Archive pour le 23 septembre, 2009

Cristo risorto appare a sua madre

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Papa Benedetto: Signiificato della Pasqua (udienza 26 marzo 2008)

dal sito:

http://www.vatican.va/holy_father/benedict_xvi/audiences/2008/documents/hf_ben-xvi_aud_20080326_it.html

BENEDETTO XVI

UDIENZA GENERALE

Piazza San Pietro
Mercoledì, 26 marzo 2008

Significato della Pasqua

Cari fratelli e sorelle!

“Et resurrexit tertia die secundum Scripturas – il terzo giorno è risuscitato secondo le Scritture”. Ogni domenica, con il Credo, rinnoviamo la nostra professione di fede nella risurrezione di Cristo, evento sorprendente che costituisce la chiave di volta del cristianesimo. Nella Chiesa tutto si comprende a partire da questo grande mistero, che ha cambiato il corso della storia e che si rende attuale in ogni celebrazione eucaristica. Esiste però un tempo liturgico in cui questa realtà centrale della fede cristiana, nella sua ricchezza dottrinale e inesauribile vitalità, viene proposta ai fedeli in modo più intenso, perché sempre più la riscoprano e più fedelmente la vivano: è il tempo pasquale. Ogni anno, nel “Santissimo Triduo del Cristo crocifisso, morto e risorto”, come lo chiama sant’Agostino, la Chiesa ripercorre, in un clima di preghiera e di penitenza, le tappe conclusive della vita terrena di Gesù: la sua condanna a morte, la salita al Calvario portando la croce, il suo sacrificio per la nostra salvezza, la sua deposizione nel sepolcro. Il “terzo giorno”, poi, la Chiesa rivive la sua risurrezione: è la Pasqua, passaggio di Gesù dalla morte alla vita, in cui si compiono in pienezza le antiche profezie. Tutta la liturgia del tempo pasquale canta la certezza e la gioia della risurrezione del Cristo.

Cari fratelli e sorelle, dobbiamo costantemente rinnovare la nostra adesione al Cristo morto e risorto per noi: la sua Pasqua è anche la nostra Pasqua, perché nel Cristo risorto ci è data la certezza della nostra risurrezione. La notizia della sua risurrezione dai morti non invecchia e Gesù è sempre vivo; e vivo è il suo Vangelo. “La fede dei cristiani – osserva sant’Agostino – è la risurrezione di Cristo”. Gli Atti degli Apostoli lo spiegano chiaramente: “Dio ha dato a tutti gli uomini una prova sicura su Gesù risuscitandolo da morte” (17,31). Non era infatti sufficiente la morte per dimostrare che Gesù è veramente il Figlio di Dio, l’atteso Messia. Nel corso della storia quanti hanno consacrato la loro vita a una causa ritenuta giusta e sono morti! E morti sono rimasti. La morte del Signore dimostra l’immenso amore con cui Egli ci ha amati sino a sacrificarsi per noi; ma solo la sua risurrezione è “prova sicura”, è certezza che quanto Egli afferma è verità che vale anche per noi, per tutti i tempi. Risuscitandolo, il Padre lo ha glorificato. San Paolo così scrive nella Lettera ai Romani: “Se confesserai con la bocca che Gesù è il Signore e crederai con il cuore che Dio lo ha risuscitato dai morti sarai salvo” (10,9).

E’ importante ribadire questa verità fondamentale della nostra fede, la cui verità storica è ampiamente documentata, anche se oggi, come in passato, non manca chi in modi diversi la pone in dubbio o addirittura la nega. L’affievolirsi della fede nella risurrezione di Gesù rende di conseguenza debole la testimonianza dei credenti. Se infatti viene meno nella Chiesa la fede nella risurrezione, tutto si ferma, tutto si sfalda. Al contrario, l’adesione del cuore e della mente a Cristo morto e risuscitato cambia la vita e illumina l’intera esistenza delle persone e dei popoli. Non è forse la certezza che Cristo è risorto a imprimere coraggio, audacia profetica e perseveranza ai martiri di ogni epoca? Non è l’incontro con Gesù vivo a convertire e ad affascinare tanti uomini e donne, che fin dagli inizi del cristianesimo continuano a lasciare tutto per seguirlo e mettere la propria vita a servizio del Vangelo? “Se Cristo non è risuscitato, diceva l’apostolo Paolo, allora è vana la nostra predicazione ed è vana anche la nostra fede” (1 Cor 15, 14). Ma è risuscitato!

