Archive pour le 3 mai, 2016

Santi Filippo e Giacomo

Santi Filippo e Giacomo dans immagini sacre

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SERMONI FESTIVI – FESTA DEI SANTI APOSTOLI FILIPPO E GIACOMO – I. L’ETERNITÀ DELLA DIMORA CELESTE

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SERMONI FESTIVI – FESTA DEI SANTI APOSTOLI FILIPPO E GIACOMO – I. L’ETERNITÀ DELLA DIMORA CELESTE

2. «Non sia turbato il vostro cuore». Dice la Storia Naturale che il cuore è la sorgente e l’origine del sangue, e che è il primo organo che riceve il sangue; e che è anche la sorgente degli impulsi che riguardano le cose piacevoli e quelle spiacevoli e dannose; e in genere i moti dei sensi da esso partono e ad esso ritornano, e la sua azione influisce su tutte le membra del corpo. «Non si turbi dunque il vostro cuore», perché se si turba il cuore, si turbano anche tutte le altre membra.     Considera che i cuori si diversificano tra loro sia nella grandezza che nella piccolezza, nella delicatezza come nella durezza; infatti il cuore degli animali privi di sentimento è duro, mentre il cuore degli animali forniti di sentimento è tenero. Inoltre un animale che ha il cuore grande è timido, mentre quello che ha un cuore piuttosto piccolo è coraggioso. E i guai che capitano all’animale per la sua timidezza, a null’altro sono da attribuirsi se non al poco calore che ha nel cuore, insufficiente a riempirlo tutto, perché il poco calore in un cuore grande si disperde, e quindi il sangue diventa piuttosto freddo. Cuori grandi si riscontrano nelle lepri, nei cervi, negli asini, nei topi e in altri animali in cui si manifesta la timidezza. E come un piccolo fuoco scalda meno in una casa grande che in una casa piccola, così fa il calore in questi animali.     Cuore grande vuol dire cuore superbo; cuore piccolo vuol dire cuore umile; cuore tenero è il cuore misericordioso e compassionevole, e lo hanno coloro che partecipano alle sofferenze, alle necessità e alla miseria degli altri; cuore duro è il cuore avaro, e lo hanno coloro che sono privi di sentimento. Il cuore grande, cioè il cuore superbo, è timido, perché in esso il calore dell’amore di Dio e del prossimo è troppo poco, anzi si è raffreddato, e quindi sùbito si turba perché sùbito ha paura. Perché dunque il vostro cuore non si turbi, sia umile, e allora in esso sarà grande il calore dell’amore e grande l’energia per compiere le opere buone.     Osserva ancora che solo il cuore, tra tutti gli organi interni, non dev’essere soggetto a sofferenze o gravi infermità. E questo è giusto perché, se si deteriora il principio, a nulla giovano tutte le altre membra, o gli altri organi. Le altre membra ricevono la forza dal cuore, ma il cuore non ne riceve da esse. «Non si turbi dunque il vostro cuore e non abbia timore» (Gv 14,27). Tra le varie cose che turbano maggiormente il cuore c’è la perdita una cosa cara. Cristo aveva predetto agli apostoli la sua passione; essi, che lo amavano in sommo grado, temevano di perderlo e quindi potevano essere presi dal turbamento. Ecco perciò che il Signore li conforta dicendo: «Non si turbi il vostro cuore e non abbia timore» a motivo della morte della mia carne, perché io sono Dio e la risusciterò. E aggiunge: «Abbiate fede in Dio e abbiate fede anche in me» (Gv 14,1), perché io sono Dio. Osserva che Gesù disse «abbiate fede in Dio», e non «credete Dio» o «credete a Dio». Anche «i demoni credono che Dio esiste, e tremano» (Gc 2,19). Crede a Dio colui che si limita a credere alle sue parole, ma non fa nulla di bene; invece crede in Dio colui che lo ama con tutto il cuore e fa di tutto per unirsi alle sue membra. 