Archive pour le 12 octobre, 2015

LA VOCE SILENZIOSA DI DIO – GIANFRANCO RAVASI

http://www.gesuveraluce.altervista.org/ravasi30.htm

LA VOCE SILENZIOSA DI DIO - GIANFRANCO RAVASI

Nella steppa desolata, tra le pietre arroventate dal sole, avanza un uomo. Barcolla, ormai prosciugato nelle sue energie vitali dal caldo implacabile. Ecco, da lontano una specie di miraggio, un albero solitario di ginepro.
Quel viandante s’accascia sotto la sua ombra e s’abbandona alla “dolce morte” del deserto, privo com’è di forze e con la gola consumata dall’aridità.
Forse i nostri lettori sanno già dare un nome a questa figura e collocarla nella cornice delle aspre solitudini del monte Horeb-Sinai: si tratta, infatti, dei profeta Elia e di una tappa decisiva della sua esistenza travagliata, tappa narrata nel capitolo 19 del Primo Libro dei Re.

È a quel testo che rimandiamo anche per scoprire il sorprendente esito di questa vicenda che si consuma tra le pietraie di quella regione bruciata dal sole. Noi, però, vorremmo ora giungere alla meta terminale di quel pellegrinaggio che Elia compie alle sorgenti di Israele, alla culla da cui era nato il popolo di Dio, cioè al Sinai.
Lassù il profeta ritroverà non solo la sua vocazione, che, a causa della ternbile persecuzione della regina Gezabele, era entrata in crisi, ma anche il suo Dio.
E non quel Dio che Elia s’aspettava, cioè il Signore della vittoria, della potenza, del trionfo sui suoi nemici.
Egli, infatti, immaginava che il Signore fosse «nel vento impetuoso e gagliardo, capace di spaccare i monti e di infrangere le rocce.
Ma il Signore non era nel vento.
Dopo il vento ci fu un terremoto. Ma il Signore non era nel terremoto.
Dopo il terremoto ci fu un fuoco. Ma il Signore non era nel fuoco».
È a questo punto che si schiude il mistero di Dio in modo inatteso. «Dopo il fuoco ci fu qol demamah daqqah. Appena l’udì, Elia si coprì il volto col mantello», consapevole di essere davanti al Dio invisibile il cui sguardo noi non siamo in grado di sostenere (1 Re 19,11-13).
Ora che cosa significano quelle tre parole ebraiche?
Qol vuol dire « voce, suono »;
demamah “silenzio” ;
daqqah “sottile”.
Ebbene, Dio è una “voce silenziosa”.
Questa è la stupefacente rivelazione di Dio.
L’antica versione greca detta dei Settanta, seguita da molte Bibbie moderne, ha sminuito la forza grandiosa dell’originale ebraico traducendo: «ci fu un mormorio di vento leggero». Dio è, invece, una voce che ha il suo vertice non nel clamore, bensì nel silenzio, nel mistero, nella trascendenza. Eppure egli non è muto perché quel silenzio è “bianco”: come il bianco racchiude in sé tutti i colori, così il silenzio divino è la sintesi di tutte le parole.
Il profeta, che è per eccellenza l’uomo della parola, impara che l’apice della rivelazione divina è nell’intimità mistica. In appendice ricordiamo che la scena di Elia al Sinai, accasciato sotto il ginepro e sostenuto dall’angelo di Dio è stata resa spesso dall’arte: ricordiamo, ad esempio, Guido Reni nella cattedrale di Ravenna (1619-21) e Giovanni Battista Tiepolo nel palazzo arcivescovile di Udine (1725).

