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COSA VUOL DIRE CHE I SANTI «INTERCEDONO» PER NOI?

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COSA VUOL DIRE CHE I SANTI «INTERCEDONO» PER NOI?

Una lettera sul ruolo dei santi nell’intercedere presso Dio. Risponde padre Giovanni Roncari, docente di Storia della Chiesa alla Facoltà Teologica dell’Italia centrale.

11/02/2015  Redazione Toscana Oggi   Mi rivolgo a voi per avere una risposta completa, esaustiva e «convincente». Cosa vuol dire che i santi «intercedono» per noi? So che Dio ascolta tutti e perché un santo può ottenere quello che io non posso ottenere? So che «tutta la chiesa» pregava per San Pietro quando era in prigione e fu liberato. Ricordo che quando ero bambino mi spiegavano che i santi, essendo più «buoni» di me – mi diceva la mamma -, erano maggiormente ascoltati e il Signore esaudiva le loro preghiere. Lo chiedo per essere maggiormente «rafforzato» perchè, pur non capendo appieno il loro ruolo, continuamente prego il Signore anche per intercessione di qualche santo (dalla Madonna a santa Rita a sant’Antonio a padre Pio). È irrilevante ma mi ricordo che quando andavo a scuola in prossimità di qualche compito in classe andavo a scovare sul calendario qualche santo sconosciuto e lo pregavo nella convinzione che essendo sconosciuto aveva «poche persone» da esaudire. Andrea Sarti

