Archive pour le 15 octobre, 2015

Santa Teresa D’avila, estasi

Santa Teresa D'avila, estasi dans immagini sacre gregorio_fernandez-santa_teresa

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ALCUNI INSEGNAMENTI DI SANTA TERESA D’AVILA

http://www.gianfrancobertagni.it/materiali/misticacristiana/teresatocci.htm

ALCUNI INSEGNAMENTI DI SANTA TERESA D’AVILA

(è un po’ lungo – non tanto – le altre meditazioni, sono sette, da leggere)

FRANCO MICHELINI-TOCCI

Teresa d’Avila è una personalità che merita di essere considerata con attenzione da chiunque abbia interesse per la vita spirituale. Certo, un cristiano troverà nelle sue opere un linguaggio che gli è più familiare di altri, ma anche un buddhista o un induista, o chiunque altro, se vorrà cogliere il fondo del suo messaggio, troverà qualcosa di utile alla sua pratica, soprattutto dal punto di vista psicologico. Teresa è stata infatti, come lei stessa ci dice alla fine dell’autobiografia, una grande maestra spirituale, con una pratica di insegnamento affinata per tutta la vita. Una vita durata 67 anni, che si concluse nell’ottobre del 1582. La prima cosa che colpisce è la sua personalità, molto poco corrispondente alla visione edulcorata che la tradizione agiografica stende come un sudario su tutti i grandi canonizzati, col risultato di renderli lontani e inaccessibili, anziché farne modelli di vita per tutti. La chiesa sembra escludere l’idea che un santo possa sbagliare, cioè che possa essere umano, e così ogni volta che Teresa denuncia serenamente le sue colpe e le sue manchevolezze, troviamo a pie’ di pagina la nota di un pio commentatore impegnato a testimoniare con fervore che si sa bene che “non commise nessun peccato mortale”. Ma io preferisco credere a quello che Teresa, al pari della maggioranza degli altri santi, ci dice non soltanto sui propri sbagli, ma sugli sbagli che inevitabilmente possono toccare anche alle grandi personalità spirituali, almeno finché sono uomini e donne viventi sulla terra. Ecco le sue stesse parole:  Queste anime hanno vivi desideri e ferme risoluzioni di non commettere imperfezioni di sorta, ma non senza che per questo lascino di commetterne molte, e anche peccati. Non però con avvertenza…Parlo dei peccati veniali, non dei mortali, dai quali si sperano libere, benché non con molta sicurezza, essendo possibile che ne abbiano qualcuno di occulto. 1  Meriterebbe un cenno particolare, per cogliere meglio la personalità di Teresa, anche un suo dono specifico, che fu quello della relazione interpersonale, in particolare la sua capacità di affetti profondi, di devozioni assolute, di slanci che la portavano in estasi, tutti segni del suo carattere impulsivo, generoso, poco incline a rispettare le forme stereotipate della vita monastica, ma il discorso sarebbe lungo e ci distoglierebbe dal dedicare tutta l’attenzione a quello che ella chiamò “il metodo di