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MICHELANGELO – La VOLTA della SISTINA – Alberto Angela

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Publié dans:CAPPELLA SISTINA, YOU TUBE |on 12 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

DA PICCOLI INDIZI, LO STUPORE DELLA FEDE

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DA PICCOLI INDIZI, LO STUPORE DELLA FEDE

Gli apostoli Pietro e Giovanni al sepolcro vuoto. Pietro vide. Giovanni vide e credette. Intervista con Jean Galot, professore emerito di Cristologia alla Pontificia Università Gregoriana

Intervista con Jean Galot di Gianni Valente

Erano pescatori di Galilea, gente concreta. Altro che visioni interiori. Dopo quel che era successo sul Calvario, se ne erano tornati a casa, ben chiusi dentro «per timore dei giudei». Lui era morto davvero, e perciò realmente, per quei poveretti, era finito tutto.
Ma quella domenica mattina, davanti al sepolcro vuoto, qualcosa, in quella dolorosa ma realistica rassegnazione, si incrinò.
Il gesuita Jean Galot, 81 anni, professore emerito di Cristologia alla Pontificia Università Gregoriana, è tornato di recente su quella scena. In un saggio pubblicato sulla Civiltà Cattolica, zeppo di riferimenti a recenti studi esegetici e a documentate ricerche sugli usi funerari dell’antico mondo ebraico, ha accompagnato Giovanni e Pietro sulla soglia del sepolcro. Cercando di discernere perché, in quel momento, Giovanni ebbe la prima, inizialissima percezione che invece avevano vinto.
Il saggio di padre Galot ha un titolo pieno di suggestione: Vedere e credere. Perché tutto è ricominciato così. Quando i suoi, che Lo avevano visto morto, con gli stessi sensi Lo hanno visto e Lo hanno toccato risorto.