Il nostro Lettore si chiede che senso abbia pregare i Santi e chiedere la loro intercessione presso il Signore.  La risposta deve tener conto  della questione più ampia: perché la Chiesa venera i Santi. Qual è l’origine e il senso del loro culto. Il culto-venerazione dei Santi nasce dalla venerazione per i martiri, quei cristiani che erano morti durante la persecuzione per non rinnegare la propria fede in Cristo. Gli Atti dei Martiri e tante pagine dei Padri della Chiesa ci testimoniano questo culto che si sviluppa anche in tante direzioni in campo architettonico- artistico, letterario ecc. La venerazione per i martiri poi si inserisce nel quadro della venerazione per i defunti che nel cristianesimo voleva e vuole celebrare la vittoria pasquale di Cristo realizzata anche nei credenti. Il culto e la preghiera per i defunti ha nella fede e nella liturgia cristiana, prima dell’umano ricordo e affetto, la proclamazione della pasqua del Signore alla quale il defunto partecipa per grazia di Cristo. La  liturgia pone accanto al feretro il cero pasquale, quello acceso nella veglia di pasqua,  che ricorda simbolicamente il Signore risorto. Questi richiami dottrinali sono importanti perché bene inseriscono la venerazione-intercessione dei santi nel significato più vero. È quanto ci insegna la Chiesa dall’antichità cristiana fino ad oggi. In questa sede ci limitiamo al Concilio Vaticano II che nella costituzione dogmatica sulla Chiesa, Lumen gentium,  dedica un intero capitolo, il settimo, alla indole escatologica della Chiesa peregrinante e la sua unione con la Chiesa celeste. In questo testo, ricco di citazioni bibliche patristiche  e del magistero della Chiesa,  si espongono i motivi della venerazione dei santi e la richiesta della loro intercessione. Ascoltiamolo: «Quanto agli apostoli e ai martiri di Cristo che avevano dato il loro sangue come suprema testimonianza di fede e di carità, la chiesa ha sempre creduto che siano a noi strettamente congiunti in Cristo, li ha venerati con particolare affetto insieme alla beata vergine Maria e ai santi angeli e ha piamente implorato l’aiuto della loro intercessione. Ad essi ben presto si aggiunsero coloro che avevano imitato più da vicino la verginità e la povertà di Cristo  (i monaci) e infine gli altri che per aver esercitato in modo eminente le virtù cristiane e aver ricevuto particolari carismi da Dio, si raccomandavano alla pia devozione e all’imitazione dei fedeli. (….) Nella vita di coloro che, uomini come noi, sono trasformati più perfettamente ad immagine di Cristo (2 Cor. 3,18), Dio rivela in modo vivo agli uomini la sua presenza e il suo volto. (..) Noi  veneriamo la memoria dei santi non solo per l’esempio che ci danno, ma ancor più per potenziare nello Spirito e nell’esercizio della carità fraterna, l’unità di tutta la chiesa (Ef. 4, 1-6). Come infatti la comunione fra noi viatori ci avvicina a Cristo, così la solidarietà con i santi ci congiunge a lui, fonte unica da cui promana la grazia e la vita del popolo di Dio». (Lumen gentium, 50) Secondo questo insegnamento ripreso anche dal Catechismo della Chiesa Cattolica (nn.956-959) almeno tre sono i motivi della venerazione-intercessione dei Santi: proclamare la bontà del Padre che ha fatto risplendere in essi l’opera della redenzione accogliere  il loro esempio come possibilità concreta di vivere il vangelo ed essere invitati alla loro imitazione poter fare una profonda esperienza dell’unità della Chiesa: quella del tempo e della storia e quella dell’eternità, come quell’unica Chiesa che proclamiamo nella professione di fede « credo la Chiesa una santa cattolica e apostolica»« credo la Chiesa una santa cattolica e apostolica» È soprattutto in questo terzo momento che ben si inserisce l’intercessione dei Santi. Fondati nell’unico battesimo, facenti parte dell’unico popolo regale, sacerdotale e profetico, membri dell’unico corpo il cui unico capo è Cristo Signore, noi possiamo pregare gli uni per gli altri. Tra questi altri occupano un posto speciale coloro la Chiesa stessa riconosce e proclama autentici seguaci di Cristo e nei quali il Padre «ci dona un segno sicuro del suo amore, (per questo) il loro grande esempio e la loro fraterna intercessione ci sostengono nel cammino della vita perché si compia in noi il tuo mistero di salvezza».  (Messale Romano, prefazio II dei santi) La liturgia, la grande maestra della vita cristiana, ci insegna il modo giusto per una vera preghiera verso i Santi e quindi anche il vero significato della intecessione dei Santi.  Nella celebrazione eucaristica la preghiera, soprattutto la colletta, la prima delle tre preghiere proprie di ogni Messa, è sempre rivolta al Padre (Dio onnipotente ed eterno….) per la mediazione unica e insostituibile di Gesù Cristo (per il nostro Signore Gesù Cristo…) con lo Spirito Santo (nell’unità dello Spirito Santo…). Anche negli altri sacramenti e nella liturgia delle ore (il breviario) troviamo lo stesso modo di pregare. E tuttavia in questi momenti così decisivi non mancano mai i Santi, il loro riverente ricordo, la loro intercessione. «In comunione con tutta la Chiesa ricordiamo e veneriamo anzitutto la gloriosa e sempre vergine Maria…..e tutti i Santi; per i loro meriti e le loro preghiere donaci sempre aiuto e protezione».  (Canone Romano) «…perché possiamo ottenere il regno promesso insieme con i tuoi eletti: con la beata Maria, vergine e madre di Dio, con san Giuseppe suo sposo, con tuoi santi apostoli, i gloriosi martiri e tutti i santi nostri intercessori presso di te» (Canone III). Pensiamo ancora a liturgie solenni, come le ordinazioni sacerdotali, introdotte dal canto delle litanie dei Santi. Nella veglia pasquale, la madre di tutte le veglie, la benedizione del fonte battesimale inizia con le litanie dei santi. Gli esempi potrebbero continuare. La venerazione dei santi, rettamente intesa, (la storia ci dice che non sono mancati abusi che rimangono tali), fa parte della grande tradizione cattolica espressa nella liturgia e nel senso di fede del popolo cristiano e la loro intercessione rende autentica e non formale la stessa venerazione. I Santi non sono i sostituti di Dio nella preghiera, né devono convincere il Padre Eterno di qualcosa, ma accompagnare noi nel cammino cristiano che essi hanno già compiuto insegnandoci con la parola e la preghiera a fare la volontà di Dio. In certo modo, caro Signor Sarti, la sua Mamma, nella semplicità della sua fede cristiana, le ha insegnato con parole umili, la dottrina cristiana espressa nelle parole grandi della liturgia. «Nella loro vita ci offri un esempio, nella intercessione un aiuto, nella comunione di grazia un vincolo di amore fraterno…. per condividere al di là della morte la stessa corona di gloria». (Messale Romano, prefazio I dei santi). «Verso la patria comune noi, pellegrini sulla terra, affrettiamo nella speranza il nostro cammino, lieti per la sorte gloriosa di questi membri eletti della chiesa, che ci hai dato come amici e modelli di vita». (Messale Romano, prefazio della solennità di Ognissanti).

Concludiamo con una parola stupenda di santa Teresa di Gesù Bambino: «Trascorrerò il mio paradiso a far del bene sulla terra».

Giovanni Roncari

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PAPA FRANCESCO – 19. POVERTÀ E MISERICORDIA (CFR LC 16,19-31)

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PAPA FRANCESCO – 19. POVERTÀ E MISERICORDIA (CFR LC 16,19-31)