L’annuncio che in questi giorni riascoltiamo costantemente è proprio questo: Gesù è risorto, è il Vivente e noi lo possiamo incontrare. Come lo incontrarono le donne che, al mattino del terzo giorno, il giorno dopo il sabato, si erano recate al sepolcro; come lo incontrarono i discepoli, sorpresi e sconvolti da quanto avevano riferito loro le donne; come lo incontrarono tanti altri testimoni nei giorni che seguirono la sua risurrezione. E, anche dopo la sua Ascensione, Gesù ha continuato a restare presente tra i suoi amici come del resto aveva promesso: “Ecco, io sono con voi tutti i giorni, fino alla fine del mondo” (Mt 28,20). Il Signore è con noi, con la sua Chiesa, fino alla fine dei tempi. Illuminati dallo Spirito Santo, i membri della Chiesa primitiva hanno incominciato a proclamare l’annuncio pasquale apertamente e senza paura. E quest’annuncio, tramandatosi di generazione in generazione, è giunto sino a noi e risuona ogni anno a Pasqua con potenza sempre nuova.

Specialmente in quest’Ottava di Pasqua la liturgia ci invita ad incontrare personalmente il Risorto e a riconoscerne l’azione vivificatrice negli eventi della storia e del nostro vivere quotidiano. Oggi mercoledì, ad esempio, ci viene riproposto l’episodio commovente dei due discepoli di Emmaus (cfr Lc 24,13-35). Dopo la crocifissione di Gesù, immersi nella tristezza e nella delusione, essi facevano ritorno a casa sconsolati. Durante il cammino discorrevano tra loro di ciò che era accaduto in quei giorni a Gerusalemme; fu allora che Gesù si avvicinò, si mise a discorrere con loro e ad ammaestrarli: “Stolti e tardi di cuore nel credere alla parola dei profeti… Non bisognava che il Cristo sopportasse queste sofferenze per entrare nella sua gloria?” (Lc 24,25 -26). Cominciando poi da Mosè e da tutti i profeti, spiegò loro in tutte le Scritture ciò che si riferiva a lui. L’insegnamento di Cristo – la spiegazione delle profezie – fu per i discepoli di Emmaus come una rivelazione inaspettata, luminosa e confortante. Gesù dava una nuova chiave di lettura della Bibbia e tutto appariva adesso chiaro, orientato proprio verso questo momento. Conquistati dalle parole dello sconosciuto viandante, gli chiesero di fermarsi a cena con loro. Ed Egli accettò e si mise a tavola con loro. Riferisce l’evangelista Luca: “Quando fu a tavola con loro, prese il pane, disse la benedizione, lo spezzò e lo diede loro” (Lc 24,29-30). E fu proprio in quel momento che si aprirono gli occhi dei due discepoli e lo riconobbero, “ma lui sparì dallo loro vista” (Lc 24,31). Ed essi, pieni di stupore e di gioia, commentarono: “Non ci ardeva forse il cuore nel petto mentre conversava con noi lungo il cammino, quando ci spiegava le Scritture?” (Lc 24,32).