Il totale e alcuni particolari di Gesù risorto e Tommaso, di Santi di Tito (1536-1603), Cattedrale di Sansepolcro, Arezzo
Il totale e alcuni particolari di Gesù risorto e Tommaso, di Santi di Tito (1536-1603), Cattedrale di Sansepolcro, Arezzo
Ricordiamo i fatti. Quella mattina, Maria Maddalena tornò dicendo che la pietra del sepolcro era stata ribaltata…
JEAN GALOT: E subito, a quella notizia, due discepoli, Pietro e Giovanni, corsero al sepolcro per vedere cosa era successo. Giovanni, correndo più veloce, arrivò per primo, ma non entrò. Si limitò a sbirciare dalla porta i teli che erano ancora là. Poi arrivò Pietro, entrò per primo nel sepolcro, vide ciò che c’era. Giovanni entrò dietro di lui…
Rispetto a ciò che si trovano davanti, il resoconto del Vangelo registra la differente percezione dei due: Pietro «vide», Giovanni «vide e credette»…
GALOT: Pietro è colpito, quasi turbato da ciò che vede, ma rimane in una condizione di perplessità. In Giovanni, lo stupore è ancora più grande, perché in lui c’è una prima, embrionale intuizione del mistero della resurrezione.
Questa diversità di reazione cosa significa?
GALOT: Non vuol dire che la fede di Pietro sia minore di quella di Giovanni. Ma indica certo una diversità di temperamento tra i due. La fede di Pietro ha, per così dire, bisogno di più tempo. A Pietro serve tempo per cogliere la realtà di ciò che vede. Quando Gesù aveva chiesto agli apostoli «Voi, chi dite che io sia?», questa domanda era stata posta dopo un lungo tempo di convivenza, durante il quale Gesù aveva fatto emergere ciò che Lui era. In quell’occasione, fu proprio Pietro a rispondere in maniera sorprendente. Aveva avuto il tempo di osservare e meditare. La sua risposta sollecita era il risultato di una convivenza prolungata nel tempo. Al sepolcro, Giovanni, pur nella scarsità degli indizi, coglie, anche se in forma iniziale, come sono andate realmente le cose. Che cioè il corpo non è stato rubato, ma Gesù è uscito vivo, nel suo corpo risorto, dai teli che lo avvolgevano. Anche un altro episodio, accaduto dopo, conferma la maggior attitudine intuitiva di Giovanni. Quando Gesù appare sulla riva del lago e invita gli apostoli a gettare le reti dalla parte destra della barca, dinanzi alla pesca miracolosa, è Giovanni che riconosce subito Gesù: «Allora quel discepolo che Gesù amava disse a Pietro: “È il Signore!”. Simon Pietro, appena udì che era il Signore, si cinse ai fianchi la tunica, e si gettò in mare» (Gv 21, 7). Anche in questo caso, Giovanni riconosce subito l’autore del miracolo, mentre Pietro sembra più concentrato sul risultato del miracolo, preoccupato dei problemi che poneva la quantità di pesci. È una situazione analoga a quella verificatasi nella visita al sepolcro vuoto, dove Pietro aveva concentrato il suo sguardo su ciò che testimoniava la sparizione del corpo, mentre Giovanni vi aveva colto il segno della resurrezione. Lo sguardo più penetrante di Giovanni, attraverso il sepolcro e i segni che rimanevano della presenza di Gesù, iniziava ad entrare nella fede pasquale.
Questa maggiore intelligenza degli indizi, anche di quelli più piccoli, ha a che fare con il fatto che Giovanni era il discepolo prediletto da Gesù?
GALOT: La predilezione di Gesù nei suoi confronti lo aiutava ad aprire gli occhi, a far coincidere, per quanto possibile, il suo modo di vedere le cose con il modo di Cristo. Ma pur nella sua maggior immediatezza d’intuizione, Giovanni appare rispettoso dell’autorità di Pietro. Non rivendica per sé alcuna autorità, alcun primato. Arrivato per primo al sepolcro, non entra, si ferma sulla soglia e attende che Pietro entri per primo, nonostante fosse curioso di vedere cosa c’era dentro. E poi avrebbe certo desiderato di condividere l’iniziale riconoscimento di quanto era accaduto nel sepolcro con il suo amico Pietro, ma si rendeva conto che il tempo di questa condivisione, di questa corrispondenza di sguardo non era ancora giunto. E allora non urge, non impone la sua maggiore acutezza di sguardo, rispetta il tempo necessario a Pietro per giungere a riconoscere la stessa realtà.
