Archive pour le 16 octobre, 2015

Gesù il « servo del Signore »

Gesù il

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Publié dans:immagini sacre |on 16 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

IL «SERVO DEL SIGNORE» (Is 42; 49-50; 52-53).

 http://www.collevalenza.it/CeSAM/02_CeSAM_0014.htm

IL «SERVO DEL SIGNORE» (Is 42; 49-50; 52-53).

(C’è Zaccaria invece di Ebrei, è un altro anno liturgico)

« ESSI SI VOLGERANNO A ME CHE HANNO TRAFITTO… IN QUEL GIORNO VI SARA’ UNA FONTANA ZAMPILLANTE » (Zc 12,10; 13,1)

P. Aurelio Pérez fam

All’interno del libro del profeta Isaia si distinguono chiaramente tre parti, di cui la prima (cap. 1-39) è quella propria del profeta Isaia, vissuto nell’VIII sec. a. C., e la seconda (cap. 40-55), ambientata in un quadro storico di quasi due secoli dopo, è quella che contiene i cosiddetti « canti del servo ». L’orizzonte di consolazione, di attesa di liberazione, di speranza di rinnovamento cantato dal « secondo Isaia » durante l’esilio, è dominato dalla misteriosa figura del « servo del Signore », innocente e giusto, chiamato a radunare il popolo disperso e ad essere addirittura luce delle genti, ma attraverso una morte violenta che espia i peccati del popolo. Chi è questo servo? Alcuni lo identificano con il popolo d’Israele, chiamato spesso « servo » del Signore (cf Is 41,8-16; 44,21-23), molti propendono a vedervi una figura storica, l’anonimo profeta che scrive (il secondo Isaia). In ogni modo sono i testi sul servo sofferente e la sua espiazione vicaria quelli che Gesù ha evocato ed ha applicato alla sua missione e passione, soprattutto in quella lectio divina che rilegge tutte le Scritture, fatta personalmente da Lui ai due discepoli di Emmaus dopo la risurrezione (Lc 24,25-32.44-46).

1. Il Signore presenta il suo Servo. Primo canto (Is 42,1-9) L’identità personale di questo servo viene, anzitutto, presentata solennemente dal Signore stesso, che lo qualifica come colui che Egli sostiene, il suo « eletto » in cui si compiace e in cui pone il suo Spirito, per portare il diritto alle nazioni e stabilirlo sulla terra (vv. 1.4). Questa missione universale così grande sarà caratterizzata da uno stile di discrezione, misericordia e compassione, che non scoraggia nessuno, ma nello stesso tempo è fermo e costante nel portare a termine la missione che il Signore gli affida (vv. 2-4). « Io, JHWH, ti ho chiamato nella giustizia e ti ho afferrato per mano, ti ho formato e ti ho stabilito alleanza di popolo e luce delle nazioni, per aprire gli occhi dei ciechi, far uscire dal carcere i prigionieri e dalla prigione gli abitatori delle tenebre » (vv. 6-7)

2. Il Servo presenta se stesso e la sua difficile missione Secondo e terzo canto (Is 49,1-7; 50,4-9a) Il Servo stesso presenta, di nuovo in modo solenne, la sua vocazione profetica. Ha coscienza di essere stato « chiamato » (49,1), anzi « plasmato » (49,5) dal Signore fin dal seno materno, non solo per ricondurgli Giacobbe e a Lui riunire Israele, ma anche per essere luce delle nazioni (49,6), affinché la salvezza misericordiosa del Signore arrivi alle estremità della terra e abbracci tutti. Ma si tratta di una vocazione simile a quella di Geremia (cf Ger 1,4-10), caratterizzata da una misteriosa sofferenza, che sembra rendere inutile e destinato al fallimento lo sforzo del profeta (49,4), la cui vita verrà disprezzata e rifiutata (49,7). Ma l’opera del Signore nel suo Servo avrà, alla fine, la meglio e si manifesterà di fronte ai potenti della terra (49,7). Continuando su questa linea, il terzo canto del Servo (50,4-9a), presenta, ancora in termini autobiografici, la sofferenza fisica e morale (v. 6), con dettagli (flagelli, insulti, sputi) che si compiranno alla lettera nella Passione di Gesù. Il Signore che chiama il suo Servo a sostenere gli sfiduciati, lo prepara a questa missione aprendogli l’orecchio alla sua volontà, e il Servo risponde con decisione (vv. 4-5), anzi rende la sua faccia dura come pietra, fiducioso nel Signore (v. 7; cf Ez 3,4-11; Lc 9,11).

