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IL TEMPO DELLE «SETTE PASQUE»

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IL TEMPO DELLE «SETTE PASQUE»

di Antonio Tarzia  

Ogni religione che si richiami ad Abramo, ogni confessione cristiana ha la sua pasqua: tutte simili e tutte diverse, legate al filo rosso della tradizione biblica, dove c’è un agnello da sacrificare, pane azzimo, erbe amare, coppe di vino, preghiere e canti di antiche liturgie. Ne I Vangeli di Pasqua (editi nel 1993 dalla Periodici San Paolo) monsignor Gianfranco Ravasi presenta con accurata e affascinante documentazione almeno «sette pasque» diverse. Da quella sobria e un po’ laica dei fratelli evangelici, «Pasqua dei protestanti» tutta racchiusa nella celebrazione della Parola e del canto (come non ricordare l’oratorio musicale di Johann Sebastian Bach, capolavoro e vertice di spiritualità!) a quella più antica dei figli del deserto, «Pasqua dei nomadi», che si celebra ancora oggi sotto la tenda dei beduini. All’arrivo della primavera si festeggia la partenza verso i nuovi pascoli mangiando pane azzimo ed erbe del deserto. L’agnello già sacrificato è appeso al palo. Molti sono gli agnelli che si sacrificano sul monte Garizim (a 5 chilometri da Nablus). Qui si celebra, chiaramente legata ai dettami del Pentateuco, la «Pasqua dei samaritani» popolo di antica eresia che troviamo citato più volte nell’Antico Testamento e in quasi tutti i Vangeli. Gesù fa di alcuni samaritani i protagonisti delle sue parabole. In Terra Santa come in ogni casa di ebrei sparsa per il mondo, la settimana dopo il plenilunio di marzo si celebra ogni anno la «Pasqua giudaica» con il complesso e solenne rito descritto nell’Esodo, con il canto dell’haggadah (narrazione dialogata tra padre e figlio, fonte e trasmissione della tradizione religiosa) e dell’hallel (salmi 114-118). Quindi il pane azzimo, le coppe di vino e le benedizioni. Gesù nell’ultima cena celebrò questa Pasqua che elevò a sacramento con l’istituzione dell’Eucaristia. «Pasqua di Gesù e dei cristiani»: i cattolici in tutto il mondo celebrano secondo il Vangelo la loro Pasqua di morte e di resurrezione del Signore che va dalla Domenica delle palme fino al « gloria » di Pasqua. Memoriale ed evento di salvezza nella storia dell’uomo. Cresciuta su radici bibliche ma legata alle prescrizioni coraniche è la «Pasqua araba». L’agnello che si immola non è un richiamo a quello della notte dell’Esodo ma fa memoria del sacrificio di Abramo che, secondo il Corano (Sûra 37,99-113), porta sul monte Mòria per offrirlo a Dio il giovane Ismaele. Se sono simili i riti e le preghiere pasquali, non è ancora comune la data della celebrazione. Anche tra i cristiani c’è un diverso calendario secondo le confessioni. Nel 2010 coincidono la festività cattolica con la «Pasqua ortodossa». I fratelli ortodossi cominciano con i riti del «grande Giovedì» (istituzione dell’Eucaristia, lavanda dei piedi e tradimento di Giuda) per culminare con il grido del mattino di Pasqua «Gesù Cristo vince!» (Iesus Christòs nikà!). Intanto i fedeli nelle chiese si scambiano tre baci esclamando: «Cristo è risorto!» e rispondendo «Veramente è risorto!».

 

Publié dans:BIBBIA, STORIA - STUDI VARI |on 16 mai, 2016 |Pas de commentaires »

IMPERO E PACE NEL PENSIERO DEI CRISTIANI DEI PRIMI SECOLI

http://www.dirittoestoria.it/6/Tradizione-romana/Siniscalco-Impero-romano-pace-cristiani.htm

PAOLO SINISCALCO
Università di Roma “La Sapienza”

IMPERO E PACE NEL PENSIERO DEI CRISTIANI DEI PRIMI SECOLI

SOMMARIO: 1. La pace per i cristiani. – 2. La linea negativa. – 2.1. Il Tardo Giudaismo. – 2.2. L’Apocalisse canonica. – 2.3. Le espressioni della più antica letteratura. – 3. La linea positiva. – 3.1. I Vangeli, gli Atti degli Apostoli, Paolo. – 3.2. Gli scrittori del II secolo. – 3.3. Il servizio nell’esercito. – 4. La pace costantiniana. – 4.1. L’interpretazione di Eusebio di Cesarea. – 4.2. Il rapporto Impero-Chiesa.

1. – La pace per i cristiani
La pace per i primi cristiani è intesa prevalentemente non in senso giuridico-politico, ma in senso spirituale, ha una dimensione di interiorità, scaturisce dal cuore dell’uomo riconciliato con Dio, è dono di Dio e presuppone la certezza di essere stati redenti e salvati da Cristo che ha adempiuto le rivelazioni di pace espresse dai profeti nell’Antico Testamento. Dalla pace interiore nasce la pace esteriore che bisogna innanzitutto regni nella Chiesa, comunità dei credenti; una tale pace, occorre dire, spesso tradita e non sufficientemente ricercata e realizzata nel corso del tempo, consente e promuove l’unità di culto e di fede. Ma la pace per i cristiani è anche quella che si spera di godere dopo la morte e nel regno eterno di Dio (o già prima, nel regno messianico, per i Millenaristi)[1].
Nondimeno per i cristiani dei primi secoli, nel vasto campo semantico ricoperto dal termine, è inclusa anche e necessariamente la pace e la concordia entro il corpo della civitas.
Proprio a questo ambito ci si vuole rivolgere in questa occasione, precisamente per interrogarsi sul modo con cui essi guardano all’Impero romano in rapporto alla pace.

2. – La linea negativa
2.1. – Il Tardo Giudaismo
Per iniziare è utile, se non necessario, considerare la storia e la letteratura (con particolare riferimento al genere profetico e apocalittico) del Tardo Giudaismo. In questo ambito si manifesta una linea negativa verso Roma e il suo Impero
Fin dal I secolo a.C. Israele si accorge che l’Impero romano, con l’esercizio del suo potere, sta minacciando da vicino la religione giudaica. Accanto ad atti di insubordinazione e di ribellione cominciano a diffondersi scritti significativi. Nel 63 a.C. l’invasione della Palestina compiuta dai romani sotto la guida di Pompeo si conclude con l’occupazione di Gerusalemme e la profanazione del Tempio. L’episodio lascia una traccia profonda nell’animo dei giudei. Da quel momento l’impero occidentale è tenuto alla stregua di una potenza antagonista. Si fanno eco di questa idea i Salmi di Salomone, composti intorno alla metà del I secolo a.C., riprendendo un motivo della tradizione profetica: i prìncipi pagani sono destinati a subire una punizione divina, giacché nel tempo opportuno verrà un discendente di David che li sconfiggerà, giudicherà tutti i popoli nella saggezza della sua giustizia e instaurerà un regno messianico ed eterno (cf. Ps 17.26 ss.). È il primo passo, legato a circostanze storiche precise, che prepara e giustifica gli sviluppi successivi dell’apocalittica giudaica.
Si pensi all’Apocalisse siriaca di Baruch, composta dopo il 70 d.C., centrata sugli avvenimenti relativi alla presa di Gerusalemme da parte dell’esercito romano, in cui appare l’immagine dei quattro regni, a cui già Daniele era ricorso, per sottolineare che il quarto regno è il più duro e spietato, destinato ad avere una lunga egemonia fino alla fine del tempo e quindi alla venuta del Messia liberatore. Il nome del quarto regno è taciuto, ma non si è lontani dal vero se lo si identifica con l’Impero dei romani.
Analoga visione è manifestata nel IV libro di Esdra, altro scritto apocalittico giudaico composto verso la fine del I secolo d.C. L’immagine dei quattro regni ricorre del resto non solo nell’apocalittica, ma anche nella letteratura rabbinica[2], ove l’avversario è più specificamente individuato in una potenza insediata in Palestina.
Si possono menzionare ancora gli Oracoli sibillini nei quali il tema della caduta di Roma ha un posto privilegiato. Essi hanno origine per la gran parte nel I-II secolo d.C. e raccolgono materiali pagani, giudaici e cristiani di natura storica, politica e religiosa. Essi fanno di nuovo presente lo schema dei quattro imperi e, parlando del quarto, mettono in evidenza sia le cause che gli effetti della sua rovina[3]. La fine di Roma è dunque data per certa per il prevalere delle leggi che regolano la storia e per l’intervento stesso di Dio la cui azione, a tempo opportuno, vince i nemici dei giusti e realizza per questi ultimi il regno di eterna beatitudine.
Non sfugga d’altra parte il costituirsi nel I secolo d.C. nell’ambito del giudaismo palestinese di gruppi religiosi radicali, specialmente di galilei che danno vita a un movimento di resistenza contro Roma (cf. Atti degli apostoli 21.38; 5.36-37): animati da una concezione messianica dalle tinte politiche, si propongono la liberazione dal dominio romano, anche ricorrendo alla violenza armata sono i Sicari (per i quali rimane aperto il problema di sapere se debbano essere identificati con gli zeloti).

