Archive pour le 17 octobre, 2015

GIOVANNI PAOLO II – BENEDICTUS 2003

http://w2.vatican.va/content/john-paul-ii/it/audiences/2003/documents/hf_jp-ii_aud_20031001.html

GIOVANNI PAOLO II

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 1° ottobre 2003

BENEDICTUS

1. Giunti al termine del lungo itinerario all’interno dei Salmi e dei Cantici della Liturgia delle Lodi, vogliamo sostare su quella preghiera che, ogni mattina, scandisce il momento orante della lode. Si tratta del Benedictus, il Cantico intonato dal padre di Giovanni Battista, Zaccaria, allorché la nascita di quel figlio aveva mutato la sua vita, cancellando il dubbio che l’aveva reso muto, una punizione significativa per la sua mancanza di fede e di lode. Ora, invece, Zaccaria può celebrare Dio che salva e lo fa con questo inno, riportato dall’evangelista Luca in una forma che certamente ne riflette l’uso liturgico all’interno della comunità cristiana delle origini (cfr Lc 1,68-79). Lo stesso evangelista lo definisce come un canto profetico, sbocciato attraverso il soffio dello Spirito Santo (cfr 1,67). Siamo, infatti, di fronte ad una benedizione che proclama le azioni salvifiche e la liberazione offerta dal Signore al suo popolo. E’, quindi, una lettura «profetica» della storia, ossia la scoperta del senso intimo e profondo dell’intera vicenda umana, guidata dalla mano nascosta ma operosa del Signore, che s’intreccia con quella più debole e incerta dell’uomo. 2. Il testo è solenne e, nell’originale greco, si compone di due sole frasi (cfr vv. 68-75; 76-79). Dopo l’introduzione, segnata dalla benedizione laudativa, possiamo identificare nel corpo del Cantico quasi tre strofe, che esaltano altrettanti temi, destinati a scandire tutta la storia della salvezza: l’alleanza davidica (cfr vv. 68-71), l’alleanza abramitica (cfr vv. 72-75), il Battista che ci introduce nella nuova alleanza in Cristo (cfr vv. 76-79). La tensione di tutta la preghiera è, infatti, verso quella meta che Davide e Abramo indicano con la loro presenza. Il vertice è appunto in una frase quasi conclusiva: «Verrà a visitarci dall’alto un sole che sorge» (v. 78). L’espressione a prima vista paradossale col suo unire «l’alto» e il «sorgere», è in realtà significativa. 3. Infatti nell’originale greco il «sole che sorge» è anatolè, un vocabolo che in sé significa sia la luce solare che brilla sul nostro pianeta, sia il germoglio che spunta. Entrambe le immagini nella tradizione biblica hanno un valore messianico. Da un lato, Isaia ci ricorda, parlando dell’Emmanuele, che «il popolo che camminava nelle tenebre vide una grande luce; su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse» (9,1). D’altro lato, ancora riferendosi al re-Emmanuele, lo raffigura come il «germoglio spuntato dal tronco di Iesse», cioè dalla dinastia davidica, un virgulto avvolto dallo Spirito di Dio (cfr Is 11,1-2). Con Cristo, dunque, appare la luce che illumina ogni creatura (cfr Gv 1,9) e fiorisce la vita, come dirà l’evangelista Giovanni unendo proprio queste due realtà: «In lui era la vita e la vita era la luce degli uomini» (1,4). 4. L’umanità che è avvolta «nelle tenebre e nell’ombra della morte» è rischiarata da questo fulgore di rivelazione (cfr Lc 1,79). Come aveva annunziato il profeta Malachia, «per voi cultori del mio nome, sorgerà con raggi benefici il sole di giustizia» (3,20). Questo sole «dirigerà i nostri passi sulla via della pace» (Lc 1,79). Ci muoviamo, allora, avendo come punto di riferimento quella luce; e i nostri passi incerti, che durante il giorno spesso deviano su strade oscure e scivolose, sono sostenuti dal chiarore della verità che Cristo diffonde nel mondo e nella storia. Vorremmo, a questo punto, lasciare la parola a un maestro della Chiesa, a un suo Dottore, il britannico Beda il Venerabile (VII-VIII sec.) che nella sua Omelia per la nascita di san Giovanni Battista, così commentava il Cantico di Zaccaria: «Il Signore… ci ha visitati come un medico i malati, perché per sanare l’inveterata infermità della nostra superbia, ci ha offerto il nuovo esempio della sua umiltà; ha redento il suo popolo, perché ha liberato a prezzo del suo sangue noi che eravamo diventati servi del peccato e schiavi dell’antico nemico… Cristo ci ha trovato che giacevamo « nelle tenebre e nell’ombra della morte », cioè oppressi dalla lunga cecità del peccato e dell’ignoranza… Ci ha portato la vera luce della sua conoscenza e, rimosse le tenebre dell’errore, ci ha mostrato il sicuro cammino per la patria celeste. Ha diretto i passi delle nostre opere per farci camminare nella via della verità, che ci ha mostrato, e per farci entrare nella casa della pace eterna, che ci ha promesso». 5. Infine, attingendo ad altri testi biblici, il Venerabile Beda così concludeva, rendendo grazie per i doni ricevuti: «Dato che siamo in possesso di questi doni della bontà eterna, fratelli carissimi, …benediciamo anche noi il Signore in ogni tempo (cfr Sal 33,2), perché « ha visitato e redento il suo popolo ». Sulla nostra bocca ci sia sempre la sua lode, conserviamo il suo ricordo e a nostra volta proclamiamo la virtù di colui che « dalle tenebre ci ha chiamato alla sua ammirabile luce » (1Pt 2,9). Chiediamo continuamente il suo aiuto, perché conservi in noi la luce della conoscenza che ci ha portato, e ci conduca fino al giorno della perfezione» (Omelie sul Vangelo, Roma 1990, pp. 464-465).