Ma cosa c’era, lì dentro? Cosa hanno veramente visto i due?
GALOT: Alcuni recenti studi esegetici hanno precisato il reale contenuto del testo, segnalando alcune imprecisioni delle traduzioni correnti che possono sviare la comprensione [vedi box]. Il primo errore è che molte versioni traducono con il vocabolo bende la parola greca ¶yónia, che in realtà indicava tutti i teli funerari in cui venivano fasciati i defunti, compresa la sindone, il telo più ampio, che avvolgeva tutto il corpo. Inoltre, a sentire molte versioni correnti, i suoi apostoli avrebbero visto i teli caduti a terra, e il sudario (il fazzoletto arrotolato che veniva legato intorno al volto del defunto, per tenergli chiusa la bocca) posto «in disparte, ripiegato in un luogo diverso». Invece, secondo traduzioni recenti e accurate, basate su un’attenta analisi grammaticale dell’originale greco, tutto era rimasto al suo posto. Anche il sudario non era stato spostato, ma era rimasto giacente in mezzo ai teli. Lo si distingueva, in rilievo, sotto la sindone ormai afflosciata.
Sono dettagli così importanti?
GALOT: Aiutano a intuire cosa suscitò lo stupore e l’inizio di fede in Giovanni. Se il corpo fosse stato portato via da qualcuno, i teli non sarebbero rimasti intatti nello stesso luogo, e il sudario sarebbe stato tirato fuori dai teli e messo da parte, al momento della sparizione, proprio come sembrano indicare molte traduzioni correnti. Invece il corpo di Gesù non c’era più, ma tutto il resto – i teli, il sudario – era rimasto nello stesso posto. Addirittura il sudario era rimasto avvolto nei teli, al suo posto iniziale. Giovanni forse, davanti a quella vista, intuì che Gesù non lo aveva portato via qualcuno, ma che era uscito vivo dal sepolcro sottraendosi in maniera misteriosa alla sindone e al sudario che lo avvolgevano, fuori dalle leggi dello spostamento dei corpi, lasciando tutte le cose intatte. Erano i segni di un intervento soprannaturale, che aveva sottratto il corpo di Gesù alla collocazione che aveva nel sepolcro senza sconvolgere nessuno dei teli adoperati per la sepoltura. Per questo si può dire che lì, davanti ai teli giacenti, iniziò a riconoscere l’evento della resurrezione.
Un evento che pure Gesù aveva più volte annunciato…
GALOT: Ogni volta che aveva accennato alla sua passione, Gesù aveva aggiunto che il terzo giorno il Figlio dell’uomo sarebbe risorto. Eppure, dopo la sua crocifissione, nessuno ricordava queste parole. Molti non se ne ricorderanno neppure quando lo vedranno risorto. Le avevano dimenticate tutti, tranne Maria, colei che per nove mesi aveva portato nel proprio grembo quel corpo, lo stesso corpo che avevano crocifisso. Si può dire che, durante quei tre giorni, tutta la speranza del mondo fu custodita solo da Maria. Giovanni stesso aveva udito più volte le parole di Gesù che annunciavano la resurrezione. Era stato, con Pietro e Giacomo, presente all’evento della trasfigurazione, quando Gesù si era raccomandato di non raccontare a nessuno ciò che avevano visto, «se non dopo che il Figlio dell’uomo fosse risorto dai morti». Loro avevano obbedito al comando, «domandandosi però cosa volesse dire risorgere dai morti» (Mc 9, 9. 10). Quindi Giovanni avrebbe dovuto essere preparato ad accogliere il mistero della resurrezione. Eppure quelle parole gli ritornano alla memoria solo quando vede la sindone e il sudario rimasti intatti nel sepolcro dopo che Gesù ne è uscito vivo. L’inizio della sua adesione alla fede, come viene riportato nel testo evangelico, è causato da ciò che ha visto nel sepolcro. È suscitato da indizi esigui, ma reali, visibili.