In tutto l’anno liturgico, particolarmente nella Settimana Santa e nella Settimana di Pasqua, il Signore è in cammino con noi e ci spiega le Scritture, ci fa capire questo mistero: tutto parla di Lui. E questo dovrebbe far ardere anche i nostri cuori, così che possano aprirsi anche i nostri occhi. Il Signore è con noi, ci mostra la vera via. Come i due discepoli riconobbero Gesù nello spezzare il pane, così oggi, nello spezzare il pane, anche noi riconosciamo la sua presenza. I discepoli di Emmaus lo riconobbero e si ricordarono dei momenti in cui Gesù aveva spezzato il pane. E questo spezzare il pane ci fa pensare proprio alla prima Eucaristia celebrata nel contesto dell’Ultima Cena, dove Gesù spezzò il pane e così anticipò la sua morte e la sua risurrezione, dando se stesso ai discepoli. Gesù spezza il pane anche con noi e per noi, si fa presente con  noi nella Santa Eucaristia, ci dona se stesso e apre i nostri cuori. Nella Santa Eucaristia, nell’incontro con la sua Parola, possiamo anche noi incontrare e conoscere Gesù, in questa duplice Mensa della Parola e del Pane e del Vino consacrati. Ogni domenica la comunità rivive così la Pasqua del Signore e raccoglie dal Salvatore il suo testamento di amore e di servizio fraterno. Cari fratelli e sorelle, la gioia di questi giorni renda ancor più salda la nostra fedele adesione a Cristo crocifisso e risorto. Soprattutto, lasciamoci conquistare dal fascino della sua risurrezione. Ci aiuti Maria ad essere messaggeri della luce e della gioia della Pasqua per tanti nostri fratelli. Ancora a tutti voi cordiali auguri di Buona Pasqua.

Cardinale Caffarra: “L’etica è la verità circa il bene dell’uomo”

dal sito:

http://www.cardinalrating.com/cardinal_213__article_9156.htm

Cardinale Caffarra: “L’etica è la verità circa il bene dell’uomo”

Sept 20, 2009

L’Arcivescovo di Bologna critica l’utilitarismo e incoraggia i medici a seguire la ragione etica

ROMA, martedì, 15 settembre 2009 (ZENIT.org).- Su invito della Società Medica Chirurgica di Bologna il 12 settembre, nella sala dello Stabat Mater dell’Archiginnasio, il Cardinale Carlo Caffarra ha tenuto una relazione sul tema “Ratio ethica e ratio technica: alleanza, separazione o conflitto?”.

“La questione del rapporto fra la ragione tecnica e la ragione etica – ha esordito l’Arcivescovo di Bologna – è uno dei nodi dell’attuale dibattito contemporaneo sull’uomo”.

Il Cardinale ha spiegato che l’abilità tecnica “dispone l’uomo a produrre bene”, mentre la sapienza pratica “dispone l’uomo ad agire bene”, cioè “a compiere quelle scelte che sono conformi al bene della persona come tale, e sono capaci di realizzare una buona vita umana”.

“La ragione etica – ha precisato il porporato -, non si accontenta di chiedere se l’azione che la persona umana sta per compiere è tecnicamente possibile, ma se è un’azione buona o cattiva, giusta o ingiusta”.

Dopo aver ribadito che “la logica etica è la logica della verità circa il bene della persona”, il Cardinale Caffarra si è opposto al luogo comune che vede la tecnica e l’etica come alternative.

Secondo l’Arcivescovo di Bologna “l’optare per l’una o per l’altra è sempre un impoverimento dell’uomo” e “una cultura che non coniuga assieme le due possibilità è una cultura povera”.

Per il Cardinale Caffarra, “ragione tecnica e ragione etica si propongono lo stesso fine: il bene della persona umana” e “la ragione etica è la ricerca del senso della vita”.

A fronte di queste evidenti realtà, l’Arcivescovo di Bologna ha denunciato la moderna pratica in cui “una tecnica insubordinata all’etica porta alla devastazione dell’humanum e del cosmo” con tecnicismo e scientismo che vengono utilizzati come “colpi mortali inferti alla ragione”.

A dimostrazione di questa deriva, il presule ha indicato la decisione del Consiglio di Amministrazione dell’AIFA (Agenzia del farmaco) di autorizzare il commercio della pillola abortiva RU486 come la “prassi di una tecnocrazia inappellabile”.