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L’INNAMORATA DEL CANTICO

http://www.christusrex.org/www1/ofm/mag/TSmgitB2.html

la terra santa – rivista bimestrale della custodia francescana di terra santa

marzo – aprile 1998

L’INNAMORATA DEL CANTICO

SR ELENA BOSETTI, SGBP

Il Cantico dei Cantici ci ripropone nella sua freschezza il progetto originario, la reciprocità uomo-donna che il peccato degli inizi ha trasformato in dominio dell’uno sull’altra. Così con la pagina del cantico ci ricolleghiamo idealmente all’inizio del nostro itinerario, al canto d’amore della prima coppia umana.
I protagonisti del Cantico sono due giovani che condividono l’esperienza pastorale. « A contatto con le cose create da Dio, intatte come appena uscite dalla sua mano, i due giovani scoprono se stessi come avvolti nel grande flusso dell’Amore, realtà divina presente nel mondo che vince la morte. E questa scoperta avviene a partire dalla loro condizione di pastori, a contatto diretto con la natura » (E. Bosetti, La tenda e il bastone, Cinisello B. 1992, 134).
Invochiamo lo Spirito dell’amore più forte della morte.

1. IN ASCOLTO
I due amanti del Cantico fanno la loro prima comparsa sotto la veste di un pastore e di una pastorella. La terminologia pastorale si coniuga con quella dell’amore nella sua fase di fidanzamento, quando passione, ricerca, desiderio, incontro – i motivi si susseguono in un circolo senza fine – si consumano in un’atmosfera rarefatta al confine tra il sogno e la realtà.

1.1. Attirami dietro a te!
Il brano che apre il cantico (1,1-4) è simile a un’ouverture musicale: è un tutto compiuto, ma aperto a sviluppi ulteriori. Inizia il canto come solista la donna e il motivo dominante è quello del desiderio:
« Mi baci coi baci della sua bocca » (v. 2a).
Notiamo subito: non già due bocche che s’incontrano, ma piuttosto due bocche che si cercano, brama di ciò che si vorrebbe ma che ancora non si ha. Oppure: di ciò che si è già gustato e che ci ha conquistate con il suo ineffabile sapore e profumo, e che però ha lasciato un desiderio insopprimibile di rivivere quell’esperienza:
« poiché più soavi del vino sono le tue coccole… » (dodêka: v. 2b)
Amore, tenerezza, coccole, intrecciate con il simbolismo del vino, di grande rilievo nella Bibbia e nella letteratura orientale. Il v. 3 sottolinea la « fragranza », il senso dell’odorato. Il profumo ha un’importanza fondamentale in Oriente! Ebbene la giovane donna canta che il suo profumo è proprio lui, l’amato. Si nota un gioco lessicale tra shem (nome) e shemen (profumo). La tua presenza è il mio profumo!