orazione”, cioè la pratica seguita per giungere al momento culminante dell’“unione trasformante”. Nella sintesi che segue terremo conto, soprattutto, di ciò che può maggiormente interessare un praticante di meditazione. Bisogna dire intanto che l’“orazione” di Teresa ha poco a che fare con quello che la parola suggerisce. Ella infatti dichiara che aveva difficoltà con la preghiera verbale e immaginativa, difficoltà che fu poi superata dalla lettura di Osuna, un contemplativo suo contemporaneo, che suggeriva un metodo di preghiera basato essenzialmente sul raccoglimento. L’altra difficoltà consistette nel conflitto interiore nel quale visse i primi vent’anni della sua vita religiosa. Questo conflitto faceva sì che ella portasse nel raccoglimento tutti i problemi della sua vita non integrata, rivolta al mondo e non all’Assoluto. Alcune sue affermazioni fanno pensare che le maggiori difficoltà le derivassero da un autocompiacimento narcisistico, che creava naturalmente un ostacolo al non attaccamento e all’abbandono. Confessa ella infatti, con la sua tipica lucida sincerità: Dio mi ha dato la grazia di piacere a chiunque. Ho sempre cercato di contentare chiunque, nonostante la ripugnanza che a volte sentivo. 2 Quando infine, dopo un travaglio durato vent’anni, davanti a una statua dell’Ecce homo, immagine della totale rinuncia a se stessi, ebbe un’intuizione profonda di sé che le fece cambiare orientamento, incominciò per lei il periodo in cui la pratica dell’‘orazione’ le manifestò tutti i grandi doni che la resero famosa. Il metodo da lei praticato è esposto nelle sue opere principali, in modo più sistematico nel Castello interiore e nel Cammino di perfezione e, con un linguaggio più immediato, nella Vita scritta da lei stessa. Le prime considerazioni riguardano due fatti. Il primo è che questo tipo di lavoro interiore non è per tutti e che occorre una predisposizione, il secondo che è necessario un certo tipo di sforzo, maggiore all’inizio e sempre più leggero man mano che si procede, fino a cessare del tutto nel grado più alto. Questo lavoro consiste essenzialmente nel cercare di calmare l’irrequietezza della mente che è data, nel linguaggio classico di Teresa, dalla dispersione delle potenze, o facoltà, dell’anima: intelletto, memoria e volontà (noi potremmo dire, con un linguaggio oggi più accessibile: pensieri, ricordi e affetti). Tutto dunque nasce dall’osservazione, tipica dei mistici di tutti i paesi, che queste facoltà normalmente non sono soggette a controllo e, agendo a loro piacere, mantengono la psiche in stato di agitazione e di disordine, rendendo impossibile ogni tentativo di instaurare la pace e la calma interiori. Più precisamente, si potrebbe dire che lo stato disordinato in cui si trovano impedisce l’accesso a quel ‘fondo’ dell’anima (come per primi lo chiamano i mistici tedeschi) in cui regna sempre la quiete divina.