Il Cardinale Caffara si è detto convinto che il sequestro della ragione etica da parte della ragione tecnica, e l’avvento della tecnocrazia siano la diretta conseguenza “dell’ingresso nella coscienza europea della definizione dell’uomo come soggetto utilitario”.

L’utilitarismo è quindi la ragione prima di questa riduzione dell’umano.

In questo contesto l’Arcivescovo di Bologna si è appellato ai medici perché, come mostra il giuramento di Ippocrate, “la professione medica è l’incrocio della ragionevolezza etica con la ragionevolezza scientifico-tecnica”.

L’esercizio della professione medica, infatti, lungo i secoli è andata elaborando un suo codice etico – una sua deontologia – risultato della simultanea coniugazione e di ragionevolezza etica e di esperienza professionale.

Ma questa integrità socialmente condivisa e riconosciuta rischia – secondo il Cardinale Caffarra – di essere erosa e cancellata dalla mentalità utilitaristica, con la cessazione dell’alleanza terapeutica, tra medico e paziente, e una professione che si configura sempre più come prestazione d’opera per soddisfare un desiderio, un bisogno.

“Il sequestro della ragionevolezza etica da parte della ragionevolezza tecnica – ha sottolineato – non sta risparmiando la professione medica. Anzi, è uno dei luoghi in cui è più agevole vederne gli effetti devastanti [assieme al campo dell’attività economica]. Uno di questi è la degradazione della professione medica”.

“E la ‘sconfitta’ della ragione etica – ha affermato l’Arcivescovo -, è in realtà la sconfitta dell’uomo in quanto tale, la sua riduzione ad oggetto”.

“L’etica – ha concluso il Cardinale Caffarra – è la verità circa il bene dell’uomo – dell’uomo concreto, in carne ed ossa – perché Dio non è il Dio dei morti, ma il Dio dei viventi; e la suprema decisione cui è chiamata oggi la libertà dell’uomo è se considerare se stesso solo dal punto di vista del tempo o anche e soprattutto dal punto di vista dell’eternità. L’etica è il respiro dell’eternità nell’uomo”.

Il Papa presenta la figura di Sant’Anselmo d’Aosta

dal sito:

http://www.zenit.org/article-19590?l=italian

Il Papa presenta la figura di Sant’Anselmo d’Aosta

Catechesi per l’Udienza generale del mercoledì

CITTA’ DEL VATICANO, mercoledì, 23 settembre 2009 (ZENIT.org).- L’Udienza Generale di questa mattina si è svolta nell’Aula Paolo VI dove il Santo Padre – proveniente in elicottero dalla residenza estiva di Castel Gandolfo – ha incontrato gruppi di pellegrini e fedeli giunti dall’Italia e da ogni parte del mondo.

Nel discorso in lingua italiana, il Papa, continuando il ciclo di catechesi sui grandi Scrittori della Chiesa di Oriente e di Occidente del Medioevo, si è soffermato su Sant’Anselmo d’Aosta.

* * *

Cari fratelli e sorelle,

a Roma, sul colle dell’Aventino, si trova l’Abbazia benedettina di Sant’Anselmo. Come sede di un Istituto di studi superiori e dell’Abate Primate dei Benedettini Confederati, essa è un luogo che unisce in sé la preghiera, lo studio e il governo, proprio le tre attività che caratterizzarono la vita del Santo al quale è dedicata: Anselmo d’Aosta di cui ricorre quest’anno il IX centenario della morte. Le molteplici iniziative, promosse specialmente dalla diocesi di Aosta per questa fausta ricorrenza hanno evidenziato l’interesse che continua a suscitare questo pensatore medievale. Egli è noto anche come Anselmo di Bec e Anselmo di Canterbury a motivo delle città con le quali è stato in rapporto. Chi è questo personaggio al quale tre località, lontane tra loro e collocate in tre Nazioni diverse – Italia, Francia, Inghilterra –, si sentono particolarmente legate? Monaco di intensa vita spirituale, eccellente educatore di giovani, teologo con una straordinaria capacità speculativa, saggio uomo di governo ed intransigente difensore della libertas Ecclesiae, della libertà della Chiesa. Anselmo é una delle personalità eminenti del Medioevo, che seppe armonizzare tutte queste qualità grazie a una profonda esperienza mistica, che sempre ebbe a guidarne il pensiero e l’azione.