« Attirami (rapiscimi!) dietro a te, corriamo » (v. 4)
La giovane esprime il desiderio di essere introdotta nella stanza nuziale, nell’alcova del re-pastore per gioire e far festa, per assaporare (« ricordare ») le sue tenerezze. Il testo esprime un forte desiderio d’intimità e si muove su un doppio piano. Infatti la parola hadar, che abbiamo tradotto con alcova, indica letteralmente « le stanze interne » (allusione alla stanza interna del Tempio, il Santo dei santi?)) e il far festa è al contempo « un ricordare », un celebrare. Portami – sembra dire la giovane innamorata – dove si possa far memoria della nostra storia d’amore. Dammi di assaporare ciò che mi hai fatto gustare! A questo punto c’è il passaggio dall’io al noi: « Di te ci si innamora »! E’ un contagio d’amore.

1.2. Dimmi dove pascoli il gregge!
In Ct 1,5-8 abbiamo l’autopresentazione della donna in una cornice pastorale. Immaginiamo la scena: lei in primo piano e sullo sfondo le figlie di Gerusalemme (coro). Lei si presenta alle amiche. Racconta di sé, della sua figura (scura ma bella), della sua storia d’amore (non ha saputo custodire la sua vigna). Ma al v. 7 il discorso cambia direzione: dal voi passa al tu. Mentre sta parlando alle amiche, la giovane si rivolge direttamente a lui come se fosse presente. Lui però non c’è. Ci sono le figlie di Gerusalemme. Ma lei si volge a lui in prima persona: « dimmi »!

« Amore dell’anima mia dimmi dove vai a pascere il gregge » (Ct 1,7).
La risposta, di fatto, viene dal coro:
« Segui le orme del gregge… » (Ct 1,8).

Cerchiamo di approfondire i vari elementi.
- Lo scenario: è l’ora del meriggio, assolata, capace di dare alla testa…
- Sulle piste infuocate dei beduini, una donna.
- Scura ma bella. Una bellezza che fa armonia con l’ambiente pastorale in cui lei vive. La pelle scura è il risultato della sua vita esposta al sole.
Dunque una bellezza feriale, non sofisticata.
- Controllo e opposizione inutili da parte dei suoi fratelli. Lei, benché giovane, ha il coraggio della propria autonomia.
- La donna invoca l’amato: « dimmi dove pasci! »
- E il coro indica una sicura pista di ricerca: « segui le orme del gregge ».

Dunque: dalle orme del gregge al ritrovamento del pastore.
L’amore si profila già come continua ricerca, con la pazienza di passare attraverso delle tracce: non direttamente le orme del pastore, ma quelle del gregge. Una ricerca « mediata », nella convinzione che dove si trova il gregge lì è il pastore.

1.3. Il mio diletto è mio e io sono sua
Ci fermiamo sul brano 2,8-17. Si trova subito dopo il « duetto dell’incontro » (Ct 1,9-2,7), il canto estasiato di due innamorati abbracciati senza vergogna (come nel giardino dell’Eden), estasiati l’uno dell’altro. E’ un duetto che non conosce i falsi pudori e che ricorre alle immagini più ardite per descrivere la bellezza della persona amata. Questa volta è lui a cominciare, ma l’ultima parola tocca a lei: « Figlie di Gerusalemme vi scongiuro, non destate l’amore finché non lo desideri » (2,7).
Ct 2,8-17 ci ambienta in una scena stupenda, di primavera. E’ di nuovo lei che prende l’iniziativa. Si noti la tensione progressiva:

- la voce
- i passi
- gli occhi
- il « nostro muro », quello dell’incontro, degli appuntamenti… ma che ora impedisce di vedere, perché Lui è al di là del muro…
- e di nuovo la voce, ormai decifrabile. Sono parole sognate e invocate.
Lei aveva supplicato: « Rapiscimi! » (1,4). Lui ora le dice: « Vieni via! ». Corri via con me! C’è perfetta corrispondenza tra lei che vede lui dalle inferiate e lui che vede lei come colomba tra la roccia.
In sequenza: volto – voce – voce – volto.
Il v. 15 che ha suscitato le interpretazioni più stravaganti:
« Catturateci le volpi / le volpi piccoline
che devastano le vigne / le nostre vigne in fiore ».