3. Il Servo « schiacciato per le nostre iniquità » Quarto canto (52,13-53,12) La missione del Servo di JHWH conoscerà un fallimento bruciante agli occhi umani e un epilogo inatteso. Si tratta di una notizia inaudita. La persecuzione e la passione, che il Servo in persona presentava nel terzo canto, diventano una umiliante condanna a morte, in cui entra senza aprir bocca, « come agnello condotto al macello » (53,7). Martin Buber, ebreo anche lui, ha scritto che « il successo non è uno dei nomi di Dio ». Solamente a distanza, coloro che erano stupiti di lui – «tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo» (52,14) – apriranno gli occhi e «comprenderanno ciò che mai avevano udito» (52,15). Verrà alla luce una rivelazione incredibile: il Servo «castigato, percosso da Dio e umiliato» (53,4cd), questo «uomo dei dolori» è, in realtà, il soggetto nascosto del più alto compiacimento del Signore e della sua volontà di salvezza(1). Viene sottolineato con molta insistenza che la morte ignominiosa del servo innocente, ha nel disegno misterioso del Signore, un carattere vicario: « si è caricato delle nostre sofferenze » (53,4), « è stato trafitto per i nostri delitti… per le sue piaghe noi siamo stati guariti » (53,5, cf vv. 6.8b.11d.12d). Com’era stato all’inizio (52,13-15), così alla fine, è il Signore che dice l’ultima parola sulla sorte e sulla « buona riuscita » e il « successo » (quello secondo Dio) che avrà il Servo(2). La sua morte si rivelerà un’esplosione di vita e il Signore gli darà in premio le moltitudini (53,11-12).

ZACCARIA: Il « trafitto » e la « fontana zampillante » Il libro del profeta Zaccaria si divide in due parti ben distinte(3). La prima parte (cap. 1-8) si occupa, come il profeta Aggeo, della ricostruzione del Tempio e della restaurazione nazionale, ma che aprono all’era messianica, in cui sarà esaltato il sacerdozio rappresentato da Giosuè (3,1-7), ma in cui la regalità sarà esercitata dal « germoglio » (3,8), che 6,12 applica a Zorobabele. I due unti (4,14) governeranno in perfetto accordo. La seconda parte (cap. 9-14), tutta diversa per stile e orizzonte storico, è importante soprattutto per la dottrina messianica: la rinascita della casa di Davide (12), l’attesa di un Re Messia umile e pacifico (9,9-10), l’annunzio misterioso del Pastore rifiutato e valutato trenta sicli d’argento (11,12-13), e del « Trafitto » (12,10), con cui il Signore stesso si identifica, verso cui si volgeranno gli sguardi, e nel cui « giorno » sgorgherà una « fontana zampillante » che laverà il peccato e l’impurità (13,1). Dietro questo misterioso « trafitto » ci sono le figure storiche del santo re Giosia, trafitto proprio nella pianura di Meghiddo, di tutti i profeti e giusti perseguitati, ma soprattutto si staglia la profezia del Messia Gesù trafitto sulla croce, dal cui costato sgorgherà la sorgente della salvezza per tutti. Il Nuovo Testamento citerà o farà allusione a questi capitoli di Zaccaria. (cf Mt 21,4-5; 27,9; Mc 14,27; Gv 19,37).