Sant’Anselmo nacque nel 1033 (o all’inizio del 1034) ad Aosta, primogenito di una famiglia nobile. Il padre era uomo rude, dedito ai piaceri della vita e dissipatore dei suoi beni; la madre, invece, era donna di elevati costumi e di profonda religiosità (cfr Eadmero, Vita s. Anselmi, PL 159, col 49). Fu lei, la mamma, a prendersi cura della prima formazione umana e religiosa del figlio, che affidò, poi, ai Benedettini di un priorato di Aosta. Anselmo, che da bambino – come narra il suo biografo – immaginava l’abitazione del buon Dio tra le alte e innevate vette delle Alpi, sognò una notte di essere invitato in questa reggia splendida da Dio stesso, che si intrattenne a lungo ed affabilmente con lui e alla fine gli offrì da mangiare « un pane candidissimo » (ibid., col 51). Questo sogno gli lasciò la convinzione di essere chiamato a compiere un’alta missione. All’età di quindici anni, chiese di essere ammesso nell’Ordine benedettino, ma il padre si oppose con tutta la sua autorità e non cedette neppure quando il figlio gravemente malato, sentendosi vicino alla morte, implorò l’abito religioso come supremo conforto. Dopo la guarigione e la scomparsa prematura della madre, Anselmo attraversò un periodo di dissipazione morale: trascurò gli studi e, sopraffatto dalle passioni terrene, diventò sordo al richiamo di Dio. Se ne andò da casa e cominciò a girare per la Francia in cerca di nuove esperienze. Dopo tre anni, giunto in Normandia, si recò nell’Abbazia benedettina di Bec, attirato dalla fama di Lanfranco da Pavia, priore del monastero. Fu per lui un incontro provvidenziale e decisivo per il resto della sua vita. Sotto la guida di Lanfranco, Anselmo riprese infatti con vigore gli studi e, in breve tempo, diventò non solo l’allievo prediletto, ma anche il confidente del maestro. La sua vocazione monastica si riaccese e, dopo attenta valutazione, all’età di 27 anni, entrò nell’Ordine monastico e venne ordinato sacerdote. L’ascesi e lo studio gli aprirono nuovi orizzonti, facendogli ritrovare, in grado ben più alto, quella familiarità con Dio che aveva avuto da bambino.

Quando, nel 1063, Lanfranco diventò abate di Caen, Anselmo, dopo appena tre anni di vita monastica, fu nominato priore del monastero di Bec e maestro della scuola claustrale, rivelando doti di raffinato educatore. Non amava i metodi autoritari; paragonava i giovani a piccole piante che si sviluppano meglio se non sono chiuse in serra e concedeva loro una « sana » libertà. Era molto esigente con se stesso e con gli altri nell’osservanza monastica, ma anziché imporre la disciplina si impegnava a farla seguire con la persuasione. Alla morte dell’abate Erluino, fondatore dell’abbazia di Bec, Anselmo venne eletto unanimemente a succedergli: era il febbraio 1079. Intanto numerosi monaci erano stati chiamati a Canterbury per portare ai fratelli d’oltre Manica il rinnovamento in atto nel Continente. La loro opera fu ben accetta, al punto che Lanfranco da Pavia, abate di Caen, divenne il nuovo Arcivescovo di Canterbury e chiese ad Anselmo di trascorrere un certo tempo con lui per istruire i monaci e aiutarlo nella difficile situazione in cui si trovava la sua comunità ecclesiale dopo l’invasione dei Normanni. La permanenza di Anselmo si rivelò molto fruttuosa; egli guadagnò simpatia e stima, tanto che, alla morte di Lanfranco, fu scelto a succedergli nella sede arcivescovile di Canterbury. Ricevette la solenne consacrazione episcopale nel dicembre del 1093.

