chiuso a ogni trascendenza, altro quello di Tommaso Moro, benevolo e illuminato da una sapienza superiore; altro l’umorismo di Cervantes, espressione dell’anima religiosa, altro quello degli scrittori dell’assurdo, riso amaro e soffocato.

Allora, quando c’è vero umorismo? E che cos’è l’umorismo? Definirlo non è semplice. Le sfumature, le sottigliezze, la varietà di significato che caratterizzano il termine impediscono una definizione precisa. Del resto ogni espressione di umorismo riflette diversità di cultura, di mentalità, di abitudini; non solo, ma esso è una proiezione dell’individuo. Ogni popolo ha una specifica forma di umorismo e ogni umorista una sua particolare fisionomia. Sintetizzando, gli elementi essenziali dell’umorismo — o del sense of humour, nella caratteristica espressione anglosassone — sono la capacità di cogliere i lati buffi e contraddittori della vita, ridendone con benevola comprensione, uno sguardo superiore che permette di vedere meglio e «oltre»; un’intelligenza nuova che relativizza e ridimensiona quanto si vorrebbe prendere per assoluto ed eccelso.

Si comprende subito che l’umorismo ha vari elementi in comune col comico, con l’ironia e col riso, ma che da essi si diversifica nettamente. Il comico si alimenta degli aspetti bizzarri della vita per divertire e divertirsi, l’umorismo nasce dalla scoperta delle miserie umane e si accompagna a un atteggiamento di comprensione, che compatisce e costruisce; fa anche divertire, ma soprattutto fa pensare.

L’ironia aggredisce, ferisce, distrugge anche; l’umorismo è indulgente, benevolo, compassionevole. Ma come l’ironia, il riso e il comico, l’umorismo prende le distanze dal soggetto, non per una reazione di difesa né per un senso di disprezzo o di rifiuto, ma per una nuova dimensione in esso scoperta. Agli occhi dell’umorista certi eventi o persone assumono aspetti diversi, capaci di suscitare nuovi punti di vista e di significato. Così una situazione seria si trasforma in una situazione buffa, e viceversa, in un’atmosfera di simpatia che avvicina le persone, le comprende, le affratella. Per realizzare tale spostamento di piani e acquistare questa nuova intelligenza, l’umorista deve poter disporre «di una certa saggezza umana, frutto di esperienza, e di una notevole capacità di osservazione sugli altri e su se stessi. Diciamo, se si preferisce, che nasconde un giudizio implicito, fondato su una concezione dell’uomo e dell’esistenza umana. Ciò probabilmente spiega perché il bambino è incapace di humour».

Se l’umorismo fiorisce su una determinata concezione dell’uomo e dell’esistenza, bisogna dire che il cristianesimo ne è la sua più piena e più ricca espressione. Non per nulla Kierkegaard considera l’umorismo come l’estrema approssimazione dell’umano a ciò che è propriamente religioso-cristiano. C’è anche chi sostiene che soltanto nel cristianesimo è possibile una piena forma di humour.

In verità, esaminando attentamente la questione, si approda alla convinzione che cristianesimo e umorismo vanno perfettamente d’accordo, anche se, a prima vista, parrebbe vero il contrario.

Nonostante qualche accenno, il principale lavoro teologico sulla commedia è stato effettuato soltanto di recente, e può riassumersi nella nozione che sia per il cristianesimo sia per la sensibilità comica nulla va preso troppo sul serio. Il mondo è importante, ma non in modo assoluto.

«Come il buffone, l’uomo di fede può sorridere alle pretese del principe perché sa che il principe non è altro che un uomo che un giorno sarà ridotto in polvere». Dunque, è umorista Dio? La risposta ci è data innanzitutto dal mistero dell’Incarnazione. Che Dio, eterno e infinito, del quale nessuno può vedere il volto e restare vivo (Esodo, 33, 20), che «abita una luce inaccessibile» (1 Timoteo, 6, 6), «alfa e omega» (Apocalisse, 1, 8), semper maior di quanto di lui si possa dire o pensare, supra quem nihil, extra quem nihil, sine quo nihil: che questo Dio assuma la natura umana e diventi uomo come noi; come noi soffra la fame e la sete, la solitudine e la malattia, il freddo e il caldo; subisca come noi la passione e la morte; si sottometta ai capricci degli uomini; che «con l’Incarnazione si sia unito in certo modo ad ogni uomo» (Gaudium et spes, n. 22), tutto ciò sconvolge la mente.

Ma, se l’uomo si smarrisce, Dio «si diverte»: di un divertimento che è espressione di amore infinito, che sfugge a ogni comprensione, annienta ogni misura. Dietro lo scandalo dell’Incarnazione c’è l’abisso inesplicabile della ricchezza dell’amore e della sapienza con cui Dio ha disposto la trama segreta dei fatti di cui è intessuta la storia umana (Romani, 11, 33).