2.2. – L’Apocalisse canonica
Fin qui si è parlato dell’Impero percepito negativamente da una parte delle società e della letteratura giudaica tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., e non si è parlato della pace. Ma il breve excursus ora fatto serve a meglio inquadrare le posizioni dei cristiani a riguardo dei nostri temi. Si delineano infatti nell’ambito delle comunità dei fedeli a Cristo due linee divergenti. La prima prosegue in certo modo le tracce ora messe in luce. In proposito è qui necessario fare un cenno all’Apocalisse di Giovanni, non senza notare subito che le figure e le immagini proposte da questo scritto sono state fin dall’antichità interpretate in modo molteplice e vario. È un fatto però che la maggior parte dei commentatori dall’antichità ad oggi hanno visto nella quarta bestia che sale dal mare (cf. Apoc. 13.1 ss.) l’Impero romano; ancora meglio, secondo alcuni studiosi, essa si riferirebbe alla struttura politica, militare e amministrativa dell’Impero, mentre la bestia che sale dalla terra (cf. Apoc. 13.11, ma vd. pure Dan. 7.1 ss.) si riferirebbe all’organizzazione del culto imperiale che avrebbe avuto nell’Asia Minore uno dei centri di più intensa espansione. Ma non tutti i commentatori sono d’accordo con le interpretazioni dei particolari. Un’altra figura è stata da numerosi commentatori assimilata al potere imperiale romano e alla città di Roma, quella della prostituta che siede sopra una fiera scarlatta (cf. Apoc. 17.1 ss.). Giovanni avrebbe atteso in tempi brevi il crollo della potenza occidentale che avrebbe coinciso con la fine del mondo. All’Urbs ha fatto pensare anche la donna ubriaca del sangue dei santi e del sangue di quelli che sono morti per la fede in Gesù (cf. Apoc. 17.6) in cui parecchi critici hanno scorto il riferimento alle persecuzioni di Nerone e di Domiziano contro i cristiani. E si potrebbe continuare. I versetti 17.9-10 («Le sette teste sono i sette colli (o i sette monti) sui quali la donna è seduta. Sono anche sette re») sono stati considerati come allusione alla città di Roma. Pertanto cui si può dire che secondo l’opinione di interpreti antichi e moderni generalmente Giovanni è stato visto come rappresentante di una posizione critica e negativa verso Roma.

2.3. – Le espressioni della più antica letteratura
I segni così incisivamente tracciati dall’apocalittica di ritrovano, a cominciare dal II secolo d.C., nella letteratura cristiana. Nell’Epistola dello Pseudo-Barnaba (4.1 ss.) la citazione delle parole del profeta Daniele sulla quarta bestia che sale dal mare manifesta l’intenzione di richiamare la figura e l’opera negativa di imperatori romani del I secolo o dell’inizio del II. Interpretazioni che sono riprese da Ippolito nel Commento a Daniele ove si giunge a indicare la data esatta in cui avrà fine la potenza romana, assimilata ancora e sempre alla quarta bestia di cui parla il profeta: 500 anni dopo la nascita di Cristo. Alla fine del III secolo Vittorino di Poetovium nel Commento all’Apocalisse senza incertezze individua nella città di Roma la figura della donna dell’Apocalisse (cf. 17.9) e spiega il senso delle parole che seguono (cf. Apoc. 17.10 ss.): i cinque imperatori romani ormai caduti sono Tito, Vespasiano, Ottone, Vitellio e Galba; il sesto, che detiene il potere nel periodo in cui è composto l’ultimo libro neotestamentario, è Domiziano; il settimo ,infine, del quale si dice che durerà per breve tempo (come in realtà avviene, non prolungandosi la sua egemonia oltre un biennio), è Nerva. Nelle prime decadi del IV secolo Lattanzio nelle Divinae Institutiones torna a insistere sul motivo della fine dell’Impero romano in un quadro tracciato a linee cupe.
Così prende forma la tradizione negativa su Roma che ha la propria origine diretta o indiretta nella tradizione profetica e apocalittica tardo-giudaica e cristiana.

3. – La linea positiva
3.1. – I Vangeli, gli Atti degli Apostoli, Paolo
Accanto a questa si fa luce un’altra linea destinata a prevalere. Occorre intanto osservare che nei Vangeli canonici non si manifestano atteggiamenti contro l’Impero romano. Stando al Vangelo di Luca (cf. 3.14), quando a Giovanni Battista si rivolgono alcuni agenti delle tasse per chiedere che cosa debbano fare, egli risponde che non devono prendere niente più di quanto è stabilito dalla legge e ad alcuni soldati che chiedono la medesima cosa egli dice di non impossessarsi di beni altrui con la violenza o con false accuse, ma di accontentarsi delle loro paghe. E si sa che pubblicani e militari – evidentemente romani – erano categorie mal giudicate dai giudei del tempo. Anche Gesù non condanna mai il servizio nell’esercito. Dai Vangeli siamo a conoscenza di due episodi significativi in proposito: quello del centurione che in Cafarnao chiede l’aiuto del Signore per il suo servo paralizzato (cf. Matteo 8.5 ss.; vd. pure Luca 7.2 ss.) e quello del centurione che ai piedi della croce fa la guardia a Gesù morente (cf. Matteo 27.54; Marco 15.39; Luca 23.47. Proprio questi due centurioni rendono palese il “segreto messianico” di Gesù, il mistero della sua persona e lo annunciano al mondo pagano: «Signore, io non sono degno che tu entri a casa mia, (…), ma di’ anche solo una parola e il mio servo certamente guarirà» (Luca 7.6 s.), esclama l‘ufficiale romano di Cafarnao; e l’ufficiale sul Golgota, accortosi del terremoto e di tutto quanto accadeva, pieno di spavento dice: «Quest’uomo era veramente il Figlio di Dio» ( Matteo 27.54).
Gli Atti degli Apostoli (cf. 10.1 ss.) a loro volta riferiscono di Cornelio, centurione della coorte Italica, “uomo pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia”, il quale un giorno vede apparirgli un angelo che gli dice essere state esaudite le sue preghiere e gli suggerisce di mandare uomini a Giaffa per fare venire presso di lui Simone Pietro. Cornelio ubbidisce. Pietro viene, non prima di avere avuto pure lui una visione; annuncia al centurione e ai suoi la ”buona novella della pace”, assiste alla discesa dello Spirito santo su tutti coloro che avevano ascoltato il suo discorso, circoncisi o pagani che fossero, ed ordina che tutti siano battezzati nel nome di Gesù. Dunque, nell’ottica di Luca, che scrive gli Atti, di nuovo un ufficiale romano segna un momento decisivo della storia della salvezza. L’apertura della missione al mondo dei pagani e quindi l’entrata dei non giudei nel nuovo popolo che si stava componendo: si tratta della “pentecoste dei pagani”, come è stata definita[4].
Una chiara affermazione di lealismo dei cristiani nei confronti delle autorità costituite si trova poi in una delle lettere sicuramente autentiche di Paolo, la lettera ai Romani, scritta probabilmente da Corinto nel 54 o nel 56-57, che risulta perciò essere uno dei più antichi documenti della letteratura cristiana. Scrive l’apostolo: «Ognuno sia sottomesso a chi ha ricevuto autorità, perché non c’è autorità che non venga da Dio (…). Fa’ il bene e le autorità ti loderanno, perché sono al servizio di Dio per il tuo bene (…). Ecco bisogna stare sottomessi all’autorità, non soltanto per paura delle punizioni, ma anche per una ragione di coscienza. È la stessa ragione per cui pagate le tasse: difatti mentre assolvono il loro incarico sono al servizio di Dio. Date a ciascuno ciò che gli è dovuto: l’imposta, le tasse, il timore, il rispetto, a ciascuno quel che gli dovete dare» (Rom. 13.1 ss.).
L’attitudine positiva espressa ripetutamente e con chiarezza verso le autorità politiche civili in scritti dapprima altamente considerati e poi, con il formarsi del primo canone scritturale, ritenuti pieni di autorevolezza, anzi di autorità, perché ispirati da Dio, ha indotto le comunità cristiane a mutare quella posizione presente, in una parte dei suoi membri, di insubordinazione o almeno di contestazione e di insofferenza verso quello che impropriamente oggi diremmo lo ‘stato’ romano.