3 «Credete in Dio». Ecco il commento di Agostino: Affinché non temessero per la sua morte, reputandola la morte di un semplice uomo, e quindi ne restassero turbati, li conforta affermando di essere anche Dio. E perché di nuovo non si spaventassero pensando di essere da lui abbandonati alla rovina, vengono rassicurati che, dopo le prove, sarebbero stati sempre vicini a Dio, insieme con Cristo. Quindi continuò: «Nella casa del Padre mio vi sono molti posti» (Gv 14,2).     Ecco la melagrana, nella quale tutti i grani sono entro un’unica corteccia, ma dove tuttavia ogni grano ha la propria celletta. Nella gloria eterna ci sarà una sola casa, un solo denaro (una sola ricompensa), un’unica dimensione di vita; ma ognuno avrà per così dire la sua cella, perché anche nell’eternità le «dignità» e gli onori saranno diversi: perché altro è lo splendore del sole, altro lo splendore della luna e altro lo splendore delle stelle (cf. 1Cor 15,41). Tuttavia, nonostante la differenza di splendore, uguale sarà in tutti la felicità, perché io godrò tanto della tua felicità quanto della mia, e tu godrai della mia felicità quanto della tua.     Facciamo un esempio. Eccoci qui insieme: io ho in mano una rosa. La rosa è mia, però anche tu ti diletti della sua bellezza e godi del suo profumo, proprio come me. Così sarà anche nella vita eterna: la mia gloria sarà il tuo conforto e la tua felicità, e viceversa. E in quella luce, tanto sarà lo splendore dei corpi che io potrò ammirarmi nel tuo volto come in uno specchio, e tu ammirare il tuo volto nel mio: e da questo scaturirà un amore ineffabile. Perciò dice Agostino: Quale sarà l’amore quando ognuno di noi vedrà il suo volto in quello dell’altro come oggi vediamo ognuno il volto dell’altro? In quella luce tutto sarà chiaro e palese, niente sarà nascosto per nessuno, niente sarà oscuro.     Dice l’Apocalisse: «La città di Gerusalemme sarà di oro purissimo, simile a terso cristallo» (Ap 21,18). La Gerusalemme celeste è detta di oro purissimo a motivo dello splendore dei corpi glorificati, che sarà come lo splendore del più limpido cristallo; poiché come attraverso un cristallo perfetto tutto ciò che sta all’interno si vede perfettamente anche dall’esterno, così in quella visione di pace tutti i segreti dei cuori saranno palesi ad ognuno reciprocamente, e quindi arderanno anche d’inestinguibile ed ineffabile fiamma di reciproco amore. Al presente non ci amiamo a vicenda veramente come si dovrebbe, perché ci nascondiamo nelle tenebre, e nel segreto del cuore siamo divisi gli uni dagli altri: per questo si è raffreddato l’amore ed è dilagata l’iniquità (cf. Mt 24,12).     «Se no ve l’avrei detto» (Gv 14,2). Il significato dell’espressione è questo: Se non ci fossero molti posti nella casa del Padre mio, io ve l’avrei detto, cioè non ve l’avrei nascosto, anzi vi avrei detto chiaramente che non ci sono. Sappiate invece, sottintende, «che vado proprio per preparavi il posto» (Gv 14,2). Il padre prepara il posto al figlio, l’uccello prepara il nido ai suoi piccoli. Così Cristo ci ha preparato il posto e la pace della vita eterna, e prima ancora ci ha preparato la strada per la quale arrivarci.     Sia egli benedetto nei secoli. Amen.