Come cresce, per Giovanni, questo inizio? Forse attraverso una riflessione religiosa?
GALOT: In quella prima esperienza presso il sepolcro vuoto, Giovanni aveva avuto soltanto un’idea vaga e indiretta della resurrezione di Gesù Cristo. Constatando la sua assenza dal sepolcro, aveva forse intuito il modo soprannaturale in cui essa si era verificata. Ma solo le apparizioni di Gesù nei quaranta giorni che seguono, i contatti concreti col Risorto gli permettono di fondare con certezza la sua missione di testimone. In quei loro incontri Gesù si manifesta per suscitare la fede, per procurare alla fede un fondamento oggettivo più evidente. Non esita a mostrare il suo corpo con insistenza, un corpo che porta ancora i segni della crocifissione. Rafforza il vedere per far sorgere il credere. Con il moltiplicarsi degli indizi, si passa da una prima intuizione al riconoscimento di una realtà inimmaginabile, di un fatto reale che si rivela più grande e sorprendente di ogni attesa.
E questo accade a un gruppetto di ebrei impauriti e rassegnati, poco propensi a visioni mistiche, dopo che tutto era finito.
GALOT: Il punto di partenza del movimento della fede, a cominciare dagli indizi del sepolcro vuoto, è sempre una realtà visibile. Questo fattore è importante, perché smentisce coloro che interpretano la fede nella resurrezione di Gesù Cristo come una mera convinzione intima. Spazza via tutte quelle tesi idealiste secondo cui i discepoli si convinsero che Gesù era risorto, proiettando in questa autosuggestione i propri sentimenti soggettivi di amore verso il loro Maestro. Invece, è perché hanno visto il Signore risorto che hanno creduto. La fede nasce dal riconoscimento di realtà visibili. Non è un’opera mentale soggettiva che si sarebbe creata il proprio oggetto. Sant’Agostino, nel De civitate Dei, sottolinea come su questo aspetto il fatto cristiano sia esattamente l’opposto della dinamica del sentimento religioso che nasce dall’uomo, rappresentato dalla religione imperiale che divinizza i destinatari delle propre devozioni: «Illa illum amando esse deum credidit; ista istum Deum esse credendo amavit», «Roma, siccome amava Romolo, lo credette Dio. La Chiesa, invece, siccome riconobbe che Gesù Cristo era Dio, lo amò».
Oggi tanti maestri spirituali, nella Chiesa, insegnano che la purezza interiore della fede non ha bisogno di indizi esteriori. Una fede che dipende dal vedere e dal toccare sarebbe, a sentir loro, rozza e grossolana.
GALOT: Eppure la testimonianza degli apostoli è stata questa. La loro fede è tutta nella semplicità di una constatazione, inizia in loro quando Lo hanno visto e Lo hanno toccato risorto. Quando Pietro cerca di individuare un sostituto di Giuda nel collegio apostolico, usa un unico criterio: chi subentra a Giuda dovrà essere un testimone non della vita ma della resurrezione di Gesù. Gli apostoli sono i testimoni oculari della resurrezione di Gesù. E tutto è affidato e sospeso alla loro esperienza, visto che Gesù non ha lasciato un suo insegnamento scritto, una dottrina spirituale codificata. Insomma, all’origine della fede della Chiesa nella resurrezione c’è stato un vedere. E la fede della Chiesa non potrà mai essere separata da questo vedere iniziale, e troverà sempre il suo fondamento nell’esperienza fatta dagli apostoli e nella loro testimonianza. Come scrive sempre nel De civitate Dei sant’Agostino: «Resurrexit tertia die sicut apostoli suis etiam sensibus probaverunt», «È risorto il terzo giorno, come gli apostoli, anche con i sensi, hanno verificato».

