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VIAGGIO NEL CATTOLICESIMO DI FRANCIA
Se tutto diventa semplice come una preghiera
Parigi, Lione, Rennes, Ars. Viaggio nel cattolicesimo di Francia
di Gianni Valente
Un vento gelido da neve toglie il respiro anche ai ragazzini più scapestrati, quelli che si ostinano a solcare a bordo dei loro skate la piazza davanti a Saint-Denis. Gli ultimi turisti, rimboccandosi sciarpe e paletot, si allontanano in fretta dalla cattedrale-museo che raccoglie le spoglie dei re di Francia: signori si chiude, stop alle visite lungo il percorso guidato che tra le navate racconta mille anni di storia della Francia cristiana, quando le dinastie di diritto divino si succedevano alla guida del regno, sotto la protezione del santo. Era stato lui a salvare l’anima di Dagoberto dall’inferno. E tutti i re credevano che fosse proprio Denis a conservare in buona salute loro e le loro famiglie. Per secoli, hanno fatto dell’abbazia uno dei centri pulsanti dell’Occidente cristiano. Lì sono stati consacrati, e lì hanno voluto che fossero conservati i propri resti. Pipino il Breve si era formato alla scuola monastica di Saint-Denis. Lì ha preso l’orifiamma san Luigi, prima di partire per le crociate, lì Giovanna d’Arco ha portato come ex voto le armi con cui aveva liberato Orléans. Il complesso monastico, coperto di privilegi da Carlo Magno e dai suoi successori, godeva dell’indipendenza dall’arcivescovo di Parigi. Le sue terre libere, estese a perdita d’occhio, richiamavano i mercanti, i contadini, gli artigiani. Adesso, sulle stesse terre, sorgono i quartieri più irrequieti della banlieue parigina. Quelli che nel 2005 si infiammarono coi roghi notturni di auto, nella rivolta sociale più estesa e preoccupante avvenuta di recente in un Paese occidentale. In quel lembo di Francia appena a nord di Parigi, i cristiani sono anche in senso strettamente anagrafico una minoranza, superati per numero dagli immigrati e dai francesi dell’Umma di Muhammad.
«La Fede» fa dire a Dio Charles Péguy nel suo Mistero dei Santi innocenti «è una chiesa, è una cattedrale radicata nel suolo di Francia… Ma senza Speranza, tutto questo non sarebbe che un cimitero». La Cattedrale deserta sembra un’immensa reliquia pronta a calarsi, con tutta la sua storia, nella notte fredda che s’appressa. Ma poi arriva Pierre, che ha la pelle scura e si mette davanti all’altare a sussurrare le Ave Maria del suo rosario. In ginocchio, proprio come la statua del re che dietro a lui si intravvede appena, nel buio della navata. («Tutte le prosternazioni del mondo», dice Dio secondo Péguy, «non valgono il bell’inginocchiarsi diritto di un uomo libero… Quando San Luigi cade sulle lastre del pavimento della Sainte-Chapelle, di Notre-Dame, è un uomo che cade in ginocchio, non è un cencio, non è uno straccio, un tremante schiavo d’Oriente»). Dopo di lui, ne arrivano altri: dieci, venti, cento. Rapidi e silenziosi segni di croce, qualche preghiera prima della messa della sera celebrata da padre Jean Baptiste, il vietnamita. Molti sono immigrati “neri” della banlieue. Sono pochi, ma ci sono. E nessuno li ha “mobilitati”. Vengono da soli. Individualità senza mandato.