3.2. – Gli scrittori del II secolo
Gli scrittori cristiani nel II secolo, coloro che di consueto sono denominati Apologeti, quando si accingono a rappresentare le idee e le norme morali scaturite dall’euaggelion di fronte al mondo pagano, avvertono che l’Impero romano, con la sua organizzazione civile e politica facilita la diffusione del cristianesimo; essa infatti ha realizzato l’unità dell’oikoumene e vi ha fatto regnare la pace.
Così intorno al 150 Giustino, indirizzando la sua Apologia a Antonino Pio (138-161), Marco Aurelio (161-180) e Lucio Vero (161-169) dopo essersi difeso dalle accuse rivolte ai fedeli di Cristo da parte della società pagana, aggiunge: «Siamo vostri collaboratori e alleati per la pace più di tutti gli altri uomini (…). Riteniamo che ciascuno si incammini verso la condanna eterna oppure verso la salvezza per il merito delle azioni. Se tutti gli uomini conoscessero queste cose, nessuno, neppure per poco tempo, sceglierebbe ciò che è male, sapendo di andare alla pena eterna nel fuoco»[5]. Pochi anni dopo Atenagora loda gli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero ed osserva che per la loro saggezza l’Impero gode di una pace profonda; egli li dice pacificatori delle terre abitate, ma in pari tempo chiede che non perseguitino i cristiani, ma li includano nel quadro del loro governo[6]. Melitone di Sardi, rivolgendosi ancora a Marco Aurelio intorno al 170, nota che la ‘filosofia’ cristiana, avendo cominciato a diffondersi in mezzo ai popoli sotto il regno di Augusto, era nata e si era sviluppata con l’Impero[7]: un’affermazione notevole perché mette in luce la coincidenza temporale tra il regnare della Pax Augusta e la contemporanea diffusione del messaggio di Cristo[8]. Del resto già prima di lui altri apologeti avevano evitato di marcare una frattura tra la tradizione pagana e l’annuncio cristiano; il fatto stesso che Melitone e Giustino assumano il termine ‘filosofia’ per indicare la religione da loro professata è un segno di un tale atteggiamento. Verso la fine del II secolo Ireneo, vescovo di Lione, scrive che grazie ai Romani il mondo gode della pace e non manca di mettere in evidenza che per questo, senza timore, ci si sposta e si naviga dovunque si voglia, lui originario dell’Asia Minore che diviene vescovo di una città della Gallia meridionale[9]. Origene, entro il quadro di un discorso più complesso e sfumato, riprende e rende più esplicita quell’idea: egli confronta la pace di Cristo con la pace recata al mondo da Roma e afferma che questa è diventata la condizione necessaria perché il Vangelo possa essere annunciato a tutte le genti[10].
Non stupisce dunque di riscontrare nei medesimi autori menzionati dichiarazioni di lealismo e di ubbidienza alle leggi. Fin dalla fine del I secolo Clemente di Roma prega perché il Signore doni salute, pace, stabilità a chi governa perché sia in grado di esercitare in modo irreprensibile l’ufficio datogli dal Signore stesso. E come Clemente, altri da Teofilo di Antiochia a Tertulliano, ad Origene, raccomandano di pregare per l’imperatore, purché questi, come si vedrà più oltre, non pretenda il culto e l’adorazione. D’altronde già l’apostolo Paolo aveva aperto la strada, raccomandando perché fossero fatte simili preghiere[11].

3.3. – Il servizio nell’esercito
Riconoscere la funzione pacificatrice svolta dall’Impero comportava la necessità di servire nei ranghi di quel medesimo Impero, anche come soldati. Ma l’essere soldato esigeva anche l’eventualità di combattere e di uccidere il nemico contro cui si combatteva. Taluni critici moderni hanno sottolineato l’incoerenza di una tale posizione denunciata d’altronde dai pagani: si è detto che i cristiani avrebbero voluto godere dei benefici derivanti dall’ordinamento politico senza d’altra parte contribuire al suo mantenimento[12]. Negli ultimi decenni gli studi hanno meglio precisato i molti problemi connessi a questo aspetto che si rivela complesso. Intanto si deve osservare che i cristiani, secondo una documentazione fondata erano certamente presenti nell’esercito romano nelle ultime decadi del II secolo. Tertulliano[13] nel 197-198 menziona una lettera di Marco Aurelio nella quale si attesta che la grande sete, pericolosamente sofferta dall’esercito romano in Germania[14], fu placata dalle preghiere di soldati cristiani. Questa almeno è la versione di Tertulliano, che non ha visto la lettera dell’imperatore, (egli però afferma che tale lettera la si può cercare negli archivi del Senato a cui sarebbe stata indirizzata); si sa che il fatto è riferito anche da altre fonti cristiane e pagane[15] (le quali ultime danno il merito del prodigio alle divinità pagane). Anche alcune iscrizioni risalenti agli stessi anni (180-190) confermano la presenza di cristiani tra i soldati dell’esercito romano.
Certamente la questione del servire nell’esercito doveva porre problemi non facilmente risolvibili tanto che, per quanto possiamo saperne, si vennero a delineare sia a livello del pensiero sia a quello della prassi molteplici posizioni che non sembrano avere avuto dimensioni omogenee, essendo legate – in epoca precostantiniana – ad aree geografiche ed a Chiese determinate. Intanto occorre osservare che si proponevano casi diversi: il primo era quello di chi, già inquadrato nella vita militare, si convertiva; il secondo era quello di chi appartenente alla comunità ecclesiale, intraprendeva la carriera militare; il terzo di chi obbligatoriamente era arruolato. Le difficoltà gravi che per un cristiano si ponevano erano da una parte la necessità di combattere e quindi essere messo nella condizione di uccidere; dall’altra, nel quadro della vita militare, di dovere prestare atti idolatrici. Ma non è il caso di seguire le vicende dei singoli, quelle almeno delle quali si siano conservate le testimonianze. È un fatto che certi ambienti dell’Africa settentrionale tengono verso la violenza una linea rigorosamente negativa. Ne sono testimoni Tertulliano e più ancora, Arnobio e Lattanzio, i quali a più riprese esprimono idee intransigenti contro il servizio militare, la violenza e la guerra[16], forse sotto la spinta di influssi montanistici[17]. Ed è pure un fatto che ogni atto idolatrico connesso alla vita militare – come a quella politica e civile – è condannato. Già si vedeva come le comunità cristiane non abbiano avuto difficoltà a pregare anche pubblicamente per gli imperatori perché questi avessero vita lunga, eserciti forti, un senato fedele, un popolo onesto, un mondo in pace[18]. Mentre netto è il loro rifiuto per ogni pretesa sacralizzante dei ‘Cesari’ e per ogni atto di culto verso le divinità pubbliche. «Certamente – scrive un autore già ricordato, Tertulliano[19] – riconoscerò all’imperatore il titolo di ‘signore’ (dominus) (…); se però non mi si costringa a chiamarlo così al posto di Dio. Per il resto io sono libero di fronte all’imperatore: infatti il mio Signore è uno solo, Dio onnipotente ed eterno, che è il medesimo Dio dell’imperatore».

