Archive pour le 1 octobre, 2015

La scultura dell’Uomo della Sindone. Particolare del volto, Torino

 La scultura dell’Uomo della Sindone. Particolare del volto, Torino dans immagini sacre 1

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SANTA TERESA DI LISIEUX – 1 OTTOBRE

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SANTA TERESA DI LISIEUX – 1 OTTOBRE

Biografia

Teresa Martin nacque ad Aleçon (Orne), piccolo villaggio della Normandia francese, il 2 gennaio 1873 da una famiglia borghese agiata di profonda fede cristiana, ultima di otto figli, di cui tre muoiono piccoli, perché in quel tempo la mortalità infantile non era ancora stata vinta. Tuttavia nonostante le tragedie nella famiglia Martin regna una solida fede che le acconsente di scorgere in ogni avvenimento la presenza di Dio.
Il padre Louis Martin nato il 22 Agosto a Bordeaux, era orologiaio aveva imparato il suo lavoro in Svizzera, da bambino aveva seguito suo padre nelle diverse guarnigioni (Avignone, Strasburgo) e conobbe la vita dei campi militari sino al congedo del padre successivamente si ritirarono ad Aleçon nel 1830. Louis a ventidue anni sogna una vita religiosa e si presenta come postulante al monastero del Gran San Bernardo ma non viene accettato perché non conosce il latino, tuttavia per otto anni conduce una vita quasi monastica, tutta dedita al lavoro, alla preghiera, alla lettura.
La mamma Zélie Guérin, nata il 23 Dicembre 1831 in una famiglia di origine contadina, è stata educata da un padre autoritario e da una madre molto severa, anche lei pensa alla vita religiosa, ma la sua domanda di essere accolta presso le suore dell’Hotel-Dieu d’Aleçon viene respinta ed allora si lancia nella fabbricazione del « Punto di Aleçon » apre un negozio diventa un’abile lavoratrice e avrà un pieno successo.
Appena nata Teresa conosce la sofferenza: a soli quindici giorni rischia di morire per un’enterite acuta. A due mesi Teresa supera una crisi però la madre è tuttavia costretta, su parere del medico, a separarsi dalla figlia e affidarla a una nutrice amica.
All’età di quattro anni Teresa perde la mamma, minata da un cancro al seno, tuttavia le sorelle fanno del loro meglio per crescere la piccola Teresa, nello stesso periodo si trasferiscono a Lisieux (Calvados). Ha nove anni quando sua sorella Paolina, la sua «piccola mamma», entra al Carmelo della città, Teresa cade gravemente ammalata. Nessuno sa diagnosticare la malattia. Teresa, familiari e amici pregano moltissimo. Il 13 Maggio 1883, quando ormai sembrava inevitabile la morte. Teresa vede la Vergine sorridente e immediatamente guarisce. La guarigione improvvisa e quel sorriso materno di Maria la rendono ancora più determinata a realizzare il sogno da sempre nutrito ossia consacrarsi totalmente all’Amore. Alla prima comunione (8 Maggio 1884) Teresa sperimentò di sentirsi amata « fu un bacio d’amore, mi sentivo amata, e dicevo anche: Ti amo, mi do a te per sempre ».
Successivamente anche la primogenita Maria entra nel Carmelo. A 14 anni, Teresa annuncia al padre l’intenzione di entrare al Carmelo. A 15 anni (il 9 aprile 1888) varca il cancello della clausura, dopo aver ottenuto – considerata la sua giovane età – un permesso particolare da papa Leone XIII, che incontrò il 20 novembre 1887 a Roma. Nel Carmelo era calmissima e ritrovò la pace, che non l’abbandonò più nemmeno durante la prova. La madre Gonzaga, nonostante la giovane età di Teresa la trattava con severità, tuttavia lei non se ne lamentò mai.
Frattanto le condizioni del padre precipitarono. L’arteriosclerosi devastò il papà di Teresa che fu interdetto e ricoverato per tre anni in una casa di cura. Questo fatto le procurò un terribile dolore.