Parigi dopo Lustiger
Dicono: in Francia è tutto finito. La Chiesa è in stato di decomposizione, il cristianesimo è in via d’estinzione. Accigliati intellettuali cattolici lo hanno scritto anche prima che arrivasse il Papa, lo scorso settembre. Eppure, se la domenica entri nella chiesa dei Lazzaristi, dove è deposto anche il corpo di san Vincenzo de’ Paoli, trovi centinaia di persone che si mettono in fila per la comunione e molti salgono le scale per andare a pregare davanti al santo che “passò facendo il bene”, come recita l’iscrizione latina dell’arco sopra l’altare. La vicina cappella di Notre-Dame de la Médaille miraculeuse, tenuta dalle suore di San Vincenzo, è chiusa per restauri fino ad aprile. Quando la riapriranno, ricomincerà il flusso silenzioso di pellegrini e penitenti che anima senza sosta i marciapiedi di rue du Bac. Perfino a Saint-Ignace, su rue de Sèvres – altare al centro e sedie disposte tutt’intorno, in pieno allineamento coi cliché stilistici postconciliari – le dotte liturgie eucaristiche dei gesuiti registrano a ogni messa centinaia di fedeli. «A Parigi continuano a essere inaugurate nuove parrocchie: almeno dieci, intra moenia, negli ultimi anni», spiega don William Jean, parroco della Basilica di Saint-Séverin, avviluppata dai vicoli e dai ristoranti per turisti del Quartiere Latino. Lui tratteggia soddisfatto il profilo della sua chiesa tutt’altro che deserta: 1.500 fedeli alle messe domenicali, con tanto di musica sacra barocca; ambiente intellettuale medio-alto, almeno cinquanta parrocchiani che vengono a messa tutti i giorni. E ogni giorno, dalle 5 alle 7 di sera, in chiesa c’è qualche prete per confessare, «e viene sempre gente, di tutti i tipi, compresi i sans-papiers che lavorano nei ristoranti qui vicino». A Saint-Séverin ci sono stati i prodromi della riforma liturgica conciliare, con le prime messe in francese celebrate ad experimentum già nel 1954; a Saint-Séverin sono stati accolti i parrocchiani “fuggitivi” di Saint-Nicolas, quando nel 1977 quella chiesa “sorella” (insieme facevano parrocchia) fu presa manu militari dai tradizionalisti lefebvriani. Ci furono scontri fisici, qualcuno finì all’ospedale. «Temevo che la revoca del decreto di scomunica qui da noi potesse riaprire vecchie ferite e far riesplodere i contrasti. Invece», rassicura don William, «tanti parrocchiani hanno accolto bene le decisioni del Papa. Mi ripetono che per loro, adesso, il dialogo e la riconciliazione sono possibili». Ma è nelle grandi parrocchie popolari e delle aree suburbane degli arrondissement periferici gonfi di immigrati, che il dominicano Jean-Miguel Garrigues – osservatore lucido e non conformista delle vicende ecclesiali francesi – vede le cose più interessanti: «C’è un popolo che ha una fede molto semplice e spesso rimane fuori anche dalle organizzazioni parrocchiali: frequenta i luoghi di pellegrinaggio, s’innamora dei santi francesi, entra in chiesa per una preghiera, ma poi magari non partecipa alle messe e non ascolta le omelie, le trova troppo complicate. Forse la Chiesa francese negli ultimi decenni ha sacrificato questo cristianesimo popolare, quando tutti cercavano il “cristianesimo adulto”. Ma oggi tanta di questa gente viene dalla mondializzazione. Sono tanti, aumentano, e anche quando diventano francesi conservano la loro sensibilità particolare. Questo, col tempo, avrà conseguenze».
Come ogni sera, davanti alla parrocchia degli oratoriani, vicino al Beaubourg, i miserabili di Parigi si mettono in fila per prendere la loro Soupe Saint-Eustache. Centinaia, clochard e ubriaconi, ma non solo. Anche gruppi di giovani immigrati, vecchiette, famiglie intere. E con la crisi – dicono i volontari – l’aumento dei pasti distribuiti s’è già notato. Aria di neve. La punta della Tour è avvolta dalle nuvole basse. Sulla Senna passano i battelli col sale. «La Carità», scrive Péguy, «è un ospedale, un ricovero che raccoglie tutte le miserie del mondo».