RACCOGLIMENTO, PRIME ‘STAZIONI’, PRIMA ACQUA Per ottenere questo risultato, lo sforzo iniziale consiste nel ‘raccoglimento’, che è un modo per tenere occupata la mente su un unico oggetto, evitando che si disperda come fa di solito. L’oggetto, indicato da Teresa, è in realtà più d’uno, ma questi si possono ridurre a tre o quattro principali. Al primo posto possiamo mettere quello più tradizionale per un cristiano, che è la meditazione, ossia l’attenta osservazione di un episodio importante della Scrittura, come per esempio la passione di Cristo. Tuttavia, in maniera piuttosto libera e originale, Teresa non si sogna nemmeno di dire che questo sia l’unico modo e ne suggerisce almeno altri tre. Uno consiste nella lettura di un libro, soffermandosi di tempo in tempo su qualcosa che attragga in modo particolare l’attenzione, l’altro nella meditazione di una propria mancanza o difficoltà e il terzo nella contemplazione della natura. “Per me bastava anche la vista dei campi, dell’acqua e dei fiori”, ci dice. 3 Poiché però sappiamo che questi inizi sono caratterizzati da sforzo, dobbiamo pensare che si debba esercitare una buona dose di volontà per mantenere l’attenzione concentrata il più possibile sull’oggetto prescelto. Scegliendo una metafora che le è cara, Teresa dirà che all’inizio della via si è simili a un giardiniere che attinga faticosamente l’acqua dal pozzo per innaffiare il giardino. In questa prima fase non mancano osservazioni rivolte ai principianti, che meritano, per l’acume con cui sono formulate, la dovuta attenzione. In particolare, viene segnalata l’importanza del fare tutto con leggerezza e allegria, senza cercare di soffocare i propri desideri, anche quando sono semplici e umanissimi desideri di riuscita nel cammino intrapreso. 4 La raccomandazione di non affidarsi in maniera acritica ai maestri spirituali (“oggi così rari e così pochi di numero”), 5 detta proprio da lei che si affidò totalmente ad alcuni di essi, mette in luce il fatto che il suo entusiasmo non fu mai disgiunto da una sicura capacità di giudizio. Metteva in guardia soprattutto contro coloro che, essendo inutilmente troppo prudenti, ostacolavano il cammino dei discepoli, costringendoli ad attenersi alle forme abituali della pratica, quando erano già pronti per passare alle forme superiori. Infine, meritano di essere ricordate, per una loro universale opportunità, tre raccomandazioni. La prima è quella di non credere che giovi al raccoglimento avere tutto quello che può sembrare necessario, in termini di silenzio o di ambiente adatto, sotto pretesto che le cure temporali disturbino l’orazione. La seconda, notevolissima per il suo anticonformismo, esprime diffidenza verso certi slanci comuni ai principianti: Quando non sapevo ancora come correggere me stessa, desideravo grandemente di fare del bene agli altri: tentazione molto comune ai principianti e che a me riuscì assai bene.  Appena si è cominciato a gustare la pace e i vantaggi dell’orazione, si desidera che tutti si facciano spirituali. 6 E la terza, dello stesso genere, riguarda la preoccupazione per i difetti altrui: (a volte) l’angustia è così viva che impedisce di fare orazione, con l’aggiunta anche di credere, per nostro maggior danno, che ciò sia virtù, perfezione e grande amore di Dio… Il più sicuro per l’anima che comincia a fare orazione è di dimenticare tutto e tutti per non attendere che a se stessa e accontentare il Signore. 7  Sembra dire con ciò Teresa che l’interesse per il bene altrui non è frutto dell’entusiasmo del principiante, ma conseguenza di un serio lavoro su di sé (senza che questo significhi però sforzo eccessivo, altra caratteristica da principianti). 8 Per semplicità tralascio i particolari che riguardano alcune distinzioni graduali in questa prima fase del raccoglimento. Teresa la divide in tre livelli, nei quali è possibile esaminare diverse forme delle prime difficoltà, come la tentazione di rinunciare e l’aridità interiore, quando sembra che anche gli sforzi non abbiano effetto di alcun genere e il principiante si sente depresso e smarrito. Questi diversi stadi sono chiamati, nel Castello interiore, col termine spagnolo di moradas, cioè di soste o tappe; nelle edizioni italiane più recenti è invalso l’uso di chiamarle ‘mansioni’, dal latino del vangelo di Giovanni (14, 2), espressione di senso piuttosto dubbio in italiano, che rischia il fraintendimento. Credo perciò che sarebbe meglio tradurre con ‘stazioni’, usando il termine con cui si traduce in genere l’espressione analoga usata nel sufismo, il misticismo musulmano, che poteva non essere del tutto ignoto a Teresa, non foss’altro che per ragioni di contiguità geografica e ambientale (il regno di Granata era caduto solo 23 anni prima che lei nascesse).E passiamo ora allo stadio successivo, che è quello della ‘quiete’.