[1] Cf F. ROSSI DE GASPERIS – A. GARFAGNA, Prendi il Libro e mangia, 3.1, p. 47.

[2] Gli esegeti ritengono che sia più o meno contemporanea della profezia del secondo Isaia anche la “storia di Giuseppe” (Gen 37,2-50,26), segnata da un abbassamento drammatico a cui segue una glorificazione inattesa, attraverso la quale diventa il salvatore dei suoi fratelli malvagi e gelosi. Si ripeta la storia di una “pietra scartata dai costruttori, divenuta testata d’angolo” nel piano di Dio.

[3] Cf LA BIBBIA DI GERUSALEMME, EDB 1992, p. 1546.

18 OTTOBRE 2015 | 29A DOMENICA – TEMPO ORDINARIO B | OMELIA

http://www.donbosco-torino.it/ita/Domenica/02-annoB/14-15/Omelie/8-Ordinario/29a-Domenica-B-2015/10-29a-Domenica-B-2015-UD.htm

18 OTTOBRE2015 | 29A DOMENICA – TEMPO ORDINARIO B | OMELIA

UMBERTO DE VANNA

Per cominciare Gesù, pur avendo un’identità incommensurabile e un’autorità che non può essere messa in discussione, sceglie per sé come stile di vita il servizio, accogliendo la sofferenza e la croce per la salvezza di tutti. È così che va vissuta l’autorità nella chiesa, tra cristiani: senza l’ambizione di chi cerca i primi posti, e vede nella sequela un’occasione per affermare se stessi.

La parola di Dio Isaia 53,10-11. La prima lettura ci presenta una parte del quarto carme del « servo di Iahvè ». Nei versetti che precedono, Isaia descrive questo servo come un piccolo virgulto nel deserto, cresciuto in terra arida, « disprezzato e reietto dagli uomini ». Nella parte che viene proposta oggi, veniamo a conoscere il pensiero di Dio, che attua i suoi disegni proprio attraverso l’umiltà, la debolezza e la sofferenza di questo servo, figura di Gesù, che salva gli uomini servendoli e dando la vita per loro. Ebrei 4,14-16. Il brano della lettera agli ebrei ricorda che possiamo metterci nelle mani di Dio con piena fiducia. Gesù infatti, nostro grande sommo sacerdote, vero uomo, ma anche vero Dio, ha condiviso in tutto le nostre debolezze, e viene in nostro aiuto. Marco 10.35-45. Gesù ha appena parlato per una terza volta della sua passione e morte e due apostoli si fanno avanti per chiedere i primi posti nel futuro regno che sta per realizzare. Gesù approfitta della loro evidente ambizione per far conoscere quale deve essere l’idea di autorità che deve caratterizzare la comunità cristiana.

Riflettere..