Publié dans:meditazioni, STUPORE (LO) |on 12 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

LA GIOIA DELLA FEDE (libro di Papa Benedetto, 2012)A

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=130929

LA GIOIA DELLA FEDE

(libro di Papa Benedetto, 2012)A

Cosa sarà questa voce? Fede? Vocina che si fa largo tra il vociare o le urla di chi ha dimenticato, misconosciuto o anche rifiutato il rapporto che Dio ha voluto costruire con noi? Mettiamoci anche noi in silenziosa ricerca della voce di Dio. Forse ne abbiamo bisogno anche noi per vivere la fede con gioia.

Benedetto XVI ha scritto il titolo del suo libro proprio così, con le maiuscole della Gi e della Effe, perché è da una Fede matura, documentata, vitale cioè «maiuscola» che sgorga una gioia «maiuscola», piena, appagante, visibile, contagiosa, condivisa. C’è una relazione stretta tra questi aspetti della fede perché credere è trovare un senso alla vita.
Anche il Catechismo della Chiesa Cattolica (CCC), pur con un linguaggio un po’ più formale, da grande documento ufficiale, dice la stessa cosa, al n. 26, presentandoci così anche uno splendido schema di questa, prima della trattazione: «Quando professiamo la nostra fede, cominciamo dicendo: “Io credo”, oppure: “Noi crediamo”. Perciò, prima di esporre la Fede della Chiesa, così come è confessata nel Credo, celebrata nella Liturgia, vissuta nella pratica dei comandamenti e nella preghiera, ci domandiamo che cosa significa “credere”. La Fede è la risposta dell’uomo a Dio che gli si rivela e gli si dona, apportando nello stesso tempo una luce sovrabbondante all’uomo in cerca del senso ultimo della vita. Prendiamo anzitutto in considerazione questa ricerca dell’uomo (capitolo primo), poi la rivelazione divina attraverso la quale Dio si manifesta all’uomo (capitolo secondo), infine la risposta della Fede (capitolo terzo)». Anche in questo e nei prossimi articoli cercheremo di chiederci cosa voglia dire credere, tuffati ormai nel terzo millennio. Rispetto alla bella definizione di Fede riportata, il CCC pochi numeri dopo (29), con realismo e con una sintesi stringata ma efficacissima, richiamando la Gaudium et Spes, 19,1 prende atto che «questo intimo e vitale legame con Dio può essere dimenticato, misconosciuto e perfino esplicitamente rifiutato dall’uomo».
Sono passati cinquant’anni dal Concilio Vaticano II di cui la Gaudium et Spes, sul rapporto tra Chiesa e mondo contemporaneo, è uno dei documenti più illuminati e profetici del Concilio, e ci accorgiamo con amarezza che non è cambiato quasi nulla, anzi il discorso sulla Fede diventa molto più complesso. Oggi, per intanto, sono sempre di più le persone che hanno dimenticato le loro radici cristiane e non si preoccupano, ovviamente, di tramandarle alle generazioni future. Una sola domanda: quanti bimbi/ragazzi nati – e credo di non esagerare – negli ultimi 10 anche 15 anni sanno a memoria le preghiere del mattino? E per contro sanno che la festa dell’inizio di novembre è Halloween. E la Solennità di Tutti i Santi? Ma cos’è? Si dirà: Ma queste cose chi dovrebbe insegnarle? E oggi? Dove troviamo l’intimità in questo settore? Il più delle volte la relazione con Dio è vissuta con gesti di una tradizione fredda e sganciata dalla vita o come patina esteriore che, di nuovo, non tocca la vita… dove Dio non ha casa. Su questo crinale si può anche collocare la sempre più diffusa insignificanza della lettura cristiana della realtà sociale e civile.
Alcuni esempi.
La vita politica è interpretata come potere personale o al massimo del gruppo di cittadini che rappresenta in corporazioni rigide e impenetrabili. La vera politica deve interessarsi sempre, o non è politica, della “polis” e cioè del bene comune. In questa prospettiva le esigenze della mia piccola “domus” possono passare tranquillamente in secondo piano. Gesù aveva detto che chi vuole essere grande si mettesse a servire.
Prendiamo anche i valori «non negoziabili »: la difesa della vita, la persona, il diritto a una scuola libera e la famiglia: altroché non negoziabili, in molti paesi li stravolgono e vengono chiamati diritti civili! E lo sarebbero l’aborto e l’eutanasia? Una famiglia non basata sul rapporto, fin dalla creazione, sull’uomo e la donna? La fecondazione quale che sia?
