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LE PRIME COMUNITÀ CRISTIANE
(non sono d’accordo su tutto, ma è sicuramente interessante)
Nato e cresciuto in villaggi poco romanizzati, il cristianesimo si separò presto dall’ebraismo aprendosi alle aspirazioni universali del mondo greco-romano. Con la predicazione dell’anatolico Paolo di Tarso e l’accettazione dei « pagani » convertiti, la nuova religione si distaccò dalle ferree tradizioni dovute alle origini giudaiche.
Una piccola e povera comunità che offriva speranza ai delusi e aiuto ai derelitti si propagò e si ingrandì come un incendio in tutto l’impero. Nel giro di pochi anni lo spirito dell’uomo trovò la salvezza che andava cercando da secoli. Era la prefigurazione dell’imminente decadenza della società romana, non più in grado di offrire un valido sostegno al bisogno di pace e sicurezza, sia della gente comune sia degli intellettuali. La nuova comunità era in dichiarata opposizione al dominio imperiale e fin dal I secolo incorse in momenti di intensa repressione. D’altra parte lo Stato le riconosceva almeno un’esistenza giuridica e le concesse ampi periodi di tolleranza. L’espansione fra gente di estrazione culturale differente causò interminabili dibattiti che scaturirono in diatribe teologiche riguardanti soprattutto la « divinità » di Gesù. L’impegno contro le opinioni diverse contribuì all’evoluzione delle prime comunità verso una struttura organizzativa centralizzata, occupata, fra l’altro, a stabilire i canoni della dottrina. In pochi secoli il dibattito scientifico, filosofico e antropologico riguardanti la natura dell’uomo, del cosmo e del destino si sarebbero concentrati sulla discussione teologica attorno alle tre persone – che in latino vuol dire « aspetti » – della divinità: Dio, Spirito Santo e Cristo. La pietas dei romani Nonostante la religione avesse un ruolo secondario nella società romana, alla base dell’azione dello Stato stava comunque la concezione che l’impero fosse guardato benevolmente da tutti gli dei, ossia dalla sfera divina nel complesso. Fin dall’inizio della sua storia la città di Roma aveva accettato volentieri la protezione delle divinità locali. Gli adoratori di tali dèi, uomini sconfitti onorevolmente in battaglia, erano considerati più come possibili alleati che come sudditi. La tolleranza intesa come giustizia è forse la caratteristica positiva più tipica della romanità. Il villaggio protostorico di Roma si era sviluppato fra diverse tendenze ed esigenze di vari abitati collinari uno vicino all’altro, e presto fu a contatto con l’influenza di civiltà più avanzate, quella etrusca e quella greca, con cui riuscì a stabilire una buona convivenza reciproca. Le prime leggi scritte, raccolte nelle “dodici tavole”, sebbene rozze, mostrano questa preoccupazione di rendere facilmente comprensibile il diritto, cioè la “giustizia”, compatibilmente all’effettivo potere dei singoli o dei gruppi sociali. Mille anni dopo, avendo conquistato un’estesa gamma di “stati” e di “divinità” – nonostante un indubbio attaccamento alla propria religione – l’impero, non più solo « romano », si poté dimostrare facilmente tollerante verso i nuovi culti: gli dèi delle nuove popolazioni conquistate venivano costantemente assimilati o aggiunti a quelli del pantheon romano. Non si vedeva una grossa differenza fra le varie religioni, e tutte sembravano accettare più o meno volentieri la presenza del potere imperiale. D’altra parte la religione arcaica era stata fortemente ellenizzata e orientalizzata, in modo automatico, seguendo l’espansione dell’impero. L’intolleranza verso la guida religiosa Se la religione dei popoli conquistati aveva, invece, un ruolo talmente importante nella comunità locale da porsi come alternativa alle istituzioni e alla guida dello Stato, allora veniva repressa con tutta la forza possibile. Così sembra si fosse comportato Cesare (100-44 a.C.) nei confronti del druidismo celtico. L’ebraismo era in una situazione ambigua: anche se fondamentale per la guida del suo popolo, non era di facile diffusione; basta pensare alla circoncisione. Solitamente veniva tollerato proprio per la sua tendenza a rimanere etnicamente circoscritto, ma in diverse occasioni fu utilizzato come caprio espiatorio e gli ebrei furono puniti più volte per i loro tentativi di resistenza, ad esempio con la distruzione di Gerusalemme nel 70 d.C. Il cristianesimo delle origini era una branca dell’ebraismo, e come tale venne considerato per un certo periodo anche quando se ne separò: spesso i provvedimenti giuridici erano poco chiari e valevano per entrambe le religioni. La stragrande maggioranza dei popoli antichi era “politeista”: riteneva che i vari aspetti della realtà, o i vari popoli, avessero un dio specifico, una sfera protettiva particolare. Quasi ogni aspetto della realtà poteva essere considerato degno di adorazione. Istintivamente, a chi non era filosofo, il fatto che la realtà fosse una e molteplice allo stesso tempo non sembrava