Se la base dell’umorismo va ricercata nella legge del contrasto e nell’accostamento dei contrari, bisogna concludere che, in fatto di umorismo, Dio è maestro insuperabile.

Questo umorismo divino accompagna l’opera della salvezza e s’incarna in scelte che non finiscono mai di sconcertare. «Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è ignobile e disprezzato e ciò che è nulla per ridurre a nulla le cose che sono» (1 Corinzi, 1, 28). Tutta la storia della Chiesa è una sequenza di scelte — scelte di persone, di eventi, di strumenti — che Dio opera con immutato sense of humour e che le conferiscono un inconfondibile sapore di ottimismo e di gioiosa sorpresa.

In questa prospettiva umoristica va inquadrata e compresa l’esistenza cristiana. Essa paradossalmente si snoda tra l’eterno di Dio e gli eventi, spesso insignificanti, del nostro quotidiano; tra la vittoria definitiva del Signore e le nostre impotenze e sconfitte; in una Chiesa che è, nello stesso tempo, sposa senza macchia e comunità di peccatori. Tutto ciò getta sull’esistenza cristiana una luce nuova, che permette di vedere uomini e cose in angolature ricche di significato. Concepito in chiave cristiana, l’umorismo non chiude gli occhi sulle brutture e miserie della vita; neanche si pone — come succede per l’ironia, la satira e l’arguzia — di fronte a esse come un giudice.

Guidato dalla fede, esso scorge il lontano grande comune progetto di Dio; getta qui il suo pensiero e avanza sorridendo mentre scopre le stoltezze di noi mortali. Nell’umorista si nasconde una straordinaria forza di sopportazione e un’irrefrenabile libertà dell’essere; il suo regno è oltre i contrasti terreni e nessuna fredda valutazione riesce a deprimerlo.

Tra gli effetti più importanti dell’umorismo cristiano vi è la demitizzazione di sé e degli altri. Capitano giorni in cui tutti sono tentati di vedersi in prospettive eroiche, in pose da grandi, su piedistalli costruiti col materiale più vario. In queste ore di grazia ci si sente padroni del mondo, capaci di sfidare e vincere le debolezze nelle quali, chi più chi meno, inciampano tutti. In ognuno di noi c’è un po’ di Pietro che proclama: «Se anche dovessi morire con te, non ti rinnegherò» (Marco, 14, 31). L’impatto con la realtà della nostra miseria, quando questa s’impadronirà di noi e stenderà la sua ombra sulla nostra vita, potrebbe essere drammatico. Vera valvola di sicurezza sarà, allora, il sense of humour. Esso non nasconde le nostre debolezze, né le edulcora o le ammanta di inutili orpelli, ma ce le fa vedere con lo sguardo del Signore: con quell’amore che è comprensione dei nostri limiti, dono di fiducia, promessa di perdono. Egli sa che Pietro, prima che il gallo canti due volte, lo rinnegherà tre volte, ma invece di rifiutarlo, gli affida la sua Chiesa. Sa che il triplice rinnegamento non è espressione di cattiveria, ma di debolezza. E deve aver sorriso di fronte alla baldanza del futuro primo Papa.

Con questo stesso sguardo l’umorismo riesce a «ridimensionare» noi e gli altri. Sul crollo delle impalcature eroiche germoglia allora l’umiltà e la fiducia. La prima sgombra il terreno da ogni presunzione e permette di camminare in verità, invita ad «attingere forza nel Signore e nel vigore della sua potenza» (Efesini, 6, 10), ricorda «agli anziani che il mondo non è finito con loro e ai giovani che il mondo non è incominciato con loro». La fiducia ci proietta in avanti, ci rende intraprendenti, ci fa soggetti di storia, ci apre la porta all’amore degli altri.

Si comprende pertanto che l’umorismo cristiano è un nuovo modo di essere e di sentire: converte il pessimismo in audacia, il disprezzo in pietà, l’insofferenza dei limiti in feconda accettazione. Questa benefica novità deriva dal fatto che, nell’ottica umoristica, l’esistenza e gli eventi ricevono senso e valore non in se stessi, ma in Dio che «sa di che siamo plasmati, ricorda che noi siamo polvere» (Salmi, 102, 14).

Isolata dal flusso della redenzione operata da Cristo, la realtà umana fa orrore perché prigioniera del male, del banale, della noia, della disperazione. «Innumerevoli — afferma Sofocle nell’Antigone — sono le cose spaventose, ma nulla c’è di più spaventoso dell’uomo». L’uomo? «Un misero commediante, che incede e si agita sulla scena e più non se ne parla».