Anselmo si impegnò immediatamente in un’energica lotta per la libertà della Chiesa, sostenendo con coraggio l’indipendenza del potere spirituale da quello temporale. Difese la Chiesa dalle indebite ingerenze delle autorità politiche, soprattutto dei re Guglielmo il Rosso ed Enrico I, trovando incoraggiamento e appoggio nel Romano Pontefice, al quale Anselmo dimostrò sempre una coraggiosa e cordiale adesione. Questa fedeltà gli costò, nel 1103, anche l’amarezza dell’esilio dalla sua sede di Canterbury. E soltanto quando, nel 1106, il re Enrico I rinunciò alla pretesa di conferire le investiture ecclesiastiche, come pure alla riscossione delle tasse e alla confisca dei beni della Chiesa, Anselmo poté far ritorno in Inghilterra, accolto festosamente dal clero e dal popolo. Si era così felicemente conclusa la lunga lotta da lui combattuta con le armi della perseveranza, della fierezza e della bontà. Questo santo Arcivescovo che tanta ammirazione suscitava intorno a sé, dovunque si recasse, dedicò gli ultimi anni della sua vita soprattutto alla formazione morale del clero e alla ricerca intellettuale su argomenti teologici. Morì il 21 aprile 1109, accompagnato dalle parole del Vangelo proclamato nella Santa Messa di quel giorno: « Voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove; e io preparo per voi un regno, come il Padre l’ha preparato per me, perché possiate mangiare e bere alla mia mensa nel mio regno… » (Lc 22,28-30). Il sogno di quel misterioso banchetto, che da piccolo aveva avuto proprio all’inizio del suo cammino spirituale, trovava così la sua realizzazione. Gesù, che lo aveva invitato a sedersi alla sua mensa, accolse sant’Anselmo, alla sua morte, nel regno eterno del Padre.

« Dio, ti prego, voglio conoscerti, voglio amarti e poterti godere. E se in questa vita non sono capace di ciò in misura piena, possa almeno ogni giorno progredire fino a quando giunga alla pienezza » (Proslogion, cap.14). Questa preghiera lascia comprendere l’anima mistica di questo grande Santo dell’epoca medievale, fondatore della teologia scolastica, al quale la tradizione cristiana ha dato il titolo di « Dottore Magnifico » perché coltivò un intenso desiderio di approfondire i Misteri divini, nella piena consapevolezza, però, che il cammino di ricerca di Dio non è mai concluso, almeno su questa terra. La chiarezza e il rigore logico del suo pensiero hanno avuto sempre come fine di « innalzare la mente alla contemplazione di Dio » (Ivi, Proemium). Egli afferma chiaramente che chi intende fare teologia non può contare solo sulla sua intelligenza, ma deve coltivare al tempo stesso una profonda esperienza di fede. L’attività del teologo, secondo sant’Anselmo, si sviluppa così in tre stadi: la fede, dono gratuito di Dio da accogliere con umiltà; l’esperienza, che consiste nell’incarnare la parola di Dio nella propria esistenza quotidiana; e quindi la vera conoscenza, che non è mai frutto di asettici ragionamenti, bensì di un’intuizione contemplativa. Restano, in proposito, quanto mai utili anche oggi, per una sana ricerca teologica e per chiunque voglia approfondire le verità della fede, le sue celebri parole: « Non tento, Signore, di penetrare la tua profondità, perché non posso neppure da lontano mettere a confronto con essa il mio intelletto; ma desidero intendere, almeno fino ad un certo punto, la tua verità, che il mio cuore crede e ama. Non cerco infatti di capire per credere, ma credo per capire » (Ivi, 1).