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GIOVANNI PAOLO II – INAUGURAZIONE E COMPIMENTO DEL REGNO DI DIO IN GESÙ CRISTO

 http://www.clerus.org/clerus/dati/2000-06/01-2/18Mar87.html

GIOVANNI PAOLO II – INAUGURAZIONE E COMPIMENTO DEL REGNO DI DIO IN GESÙ CRISTO  

mercoledì, 18 Marzo 1987  

1. “Il tempo è compiuto e il regno di Dio è vicino” (Mc 1,15). Con queste parole Gesù di Nazaret dà inizio alla sua predicazione messianica. Il regno di Dio, che in Gesù irrompe nella vita e nella storia dell’uomo, costituisce il compimento delle promesse di salvezza, che Israele aveva ricevuto dal Signore.  Gesù si rivela Messia non perché mira a un dominio temporale e politico secondo la concezione dei suoi contemporanei, ma perché con la sua missione, che culmina nella passione – morte – risurrezione, “tutte le promesse di Dio sono divenute « sì »” (2 Cor 1,20). 2. Per comprendere pienamente la missione di Gesù è necessario richiamare il messaggio dell’Antico Testamento che proclama la regalità salvifica del Signore. Nel cantico di Mosè (Es 15,1-18), il Signore è acclamato “re” perché ha mirabilmente liberato il suo popolo e lo ha guidato, con potenza e amore, alla comunione con lui e con i fratelli nella gioia della libertà. Anche l’antichissimo salmo 28/29 testimonia la stessa fede: il Signore è contemplato nella potenza della sua regalità, che domina tutto il creato e comunica al suo popolo forza, benedizione e pace (Sal 29,10). E soprattutto nella vocazione di Isaia che la fede nel Signore “re” appare totalmente permeata dal tema della salvezza. Il “Re”, che il profeta contempla con gli occhi della fede “su un trono alto ed elevato” (Is 6,1), è Dio nel mistero della sua santità trascendente e della sua bontà misericordiosa con cui si rende presente al suo popolo, come fonte di amore che purifica, perdona e salva: “Santo, santo, santo è il Signore, Dio degli eserciti, tutta la terra sarà piena della sua gloria” (Is 6,3).  Questa fede nella regalità salvifica del Signore impedì che, nel popolo dell’alleanza, la monarchia si sviluppasse in modo autonomo come presso le altre nazioni: il re è l’eletto, l’unto del Signore e, come tale, è lo strumento mediante il quale Dio stesso esercita la sua sovranità su Israele (cf. 1Sam 12,12-15). “Il Signore regna”, proclamano continuamente i salmi (cf. 5,3; 9,6; 28/29,10; 92/93,1; 96/97,1-4; 145/ 146,10). 3. Di fronte all’esperienza dolorosa dei limiti umani e del peccato i profeti annunciano una nuova alleanza, nella quale il Signore stesso sarà la guida salvifica e regale del suo popolo rinnovato (cf. Ger 31,31-34; Ez 34,7-16; 36,24-28).  In questo contesto sorge l’attesa di un nuovo Davide, che il Signore susciterà perché sia lo strumento dell’esodo, della liberazione, della salvezza (Ez 34,23-25; cf. Ger 23,5-6). A partire da questo momento la figura del Messia apparirà in intimo rapporto con l’inaugurazione della piena regalità di Dio.  Dopo l’esilio, anche se in Israele viene meno l’istituto della monarchia, si continua ad approfondire la fede nella regalità che Dio esercita nel suo popolo e che si estenderà fino agli “estremi confini della terra”. I salmi che cantano il Signore re costituiscono la testimonianza più significativa di questa speranza (cf. Sal 96 e Sal 99).  Questa speranza tocca la sua massima intensità quando lo sguardo della fede, dirigendosi oltre il tempo della storia umana, comprenderà che solo nell’eternità futura il regno di Dio si stabilirà in tutta la sua potenza: allora, mediante la risurrezione, i redenti saranno nella piena comunione di vita e di amore con il Signore (cf. Dn 7,9-10; 12,2-3). 4. Gesù fa riferimento a questa speranza dell’Antico Testamento e la proclama adempiuta. Il regno di Dio costituisce il tema centrale della sua predicazione come dimostrano in modo particolare le parabole.  La parabola del seminatore (Mt 13,3-8) proclama che il regno di Dio è già operante nella predicazione di Gesù, e al tempo stesso orienta a guardare all’abbondanza dei frutti che costituiranno la ricchezza sovrabbondante del regno alla fine del tempo. La parabola del seme che cresce da solo (Mc 4,26-29) sottolinea che il regno non è opera umana, ma unicamente dono dell’amore di Dio che agisce nel cuore dei credenti e guida la storia umana al suo definitivo compimento nella comunione eterna con il Signore. La parabola della zizzania in mezzo al grano (Mt 13,24-30) e quella della rete da pesca (Mt 13,47-52) prospettano anzitutto la presenza, già operante, della salvezza di Dio. Insieme ai “figli del regno”, però, sono anche presenti i “figli del Maligno”, gli operatori di iniquità: solo al termine della storia le potenze del male saranno distrutte e chi ha accolto il regno sarà sempre con il Signore. Le parabole del tesoro nascosto e della perla preziosa (Mt 13,44-46), infine, esprimono il valore supremo e assoluto del regno di Dio: chi lo comprende è disposto ad affrontare ogni sacrificio e rinuncia per entrarvi.  