4. – La pace costantiniana
4.1. – L’interpretazione di Eusebio di Cesarea
La svolta costantiniana, preceduta e preparata dall’editto di Galerio, non si può dire, a mio avviso, che abbia mutato la posizione dei cristiani rispetto allo ‘stato’ ed alla questione della pace[20]. Certamente ha fatto cadere quella parte della polemica fino allora sostenuta contro l’idolatria, mentre ha permesso di sviluppare grandemente la linea positiva, presente fin dalla metà del I secolo d.C. La giustificazione ideologica e teologica della nuova situazione storica la fornisce Eusebio di Cesarea, nell’interpretazione che egli dà appunto dell’Impero romano e della figura di Costantino.
Come abbiamo visto, fino dal II-III secolo molti cristiani avevano rilevato che il diffondersi del cristianesimo era dovuto anche al diffondersi tra i popoli di quella concordia che l’Impero di Roma aveva saputo instaurare e mantenere per lungo tempo. Ora dopo che l’imperatore ha dato a loro libertà di esistere, Eusebio allarga enormemente la prospettiva, portandola su un piano di teologia politica. Il vescovo di Cesarea asserisce che nel tempo stesso in cui Cristo insegnava che c’è la ‘monarchia’ di un solo Dio, il genere umano era liberato dall’azione dei demoni e dalla molteplicità dei governi nazionali. Secondo le sue parole, «la divisione del potere presso i Romani era scomparsa di fatto quando Augusto aveva stabilito una monarchia, nel momento stesso dell’apparizione del (…) Salvatore. Da allora fino ai giorni nostri non si sono più viste più città in guerra con città e popoli in lotta con popoli (…). Con la predicazione (…) del Salvatore si è attuata la distruzione dell’errore politeista e i dissidi tra le nazioni, con i loro antichi flagelli, sono cessati»[21].
È stato osservato[22] che lo scrittore antico non stabilisce solo un rapporto tra Impero romano e pace, ma tra Impero romano, pace e cristianesimo e che la pax romana in questo quadro assume un significato religioso più che un significato politico, è una missione divina della pace.
Altrettanto interessante è la connessione tra monoteismo e monarchia e tra politeismo e poliarchia, posto che la pace è segno e effetto della monarchia, la guerra e la divisione segno e effetto della poliarchia, un’idea che già aveva trovato qualche espressione in precedenti scrittori cristiani.

4.2. – Il rapporto Impero-Chiesa
Ciò che muta interamente è la posizione dell’Impero, o meglio, dell’imperatore verso la Chiesa. Le prime decadi del IV secolo rappresentano un momento epocale del costituirsi della civiltà cristiana. Per Costantino Impero e Chiesa si fanno come coincidenti e coestesi. Egli ritiene l’unità delle Chiese nella fede universale e la loro unità un’esigenza di ordine pubblico cui l’imperatore provvede indicendo concilii e intervenendo con la legislazione per condannare chi attenta a quell’unità a tutela dell’ortodossia. Non a caso egli dà a se stesso il titolo di episkopos tôn ektos, ossia ‘vescovo di coloro che sono fuori’ (della Chiesa). Appare dunque la ragion di stato nell’intreccio tra potere imperiale e cristianesimo. La metafora del Regno di Dio che nella predicazione di Gesù non ha alcuna implicazione politica diviene una metafora politica attiva. L’attesa escatologica delle prime generazioni cristiane è ormai lontana[23]. Il «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio», vale a dire la distinzione – più che la separazione – indicata da Gesù tra due sfere diverse (ma complementari) rimane offuscata, se non cancellata.
E qui concludo questa mia breve panoramica che ha voluto proporre qualche testo e indicare qualche riflessione sul modo con cui i primi cristiani hanno guardato al rapporto tra l’Impero romano e la pace e fino a Costantino e al modo ‘rivoluzionario’ con cui questi (assecondato certo dall’interpretazione eusebiana), ha impostato il suo rapporto con la Chiesa cristiana. Sono le prime fasi di una storia che attraverso i tempi, fino ad oggi, ha visto il proporsi di differenti concezioni e di molteplici sviluppi che hanno segnato da vicino il processo costitutivo della nostra civiltà.

 

PAOLO SINISCALCO
Università di Roma “La Sapienza”

IMPERO E PACE NEL PENSIERO DEI CRISTIANI DEI PRIMI SECOLI

SOMMARIO: 1. La pace per i cristiani. – 2. La linea negativa. – 2.1. Il Tardo Giudaismo. – 2.2. L’Apocalisse canonica. – 2.3. Le espressioni della più antica letteratura. – 3. La linea positiva. – 3.1. I Vangeli, gli Atti degli Apostoli, Paolo. – 3.2. Gli scrittori del II secolo. – 3.3. Il servizio nell’esercito. – 4. La pace costantiniana. – 4.1. L’interpretazione di Eusebio di Cesarea. – 4.2. Il rapporto Impero-Chiesa.

1. – La pace per i cristiani
La pace per i primi cristiani è intesa prevalentemente non in senso giuridico-politico, ma in senso spirituale, ha una dimensione di interiorità, scaturisce dal cuore dell’uomo riconciliato con Dio, è dono di Dio e presuppone la certezza di essere stati redenti e salvati da Cristo che ha adempiuto le rivelazioni di pace espresse dai profeti nell’Antico Testamento. Dalla pace interiore nasce la pace esteriore che bisogna innanzitutto regni nella Chiesa, comunità dei credenti; una tale pace, occorre dire, spesso tradita e non sufficientemente ricercata e realizzata nel corso del tempo, consente e promuove l’unità di culto e di fede. Ma la pace per i cristiani è anche quella che si spera di godere dopo la morte e nel regno eterno di Dio (o già prima, nel regno messianico, per i Millenaristi)[1].
Nondimeno per i cristiani dei primi secoli, nel vasto campo semantico ricoperto dal termine, è inclusa anche e necessariamente la pace e la concordia entro il corpo della civitas.
Proprio a questo ambito ci si vuole rivolgere in questa occasione, precisamente per interrogarsi sul modo con cui essi guardano all’Impero romano in rapporto alla pace.