o Qualcuno ha voluto vedere nell’atteggiamento di Giacomo e di Giovanni il primo tentativo di scisma della chiesa. I due discepoli si separano dagli altri apostoli per l’ambizione del potere e per occupare i primi posti. Forse è davvero questo simbolicamente l’inizio di tante altre divisioni, quasi sempre determinate da rivalità e desiderio di prevalere. o Gesù ha appena ricordato agli apostoli quale sarebbe stata fra breve la sua fine: salire a Gerusalemme, essere consegnato nelle mani dei capi dei sacerdoti e degli scribi, venire condannato a morte, consegnato ai pagani, essere deriso, flagellato, ucciso, e dopo tre giorni risorgere. o Non è la prima volta che Gesù fa questa affermazione, aggiungendo particolari sempre più realistici e drammatici, che hanno lo scopo di preparare quegli uomini dalla fede ancora debole a quel momento per loro difficilissimo. Ma come le altre volte, Gesù viene lasciato solo anche dai suoi apostoli, che non comprendono. o Ci è difficile pensare che gli apostoli, avendo udito più volte queste parole, possano immaginare che Gesù salga a Gerusalemme per dare inizio a un regno messianico glorioso e di tipo politico. Forse qualcuno di loro ha potuto pensare che quelle parole facessero riferimento a un momento di difficoltà, ma che poi tutto si sarebbe risolto e Gesù avrebbe dato inizio al suo regno, più volte annunciato, per il quale erano stati fatti apostoli. o A sorpresa due di loro, e non due qualsiasi, ma Giacomo e Giovanni, i Boanèrghes, i « figli del tuono » (Mc 3,17), chiedono a Gesù di poter sedere alla sua destra e alla sua sinistra nel futuro regno. Mentre Gesù pensa alla sua tragica fine, essi pensano ai posti di onore, a fare carriera. È la solita mentalità terra terra degli apostoli, così lontana dallo spirito del vangelo predicato da Gesù. Per loro sedere a destra e a sinistra sul trono di Gesù è la conquista di una posizione di prestigio, una meta a cui tendere. o Gesù non nega la gloria, ma dice che essa sarà conseguenza di una fedeltà fino al sangue e passerà attraverso la croce. Dice loro realisticamente: « Voi non sapete quello che chiedete », quasi a indicare la distanza che ancora li separa. o Quando Gesù giungerà alla vigilia della sua sofferenza, chiederà che il calice amaro gli venga allontanato… Sarà una preghiera piena di realismo e di umanità. I due apostoli invece si dicono sicuri di sé, e affermano di poter bere quel calice… È una dichiarazione piena di presunzione. È lo stesso slancio di Pietro che giurò che non avrebbe mai tradito Gesù, anzi che non avrebbe mai permesso che gli fosse fatto del male, e poi lo abbandona e si rifiuta di conoscerlo. o Gli altri apostoli si accorgono della richiesta dei due e si indignano, o perché hanno capito l’assurdità di quanto chiedono o più realisticamente perché vedono in questa richiesta una iniziativa per scavalcarli prendendoli in contropiede. o Gesù non si indispone, pur vedendoli così lontani. Riconosce che anche loro un giorno berranno l’amaro calice e saranno battezzati dalla stessa sofferenza, e continua a catechizzarli, proponendo a loro, senza sconti, l’insegnamento nuovo e sorprendente di come si deve pensare l’autorità nella sua nuova comunità: chi vuole essere importante deve diventare debole, chi vuole essere grande deve farsi servo (diakonos), chi vuole essere il primo deve farsi schiavo (doulos). Se i grandi della terra spadroneggiano sugli altri, tra i cristiani non deve essere così. o Ogni rabbino che si rispetti al tempo di Gesù ha dei discepoli dai quali si fa servire in tutto, disponibili a ogni servizio. Ed essi sono disposti a umiliarsi, pur di diventare un giorno come il loro maestro, un rabbino pieno di privilegi e di un’autorità sociale riconosciuta. o L’insegnamento di Gesù al riguardo è, come già è stato detto, nuovo e imprevedibile, opposto. E il suo non è un insegnamento astratto o paradossale, non indica semplice-mente una meta a cui tendere: è uno stile di vita che Gesù sceglie per sé in ogni circostanza. o Il Figlio di Dio che si è fatto uomo non si fa mai servire da nessuno. Anzi, è lui che serve. Non chiede che gli lavino i piedi, ma è lui che lava i piedi ai discepoli. Non prende comportamenti che lo stacchino dagli altri; non cerca di scavalcare nessuno per farlo diventare piccolo; non vede nell’altro un concorrente o un nemico.

