Archive pour le 16 mai, 2016

Shalom

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IL TEMPO DELLE «SETTE PASQUE»

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IL TEMPO DELLE «SETTE PASQUE»

di Antonio Tarzia  

Ogni religione che si richiami ad Abramo, ogni confessione cristiana ha la sua pasqua: tutte simili e tutte diverse, legate al filo rosso della tradizione biblica, dove c’è un agnello da sacrificare, pane azzimo, erbe amare, coppe di vino, preghiere e canti di antiche liturgie. Ne I Vangeli di Pasqua (editi nel 1993 dalla Periodici San Paolo) monsignor Gianfranco Ravasi presenta con accurata e affascinante documentazione almeno «sette pasque» diverse. Da quella sobria e un po’ laica dei fratelli evangelici, «Pasqua dei protestanti» tutta racchiusa nella celebrazione della Parola e del canto (come non ricordare l’oratorio musicale di Johann Sebastian Bach, capolavoro e vertice di spiritualità!) a quella più antica dei figli del deserto, «Pasqua dei nomadi», che si celebra ancora oggi sotto la tenda dei beduini. All’arrivo della primavera si festeggia la partenza verso i nuovi pascoli mangiando pane azzimo ed erbe del deserto. L’agnello già sacrificato è appeso al palo. Molti sono gli agnelli che si sacrificano sul monte Garizim (a 5 chilometri da Nablus). Qui si celebra, chiaramente legata ai dettami del Pentateuco, la «Pasqua dei samaritani» popolo di antica eresia che troviamo citato più volte nell’Antico Testamento e in quasi tutti i Vangeli. Gesù fa di alcuni samaritani i protagonisti delle sue parabole. In Terra Santa come in ogni casa di ebrei sparsa per il mondo, la settimana dopo il plenilunio di marzo si celebra ogni anno la «Pasqua giudaica» con il complesso e solenne rito descritto nell’Esodo, con il canto dell’haggadah (narrazione dialogata tra padre e figlio, fonte e trasmissione della tradizione religiosa) e dell’hallel (salmi 114-118). Quindi il pane azzimo, le coppe di vino e le benedizioni. Gesù nell’ultima cena celebrò questa Pasqua che elevò a sacramento con l’istituzione dell’Eucaristia. «Pasqua di Gesù e dei cristiani»: i cattolici in tutto il mondo celebrano secondo il Vangelo la loro Pasqua di morte e di resurrezione del Signore che va dalla Domenica delle palme fino al « gloria » di Pasqua. Memoriale ed evento di salvezza nella storia dell’uomo. Cresciuta su radici bibliche ma legata alle prescrizioni coraniche è la «Pasqua araba». L’agnello che si immola non è un richiamo a quello della notte dell’Esodo ma fa memoria del sacrificio di Abramo che, secondo il Corano (Sûra 37,99-113), porta sul monte Mòria per offrirlo a Dio il giovane Ismaele. Se sono simili i riti e le preghiere pasquali, non è ancora comune la data della celebrazione. Anche tra i cristiani c’è un diverso calendario secondo le confessioni. Nel 2010 coincidono la festività cattolica con la «Pasqua ortodossa». I fratelli ortodossi cominciano con i riti del «grande Giovedì» (istituzione dell’Eucaristia, lavanda dei piedi e tradimento di Giuda) per culminare con il grido del mattino di Pasqua «Gesù Cristo vince!» (Iesus Christòs nikà!). Intanto i fedeli nelle chiese si scambiano tre baci esclamando: «Cristo è risorto!» e rispondendo «Veramente è risorto!».

 

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UN PRESENTE ETERNO TRA PASSATO E FUTURO

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UN PRESENTE ETERNO TRA PASSATO E FUTURO