Ma la prova più grande per lei non fu quella della salute, bensì la « notte » dello spirito che l’avvolse per diciotto mesi. Sperimentò questo non attraverso le frequentazioni di atei, ma nel silenzio incombente di Dio capì la condizione dell’ateo: « Dio ha permesso che l’anima mia fosse invasa dalle tenebre più fitte, e che il pensiero del Cielo, dolcissimo per me, non fosse più se non lotta e tormento ».
La sua salute cagionevole tuttavia non resisterà a lungo al rigore della regola carmelitana e il 30 settembre 1897, all’età di 24 anni, morirà di tubercolosi, vivendo giorno per giorno le sue sofferenze in perfetta unione a Gesù Cristo morto in croce, per la salvezza degli uomini.
Questo periodo di nove anni trascorsi in una vita da religiosa, apparentemente senza rilievo, avranno una meravigliosa portata spirituale, tanto più forte se si considera che da allora molte persone semplici, grazie al suo esempio si sentono di poter imitare e raggiungere lo stesso livello di quest’anima senza pretese né complicazioni, ma tuttavia così terribilmente esigente con se stessa. Quella di Teresa è la «via d’infanzia», o «piccola via» che fa riconoscere la propria piccolezza e si abbandona con fiducia alla bontà di Dio come un bambino nelle braccia di sua madre.
Nella vita di Teresa tutto è in contrasto. Il suo linguaggio è povero e spesso infantile, ma il suo pensiero è geniale. La sua vita apparentemente senza drammi è invece una tragedia della fede. La sua esistenza si è svolta fra le quattro mura del Carmelo, eppure il suo messaggio è universale.
Teresa ha scritto molto. Ha composto tre manoscritti, uno nel 1895, «Storia di un’anima» (chiamato manoscritto A), autobiografia scritta dietro richiesta della sorella Paolina (madre Agnese) un altro nel 1897 (chiamato manoscritto B), anno in cui scrive per obbedire alla sua priora. Le sue sorelle poi hanno raccolto le sue «ultime conversazioni» dal maggio 1897 al giorno della sua morte (questo chiamato manoscritto C). Si rimane poi stupiti dal gran numero di lettere inviate alla famiglia e dalle numerose poesie che ha composto. Teresa ha sofferto molto. Le prove spirituali che ha attraversato nel corso di questa vita nascosta (notte della fede, vuoto spirituale, tentazione di miscredenza) la rendono molto vicina a quelli che dubitano e non credono.
Teresa è sconosciuta quando muore nel 1897, ma quando viene canonizzata ventotto anni più tardi, nel 1925, la fama della sua santità si è sparsa celermente nel mondo intero: Lisieux diventerà uno delle destinazioni più ricercate da grandi masse di fedeli da ogni parte del mondo. Teresa viene proclamata, nello stesso anno sempre da papa Pio XI patrono universale delle Missioni, – per le quali ella ha pregato senza posa – è patrona della Francia, come Giovanna d’Arco.
Nel 1997, centenario della sua morte, Teresa è dichiarata « Dottore della Chiesa », la terza donna che assurge al massimo della considerazione teologica in duemila anni di Cristianesimo, dopo santa Caterina da Siena e santa Teresa d’Avila.
Il santo è visto come un prototipo che polarizza le energie e indica come realizzare il Vangelo in una data epoca. S. Teresa di Lisieux è profondamente moderna perché aiuta lo spirito ed il cuore a fondere le cose della terra a quelle del cielo e intendere le cose di Dio, del suo Amore, ai comportamenti più concreti.
Nel linguaggio odierno si parla spesso di tensione, per esprimere la difficoltà che ha l’uomo a vivere coscientemente a livello spirituale. S. Teresa ci offre un equilibrio armonioso. Per questo motivo può essere facilmente presa come modello di vita spirituale.