2. – La linea negativa
2.1. – Il Tardo Giudaismo
Per iniziare è utile, se non necessario, considerare la storia e la letteratura (con particolare riferimento al genere profetico e apocalittico) del Tardo Giudaismo. In questo ambito si manifesta una linea negativa verso Roma e il suo Impero
Fin dal I secolo a.C. Israele si accorge che l’Impero romano, con l’esercizio del suo potere, sta minacciando da vicino la religione giudaica. Accanto ad atti di insubordinazione e di ribellione cominciano a diffondersi scritti significativi. Nel 63 a.C. l’invasione della Palestina compiuta dai romani sotto la guida di Pompeo si conclude con l’occupazione di Gerusalemme e la profanazione del Tempio. L’episodio lascia una traccia profonda nell’animo dei giudei. Da quel momento l’impero occidentale è tenuto alla stregua di una potenza antagonista. Si fanno eco di questa idea i Salmi di Salomone, composti intorno alla metà del I secolo a.C., riprendendo un motivo della tradizione profetica: i prìncipi pagani sono destinati a subire una punizione divina, giacché nel tempo opportuno verrà un discendente di David che li sconfiggerà, giudicherà tutti i popoli nella saggezza della sua giustizia e instaurerà un regno messianico ed eterno (cf. Ps 17.26 ss.). È il primo passo, legato a circostanze storiche precise, che prepara e giustifica gli sviluppi successivi dell’apocalittica giudaica.
Si pensi all’Apocalisse siriaca di Baruch, composta dopo il 70 d.C., centrata sugli avvenimenti relativi alla presa di Gerusalemme da parte dell’esercito romano, in cui appare l’immagine dei quattro regni, a cui già Daniele era ricorso, per sottolineare che il quarto regno è il più duro e spietato, destinato ad avere una lunga egemonia fino alla fine del tempo e quindi alla venuta del Messia liberatore. Il nome del quarto regno è taciuto, ma non si è lontani dal vero se lo si identifica con l’Impero dei romani.
Analoga visione è manifestata nel IV libro di Esdra, altro scritto apocalittico giudaico composto verso la fine del I secolo d.C. L’immagine dei quattro regni ricorre del resto non solo nell’apocalittica, ma anche nella letteratura rabbinica[2], ove l’avversario è più specificamente individuato in una potenza insediata in Palestina.
Si possono menzionare ancora gli Oracoli sibillini nei quali il tema della caduta di Roma ha un posto privilegiato. Essi hanno origine per la gran parte nel I-II secolo d.C. e raccolgono materiali pagani, giudaici e cristiani di natura storica, politica e religiosa. Essi fanno di nuovo presente lo schema dei quattro imperi e, parlando del quarto, mettono in evidenza sia le cause che gli effetti della sua rovina[3]. La fine di Roma è dunque data per certa per il prevalere delle leggi che regolano la storia e per l’intervento stesso di Dio la cui azione, a tempo opportuno, vince i nemici dei giusti e realizza per questi ultimi il regno di eterna beatitudine.
Non sfugga d’altra parte il costituirsi nel I secolo d.C. nell’ambito del giudaismo palestinese di gruppi religiosi radicali, specialmente di galilei che danno vita a un movimento di resistenza contro Roma (cf. Atti degli apostoli 21.38; 5.36-37): animati da una concezione messianica dalle tinte politiche, si propongono la liberazione dal dominio romano, anche ricorrendo alla violenza armata sono i Sicari (per i quali rimane aperto il problema di sapere se debbano essere identificati con gli zeloti).

2.2. – L’Apocalisse canonica
Fin qui si è parlato dell’Impero percepito negativamente da una parte delle società e della letteratura giudaica tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., e non si è parlato della pace. Ma il breve excursus ora fatto serve a meglio inquadrare le posizioni dei cristiani a riguardo dei nostri temi. Si delineano infatti nell’ambito delle comunità dei fedeli a Cristo due linee divergenti. La prima prosegue in certo modo le tracce ora messe in luce. In proposito è qui necessario fare un cenno all’Apocalisse di Giovanni, non senza notare subito che le figure e le immagini proposte da questo scritto sono state fin dall’antichità interpretate in modo molteplice e vario. È un fatto però che la maggior parte dei commentatori dall’antichità ad oggi hanno visto nella quarta bestia che sale dal mare (cf. Apoc. 13.1 ss.) l’Impero romano; ancora meglio, secondo alcuni studiosi, essa si riferirebbe alla struttura politica, militare e amministrativa dell’Impero, mentre la bestia che sale dalla terra (cf. Apoc. 13.11, ma vd. pure Dan. 7.1 ss.) si riferirebbe all’organizzazione del culto imperiale che avrebbe avuto nell’Asia Minore uno dei centri di più intensa espansione. Ma non tutti i commentatori sono d’accordo con le interpretazioni dei particolari. Un’altra figura è stata da numerosi commentatori assimilata al potere imperiale romano e alla città di Roma, quella della prostituta che siede sopra una fiera scarlatta (cf. Apoc. 17.1 ss.). Giovanni avrebbe atteso in tempi brevi il crollo della potenza occidentale che avrebbe coinciso con la fine del mondo. All’Urbs ha fatto pensare anche la donna ubriaca del sangue dei santi e del sangue di quelli che sono morti per la fede in Gesù (cf. Apoc. 17.6) in cui parecchi critici hanno scorto il riferimento alle persecuzioni di Nerone e di Domiziano contro i cristiani. E si potrebbe continuare. I versetti 17.9-10 («Le sette teste sono i sette colli (o i sette monti) sui quali la donna è seduta. Sono anche sette re») sono stati considerati come allusione alla città di Roma. Pertanto cui si può dire che secondo l’opinione di interpreti antichi e moderni generalmente Giovanni è stato visto come rappresentante di una posizione critica e negativa verso Roma.

2.3. – Le espressioni della più antica letteratura
I segni così incisivamente tracciati dall’apocalittica di ritrovano, a cominciare dal II secolo d.C., nella letteratura cristiana. Nell’Epistola dello Pseudo-Barnaba (4.1 ss.) la citazione delle parole del profeta Daniele sulla quarta bestia che sale dal mare manifesta l’intenzione di richiamare la figura e l’opera negativa di imperatori romani del I secolo o dell’inizio del II. Interpretazioni che sono riprese da Ippolito nel Commento a Daniele ove si giunge a indicare la data esatta in cui avrà fine la potenza romana, assimilata ancora e sempre alla quarta bestia di cui parla il profeta: 500 anni dopo la nascita di Cristo. Alla fine del III secolo Vittorino di Poetovium nel Commento all’Apocalisse senza incertezze individua nella città di Roma la figura della donna dell’Apocalisse (cf. 17.9) e spiega il senso delle parole che seguono (cf. Apoc. 17.10 ss.): i cinque imperatori romani ormai caduti sono Tito, Vespasiano, Ottone, Vitellio e Galba; il sesto, che detiene il potere nel periodo in cui è composto l’ultimo libro neotestamentario, è Domiziano; il settimo ,infine, del quale si dice che durerà per breve tempo (come in realtà avviene, non prolungandosi la sua egemonia oltre un biennio), è Nerva. Nelle prime decadi del IV secolo Lattanzio nelle Divinae Institutiones torna a insistere sul motivo della fine dell’Impero romano in un quadro tracciato a linee cupe.
Così prende forma la tradizione negativa su Roma che ha la propria origine diretta o indiretta nella tradizione profetica e apocalittica tardo-giudaica e cristiana.