di Roberto Morozzo della Rocca

Il mondo cattolico è stato al tempo stesso intransigente nel rifiuto della modernità e transigente nel modificare i suoi costumi nel lungo periodo. Il Sillabo (1864) è una condanna apparentemente irrevocabile della modernità. Ma esiste il definitivo nel fluire storico? Peraltro il cattolicesimo è stato disponibile alla modernità tecnica che facilitava la vita quotidiana e l’economia. Inoltre c’è stato il graduale accoglimento del pensiero politico moderno. La democrazia, avversata nell’Ottocento, nel secolo successivo è stata approvata, rivendicandone l’origine al cristianesimo. Senza cedere però su punti ritenuti essenziali alla propria identità. Infatti la Chiesa cattolica ha appoggiato i partiti democratici d’ispirazione cristiana, ma non è diventata essa stessa una democrazia. Si regge sulla comunione, non sul consenso democratico. Tanto meno la Chiesa cattolica ha assunto le sembianze di un’agenzia umanitaria internazionale. Non ha confuso il suo profilo religioso con messianismi terreni. Si è qualificata come pilastro dell’Occidente mantenendo però una dimensione universale che l’ha immunizzata dal mito del progresso risolutore presente nell’Occidente. Ha conservato formule comunitarie per vivere la fede senza concessioni eccessive all’individualismo. Nel cuore del Novecento Emmanuel Mounier definiva la Chiesa cattolica « personalista e comunitaria » al tempo stesso. Mentre eruditi patrologi dimostravano come la Chiesa antica considerasse la salvezza realtà prettamente comunitaria, connessa non all’individuo isolato, ma all’unità del genere umano, corpo mistico di Cristo, essendo tutti gli uomini costituiti e ordinati a uguale immagine di Dio. Daniele Menozzi vede « contrapposizione tra cattolicesimo e modernità – stemperata da una modernizzazione che, pur estrinsecandosi in una parziale ricezione dei diritti dell’uomo, non si è mai risolta nella piena accettazione dell’autonomia dell’uomo nel fabbricare la sua città ». Questa contrapposizione c’è stata. Dalla Rivoluzione francese sino al Vaticano II la Chiesa cattolica si è opposta alla modernità, anche se ne accettava il mero progresso tecnico. Occorre tener presente che la modernità ha tentato di dominare la Chiesa oppure di svuotarla attraverso la secolarizzazione. Roma non ha mai accettato di essere dominata da prìncipi e imperatori. e in anni recenti non ha gradito la supremazia incontrastata degli imperialismi. Che la sua agenda potesse essere dettata dalla modernità la inorridiva. Il conflitto tra cattolicesimo e modernità è stato alimentato da entrambe le parti. L’uno ha difeso gelosamente la Tradizione, comprensiva di un antico monopolio della verità. L’altra ha visto il nemico nella religione. Fino a trent’anni fa, in Occidente, più modernità significava meno religione, e si pensava che la storia andasse verso una universale secolarizzazione. Per altro verso, quanto Menozzi intende come negativo è visto invece come un valore dal cattolicesimo romano non intenzionato a mutare la sua concezione dell’uomo secondo le idee correnti. Il cattolicesimo non accetta che l’uomo moderno sia essenzialmente diverso dall’uomo antico. E non si prefigge di colmare fossati e di recuperare terreni perduti, né di apparire attuale rivendicando, alla maniera dei protestanti, primogeniture nei processi di modernità. Il sensus fidelium non lo permetterebbe. Perché affannarsi quando la modernità è stata anche rivoluzioni distruttive, terrore e violenza, totalitarismi genocidari, razzismo e antisemitismo, stragi d’innocenti, lager e gulag, Cambogia e Ruanda? Aggiornamento sì, secolarismo no:  così il concilio Vaticano II che ha comunque rappresentato una cesura, non della continuità della Tradizione ma di un’attitudine di diffidenza verso le realtà terrene per sospingere i cattolici a inedita cordiale simpatia innanzi all’umanesimo contemporaneo e alla città dell’uomo. Come affermava Paolo VI nel discorso di chiusura del Vaticano II:  « L’antica storia del Samaritano è stata il paradigma della spiritualità del Concilio. Una simpatia immensa lo ha tutto pervaso. La scoperta dei bisogni umani (…) ha assorbito l’attenzione del nostro Sinodo ». Dopo il concilio Vaticano II, la modernità è accettata dalla Chiesa cattolica. Ma con una doppia riserva. Che non venga ad alterarne la struttura interna e la dottrina. Che sia sottoposta, in ciascuna delle sue manifestazioni, a una verifica etica. Giovanni XXIII citava volentieri un pensiero di Bergson, le corps aggrandi attend un supplément d’âme, trovandolo « bene applicato al progresso della scienza. Questa pone problemi non solo scientifici, ma giuridici, filosofici, morali, religiosi:  e se la sua potenza si accresce occorre che il dotto accresca la sua sapientia:  quella che è norma di vita, legge morale, e riconoscimento di valori superiori ». Analogamente Benedetto XVI:  « Penso che il vero problema della nostra situazione storica sia lo squilibrio fra la crescita incredibilmente rapida del nostro potere tecnico, del sapere, del know-how, e quella della nostra capacità morale, che non è cresciuta in modo proporzionale ». Papa Ratzinger rileva un senso etico insufficiente « ad usare correttamente la tecnica, che pure ci vuole ». Come scrive nella Spe salvi:  « È necessaria un’autocritica dell’età moderna (…) Noi tutti siamo diventati testimoni di come il progresso in mani sbagliate possa diventare e sia diventato, di fatto, un progresso terribile nel male. Se