TESTIMONI – NEL MISTERO DEL DOLORE

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IL GRIDO E LA GRAZIA -

Alessandra Stoppa

TESTIMONI – NEL MISTERO DEL DOLORE

L’ha chiamata:?«La scienza cristiana». L’unica capace di rispondere davvero alla sofferenza. Nel discorso (passato in sordina) agli operatori sanitari, Benedetto XVI spiega perché la fede cura «senza illusioni». E come i malati salvano il mondo. Qui padre ALDO TRENTO si confronta con le sue parole

Quando si avvicina ai loro letti, ora che la bellezza nel dolore è così trasparente per lui, non gli resta che baciarli. «Dio mio», dice piano: «Ti bacio».
Non riesce più ad inginocchiarsi come prima, come vorrebbe, paziente per paziente, ma la sua giornata è per loro, fin dalle prime ore. Ormai ne ha accolti più di mille. Nella sua clinica per malati terminali ad Asunción, in Paraguay, padre Aldo Trento vive nella sofferenza da anni. La conosce molto bene. È ciò che ha scavato di più nella sua umanità l’apertura al Mistero. Per questo lo commuove sentire le parole del Papa sul dolore e sulla malattia. È un discorso passato un po’ sottotraccia, che Benedetto XVI ha tenuto alla conferenza internazionale del Pontificio Consiglio per gli Operatori Sanitari, il 17 novembre. Ha parlato degli ospedali come «luoghi privilegiati di evangelizzazione».
«È vero», dice padre Aldo: «Vivere con i malati ha evangelizzato me».
A undici anni salta su un trattore per fuggire in seminario, attraversa una vocazione irrequieta, sofferta, per poi lasciarsi rifare la vita dall’abbraccio di don Giussani. Nello statuto della clinica si legge in filigrana tutto il suo cammino. Fatto di grido e grazia. «Il cuore dell’uomo è nostalgia di infinito e di eternità. Questa casa esiste perché a noi è stata data la grazia di chiedere, di mendicare, di amare e desiderare la verità». Qui padre Aldo si confronta con il fatto che il Papa parli della fede come la grande scienza che cura, riprendendo le parole del Concilio Vaticano II alle persone sofferenti: «Non siete né abbandonati, né inutili. Uniti alla croce di Cristo, contribuite alla sua opera salvifica». Padre Aldo lo vede accadere: «I miei malati mi salvano e salvano tutto il mondo». Quando è nata la clinica, nel 2004, non viveva la pienezza di adesso: «L’ho imparata stando con loro, fianco a fianco, ogni giorno. Mi sono reso conto che sono la risorsa più grande che mi è data per prendere sul serio me stesso. Davanti a loro le preoccupazioni non ci sono, la mia vita diventa un’occupazione grandiosa: vivere di fronte al Mistero».
Non siete inutili, ricorda il Papa. «È questo che distrugge: l’inutilità di qualcosa. Non il dolore in sé. Penso a tutti i miei malati che sono andati in cielo con il sorriso sulla bocca». In quanti gli hanno detto: «Padre, senza questo cancro non sarei qui e non avrei incontrato Gesù». Una grazia che vale di più di come va la vita e di quanto dura. Li vede portare i dolori terribili del cancro o la vergogna dell’Aids con una «ragione». Non è più un’ingiustizia che li mette all’angolo. È l’esperienza di un’eternità in cui nulla va perso. «Stanno nel letto, nessuno li conosce. Ma loro si sentono partecipi della morte e della risurrezione di Gesù».
Ai medici e agli infermieri, Benedetto XVI ha ricordato che nel loro lavoro sono chiamati a dare «un sollievo senza illusioni». Cosa significa per te? «C’è una sola illusione, che si porta dietro tutte le altre: non comunicare il fatto di Cristo». Infatti, il Papa riprende le parole del Concilio: «Non è in nostro potere procurarvi la salute corporale, né la diminuzione dei vostri dolori fisici… Abbiamo però qualche cosa di più prezioso e di più profondo da darvi». E continua: «Cristo non ha soppresso la sofferenza, nemmeno ha voluto svelarcene interamente il mistero: l’ha presa su di sé, e questo basta perché ne comprendiamo tutto il valore».
Padre Aldo cammina in questo mistero che resta mistero, innanzitutto per la sua propria sofferenza. Negli ultimi tempi si è fatta più acuta, per i dolori fisici, la durezza di alcune vicende. «Padre, animo. Offriamo il nostro dolore a Gesù per te», gli dicono i pazienti. «La sofferenza sarà per sempre mistero. Ma come lo è l’amore. Non è che non lo vedi, non è che non si svela: lo vivi, ti cambia, ma resta mistero». Perché è mistero tutto ciò che ci salva. «La scelta del metodo di Dio». Un uomo gli ha rinfacciato: «Dio è cattivo perché è solo un atto di egoismo volerci salvare attraverso la croce e la morte di suo figlio». «Ma per un padre vero è più difficile accettare la morte di un figlio o la propria?», dice lui: «L’esperienza indica che Dio ci ama tanto da darci ogni giorno suo figlio. Cristo è il vertice dell’amore all’uomo del Padre. Ed è un mistero come lo è nella vita tutto quello che ci porta verso di Lui».
Per questo cambia anche la sua sofferenza personale. «Il mio dolore acquista una dimensione non più di paura, ma di preghiera. Signore, sei Tu che mi dai questa cosa, e mi parli. Mi dici che io devo vivere solo in Te, con Te e per Te. Come diciamo nella messa. Diventa un passo continuo alla conversione». Qualcosa di più profondo e prezioso dell’alleviare il dolore.