E ancora l’economia. Questo mondo oggi ci preoccupa così tanto che non è più bastata la lingua del sommo poeta Dante Alighieri: ci hanno propinato incomprensibili parole inglesi come spread o spending review. Anche la traduzione in lingua italiana di spread (differenziale tra i rendimenti… ecc.), sembra arrivare dalle nuvole… Il Papa, parlando nel gennaio scorso al Corpo Diplomatico accreditato presso la Santa Sede, ha fatto capire molto bene a tutti cosa voglia dire spread: «Se preoccupa l’indice differenziale tra i tassi finanziari, dovrebbero destare sgomento le crescenti differenze fra pochi, sempre più ricchi, e molti, irrimediabilmente più poveri». Anche nella nostra Italia. Basta chiederlo alle Associazioni che, durante le recenti feste natalizie, hanno visto arrivare a far festa, almeno la notte di Natale o quella di Capodanno, molti più nostri connazionali: uomini separati soli, famiglie che non arrivano con le spese essenziali al trenta del mese, giovani e adulti senza lavoro, anziani abbandonati dai familiari che non possono portarli-parcheggiarli nelle Case di Riposo perché costano troppo. Invece dell’economia solidale, trionfa quella in cui il motore di tutto è il denaro e il guadagno che genera una ricchezza infinita creata con speculazioni senza scrupoli per lo più da gruppi finanziari invisibili ma efficientissimi. Si capisce allora che in queste stanze dei bottoni Dio non ha nulla da dire, lui che, con Cristo, ha proclamato solennemente: «Beati i poveri». Perché i superricchi di oggi non sentono queste parole come una scudisciata sulla schiena o una coltellata tra le costole?
Infine il rapporto uomo-Dio viene esplicitamente rifiutato. Inquieta sempre di più l’odio in diverse parti del mondo, verso i cristiani che vengono uccisi. Sono i nuovi martiri.
C’è un altro fenomeno che lascia interdetti: lo sbattezzo, atto formale con cui una persona rifiuta la fede generalmente ricevuta con il Battesimo poco dopo la nascita. Concretamente si esige che il proprio nome sia cancellato dai registri parrocchiali per dimostrare pubblicamente che non si ha più nulla a che fare con Dio uscito definitivamente dalla vita. Al di là dei cammini personali di chi «esplicitamente rifiuta la fede», una causa, non meno importante, è anche un po’ collegabile ai credenti e alle Chiese che vivono la propria fede con delle contro-testimonianze evidenti. «Quelli vanno tutte le domeniche a Messa, ma sono peggio degli altri!» È un giudizio trito e ritrito che senz’altro nasconde una qualche verità. Ancora qualche breve spunto. Troppe volte il benessere sostituisce Dio o il rapporto vissuto con lui è privato, quasi un optional. Il non credere poi è vissuto come libertà rispetto a ciò che ci costringevano a fare i nostri vecchi. A volte si mettono sul peso della bilancia tutte le manifestazioni religiose cristiane e non cristiane e si pensa che una valga l’altra. Siamo in pieno relativismo. Complesso poi il rapporto tra Fede e sacramenti, specie con quelli dell’iniziazione cristiana: Battesimo, Cresima ed Eucaristia. Sempre più la gente vuole per i propri figli questi sacramenti, ma non ha Fede perché, dopo averli ricevuti, non vivono nessuna forma di vita cristiana né personale né comunitaria… «Io credo ma non vado in Chiesa». Frase molto usata, forse persino abusata, ma che ci interpella.
C’è infine il dolore, il tema del dolore inquadrato lucidamente e drammaticamente dalla celebre riflessione di Primo Levi: «Devo dire che l’esperienza di Auschwitz (diventato simbolo, icona, immagine di ogni dolore), è stata tale per me da spazzare qualsiasi resto di educazione religiosa che pure ho avuto. C’è Auschwitz, quindi non può esserci Dio. Non trovo una soluzione al dilemma. La cerco, ma non la trovo». Altri interrogativi su questo tema vengono espresse benissimo da Roberto Vecchioni nella sua canzone Ma che razza di Dio c’è nel cielo? Ecco alcune espressioni: «L’infinito silenzio sopra un campo di battaglia quando il vento ha la pietà di accarezzare; / l’inspiegabile curva della moto di un figlio che a vent’anni te lo devi scordare… / Sentire d’essere noi le sole stelle sbagliate in questa immensa perfezione serale; / e non capirci più niente nel viavai di messia discesi in terra per semplificare. Ma che razza di Dio c’è nel cielo? Ma che razza di guitto mascherato da Signore sta giocando col nostro dolore? / Ma che razza di Dio c’è nel cielo?» Bellissimo il passaggio finale anche musicale: la voce di Vecchioni e il pianoforte concludono con stupore che nel cuore c’è un altro Dio… «Ma chi è l’altro Dio che ho nel cuore? / Ma che razza d’altro Dio c’è nel mio cuore, / che lo sento quando viene, / che lo aspetto non so come che non mi lascia mai, / non mi perde mai e non lo perdo mai».
Cosa sarà questa voce? Fede? Desiderio profondo ma ancora incapace di manifestarsi? Seme che sboccia o illusione? Vocina che si fa largo tra il vociare o le urla di chi ha dimenticato, misconosciuto o anche rifiutato il rapporto che Dio ha voluto costruire con noi? O forse è troppo flebile per chi vive una vita assordata dal caos del nostro tempo coi suoi rumori? Mettiamoci anche noi in silenziosa ricerca della voce di Dio. Forse ne abbiamo bisogno anche noi per vivere la fede con gioia.

http://www.colledonbosco.it(Teologo Borèl) Marzo 2013 – autore: Don Giorgio Chatrian

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