Attualizzare

* Quando Marco scrive questo brano, Giacomo ha già dato la vita per Cristo e per la chiesa, morendo martire a Gerusalemme (At 12,2). Quanto a Giovanni, è da tempo impegnato, come gli altri apostoli, in un’infaticabile predicazione del vangelo. Questi due apostoli hanno dunque col tempo compreso bene l’insegnamento di Gesù. Forse è per questo che Luca non ricorda l’episodio e Matteo dice che è la madre a chiedere per i suoi figli i due posti nel regno di Gesù (Mt 20,20-24). Ma il testo di Marco appare più realistico e doppiamente credibile. * Si sa che l’ambizione è la molla del potere. Chi si trova investito di autorità e c’è arrivato magari a forza di gomitate, ama costruire attorno a sé degli steccati, accetta pacificamente i suoi privilegi ed è disposto a difenderli magari con arroganza. * Marco, che presenta la predicazione di Pietro, si propone di far riflettere la chiesa delle origini sul rischio di costruire una chiesa che accetta privilegi, cerimoniali servili e gesti di sottomissione, cosa che manderebbe in crisi la fraternità nella comunità. * Nella chiesa di tutti i tempi ci sono persone meravigliose che non si preoccupano di nulla se non di annunciare il vangelo e di servire i fratelli, santi da altare o cristiani anonimi che operano unicamente distinguendosi solo per la generosità. * È però inevitabile oggi chiederci se i duemila anni della chiesa non hanno appannato questa concezione cristiana del potere. Domandarci se si guarda ai posti di responsabilità come a un’occasione per servire meglio, oppure come al coronamento di una carriera. * Nella chiesa più che altrove l’autorità dovrebbe essere caratterizzata da un senso di misura anche più marcato, essere vissuta maggiormente coi piedi per terra, evitando distacchi assurdi e una concezione aristocratica della propria funzione. Certamente l’autorità nella chiesa è una realtà indiscutibile e va accolta senza contestazioni di principio o diffidenze, ma dovrebbe essere esercitata secondo criteri evangelici e non in modo spersonalizzato e burocratico, a imitazione del potere civile. * Nella chiesa comunque i cristiani di fronte a un abuso di potere reagiscono senza creare spaccature insanabili, senza costruire ghetti o creare il vuoto attorno a chi è in autorità. Si propongono invece di liberare l’eventuale ambizioso dalla sua mentalità ristretta, lavorando per una sua conversione in radice, allo scopo di fargli capire che la giusta collocazione dell’autorità, secondo il vangelo, consiste nel farsi schiavi e servi degli altri. * Ma, concludendo, e proprio per rendere il pensiero di Gesù più vicino a noi, meno astratto e qualunquistico, dovremmo non soltanto puntare il dito sulle autorità civili e religiose, ma su di noi stessi e domandarci come viviamo la nostra piccola o grande fetta di autorità in famiglia, sul lavoro, nella scuola. Perché l’ambizione a volte si annida proprio là dove non te lo aspetteresti, magari in situazioni micro, che pure rivelano nel cuore di una persona più l’ambizione e il desiderio della sopraffazione, che la fraternità.

La comprensione di una madre « Colui che governa sia esemplare nella condotta, discreto col silenzio, utile con la parola, vicino a tutti con la carità; con umiltà vicino a chi compie il bene, con forza e amore di giustizia schierato contro i vizi dei malvagi. Chi ha il potere cerchi non tanto il gusto di imporsi agli altri quanto la gioia di far loro del bene. Fa buon uso del potere chi se ne serve per aiutare gli altri. La comprensione riveli ai sudditi nel pastore, una madre; la disciplina ne mostri la forza come in un padre » (san Gregorio Magno).

La tiara, il celebre copricapo del papa « La tiara era il simbolo dell’autorità e della giurisdizione universale del vescovo di Roma. Resta incerta la sua origine, ma nel secolo XIII era costituita da una sola corona, nel secolo seguente da due e, pochi decenni dopo, da tre corone sovrapposte, simboli dei tre regni su cui il papa estendeva il suo potere: il cielo, la terra e sottoterra. Eletto papa, Paolo VI compì un gesto storico: se la pose sul capo e subito se la tolse, questa volta per sempre. Il triregno era un simbolo troppo equivoco, troppo compromesso, incompatibile con l’unico diadema glorioso che aveva ornato il capo del Maestro, la corona di spine » (Fernando Armellini).

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