per nulla contraddittorio. Quelli che credevano in un solo dio invece sembravano negare la sacralità di tutti i possibili aspetti del creato ad eccezione di un solo aspetto, cioè proprio la sua unicità. Ai “pagani” i monoteisti sembravano intolleranti, irrazionali, o quantomeno egoisti. La repressione I cristiani delle origini, allo stesso modo degli ebrei, si riconoscevano come una comunità all’interno della comunità dello stato romano: spesso rifiutavano di prestare servizio militare. Erano i primi obiettori di coscienza della storia. E spesso rifutavano anche di assumere impegni sociali o civili. Erano i primi anarchici della storia. E tutto questo in nome dell’uomo, della pace, della giustizia, senza l’uso di armi. Come l’ebraismo, il movimento minava le basi stesse della società, condannando l’idea della dominazione imperiale, sovvertendo i valori tradizionali romani e ponendosi come unica fede possibile. La nuova religione, però, si allontanò dall’esclusivismo ebraico, aprendosi volentieri alla diffusione presso i pagani: subito dopo la conquista della Giudea da parte dei romani, in seguito alla conversione dell’anatolico Paolo di Tarso, i cristiani decisero che tutti potevano convertirsi senza essere circoncisi e senza adottare particolari forme di vita tipiche della ristretta comunità ebraica. Dopo la punizione che i romani inflissero agli ebrei con la distruzione totale di Gerusalemme nel 70 e la successiva diaspora (una delle tante) le prime comunità cristiane di provenienza ebraica sopravvissero fra Siria ed Israele in un progressivo isolamento, fino alla scomparsa totale. Nel frattempo crebbero molto le comunità paoline, quelle fondate da Paolo, stanziandosi nelle grosse città greco-romane. Paolo era un benestante greco-romano che si era convertito dopo la morte di Gesù e che vedeva nella nuova religione la possibilità di “salvezza” del mondo intero, possibilità che in qualche modo era aspettata da molti altri. La sua predicazione ruppe con le tradizioni del popolo ebraico e abbracciò le aspirazioni universali dell’unificazione culturale ellenistica. Paolo, cercando l’integrazione e la diffusione nel resto del mondo greco-romano, ampliò la base sociale e numerica della nascente “chiesa”. Gesù aveva predicato di guardare dentro di sé e di non assuefarsi alla regole stantìe della società. Paolo promise a tutti la salvezza e il paradiso eterno, chiedendo in cambio solo di credere. Più che a provocare una difficile rivolta interna all’animo umano oppure un’inutile rivolta alle istituzioni – rivolte che avevano portato il messia ad essere crocifisso – l’operato di Paolo puntò a infondere pace e sicurezza all’intera popolazione, straziata da centinaia d’anni di guerre e violenze. Fu Paolo ad affermare la preminenza della fede rispetto alle opere, la preminenza dello spirito sulla materia. Convertendosi e semplicemente credendo, ogni persona avrebbe partecipato alla venuta del “Regno di Dio”, che, secondo le visioni di allora, non era affatto lontana. Paolo credeva che Gesù fosse christos, cioè il “sacro messia”, il salvatore aspettato dagli ebrei, ma lo identificò anche come “figlio di Dio”, espressione che, in un mondo totalmente politeista, identificava in pratica un dio a sua volta. Paolo promosse coscientemente il culto della personalità di Gesù. E iniziò a parlare dei « cristiani » come separati dagli ebrei. I successivi due secoli, però, sarebbero stati caratterizzati dallo scontro sempre più forte fra il mono-teismo (culto di un solo dio) e il poli-teismo (culto di molti dei). Il culto verso la persona di Gesù, appaiandosi al culto verso il Dio Padre e poi verso la Madre di Dio, avrebbe comportato numerosi problemi dottrinali alla futura Chiesa, tendenzialmente mono-teista. Il cristianesimo faceva breccia nella popolazione impoverita, ma anche in strati sociali più abbienti. I suoi valori offrivano delle vie di fuga all’angoscia e alla disperazione causate da continue guerre e dal malessere dilagante. Segnatamente il cristianesimo si rivolgeva anche al mondo femminile, un mondo escluso quasi totalmente dalla vita pubblica di allora. La nuova religione si diffuse rapidamente, anche grazie alla predicazione di profeti itineranti che ripetevano l’esperianza messianica, e rapidamente incorse in vari tentativi di repressione, che a volte raggiunsero livelli maniacali. A Roma si parlava con orrore dei “culti giudaici”, nacquero leggende metropolitane e i cristiani furono utilizzati, allo stesso modo degli ebrei, come caprio espiatorio per qualsiasi “colpa” o disastro impressionante. Il martirio di Pietro e di Paolo (fra il 64 e il 68) è da ricollegarsi a questo tipo di dicerie e paranoie, particolarmente vivide alla corte di Nerone (54-68). Dalle imprese di Cesare e di Augusto (27 a.C.