Soluzioni provvisorie
L’immensa, strabiliante storia cristiana della Francia è punteggiata di ripartenze. Proprio come succedeva nei Perdoni di Bretagna, le feste popolari che fino a qualche decennio fa costellavano le campagne dell’estremo Occidente francese, tra maggio e settembre, quando almeno una volta all’anno tutti quelli che volevano – ed erano sempre tanti: villani e signori, marinai e massaie, colti e ignoranti – si ritrovavano nella cappella più vicina, si confessavano dal prete e poi si perdonavano a vicenda anche le offese e i malanimi reciproci in cui erano inciampati nel tempo trascorso. Le diocesi bretoni erano uscite anch’esse stremate dalla deforestazione forzata della memoria cristiana seguita alla Rivoluzione. Ma poi, la “civilizzazione parrocchiale” di Bretagna era rifiorita più robusta di prima, imbevuta della devozione al Cuore di Gesù e a quello di Maria, pieni di bontà e misericordia per i peccatori, come ricordava sempre il santo bretone Luigi Grignon de Montfort. Fino alla metà del secolo scorso, era stato tutto un fare: parole e opere, missioni quaresimali per risvegliare i cuori intiepiditi e settimane sociali per non perdere contatto con le masse contadine. Congressi mariani e benedizioni del mare. Seminari, chiese e scuole cattoliche tirate su con uno slancio potenziato dal senso di rivalsa nei confronti dello Stato “patrigno”, che con la Legge di separazione del 1905 aveva tagliato ogni finanziamento alle attività ecclesiali e messo le mani sui beni ecclesiastici. Fino a quando, nel volgere di pochi lustri, tutto è sembrato evaporare. Eppure, in Francia prima che altrove, già tra le due guerre si erano accorti che le antiche terre cristiane d’Europa erano tornate a essere terra di missione. E già dalla metà del secolo scorso, tutte le esperienze ecclesiali – dall’Action catholique, a Jeunesse ouvrière Chrétienne (Joc), fino ai preti operai – erano segnate dal tentativo – generoso, almeno come movenza iniziale – di testimoniare Cristo dentro un mondo in subbuglio.
Oggi, la traiettoria della grande mutazione anche in Bretagna si misura con dati numerici da vertigine. La regione di Léon e Quimper la chiamavano la Terre des prêtres, la terra dei preti. Ancora negli anni Sessanta, le diocesi di Bretagna ne avevano più di mille, e altri mille sacerdoti bretoni erano sparsi per la Francia e per tutto il mondo, nelle terre di missione. Oggi, il clero di Bretagna conta in tutto 307 sacerdoti, in maggioranza ultrasessantenni, e con una media di cinque seminaristi per diocesi. Anche qui, come in tutta la Francia, accorpamenti di parrocchie, affidate a parroci “itineranti” che dividono tempo ed energie tra le diverse comunità parrocchiali.
Al seminario Saint-Yves di Rennes il rettore Gérard Le Stang occupa una postazione privilegiata per cogliere col suo sguardo lucido cose antiche e cose nuove. Non minimizza né censura quello che è andato storto, il naufragio delle buone intenzioni, gli effetti di quell’«amnesia collettiva» («per certi versi rimane un mistero») che in pochi anni ha reso orpelli del passato i vecchi slogan in bretone che fondevano insieme Feiz ha Breiz, Fede e Bretagna. Ma registra pacatamente e senza trionfalismi anche ciò che si muove con discrezione nella trama ordinaria delle circostanze date. Fatti imprevedibili che proprio nascendo in terra arida mostrano con più evidenza un tratto gratuito e germinale. Parla dei preti più anziani, «cresciuti seguendo il modello un po’ cerebrale vedere-giudicare-agire dei movimenti di Azione cattolica, che negli anni Settanta si sentivano l’avanguardia del nuovo, e adesso vengono cambiati dalla fede semplice degli immigrati che si ritrovano come parrocchiani». Racconta di cappelle deserte, in quartieri invecchiati, che improvvisamente si ritrovano a organizzare corsi di catechismo per decine di giovani adulti che chiedono il battesimo». Di «giornate del perdono» che riprendono piede nelle parrocchie, sul modello degli antichi Perdoni, «dopo che per lungo tempo il sacramento della confessione era quasi sparito dall’orizzonte». E soprattutto, cerca di figurarsi il futuro guardando i ragazzi del suo seminario. Se nel secolo scorso le legioni di preti bretoni erano per la gran parte figli di contadini, adesso i 34 seminaristi di Saint-Yves sono un’immagine del nuovo mosaico francese: ex comunisti accanto a membri delle nuove comunità carismatiche; giovani che hanno ritrovato la fede riscoprendo i tradizionali pellegrinaggi ai 7 duomi di Bretagna, accanto ad haitiani e vietnamiti che diverranno parroci nei paesini da dove un tempo partivano i missionari francesi per raggiungere le terre d’Oltremare; gente che viene da solide famiglie cattoliche tradizionali, accanto ai figli dei divorziati o di quelli che da tempo hanno voltato le spalle alla Chiesa, e soffrono come una disgrazia la circostanza di ritrovarsi un figlio prete. «In molti di loro», nota il rettore Le Stang, «c’è un bisogno quasi fisico di rimanere semplici. Essere e dirsi cristiani è già un miracolo, non serve inventarsi altro. Avvertono una consonanza istintiva con tutto ciò che è elementarmente Chiesa, con la condizione descritta negli Atti degli