Conseguenza? Disgusto, rifiuto, pena, che si esprimono nel lazzo, nell’ironia amara, nel riso senza gioia. L’umorismo opera un’inversione di prospettiva. L’uomo non è visto isolato e abbandonato alla sua miseria, ma all’ombra dell’amore di Dio che comprende e usa misericordia; non si offre al nostro sguardo come una «cosa spaventosa», ma come un figlio amato che, per un capriccio di bambini, crede di poter fare a meno dei genitori; meritevole più di indulgenza che di condanna, più di tenerezza che di severità.

Questo sguardo di tenerezza e d’indulgenza ci dà la grazia — poiché di una vera grazia si tratta — di ridere di noi stessi: dei nostri fallimenti, dei nostri sogni infranti, dei nostri voli mancati. L’umorismo riesce a sdrammatizzare gli eventi, a sottolineare la relatività di ogni cosa, a eliminare ogni patina di fatalità, e tutto collocare in una giusta prospettiva. Grazie al suo famoso sense of humour, espressione della speranza cristiana e di una fede viva, sir Thomas More è riuscito a sdrammatizzare anche la sua morte. Salendo la vacillante scaletta del patibolo, esclama: «Per favore, messer luogotenente, volete darmi una mano per farmi salire sicuro? Poi, per scendere, lasciate pure che mi arrangi da solo». Incoraggia anche il carnefice: «Su, amico, fatti animo, e compi il tuo ufficio senza timore. Ma guarda che ho il collo piuttosto corto: perciò sta’ attento a colpire diritto, per non macchiare il tuo buon nome».

Il senso d’insoddisfazione e di amarezza di cui spesso tanti di noi sono vittime deriva dal fatto che il mondo non va come noi vorremmo e che la Chiesa non la pensa come a noi piacerebbe. Qui deve soccorrerci l’umorismo che ci fa prendere una certa distanza dai nostri punti di vista e ci ricorda che non siamo le sole persone intelligenti, le sole che pensano rettamente e che dispongono dello Spirito Santo. Nello spazio creato dall’umorismo le tensioni si allentano, molte cose si vedono meglio e trovano la loro giusta collocazione.

«Troppi individui stanno eccessivamente addossati alle cose. E allora la visione risulta parziale, distorta, centrata sui particolari, senza prospettiva, senza sfumature, marcata dalla passionalità, da tinte troppo cariche. Significative, a questo proposito, certe discussioni tra gente accigliata, tesa, arrabbiata, amara, nervosa, perfino isterica, che fa di ogni problema una tragedia, di ogni novità un’eresia, di ogni critica una sciagura, di ogni protesta una rivoluzione. La confusione celebra inenarrabili trionfi. Invece è urgente, è igienico costruirsi una nicchia nel cuore, da dove scaturirà quel sorriso che è capacità di guardare con benevolenza a tutte le cose, che è senso del limite, proprio e altrui».

Tale capacità  è anche libertà di spirito che permette di dominare gli eventi e di navigare nei mari della serenità e della fiducia. Un teologo tutt’altro che superficiale, il cardinale Henri-Marie de Lubac, ha scritto: «Al colmo della sofferenza guardati ogni tanto con humour, onde sfuggire al veleno che essa distilla. Credimi, il rimedio è più efficace di qualsiasi eroico combattimento. È anche più facile, per poco che tu sia abitualmente sensibile alla commedia umana, senza però metterti fuori del gioco». E riporta il consiglio di un anonimo cenobita: «Se la tua anima è turbata va in chiesa, prosternati e prega. Se la tua anima rimane ancora turbata vai a trovare il tuo padre spirituale, siediti ai suoi piedi e aprigli l’animo. E se la tua anima è sempre turbata, ritirati allora nella tua cella, stenditi sulla stuoia e dormi».

L’opposto dell’umorista è il corrucciato. Sprovvisto del senso del relativo, prende tutto sul serio, soprattutto se stesso; dimentico della sostanziale debolezza umana, non sa compatire; il suo sorriso, quando c’è, è stentato; la sua presenza non suscita né fiducia né simpatia; parla di Dio come di un giudice e di un custode della legge più che di un padre. Quando un suo progetto fallisce o gli vengon meno gli amici, si lascia andare a un’amarezza che gli avvelena l’esistenza. Generalmente angosciato, è anche «pesante» perché carico dei propri punti di vista, dei propri umori, delle proprie disillusioni.

Il cristiano che ha il sense of humour, invece, quando cozza contro la disillusione, comprende e sorride: comprende i suoi limiti e sorride del crollo delle sue illusioni. L’intelligenza del relativo lo sposta sul terreno dell’assoluto: può così collocarsi al suo giusto posto, in rapporto a un Altro immensamente più grande di lui, che lo avvolge con benevola Provvidenza. Per questo motivo Champollion, a proposito di Taulero, parla dell’umorismo come di un dono estremamente frequente presso i mistici. Ossia, presso persone che «non si fanno soverchie illusioni sulla santità del loro stato».