3. – La linea positiva
3.1. – I Vangeli, gli Atti degli Apostoli, Paolo
Accanto a questa si fa luce un’altra linea destinata a prevalere. Occorre intanto osservare che nei Vangeli canonici non si manifestano atteggiamenti contro l’Impero romano. Stando al Vangelo di Luca (cf. 3.14), quando a Giovanni Battista si rivolgono alcuni agenti delle tasse per chiedere che cosa debbano fare, egli risponde che non devono prendere niente più di quanto è stabilito dalla legge e ad alcuni soldati che chiedono la medesima cosa egli dice di non impossessarsi di beni altrui con la violenza o con false accuse, ma di accontentarsi delle loro paghe. E si sa che pubblicani e militari – evidentemente romani – erano categorie mal giudicate dai giudei del tempo. Anche Gesù non condanna mai il servizio nell’esercito. Dai Vangeli siamo a conoscenza di due episodi significativi in proposito: quello del centurione che in Cafarnao chiede l’aiuto del Signore per il suo servo paralizzato (cf. Matteo 8.5 ss.; vd. pure Luca 7.2 ss.) e quello del centurione che ai piedi della croce fa la guardia a Gesù morente (cf. Matteo 27.54; Marco 15.39; Luca 23.47. Proprio questi due centurioni rendono palese il “segreto messianico” di Gesù, il mistero della sua persona e lo annunciano al mondo pagano: «Signore, io non sono degno che tu entri a casa mia, (…), ma di’ anche solo una parola e il mio servo certamente guarirà» (Luca 7.6 s.), esclama l‘ufficiale romano di Cafarnao; e l’ufficiale sul Golgota, accortosi del terremoto e di tutto quanto accadeva, pieno di spavento dice: «Quest’uomo era veramente il Figlio di Dio» ( Matteo 27.54).
Gli Atti degli Apostoli (cf. 10.1 ss.) a loro volta riferiscono di Cornelio, centurione della coorte Italica, “uomo pio e timorato di Dio con tutta la sua famiglia”, il quale un giorno vede apparirgli un angelo che gli dice essere state esaudite le sue preghiere e gli suggerisce di mandare uomini a Giaffa per fare venire presso di lui Simone Pietro. Cornelio ubbidisce. Pietro viene, non prima di avere avuto pure lui una visione; annuncia al centurione e ai suoi la ”buona novella della pace”, assiste alla discesa dello Spirito santo su tutti coloro che avevano ascoltato il suo discorso, circoncisi o pagani che fossero, ed ordina che tutti siano battezzati nel nome di Gesù. Dunque, nell’ottica di Luca, che scrive gli Atti, di nuovo un ufficiale romano segna un momento decisivo della storia della salvezza. L’apertura della missione al mondo dei pagani e quindi l’entrata dei non giudei nel nuovo popolo che si stava componendo: si tratta della “pentecoste dei pagani”, come è stata definita[4].
Una chiara affermazione di lealismo dei cristiani nei confronti delle autorità costituite si trova poi in una delle lettere sicuramente autentiche di Paolo, la lettera ai Romani, scritta probabilmente da Corinto nel 54 o nel 56-57, che risulta perciò essere uno dei più antichi documenti della letteratura cristiana. Scrive l’apostolo: «Ognuno sia sottomesso a chi ha ricevuto autorità, perché non c’è autorità che non venga da Dio (…). Fa’ il bene e le autorità ti loderanno, perché sono al servizio di Dio per il tuo bene (…). Ecco bisogna stare sottomessi all’autorità, non soltanto per paura delle punizioni, ma anche per una ragione di coscienza. È la stessa ragione per cui pagate le tasse: difatti mentre assolvono il loro incarico sono al servizio di Dio. Date a ciascuno ciò che gli è dovuto: l’imposta, le tasse, il timore, il rispetto, a ciascuno quel che gli dovete dare» (Rom. 13.1 ss.).
L’attitudine positiva espressa ripetutamente e con chiarezza verso le autorità politiche civili in scritti dapprima altamente considerati e poi, con il formarsi del primo canone scritturale, ritenuti pieni di autorevolezza, anzi di autorità, perché ispirati da Dio, ha indotto le comunità cristiane a mutare quella posizione presente, in una parte dei suoi membri, di insubordinazione o almeno di contestazione e di insofferenza verso quello che impropriamente oggi diremmo lo ‘stato’ romano.

3.2. – Gli scrittori del II secolo
Gli scrittori cristiani nel II secolo, coloro che di consueto sono denominati Apologeti, quando si accingono a rappresentare le idee e le norme morali scaturite dall’euaggelion di fronte al mondo pagano, avvertono che l’Impero romano, con la sua organizzazione civile e politica facilita la diffusione del cristianesimo; essa infatti ha realizzato l’unità dell’oikoumene e vi ha fatto regnare la pace.
Così intorno al 150 Giustino, indirizzando la sua Apologia a Antonino Pio (138-161), Marco Aurelio (161-180) e Lucio Vero (161-169) dopo essersi difeso dalle accuse rivolte ai fedeli di Cristo da parte della società pagana, aggiunge: «Siamo vostri collaboratori e alleati per la pace più di tutti gli altri uomini (…). Riteniamo che ciascuno si incammini verso la condanna eterna oppure verso la salvezza per il merito delle azioni. Se tutti gli uomini conoscessero queste cose, nessuno, neppure per poco tempo, sceglierebbe ciò che è male, sapendo di andare alla pena eterna nel fuoco»[5]. Pochi anni dopo Atenagora loda gli imperatori Marco Aurelio e Lucio Vero ed osserva che per la loro saggezza l’Impero gode di una pace profonda; egli li dice pacificatori delle terre abitate, ma in pari tempo chiede che non perseguitino i cristiani, ma li includano nel quadro del loro governo[6]. Melitone di Sardi, rivolgendosi ancora a Marco Aurelio intorno al 170, nota che la ‘filosofia’ cristiana, avendo cominciato a diffondersi in mezzo ai popoli sotto il regno di Augusto, era nata e si era sviluppata con l’Impero[7]: un’affermazione notevole perché mette in luce la coincidenza temporale tra il regnare della Pax Augusta e la contemporanea diffusione del messaggio di Cristo[8]. Del resto già prima di lui altri apologeti avevano evitato di marcare una frattura tra la tradizione pagana e l’annuncio cristiano; il fatto stesso che Melitone e Giustino assumano il termine ‘filosofia’ per indicare la religione da loro professata è un segno di un tale atteggiamento. Verso la fine del II secolo Ireneo, vescovo di Lione, scrive che grazie ai Romani il mondo gode della pace e non manca di mettere in evidenza che per questo, senza timore, ci si sposta e si naviga dovunque si voglia, lui originario dell’Asia Minore che diviene vescovo di una città della Gallia meridionale[9]. Origene, entro il quadro di un discorso più complesso e sfumato, riprende e rende più esplicita quell’idea: egli confronta la pace di Cristo con la pace recata al mondo da Roma e afferma che questa è diventata la condizione necessaria perché il Vangelo possa essere annunciato a tutte le genti[10].
Non stupisce dunque di riscontrare nei medesimi autori menzionati dichiarazioni di lealismo e di ubbidienza alle leggi. Fin dalla fine del I secolo Clemente di Roma prega perché il Signore doni salute, pace, stabilità a chi governa perché sia in grado di esercitare in modo irreprensibile l’ufficio datogli dal Signore stesso. E come Clemente, altri da Teofilo di Antiochia a Tertulliano, ad Origene, raccomandano di pregare per l’imperatore, purché questi, come si vedrà più oltre, non pretenda il culto e l’adorazione. D’altronde già l’apostolo Paolo aveva aperto la strada, raccomandando perché fossero fatte simili preghiere[11].