-14 d.C.) era passato ben poco tempo, e alcuni imperatori iniziavano già a considerarsi delle divinità, ancor prima di “essere dichiarati tali” dai loro successori. Roma aveva lasciato quasi intatte le strutture socio-politiche preesistenti alla sua conquista: il riconoscimento pubblico della sovranità romana avveniva proprio attraverso il culto di Augusto e di Roma, un culto formale, civico e politico, che gli stessi romani non ritenevano pregnante dal punto di vista spirituale. La sua funzione era appunto formale: era una specie di dichiarazione di fedeltà, un giuramento allo stato romano. Ad ogni modo, chi credeva in un’unica divinità e rifiutava di adorare formalmente il sovrano veniva incriminato per lesa maestà e ateismo. Lesa maestà nei confronti dell’imperatore e ateismo nei confronti della divinità in generale. I cristiani cioè rifiutavano il concetto di divinità a degli « esseri » che altri consideravano i veri dèi, la vera divinità. Dopo le prime repressioni di una piccola setta, figlia di quella ebraica, notoriamente anti-romana, sul finire del I secolo, venne messa seriamente in dubbio l’esistenza stessa del cristianesimo L’imperatore Domiziano (81-96), forse in seguito all’esplosione del Vesuvio (79 d.C.), ordinò la prima persecuzione direttamente mirata contro il cristianesimo, che, pare, fosse già professato persino alla corte imperiale. Questa persecuzione fu accompagnata dal fiorire delle visioni apocalittiche, influenzate dal clima tragico in cui viveva la prima comunità cristiana, ancora incerta sul suo futuro. Comunque la società greco-romana nel suo complesso stava attraversando una fase di crisi strisciante, e prolungata. Per le comunità paoline sopravvissute alla repressione, la ricerca della pace implicava anche di cercare la collaborazione fra lo stato romano e la “chiesa primitiva”, che veniva effettivamente percepita come una nuova istituzione. Sembra che le autorità romane abbiano riconosciuto le comunità cristiane almeno come “associazioni di culto per i morti”. Fra I e II secolo nella comunità religiosa cristiana nacquero i prodromi della chiesa – ministeri e servizi – perché aumentavano sempre di più i fedeli e l’esigenza di una migliore organizzazione. La tolleranza Resistendo tenacemente e continuando a proliferare, il cristianesimo delle origini si guadagnò lunghi periodi, se non proprio di assoluta libertà, almeno di tolleranza e possibilità di organizzarsi. Nel frattempo, mentre alcuni cristiani accusavano l’impero di fondarsi su sacrifici a potenze demoniache, ai romani, che erano sempre stati una gente pratica, divenne abbastanza chiaro che i cristiani stessi non facevano strani rituali né complottavano contro l’imperatore. Nel II secolo, il “periodo d’oro” dell’Impero, come detto i cristiani godevano dello stato di “associazione per il culto dei morti” e furono perseguiti dalla legge solo se venivano accusati di persona in modo esplicito, tramite denunce private, per i reati suddetti di ateismo, lesa maestà o crimini contro la società. Al contrario degli imperatori del I secolo, che avevano trattato con una comunità piccola e poco conosciuta, quelli del II secolo, in genere, riconobbero i diritti dei cristiani ad essere “normali” cittadini, come gli altri. E si adoperarono anche per evitare calunnie palesi, o faziose, da parte di privati facoltosi, oppure inutili linciaggi da parte della popolazione, sempre pronta a facili entusiasmi e a scaricare le proprie paure attraverso capri espiatori. Un’organizzazione comune: l’ekklesia christiana In seguito alla diffusione e all’accettazione dei pagani presso le comunità paoline, dunque, la nuova religione cominciò ad avere un peso numerico rilevante. Si stima che nel corso del primo secolo gli adepti siano cresciuti fino a circa 150.000. Il culto si stava aprendo sempre più al mondo esterno. Il popolo mischiava il cristianesimo col paganesimo, gli amministratori immettevano usanze romane nel vestiario e nella prassi, gli studiosi cercavano di interpretare i testi sacri attraverso la cultura greca. Tutto questo rimescolamento diede vita a numerose dispute teologiche. Contro il proliferare delle fazioni, la piccola realtà ebraico-cristiana tendeva gradualmente alla formazione di una vasta rete internazionale, una grande ekklesia, in greco “riunione” o “assemblea”, che cercasse di stabilire l’organizzazione comune, e la visione unitaria della dottrina e dell’idea stessa che ci si poteva fare della personalità di Cristo. In seguito alla predicazione di Paolo di Tarso Gesù stava diventando il vero oggetto di culto e questo aspetto iniziava a rendere evidenti le contraddizioni delle credenze monolitiche di chi condannava il politeismo. Fin da subito i responsabili delle varie comunità, i vescovi, e in modo particolare quello di Roma, si preoccuparono di stabilire i precetti che dovevano essere seguiti da tutta la comunità di fedeli. Si voleva che la nuova istituzione restasse unita e fosse una “grande casa” per l’uomo. Le opinioni diverse, che venivano chiamate col termine greco eresis, che vuol dire semplicemente “scelta”, dapprima combattute col dialogo, successivamente furono condannate con sempre maggiore vigore.