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 18 maggio 2016

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Desidero soffermarmi con voi oggi sulla parabola dell’uomo ricco e del povero Lazzaro. La vita di queste due persone sembra scorrere su binari paralleli: le loro condizioni di vita sono opposte e del tutto non comunicanti. Il portone di casa del ricco è sempre chiuso al povero, che giace lì fuori, cercando di mangiare qualche avanzo della mensa del ricco. Questi indossa vesti di lusso, mentre Lazzaro è coperto di piaghe; il ricco ogni giorno banchetta lautamente, mentre Lazzaro muore di fame. Solo i cani si prendono cura di lui, e vengono a leccare le sue piaghe. Questa scena ricorda il duro rimprovero del Figlio dell’uomo nel giudizio finale: «Ho avuto fame e non mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e non mi avete dato da bere, ero […] nudo e non mi avete vestito» (Mt 25,42-43). Lazzaro rappresenta bene il grido silenzioso dei poveri di tutti i tempi e la contraddizione di un mondo in cui immense ricchezze e risorse sono nelle mani di pochi. Gesù dice che un giorno quell’uomo ricco morì: i poveri e i ricchi muoiono, hanno lo stesso destino, come tutti noi, non ci sono eccezioni a questo. E allora quell’uomo si rivolse ad Abramo supplicandolo con l’appellativo di “padre” (vv. 24.27). Rivendica perciò di essere suo figlio, appartenente al popolo di Dio. Eppure in vita non ha mostrato alcuna considerazione verso Dio, anzi ha fatto di sé stesso il centro di tutto, chiuso nel suo mondo di lusso e di spreco. Escludendo Lazzaro, non ha tenuto in alcun conto né il Signore, né la sua legge. Ignorare il povero è disprezzare Dio! Questo dobbiamo impararlo bene: ignorare il povero è disprezzare Dio. C’è un particolare nella parabola che va notato: il ricco non ha un nome, ma soltanto l’aggettivo: “il ricco”; mentre quello del povero è ripetuto cinque volte, e “Lazzaro” significa “Dio aiuta”. Lazzaro, che giace davanti alla porta, è un richiamo vivente al ricco per ricordarsi di Dio, ma il ricco non accoglie tale richiamo. Sarà condannato pertanto non per le sue ricchezze, ma per essere stato incapace di sentire compassione per Lazzaro e di soccorrerlo. Nella seconda parte della parabola, ritroviamo Lazzaro e il ricco dopo la loro morte (vv. 22-31). Nell’al di là la situazione si è rovesciata: il povero Lazzaro è portato dagli angeli in cielo presso Abramo, il ricco invece precipita tra i tormenti. Allora il ricco «alzò gli occhi e vide di lontano Abramo, e Lazzaro accanto a lui». Egli sembra vedere Lazzaro per la prima volta, ma le sue parole lo tradiscono: «Padre Abramo – dice – abbi pietà di me e manda Lazzaro a intingere nell’acqua la punta del dito e a bagnarmi la lingua, perché soffro terribilmente in questa fiamma». Adesso il ricco riconosce Lazzaro e gli chiede aiuto, mentre in vita faceva finta di non vederlo. – Quante volte tanta gente fa finta di non vedere i poveri! Per loro i poveri non esistono – Prima gli negava pure gli avanzi della sua tavola, e ora vorrebbe che gli portasse da bere! Crede ancora di poter accampare diritti per la sua precedente condizione sociale. Dichiarando impossibile esaudire la sua richiesta, Abramo in persona offre la chiave di tutto il racconto: egli spiega che beni e mali sono stati distribuiti in modo da compensare l’ingiustizia terrena, e la porta che separava in vita il ricco dal povero, si è trasformata in «un grande abisso». Finché Lazzaro stava sotto casa sua, per il ricco c’era la possibilità di salvezza, spalancare la porta, aiutare Lazzaro, ma ora che entrambi sono morti, la situazione è diventata irreparabile. Dio non è mai chiamato direttamente in causa, ma la parabola mette chiaramente in guardia: la misericordia di Dio verso di noi è legata alla nostra misericordia verso il prossimo; quando manca questa, anche quella non trova spazio nel nostro cuore chiuso, non può entrare. Se io non spalanco la porta del mio cuore al povero, quella porta rimane chiusa. Anche per Dio. E questo è terribile. A questo punto, il ricco pensa ai suoi fratelli, che rischiano di fare la stessa fine, e chiede che Lazzaro possa tornare nel mondo ad ammonirli. Ma Abramo replica: «Hanno Mosè e i profeti, ascoltino loro». Per convertirci, non dobbiamo aspettare eventi prodigiosi, ma aprire il cuore alla Parola di Dio, che ci chiama ad amare Dio e il prossimo. La Parola di Dio può far rivivere un cuore inaridito e guarirlo dalla sua cecità. Il ricco conosceva la Parola di Dio, ma non l’ha lasciata entrare nel cuore, non l’ha ascoltata, perciò è stato incapace di aprire gli occhi e di avere compassione del povero. Nessun messaggero e nessun messaggio potranno sostituire i poveri che incontriamo nel cammino, perché in essi ci viene incontro Gesù stesso: «Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me» (Mt 25,40), dice Gesù. Così nel rovesciamento delle sorti che la parabola descrive è nascosto il mistero della nostra salvezza, in cui Cristo unisce la povertà alla misericordia. Cari fratelli e sorelle, ascoltando questo Vangelo, tutti noi, insieme ai poveri della terra, possiamo cantare con Maria: «Ha rovesciato i potenti dai troni, ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,52-53).

 

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