3.3. – Il servizio nell’esercito
Riconoscere la funzione pacificatrice svolta dall’Impero comportava la necessità di servire nei ranghi di quel medesimo Impero, anche come soldati. Ma l’essere soldato esigeva anche l’eventualità di combattere e di uccidere il nemico contro cui si combatteva. Taluni critici moderni hanno sottolineato l’incoerenza di una tale posizione denunciata d’altronde dai pagani: si è detto che i cristiani avrebbero voluto godere dei benefici derivanti dall’ordinamento politico senza d’altra parte contribuire al suo mantenimento[12]. Negli ultimi decenni gli studi hanno meglio precisato i molti problemi connessi a questo aspetto che si rivela complesso. Intanto si deve osservare che i cristiani, secondo una documentazione fondata erano certamente presenti nell’esercito romano nelle ultime decadi del II secolo. Tertulliano[13] nel 197-198 menziona una lettera di Marco Aurelio nella quale si attesta che la grande sete, pericolosamente sofferta dall’esercito romano in Germania[14], fu placata dalle preghiere di soldati cristiani. Questa almeno è la versione di Tertulliano, che non ha visto la lettera dell’imperatore, (egli però afferma che tale lettera la si può cercare negli archivi del Senato a cui sarebbe stata indirizzata); si sa che il fatto è riferito anche da altre fonti cristiane e pagane[15] (le quali ultime danno il merito del prodigio alle divinità pagane). Anche alcune iscrizioni risalenti agli stessi anni (180-190) confermano la presenza di cristiani tra i soldati dell’esercito romano.
Certamente la questione del servire nell’esercito doveva porre problemi non facilmente risolvibili tanto che, per quanto possiamo saperne, si vennero a delineare sia a livello del pensiero sia a quello della prassi molteplici posizioni che non sembrano avere avuto dimensioni omogenee, essendo legate – in epoca precostantiniana – ad aree geografiche ed a Chiese determinate. Intanto occorre osservare che si proponevano casi diversi: il primo era quello di chi, già inquadrato nella vita militare, si convertiva; il secondo era quello di chi appartenente alla comunità ecclesiale, intraprendeva la carriera militare; il terzo di chi obbligatoriamente era arruolato. Le difficoltà gravi che per un cristiano si ponevano erano da una parte la necessità di combattere e quindi essere messo nella condizione di uccidere; dall’altra, nel quadro della vita militare, di dovere prestare atti idolatrici. Ma non è il caso di seguire le vicende dei singoli, quelle almeno delle quali si siano conservate le testimonianze. È un fatto che certi ambienti dell’Africa settentrionale tengono verso la violenza una linea rigorosamente negativa. Ne sono testimoni Tertulliano e più ancora, Arnobio e Lattanzio, i quali a più riprese esprimono idee intransigenti contro il servizio militare, la violenza e la guerra[16], forse sotto la spinta di influssi montanistici[17]. Ed è pure un fatto che ogni atto idolatrico connesso alla vita militare – come a quella politica e civile – è condannato. Già si vedeva come le comunità cristiane non abbiano avuto difficoltà a pregare anche pubblicamente per gli imperatori perché questi avessero vita lunga, eserciti forti, un senato fedele, un popolo onesto, un mondo in pace[18]. Mentre netto è il loro rifiuto per ogni pretesa sacralizzante dei ‘Cesari’ e per ogni atto di culto verso le divinità pubbliche. «Certamente – scrive un autore già ricordato, Tertulliano[19] – riconoscerò all’imperatore il titolo di ‘signore’ (dominus) (…); se però non mi si costringa a chiamarlo così al posto di Dio. Per il resto io sono libero di fronte all’imperatore: infatti il mio Signore è uno solo, Dio onnipotente ed eterno, che è il medesimo Dio dell’imperatore».

4. – La pace costantiniana
4.1. – L’interpretazione di Eusebio di Cesarea
La svolta costantiniana, preceduta e preparata dall’editto di Galerio, non si può dire, a mio avviso, che abbia mutato la posizione dei cristiani rispetto allo ‘stato’ ed alla questione della pace[20]. Certamente ha fatto cadere quella parte della polemica fino allora sostenuta contro l’idolatria, mentre ha permesso di sviluppare grandemente la linea positiva, presente fin dalla metà del I secolo d.C. La giustificazione ideologica e teologica della nuova situazione storica la fornisce Eusebio di Cesarea, nell’interpretazione che egli dà appunto dell’Impero romano e della figura di Costantino.
Come abbiamo visto, fino dal II-III secolo molti cristiani avevano rilevato che il diffondersi del cristianesimo era dovuto anche al diffondersi tra i popoli di quella concordia che l’Impero di Roma aveva saputo instaurare e mantenere per lungo tempo. Ora dopo che l’imperatore ha dato a loro libertà di esistere, Eusebio allarga enormemente la prospettiva, portandola su un piano di teologia politica. Il vescovo di Cesarea asserisce che nel tempo stesso in cui Cristo insegnava che c’è la ‘monarchia’ di un solo Dio, il genere umano era liberato dall’azione dei demoni e dalla molteplicità dei governi nazionali. Secondo le sue parole, «la divisione del potere presso i Romani era scomparsa di fatto quando Augusto aveva stabilito una monarchia, nel momento stesso dell’apparizione del (…) Salvatore. Da allora fino ai giorni nostri non si sono più viste più città in guerra con città e popoli in lotta con popoli (…). Con la predicazione (…) del Salvatore si è attuata la distruzione dell’errore politeista e i dissidi tra le nazioni, con i loro antichi flagelli, sono cessati»[21].
È stato osservato[22] che lo scrittore antico non stabilisce solo un rapporto tra Impero romano e pace, ma tra Impero romano, pace e cristianesimo e che la pax romana in questo quadro assume un significato religioso più che un significato politico, è una missione divina della pace.
Altrettanto interessante è la connessione tra monoteismo e monarchia e tra politeismo e poliarchia, posto che la pace è segno e effetto della monarchia, la guerra e la divisione segno e effetto della poliarchia, un’idea che già aveva trovato qualche espressione in precedenti scrittori cristiani.

4.2. – Il rapporto Impero-Chiesa
Ciò che muta interamente è la posizione dell’Impero, o meglio, dell’imperatore verso la Chiesa. Le prime decadi del IV secolo rappresentano un momento epocale del costituirsi della civiltà cristiana. Per Costantino Impero e Chiesa si fanno come coincidenti e coestesi. Egli ritiene l’unità delle Chiese nella fede universale e la loro unità un’esigenza di ordine pubblico cui l’imperatore provvede indicendo concilii e intervenendo con la legislazione per condannare chi attenta a quell’unità a tutela dell’ortodossia. Non a caso egli dà a se stesso il titolo di episkopos tôn ektos, ossia ‘vescovo di coloro che sono fuori’ (della Chiesa). Appare dunque la ragion di stato nell’intreccio tra potere imperiale e cristianesimo. La metafora del Regno di Dio che nella predicazione di Gesù non ha alcuna implicazione politica diviene una metafora politica attiva. L’attesa escatologica delle prime generazioni cristiane è ormai lontana[23]. Il «Date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio», vale a dire la distinzione – più che la separazione – indicata da Gesù tra due sfere diverse (ma complementari) rimane offuscata, se non cancellata.
E qui concludo questa mia breve panoramica che ha voluto proporre qualche testo e indicare qualche riflessione sul modo con cui i primi cristiani hanno guardato al rapporto tra l’Impero romano e la pace e fino a Costantino e al modo ‘rivoluzionario’ con cui questi (assecondato certo dall’interpretazione eusebiana), ha impostato il suo rapporto con la Chiesa cristiana. Sono le prime fasi di una storia che attraverso i tempi, fino ad oggi, ha visto il proporsi di differenti concezioni e di molteplici sviluppi che hanno segnato da vicino il processo costitutivo della nostra civiltà.