Sorride, si diceva. E ci viene in mente una pagina di Karl Rahner in cui si argomenta sul fatto che Dio «ride nel cielo», come si legge nel salmo 2: «Se ne ride chi abita nei cieli». Dinanzi al tumulto dei popoli che vogliono liberarsi dal suo dominio, Dio ride.

«Ride con calma — scrive Rahner — si potrebbe quasi dire: come se tutto ciò non lo toccasse. Pieno di compassione. Lui conosce perfettamente il dramma amaro di questa terra. Dio ride, dice la Scrittura. E, con ciò, afferma che perfino il più minuscolo riso puro e argentino, che scaturisce da non importa dove, da un cuore retto, dinanzi a una qualsiasi idiozia di questo mondo, riflette un’immagine e un raggio di Dio. È un ricalco del Dio vincitore e signore della storia e dell’eternità. Di quel Dio il cui riso sta a dimostrare che, in fondo, tutto è buono alla fin fine».

Nel mosaico dell’abside di San Paolo fuori le mura, Papa Onorio iii si è fatto ritrarre piccolissimo, su misura del piede destro del Signore. «In tal modo, con un sorriso di soddisfazione che la barba non riesce a celare, lascia al Pantocràtor il compito di governare da Signore la propria Chiesa».

In merito, la lezione più sorprendente ce l’ha fornita Papa Giovanni. L’umorismo è stato tra le principali e più feconde caratteristiche della sua spiritualità: esso si rifletteva in quel sorriso, aperto, cordiale, paterno, che era un irresistibile invito alla fiducia e alla pace interiore. Scriveva: «Lo Spirito Santo ha scelto me. Si vede che vuole lavorare da solo. Mi sembra talvolta di essere un sacco vuoto che lo Spirito Santo riempie improvvisamente di forza».

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buona notte

buona notte dans immagini buon...notte, giorno ganoderma_applanatum_1581

Ganoderma applanatum,

http://www.floralimages.co.uk/pganodappla.htm

Publié dans:immagini buon...notte, giorno |on 1 septembre, 2009 |Pas de commentaires »

Diàdoco di Foticea : « Taci, esci da costui ! »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20090901

Martedì della XXII settimana del Tempo Ordinario : Lc 4,31-37
Meditazione del giorno
Diàdoco di Foticea (circa 400- ?), vescovo
Capitoli sulla conoscenza, 78-80

« Taci, esci da costui ! »

Il battesimo è il bagno di santità che  toglie la macchia del nostro peccato, ma non cambia ora la dualità del nostro volere né impedisce agli spiriti cattivi di combatterci o di mantenerci nell’illusione… Tuttavia la grazia di Dio ha la sua dimora proprio nel fondo dell’anima, cioè nell’intendimento. Viene detto infatti che «la figlia del Re è nel palazzo» (Sal 44, 15): non si mostra ai demoni. Per questo dal fondo del nostro cuore sentiamo sorgere il desiderio divino, quando ci ricordiamo ardentemente di Dio. Ma allora, gli spiriti cattivi assaltano i sensi corporei e vi si nascondono, approfittando della rilassatezza della carne… Così dunque, il nostro intendimento, secondo il divino apostolo Paolo, si rallegra sempre della legge dello Spirito (Rm 7,22). Ma i sensi della carne invece vogliono lasciarsi trascinare sulla china dei piaceri…

«La luce splende nelle tenebre, ma le tenebre non l’hanno accolta» (Gv 1,5)…: Il Verbo di Dio, la luce vera, ha ritenuto opportuno manifestarsi alla creazione nella carne che gli è propria, accendendo in noi la luce della sua conoscenza divina nel suo amore incommensurabile per l’uomo. Lo spirito del mondo non ha accolto il disegno di Dio, cioè non l’ha conosciuto…; eppure il meraviglioso teologo, l’evangelista Giovanni aggiunge: «Veniva nel mondo la luce vera quella che illumina ogni uomo… Egli era nel mondo, e il mondo fu fatto per mezzo  di lui, eppure il mondo non lo riconobbe. Venne fra la sua gente ma i suoi non l’hanno accolto. A quanti però l’hanno accolto, ha dato il potere di diventare figli di Dio» (vs 10-12). Non di Satana l’evangelista dice che non ha ricevuto la vera luce, poiché fin da principio gli è estranea, visto che essa non brilla in lui. Ma stigmatizza giustamente con questa parola gli uomini che sentono le potenze e le meraviglie di Dio ma, a causa del loro cuore oscurato, non vogliono avvicinarsi alla luce della sua conoscenza.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 1 septembre, 2009 |Pas de commentaires »

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