La verifica della fede. «Il volto del sofferente è il Volto di Cristo», continua il Papa. «In quei letti non c’è il segno di Cristo», dice padre Aldo: «C’è Cristo ». Questo per lui, «per grazia della Madonna», è stato chiaro fin dall’inizio. «Loro non sono un segno. Lo dice Gesù nel Vangelo: “Avevo fame”. “Avevo sete”. “Ero abbandonato”. È proprio Lui». Vedere in loro la presenza fisica del Mistero gli fa venire da inginocchiarsi. Baciarli. Racconta di Victor, il primo bambino che ha accolto. La testa grande, il corpo da neonato, ha vissuto in silenzio segnando per sempre lui e chi lo ha conosciuto. «È sconvolgente. Ma non puoi capirlo se non lo sperimenti. Perché la verifica della fede è rendersi conto che Cristo è un fatto. È talmente un fatto che tu vedi quel bambino e vedi in lui vibrare la vibrazione dell’Essere. C’è. E se lui c’è, c’è! Ti amo e ti adoro, perché ci sei».
Nella clinica non ci sono immagini del Crocifisso, solo di Maria. «Il Crocifisso è nei letti». I malati, i primi evangelizzatori. Lo riscopre negli infermieri e nei medici. C’è chi chiede di sposarsi in clinica, perché è il luogo dove ha incontrato la fede. «Non è mica per le mie prediche. Ma per la testimonianza silenziosa dei pazienti».

«Padre, guarda il mio dito!». Nel suo discorso il Papa fa dei nomi precisi. Santi. Giuseppe Moscati, Gianna Beretta Molla, Anna Schäffer, Jérôme Lejeune e Riccardo Pampuri, a cui la clinica è dedicata. «È bellissimo che ce li indichi. Il vero “prendersi cura” è venuto sempre da gente che viveva un innamoramento completo a Cristo. Non c’è un santo, anche se di clausura, che non abbia sentito il bisogno di offrire la propria malattia». Per te, cos’è la malattia? «È un terremoto. Che sveglia l’intelligenza e il cuore a riconoscere che c’è qualcosa di più grande». E quindi chiede una cura grande. Chiede che in riunione, passando in rassegna i malati, il medico non dica solo se uno mangia o va di corpo. «Ma come sta, tutto. E come stiamo noi davanti a lui». Nella clinica c’è la sala per la fisioterapia. Gli danno del matto: cosa serve la ginnastica a uno che sai che muore? «Vuol dire non aver capito che cos’è un ospedale. È importante che i medici comprendano cosa dice il Papa: l’approccio clinico non basta. È il rovescio di ciò che si pensa: la professionalità non è un progetto. Più guardo Cristo, più divento bravo a fare il mio lavoro, più cresce l’ardore di impegnarmi. E se posso pagare il fisioterapista perché il paziente mi dica: “Padre, guarda il mio dito!”, lo faccio».
Una cura grande. Nelle terapie, nella bellezza del luogo, nei gesti che scandiscono i giorni. La gente che va in clinica, anche solo di passaggio, è bloccata da una domanda: cosa c’è qui? Perché questa intensità nel vivere le cose? «Risveglia il bisogno d’infinito». Anche nei medici che, dopo anni, gli chiedono di poter fare la catechesi. «Questa è l’evangelizzazione e la fanno gli ammalati». Una volta, c’era in visita un amico dall’estero: «Quel giorno ero giù, perché pioveva». Un paziente, che non vedeva più e non poteva muoversi, dice: «Quando piove cresce l’erba fresca, le mucche la mangiano e noi beviamo il latte». Da quel momento, l’amico che lo accompagnava ha riaperto la propria domanda sulla fede, senza che nessuno gli chiedesse nulla.
«Propter salutem nostram, per noi e per la nostra salute discese dal Cielo», ricorda padre Aldo: «La salute. Non è una cosa escatologica. È adesso. Ci abbraccia tutti interi». Come continua Benedetto XVI: «Oggi aumenta la capacità di guarire fisicamente chi è malato, ma la scienza medica rischia di dimenticare la sua vocazione: servire ogni uomo e tutto l’uomo». E fa un richiamo: «Ora più che mai la nostra società ha bisogno di buoni samaritani, dal cuore generoso e dalle braccia spalancate a tutti».

L’energia che nasce. È facile pensare che solo dove sta padre Aldo, in quella clinica piena di grazie, ci sia la possibilità di vivere e lavorare così. Al centro è esposto il Santissimo, le giornate sono attraversate dalla preghiera, c’è la catechesi, e via dicendo. «La gente pensa che sono fortunato perché sono qui. Si possono pensare un sacco di cose, ma sono false. Chi non può vivere quello che vivo io? Ecco, appunto, il problema è l’io. Se coincido con Cristo, perché mi ha preso, ho mille, infiniti modi per annunciarLo. Ma l’io deve accadere, deve formarsi». Parla del cammino proposto da don Julián Carrón, di vivere intensamente la vita, come una chiamata dentro le circostanze. «Aiutarci a fare i conti con la realtà, piano piano, volendoci bene, è questo che toglie le illusioni e lascia posto ad un lavoro personale. Del medico. Del malato. Mio. Non dipende dal luogo in cui sei: dipende solo dall’energia che nasce da Cristo per cui vivi».

Publié dans:DOLORE E SOFFERENZA |on 1 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

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