al progresso tecnico non corrisponde un progresso nella formazione etica dell’uomo, nella crescita dell’uomo interiore, allora esso non è un progresso, ma una minaccia per l’uomo e per il mondo ». Benedetto XVI non crede nel progresso per se stesso, svincolato dal discernimento etico dell’uomo. Ragione e libertà dell’uomo – pilastri del progresso e della modernità – hanno valore soltanto se conducono a discernere tra il bene e il male:  « in caso contrario la situazione dell’uomo, nello squilibrio tra capacità materiale e mancanza di giudizio del cuore, diventa una minaccia per lui e per il creato ». La fede nel progresso umano, che connota la modernità, incorrerebbe in un errore fondamentale, quello di scambiare il progresso materiale, addizionabile entro i limiti consentiti dalle leggi fisiche della natura, con il progresso dell’uomo come essere vivente, che non è addizionabile, in quanto connesso all’esercizio di ragione e libertà nelle scelte etiche, le quali sono sempre nuove e sempre fragili. Per la Chiesa cattolica dei nostri giorni è un dato certo:  il progresso, il nuovo, la modernità non rivestono a priori un significato positivo e neppure negativo. Non hanno una valenza neutra, possono causare il male, ma possono  anche  essere  orientati al bene. Non producono il paradiso in terra, che è irrealizzabile, ma possono concorrere al bene sulla terra. Certo l’evangelico Regno di Dio è altro. Ma la modernità è oggetto di dialogo da parte della Chiesa. Paolo VI fece del dialogo con la modernità quasi la cifra del suo pontificato, nello spirito del Vaticano II. La Chiesa cattolica resta fedele a una duplice visione della storia. C’è un momento del passato che racchiude già tutta la storia, ed è la passione, morte e resurrezione di Cristo, evento che esaurisce la storia e al tempo stesso la muove e la motiva dinamicamente verso un cosmico atto finale, la Parusia. Così la Chiesa cattolica è a un tempo antimoderna e moderna. Da una parte, la croce e la resurrezione di Cristo sono fissate nel passato ormai remoto. Dall’altra, l’eternità, non il tempo storico, è il destino ultimo dell’uomo. Eppure, la storia ha per i cattolici uno svolgimento, un’intensità ontologica, una valenza salvifica nel presente. Il cristianesimo ha precipuo carattere storico, non è ritualità di gesti e pensieri, non è circolarità di eventi che si ripetono, non è dogma che imprigiona la creatività. E la storia ha un senso, una direzione, oltre che un’imprevedibilità dovuta al libero arbitrio dell’uomo. Si obietterà che il credente tutto vede sub specie aeternitatis, che la preghiera e la contemplazione sono fuga dal secolo e dalle opere della storia, che la fede disprezza le realtà temporali poiché non esiste storia dell’eterno. Henri de Lubac, che definisce la storia « interprete obbligato tra Dio e ciascuno di noi », risponderebbe che « per elevarsi fino all’eterno bisogna necessariamente appoggiarsi sul tempo e lavorare in esso. A questa legge essenziale s’è sottomesso il Verbo di Dio:  è venuto per liberarci dal tempo – ma per mezzo del tempo:  propter te factus est temporalis, ut tu fias aeternus. Legge d’incarnazione (…) Sull’esempio di Cristo ogni cristiano deve accettare la condizione d’essere impegnato nel tempo; condizione che lo fa solidale di tutta la storia, di maniera che il suo rapporto con l’eterno va di pari passo con un rapporto con un passato che sa immenso e con un avvenire la cui durata gli sfugge ». L’idea cattolica è che fede e storia stiano insieme. Ma anche il contrasto tra fede e scienza deriverebbe dall’equivoco che le vuole a competere nella stessa dimensione quando invece i lumi della fede e i lumi della scienza apparterrebbero a ordini diversi. Ma allora le secolari polemiche sull’oscurantismo cattolico? Il caso Galilei e l’atavico timore che la teologia non controlli più la scienza? O che la scienza divenuta autonoma metta in dubbio la teologia? E la condanna del modernismo in cui la teologia chiedeva aiuto alla scienza ormai emancipata? In realtà, la Chiesa cattolica è una complexio oppositorum in cui si va da un estremo all’altro. Per citare Yves Congar:  « La grandezza, secondo Pascal, è di tenere gli estremi e di riempire lo spazio tra loro. Il cattolicesimo è gerarchico e si rinnova a partire dalla base; si riversa nel pluralismo e abbonda in mistici; parla di sofferenza e di croce e, gioioso, preconizza lo sviluppo dei più alti valori umani; limita le pretese della ragione e ne rivendica le possibilità (…) Il cattolicesimo sarebbe questa complexio oppositorum (…) Il cattolicesimo è la pienezza, e, così come si è espresso nell’ultimo concilio, sintesi:  non il papa senza collegio, non il collegio senza il papa; non la Scrittura senza la Tradizione, non la Tradizione senza la Scrittura ». Nell’articolato organismo cattolico l’unità è fatta da Roma, dal papato, che in età contemporanea, da una parte, ha combattuto la modernità in quanto secolarizzazione, e dall’altra parte ha tenuto la modernità in debita considerazione perché rappresentava il presente dell’uomo cui annunciare il kèrygma cristiano. Mai che la modernità metta in discussione il dogma. Ma può esserci l’aggiornamento, la simpatia per la progrediente avventura umana, la valorizzazione dei segni dei tempi. Si vaglia il nuovo, per rigettarlo se insidia identità o dottrina, per sostenerlo se utile a salvare le anime.

(L’Osservatore Romano 3 ottobre 2009)

 

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