5. Dall’insegnamento di Gesù appare una ricchezza molto illuminante.  Il regno di Dio, nella sua piena e totale realizzazione, è certamente futuro, “deve venire” (cf. Mc 9,1; Lc 22,18); la preghiera del Padre Nostro insegna a invocarne la venuta: “venga il tuo regno” (Mt 6,10).  Al tempo stesso però, Gesù afferma che il regno di Dio “è già venuto” (Mt 12,28), “è in mezzo a voi” (Lc 17,21) attraverso la predicazione e le opere di Gesù. Inoltre da tutto il Nuovo Testamento risulta che la Chiesa, fondata da Gesù, è il luogo dove la regalità di Dio si rende presente, in Cristo, come dono di salvezza nella fede, di vita nuova nello Spirito, di comunione nella carità.  Appare così l’intimo rapporto tra il regno e Gesù, un rapporto così forte che il regno di Dio può essere anche chiamato “regno di Gesù” (Ef 5,5; 2Pt 1,11), come del resto Gesù stesso afferma davanti a Pilato, asserendo che il “suo” regno non è di questo mondo (Gv 18,36). 6. In questa luce possiamo comprendere le condizioni che Gesù indica per entrare nel regno. Esse si possono riassumere nella parola “conversione”. Mediante la conversione l’uomo si apre al dono di Dio (cf. Lc 12,32), che “chiama al suo regno e alla sua gloria” (1Tes 2,12); accoglie il regno come un fanciullo (Mc 10,15) ed è disposto a qualunque rinuncia per potervi entrare (cf. Lc 18,29; Mt 19,29; Mc 10,29).  Il regno di Dio esige una “giustizia” profonda o nuova (Mt 5,20); richiede impegno nel fare la “volontà di Dio” (Mt 7,21); domanda semplicità interiore “come i bambini” (Mt 18,3; Mc 10,15); comporta il superamento dell’ostacolo costituito dalle ricchezze (cf. Mc 10,23-24). 7. Le beatitudini proclamate da Gesù (cf. Mt 5,3-12) appaiono come la “magna charta” del regno dei cieli che è data ai poveri di spirito, agli afflitti, ai miti, a chi ha fame e sete di giustizia, ai misericordiosi, ai puri di cuore, agli operatori di pace, ai perseguitati per causa della giustizia. Le beatitudini non indicano soltanto le esigenze del regno; manifestano prima di tutto l’opera che Dio compie in noi rendendoci simili al figlio suo (Rm 8,29) e capaci di avere i suoi sentimenti (Fil 2,5ss) di amore e perdono (cf. Gv 13,34-35; Col 3,13).  8. L’insegnamento di Gesù sul regno di Dio è testimoniato dalla Chiesa del Nuovo Testamento, che lo ha vissuto nella gioia della sua fede pasquale. Essa è la comunità dei “piccoli” che il Padre “ha liberati dal potere delle tenebre e trasferiti nel regno del suo figlio diletto” (Col 1,13); è la comunità di coloro che vivono “in Cristo”, lasciandosi guidare dallo Spirito nella via della pace (Lc 1,79), e che lottano per non “cadere nella tentazione” e per evitare le opere della “carne”, ben sapendo che “chi le compie non erediterà il regno di Dio” (Gal 5,21). La Chiesa è la comunità di coloro che annunciano, con la vita e la parola, lo stesso messaggio di Gesù: “E vicino a voi il regno di Dio” (Lc 10,9). 9. La Chiesa, che “nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa si compiano le parole di Dio” (“Dei Verbum”, 8), in ogni celebrazione dell’eucaristia prega il Padre perché “venga il suo regno”. Essa vive in ardente attesa della venuta gloriosa del Signore e Salvatore Gesù, che offrirà alla maestà divina “il regno eterno e universale: regno di verità e di vita, regno di santità e di grazia, regno di giustizia, di amore e di pace” (“Prefazio nella solennità di Nostro Signore Gesù Cristo re dell’universo”).  Questa attesa del Signore è incessante fonte di fiducia e di energia. Essa stimola i battezzati, divenuti partecipi della dignità regale di Cristo, a vivere ogni giorno “nel regno del figlio diletto”, a testimoniare e annunciare la presenza del regno con le stesse opere di Gesù (cf. Gv 14,12). In virtù di questa testimonianza di fede e di amore, insegna il Concilio, il mondo sarà imbevuto dello spirito di Cristo e raggiungerà più efficacemente il suo fine nella giustizia, nella carità e nella pace (cf. “Lumen gentium”, 36).

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