Le piccole volpi potrebbero essere, secondo alcuni esegeti, i cuccioli degli sciacalli golosi dei grappoli d’uva in maturazione. Dato però il simbolismo vigna – corporeità femminile, si può intendere l’immagine delle volpi piccoline come ciò che attenta l’amore nella sua integrità.

La donna del cantico ribadisce la sua fedeltà e il desiderio di lui:
« Il mio amato è mio e io sono sua,
di lui che pasce tra i gigli » (v. 16).

E’ una formula di mutua appartenenza, di alleanza sponsale. Si canta la gioia ineffabile della reciproca appartenenza.

1.4. Verso l’amore che non ha tramonto
Ci fermiamo su Ct 7,11-8,7. In questo brano vengono ripresi elementi già noti e raccolti in un vertice sublime dove la donna non sperimenta più il dominio dell’uomo, ma invece la gioia del suo appassionato desiderio. Viene invertita la formula di Gen 3,16. Mentre Gen 3,16 attesta al contempo attrazione e dominio:
« Verso tuo marito (il tuo uomo) sarà la tua passione
ma egli ti dominerà »,

in Ct 7,11 la donna, usando le stesse parole, capovolge la situazione:
« Io sono per il mio diletto
e verso di me è la sua (di lui) passione » (Ct 7,11).

Tra i due amanti del Cantico vi è reciprocità piena, senza alcuna violenza e sopraffazione dell’uno sull’altro, senza prepotenza maschile. Lei chiede di essere posta come perenne segno d’amore sul cuore e sul braccio di lui. In modo che anche i momenti di lontananza e di inevitabile separazione siano legati dal ricordo dell’amore e dal desiderio di un nuovo incontro:
Mettimi come sigillo sul tuo cuore,
come sigillo sul tuo braccio;
perché forte come la morte è l’amore,
tenace come gli inferi è la passione:
le sue vampe son vampe di fuoco,
una fiamma del Signore!
Le grandi acque non possono spegnere l’amore
né i fiumi travolgerlo.
Se uno desse tutte le ricchezze della sua casa
in cambio dell’amore, non ne avrebbe che dispregio (Ct 8,6-7).

Il pensiero corre all’Apocalisse, alle nozze definitive della Sposa con l’Agnello… ma il testo ci provoca più radicalmente a vivere la vita presente come questione di amore. Nella prospettiva del Cristo che ha teneramente amato la sua Chiesa e si è dato tutto per lei (cf. Ef 5,25).
La vita cristiana è decisamente questione di amore sia in rapporto al Diletto pastore, sia in rapporto al gregge di Lui. Esempio tipico di questa sintesi può essere ritenuto Gv 21: Mi ami? Pasci! Seguimi!

Concludo con questa pagina di S. Teresa di Gesù, Dottore della Chiesa:
Gesù mio!… Chi potrà far intendere quanto ci sia vantaggioso gettarci fra le braccia di Dio e stabilire con sua Maestà questo patto: Io mi curerò del mio Diletto e il mio Diletto si curerà di me; Egli veglierà sui miei interessi e io sopra ai suoi?
… Torno a dirvi e a supplicarvi, mio Dio, di concedermi per il sangue di vostro Figlio, ch’Egli mi baci col bacio di sua bocca.
Che cosa sono senza di Voi, o Signore?
Che cosa valgo se non sono unita a Voi?
E dove vado a finire se anche per poco mi allontano da Voi?
(S.Teresa di Gesù, Pensieri sull’amore di Dio, IV,7: Opere, Roma 1992, 1012).

 

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