Apostoli. Se pensano al loro futuro, non si immaginano come leader omaggiati di superparrocchie. Hanno l’attesa interiore di fare cose semplici: preghiere, messe, sacramenti, insegnare la fede degli apostoli. Seppur da preti “itineranti”, non vogliono che la loro dedizione si perda in umanesimo vago e lontano». Anche la scelta del Papa di revocare la scomunica ai vescovi lefebvriani, accolta altrove con perplessità e polemiche, non ha turbato i ragazzi che a Rennes si preparano a diventar preti. «Per loro», racconta il rettore, «il desiderio di unità del Papa è una cosa buona. E comunque la vedono come la fine di una vicenda passata, che non li tocca più di tanto. Non considerano il Concilio Vaticano II come l’evento centrale della loro vita cristiana. Nella Chiesa di dopo il Concilio ci sono nati e cresciuti, e non considerano tutta la storia di prima come uno scheletro da nascondere nell’armadio…». Di là, nella cucina del refettorio, Tanguy, Jean e gli altri ragazzi di cui parla padre Gérard lavano e asciugano in fretta piatti e posate del pranzo. Prima di sparpagliarsi per le parrocchie di Rennes, come ogni sabato pomeriggio.
Miraggi che svaniscono
Nel 1948 i sacerdoti francesi erano più di 42mila. Nel 2007 erano scesi a meno di ventimila, con età media superiore ai 60 anni. Nel 1996 i seminaristi in tutta la Francia erano ancora 1.050, oggi sono 741. I nuovi ingressi in seminario hanno raggiunto il dato più basso (116) nel 2002, quando nella Chiesa universale era passata da poco l’onda euforizzante del Grande Giubileo; nel 2008 sono stati 139. Nel 2007, 50 diocesi di Francia non hanno registrato alcuna ordinazione sacerdotale, e in 24 diocesi ce n’è stata una sola.
C’è chi ha accolto questo décalage numerico come una chance per camminare “verso un nuovo volto della Chiesa”. Così s’intitolano i libri in cui l’arcivescovo Albert Rouet e i suoi collaboratori celebrano il “modello Poitiers”: quello sperimentato da 12 anni nella diocesi di sant’Ilario, tutto votato alla «organizzazione di comunità locali» in cui «i laici prendono larga parte» e «il prete non appare più come un agente centralizzatore, ma come una sorgente di fiducia». Un piano di lavoro ispirato dalla condivisibile constatazione di come oggi, in Francia, appaia più evidente la vecchia massima di Tertulliano secondo cui «cristiani non si nasce, si diventa», e la fede – come nota il vicario episcopale Jean-Paul Russeil – «non è dell’ordine di un possesso scontato, di un vantaggio acquisito». Ma questa presa d’atto delle circostanze date, invece di suggerire una semplificazione liberante, soluzioni elastiche e provvisorie favorite dai tempi di penuria, sembra complicarsi in un dedalo di nuove competenze da distribuire tra le squadre di laici «professionalizzati»: équipes e Consigli pastorali, settori, squadre di animatori, elezioni di rappresentanti, dove la vita dei cristiani appare comunque il termine di un darsi da fare, un’occupazione per cultori della materia. Questione di tecnica, di ingegneria genetica applicata ai metodi pastorali, per selezionare nuove nomenclature laiche e democratiche al posto di quelle verticistico-clericali. Un’impostazione che non manca di suscitare voci critiche: «Affrontano la crisi delle vocazioni sacerdotali seguendo criteri solo razionali e funzionali, e rischiano di peccare contro la speranza: è il Signore che costruisce la Chiesa, non noi coi nostri programmi», osserva Marc Aillet, giovane vescovo di Bayonne. Intanto in Francia anche un altro cliché sembra destinato a eclissarsi: quello inaugurato a metà degli anni Ottanta, secondo cui l’unica risposta efficace al deserto della decristianizzazione erano i nuovi movimenti e le nuove comunità. «Piccole isole di Chiesa perfetta, e tutt’intorno il cristianesimo se ne va, sparisce», taglia corto Gérard Le Stang. Mentre il domenicano Garrigues nota che le nuove comunità «rimangono una parte minima della Chiesa»; dice di provare insofferenza per «gli annunci ripetuti di periodiche primavere ecclesiali affidati alle avanguardie militanti» che hanno cadenzato gli ultimi decenni, o per una certa retorica della Nuova Evangelizzazione che è degradata in «gusto per il sensazionale e lo spettacolare», o in «sfruttamento delle tecniche di pressione mondana per condizionare i fedeli». Fino a constatare che «è la formazione rigida e tradizionalista di prima del Concilio ad aver prodotto i preti contestatori del ’68, e adesso lo stesso bilanciere oscilla in senso opposto, ispirando nuovi conformismi, in un’atmosfera che mi fa venire in mente la sfilata felliniana di cardinali e prelati nel film intitolato Roma». Anche i vescovi più aperti verso le nuove comunità declinano con sobrietà le proprie simpatie: «Nella Chiesa», dice monsignor Aillet, «ogni carisma può trovare il suo posto. I movimenti e le nuove comunità sono una risposta transitoria, che può dare il suo apporto alle parrocchie dove si raduna ordinariamente il popolo di Dio». Concorda Guy-Marie Bagnard, vescovo di Belley-Ars: «Non è che i movimenti non servano. Ma se oggi in Francia venisse meno tutto quello che succede ordinariamente, senza rumore, nelle parrocchie, sparirebbe il cristianesimo».