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COSÌ RIDEVANO I PRIMI CRISTIANI..DI GIANFRANCO RAVASI

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COSÌ RIDEVANO I PRIMI CRISTIANI..DI GIANFRANCO RAVASI

È vero che la parola «ridere» occorre pochissime volte nelle Scritture e la tradizione vuole che Gesù non avesse mai sorriso. Ma gli studi curati da Clementina Mazzucco smentiscono la versione e indagano sull’umorismo biblico

Dominum numquam risisse, sed flevisse legimus: lapidario e sostanzialmente indiscutibile questo asserto sul Cristo che nei Vangeli piange ma non ride mai, asserto attribuito falsamente ad Agostino, ma di origine medievale (Patrologia Latina XL, 1290). Qualche secolo dopo, nella sua Disputatio de taedio et pavore Christi, Erasmo da Rotterdam ribadiva la tesi: «In tutta la vita di Gesù dopo la culla incontrerai parecchie testimonianze di dolcezza e di pazienza, nessuna di allegria ». Se si sta alla mera rilevazione statistica il « ridere » ( gheláo) e il « riso » ( ghélôs) totalizzano solo una triplice presenza evangelica: nelle « beatitudinimaledizioni » di Luca (6, 21.25) si dichiarano, infatti, beati coloro che piangono perché rideranno e, al contrario, nel Regno di Dio coloro che hanno riso saranno in lutto e piangeranno, mentre Giacomo nella sua Lettera ammonisce i cristiani ricchi e gaudenti che «il loro riso si trasformerà in lutto» (4, 9). Nel 2005, presso l’universitàdi Torino, Clementina Mazzucco ha organizzato un convegno proprio sul riso e la comicità nel cristianesimo antico e ora ne possiamo leggere, naturalmente con gusto, gli atti. In quelle pagine si deve riconoscere alla stessa curatrice la migliore trattazione finora apparsa sul riso, l’ironia e l’umorismo nel Nuovo Testamento. Certo, materia più abbondante è reperibile nell’Antico Testamento ove si ha persino lo sghignazzare di Dio (si veda, ad esempio, il Salmo 2, 4), seguendo i canoni di un robusto antropomorfismo. Tuttavia il saggio di Daniele Garrone, presente nel volume, assomiglia più a una raccolta di materiali di base che attendono ancora una vera e propria elaborazione tematica. L’analisi della Mazzucco riesce, invece, a convincerci che andando oltre la rigida gabbia lessicale e rivolgendo l’attenzione anche a detti, battute, dialoghi, situazioni, personaggi, scene e a termini periferici o di contorno si può ricostruire, nel Nuovo Testamento, un orizzonte decisamente più popolato di sorrisi, di gioia, di ironia (quest’ultima, talora, può diventare anche un sofisticato strumento teologico, come accade per il quarto evangelista Giovanni). È, quindi, probabile che il profilo di un Gesù serio, alla maniera del Vangelo secondo Matteo di Pasolini ma anche di un’inesausta tradizione iconografica, sia da connettere «con l’immagine di un Gesù fatto oggetto di scherni, soprattutto nella passione, e quindi con l’immagine, misteriosa e ostica da un punto di vista umano, di un Messia sof-ferente: un tratto non psicologico ma teologico». Non si deve, infatti, dimenticare senza voler allegare la messe suggestiva di dati elaborati dalla studiosa torinese che l’evangelista Luca evoca, ad esempio, la felicità messianica che avvolge la nascita di Gesù, ci ricorda che egli prega «esultando nello Spirito Santo» (10, 21) e, con gli altri evangelisti, esalta la gioia pasquale che pervade gli apostoli, a tal punto che, soprattutto nel Medio Evo, le celebrazioni della Risurrezione degeneravano talvolta in un’allegria fin sgangherata con mimi, scenette e interludi liturgici venati persino di oscenità (di questo ha scritto Maria Caterina Jacobelli nel suo Risus paschalis, Queriniana 1991). Non si può, per altro, dimenticare che fu assegnato all’annunzio e alla Scrittura neotestamentaria il titolo di « vangelo »,che in greco significa una notizia buona, bella, gioiosa. Il volume poderoso naturalmente riserva tanti altri percorsi testuali: essi partono sia dallo spazio comico pagano, sia dalla « dinamica del riso » che affiora nell’etimologia popolare biblica del nome stesso di « Isacco », il figlio della promessa divina (« il Signore ha riso », ridendo da ultimo nei confronti del riso scettico della madre del bimbo, Sara, in menopausa al momento della sua gestazione). La rete degli itinerari analitici è fitta: Clemente Alessandrino, Tertulliano, Basilio, Gregorio di Nazianzo e Gregorio di Nissa, Giovanni Crisostomo («Voi ridete, a me invece viene da piangere!»), Ambrogio, Girolamo,l’Agostino vero,Gregorio Magno, Venanzio Fortunato con le curiose «confessioni di un vescovo goloso», Romano il Melodo, Gregorio di Tours e altri ancora. Ma si ha anche un’interessante incursione in una sorta di teatro comico sui vizi capitali, col monaco parassita o fanfarone o lussurioso o misogino e persino stercorario! Così come non si dimentica quella categoria sorprendente della spiritualità russa che presenta il « folle per Cristo » i cui albori sono da cercare nella miniera di detti e atti legati ai padri eremiti e ai monaci del deserto, ma che procederà fino all’Idiota dostoevskiano, quel principe Myakin spiritualmente superiore proprio per la sua disarmante e disarmata ingenuità e serenità. Un’opera corale, quindi, suggestiva che,pur nella paludata livrea dell’accademia, riserva un vero godimento, non di rado sconfinante nell’ilarità, come nel caso degli sberleffi destinati al diavolo beffato. Un teologo abbastanza serioso quale Karl Barth di cui celebriamo quest’anno il 40Údella morte non esitava a scrivere: «Un cristiano fa buona teologia quando, in fondo, è lieto, sì, quando si accosta alle cose con umorismo. Bisogna guardarsi dai teologi di cattivo umore e noiosi! Certo, lo so: siamocircondati da ogni parte da tanta tristezza e noi stessi siamo spesso compagni poco piacevoli. Ma dato che un cristiano non serve se stesso bensì il Padre di Gesù Cristo, può guardare al suo prossimo, amato da Dio, e a se stesso con gioia e speranza; può ridere, nonostante tutto, di cuore».

1 «Riso e comicità nel cristianesimo antico. Atti del Convegno di Torino, 14-16 febbraio 2005 e altri studi», a cura di C. Mazzucco, Alessandria, Edizioni dell’Orso, pagg. 860,

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