Cari fratelli e sorelle, l’amore per la verità e la costante sete di Dio, che hanno segnato l’intera esistenza di sant’Anselmo, siano uno stimolo per ogni cristiano a ricercare senza mai stancarsi una unione sempre più intima con Cristo, Via, Verità e Vita. Inoltre, lo zelo pieno di coraggio che ha contraddistinto la sua azione pastorale, e che gli ha procurato talora incomprensioni, amarezze e perfino l’esilio, sia un incoraggiamento per i Pastori, per le persone consacrate e per tutti i fedeli ad amare la Chiesa di Cristo, a pregare, a lavorare e soffrire per essa, senza mai abbandonarla o tradirla. Ci ottenga questa grazia la Vergine Madre di Dio, verso la quale sant’Anselmo nutrì tenera e filiale devozione. « Maria, te il mio cuore vuole amare – scrive san’Anselmo – te la lingua mia desidera ardentemente lodare ».

buona notte

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Sant’Ilario di Poitiers : « Giravano di villaggio in villaggio annunziando dovunque la buona novella »

dal sito:

http://www.levangileauquotidien.org/main.php?language=IT&module=commentary&localdate=20090923

Mercoledì della XXV settimana del Tempo Ordinario : Lc 9,1-6
Meditazione del giorno
Sant’Ilario di Poitiers (circa 315-367), vescovo, dottore della Chiesa
Trattato sui salmi,  65, §19-20 ; CSEL 22, 261

« Giravano di villaggio in villaggio annunziando dovunque la buona novella »

Quale «lode» (Sal 65,8) dobbiamo far risuonare? Senza dubbio questa: «È lui che salvò la vita» dei credenti (v.9). Infatti Dio ha accordato alla predicazione degli apostoli e alla confessione dei martiri la costanza e la perseveranza nella professione di fede; così la predicazione del Regno dei cieli ha attraversato la terra in tutte le direzioni, come fossero passi. Ed ecco che «per tutta la terra si diffonde la loro voce» (Sal 18,5). In un altro versetto, lo Spirito Santo fa l’elogio di questa corsa spirituale: «Come sono belli sui monti i piedi del messaggero di lieti annunzi, che annunzia la pace!» (Is 52,7). Dunque è questa la lode di Dio che deve risuonare attraverso la proclamazione, secondo la testimonianza del salmista: «È lui che salvò la nostra vita e non lasciò vacillare i nostri passi» (Sal 65,9). In effetti, gli apostoli non si sono lasciati distogliere dallo slancio della predicazione per via delle terribili minacce degli uomini, e la fermezza dei loro passi saldamente ancorati al suolo non si è lasciata allontanare dal cammino della fede…

Eppure dopo aver detto: «Non lasciò vacillare i nostri passi», il salmista aggiunge: «Dio, tu ci hai messi alla prova; ci hai passati al crogiuolo, come l’argento» (v.10). Questa parola iniziata al singolare, si riferisce dunque a molti. Infatti uno solo è lo Spirito e una sola la fede dei credenti, come sta scritto negli Atti degli Apostoli: «La moltitudine di coloro che erano venuti alla fede aveva un cuore solo e un’anima sola» (At 4,32).

Ma cosa significa questo paragone: «Sono stati passati al crogiuolo come l’argento»? Secondo me, quando passiamo l’argento al crogiuolo, è soltanto per separarlo dalle scorie che aderiscono alla materia ancora grezza… Pertanto, quando Dio mette alla prova coloro che credono in lui, non è perché ignora la loro fede ma perché, come dice l’apostolo Paolo, «la pazienza produce una virtù provata» (Rm 5,4). Dio li mette alla prova non per conoscerli, ma per condurli alla piena consumazione della virtù. Così purificati dal fuoco e svincolati da ogni legame con i vizi della carne, potranno brillare attraverso la luce di un’innocenza comprovata.

Publié dans:Bibbia: commenti alla Scrittura |on 23 septembre, 2009 |Pas de commentaires »

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