Senza inventarsi niente
Ars non è un posto per adunate. Poche case immerse nella campagna rilassata, le carmelitane, il convento delle clarisse, la strada che curva intorno alla chiesa del Curato Jean-Marie Vianney, il santo patrono dei parroci. E lì dentro c’è quasi sempre qualcuno. Ci si va da soli, a piccoli gruppi, a comitive. Un flusso continuo e discreto. Quasi mezzo milione di pellegrini all’anno, «ogni anno un po’ di più, e, tra loro, i sacerdoti sono più di ottomila», aggiunge padre Jean-Philippe Nault, giovane rettore del santuario. Un aumento registrato negli ultimi tempi, dopo che per lustri su san Giovanni Maria Vianney sembrava caduto l’oblio. Negli anni Ottanta è nata la Société Jean-Marie Vianney: preti che non vogliono avere alcuna spiritualità particolare, se non quella che viene dalla propria ordinazione sacerdotale, per la salvezza delle anime. E quest’anno, giubileo per i 150 anni della morte del santo, il “programma” è sempre lo stesso. Senza orario, ci si può confessare e dir messa, «posare il peso dei propri peccati e assaporare un sorso di misericordia. A qualsiasi ora, dalle sei e mezza di mattina fino a sera». Fra poco apriranno una cappella per l’adorazione perpetua del Santissimo Sacramento. Lo ha chiesto la gente del villaggio. Dieci anni fa – confida padre Nault – non lo si poteva immaginare.
Quando era arrivato Jean-Marie, febbraio del 1818, la Chiesa di Francia usciva dalle rovine della Rivoluzione. La parrocchia di Ars era come una terra desolata. «E lui fece solo quello che ogni prete, ordinariamente, può fare: preghiera, catechismo, confessare, celebrare l’eucaristia, aiutare i piccoli e i poveri», ripete il vescovo Bagnard. «Nel minuscolo buco in cui era stato rinchiuso perché incapace», scrive René Laurentin, «egli ha fatto accorrere le folle su scala nazionale. Senza volerlo egli ha fondato un centro di pellegrinaggio». Anche oggi, non c’è bisogno di organizzare niente. Vengono da soli. «È un santo povero», ripete padre Nault, «e incontrare un povero non fa paura. Come Teresina. Come Bernadette. Loro ci dicono: se tu sei povero, io lo sono più di te. Siamo poveri insieme, davanti al Signore. Tu prega per me, e io per te».
«Se il buon Dio avesse trovato un sacerdote più miserabile di me», ripeteva il Curato d’Ars, «è a lui che sarebbero accadute tutte queste cose meravigliose». Forse anche il mondo, in Francia come altrove, ha nostalgia di una Chiesa così. Che non pretende di dettar legge, non si lamenta dei tempi cattivi. Lascia solo che si affacci all’orizzonte l’attesa del miracolo. «Ce ne han dette tante, o Regina degli apostoli. Abbiamo perso il gusto per i discorsi. Non abbiamo più altari se non i vostri. Non sappiamo nient’altro che una preghiera semplice» (Charles Péguy).