MERCOLEDÌ DELLE CENERI – STORIA

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MERCOLEDÌ DELLE CENERI

5 MARZO (CELEBRAZIONE MOBILE)

Il mercoledì delle Ceneri, la cui liturgia è marcata storicamente dall’inizio della penitenza pubblica, che aveva luogo in questo giorno, e dall’intensificazione dell’istruzione dei catecumeni, che dovevano essere battezzati durante la Veglia pasquale, apre ora il tempo salutare della Quaresima.
Lo spirito comunitario di preghiera, di sincerità cristiana e di conversione al Signore, che proclamano i testi della Sacra Scrittura, si esprime simbolicamente nel rito della cenere sparsa sulle nostre teste, al quale noi ci sottomettiamo umilmente in risposta alla parola di Dio. Al di là del senso che queste usanze hanno avuto nella storia delle religioni, il cristiano le adotta in continuità con le pratiche espiatorie dell’Antico Testamento, come un “simbolo austero” del nostro cammino spirituale, lungo tutta la Quaresima, e per riconoscere che il nostro corpo, formato dalla polvere, ritornerà tale, come un sacrificio reso al Dio della vita in unione con la morte del suo Figlio Unigenito. È per questo che il mercoledì delle Ceneri, così come il resto della Quaresima, non ha senso di per sé, ma ci riporta all’evento della Risurrezione di Gesù, che noi celebriamo rinnovati interiormente e con la ferma speranza che i nostri corpi saranno trasformati come il suo.
Il rinnovamento pasquale è proclamato per tutta l’umanità dai credenti in Gesù Cristo, che, seguendo l’esempio del divino Maestro, praticano il digiuno dai beni e dalle seduzioni del mondo, che il Maligno ci presenta per farci cadere in tentazione. La riduzione del nutrimento del corpo è un segno eloquente della disponibilità del cristiano all’azione dello Spirito Santo e della nostra solidarietà con coloro che aspettano nella povertà la celebrazione dell’eterno e definitivo banchetto pasquale. Così dunque la rinuncia ad altri piaceri e soddisfazioni legittime completerà il quadro richiesto per il digiuno, trasformando questo periodo di grazia in un annuncio profetico di un nuovo mondo, riconciliato con il Signore.

Martirologio Romano: Giorno delle Ceneri e principio della santissima Quaresima: ecco i giorni della penitenza per la remissione dei peccati e la salvezza delle anime. Ecco il tempo adatto per la salita al monte santo della Pasqua.

Ascolta da RadioRai:

L’origine del Mercoledì delle ceneri è da ricercare nell’antica prassi penitenziale. Originariamente il sacramento della penitenza non era celebrato secondo le modalità attuali. Il liturgista Pelagio Visentin sottolinea che l’evoluzione della disciplina penitenziale è triplice: « da una celebrazione pubblica ad una celebrazione privata; da una riconciliazione con la Chiesa, concessa una sola volta, ad una celebrazione frequente del sacramento, intesa come aiuto-rimedio nella vita del penitente; da una espiazione, previa all’assoluzione, prolungata e rigorosa, ad una soddisfazione, successiva all’assoluzione ».
La celebrazione delle ceneri nasce a motivo della celebrazione pubblica della penitenza, costituiva infatti il rito che dava inizio al cammino di penitenza dei fedeli che sarebbero stati assolti dai loro peccati la mattina del giovedì santo. Nel tempo il gesto dell’imposizione delle ceneri si estende a tutti i fedeli e la riforma liturgica ha ritenuto opportuno conservare l’importanza di questo segno.

La teologia biblica rivela un duplice significato dell’uso delle ceneri.
1 – Anzitutto sono segno della debole e fragile condizione dell’uomo. Abramo rivolgendosi a Dio dice: « Vedi come ardisco parlare al mio Signore, io che sono polvere e cenere… » (Gen 18,27). Giobbe riconoscendo il limite profondo della propria esistenza, con senso di estrema prostrazione, afferma: « Mi ha gettato nel fango: son diventato polvere e cenere » (Gb 30,19). In tanti altri passi biblici può essere riscontrata questa dimensione precaria dell’uomo simboleggiata dalla cenere (Sap 2,3; Sir 10,9; Sir 17,27).
2 – Ma la cenere è anche il segno esterno di colui che si pente del proprio agire malvagio e decide di compiere un rinnovato cammino verso il Signore. Particolarmente noto è il testo biblico della conversione degli abitanti di Ninive a motivo della predicazione di Giona: « I cittadini di Ninive credettero a Dio e bandirono un digiuno, vestirono il sacco, dal più grande al più piccolo. Giunta la notizia fino al re di Ninive, egli si alzò dal trono, si tolse il manto, si coprì di sacco e si mise a sedere sulla cenere » (Gio 3,5-9). Anche Giuditta invita invita tutto il popolo a fare penitenza affinché Dio intervenga a liberarlo: « Ogni uomo o donna israelita e i fanciulli che abitavano in Gerusalemme si prostrarono davanti al tempio e cosparsero il capo di cenere e, vestiti di sacco, alzarono le mani davanti al Signore » (Gdt 4,11).
La semplice ma coinvolgente liturgia del mercoledì delle ceneri conserva questo duplice significato che è esplicitato nelle formule di imposizione: « Ricordati che sei polvere, e in polvere ritornerai » e « Convertitevi, e credete al Vangelo ». Adrien Nocent sottolinea che l’antica formula (Ricordati che sei polvere…) è strettamente legata al gesto di versare le ceneri, mentre la nuova formula (Convertitevi…) esprime meglio l’aspetto positivo della quaresima che con questa celebrazione ha il suo inizio. Lo stesso liturgista propone una soluzione rituale molto significativa: « Se la cosa non risultasse troppo lunga, si potrebbe unire insieme l’antica e la nuova formula che, congiuntamente, esprimerebbero certo al meglio il significato della celebrazione: « Ricordati che sei polvere e in polvere tornerai; dunque convertiti e credi al Vangelo ».
Il rito dell’imposizione delle ceneri, pur celebrato dopo l’omelia, sostituisce l’atto penitenziale della messa; inoltre può essere compiuto anche senza la messa attraverso questo schema celebrativo: canto di ingresso, colletta, letture proprie, omelia, imposizione delle ceneri, preghiera dei fedeli, benedizione solenne del tempo di quaresima, congedo.
Le ceneri possono essere imposte in tutte le celebrazioni eucaristiche del mercoledì ma sarà opportuno indicare una celebrazione comunitaria « privilegiata » nella quale sia posta ancor più in evidenza la dimensione ecclesiale del cammino di conversione che si sta iniziando.

Autore: Enrico Beraudo

IL MONDO GRECO E ROMANO

http://www.filosofico.net/preghierafilosofia4.htm

IL MONDO GRECO E ROMANO

Come si comportavano i Greci e i Romani di fronte alla preghiera? I documenti mitologici in merito sono sterminati: limitati sono, invece, quelli specificamente dedicati alle preghiere in quanto tali, a segnalare come il fenomeno della preghiera, presso i Greci e poi presso i Romani, era meno centrale che per i Giudei. Anche nel mondo greco e poi in quello romano, non meno che in quello giudeo, la preghiera e il sacrificio vengono intesi come strettamente connessi tra loro: in particolare, la preghiera specifica le intenzioni per cui si compie il sacrificio e, in forza di ciò, è secondaria rispetto ad esso.
I Greci elaborarono una nutrita serie di preghiere, sia pubbliche sia private, oltre che una ricca innologia. Le preghiere private dei Greci presentano un’ambiguità ineliminabile: esse, infatti, paiono sempre al confine con la magia, in un equilibrio instabile che tende spesso a capovolgersi in favore del magismo. Una precisa analisi della preghiera è prospettata nell’Iliade (IX, 456-512):

ché i numi stessi, sì di noi più grandi
d’onor, di forza, di virtù, son miti;
e con vittime e voti e libamenti
e odorosi olocausti il supplicante
mortal li placa nell’error caduto.
Perocché del gran Giove alme figliuole
son le Preghiere che dal pianto fatte
rugose e losche con incerto passo
van dietro ad Ate ad emendarla intese.
Vigorosa di piè questa nocente
forte Dea le precorre, e discorrendo
la terra tutta l’uman germe offende.
Esse van dopo, e degli offesi han cura.
Chi dispettoso queste Dee riceve,
ne va colmo di beni ed esaudito;
chi pertinace le respinge indietro,
ne spermenta lo sdegno. Esse del padre
si presentano al trono, e gli fan prego
ch’Ate ratta inseguisca, e al fio suggetti
l’inesorato che al pregar fu sordo.
Trovin dunque di Giove oggi le figlie
appo te quell’onor ch’anco de’ forti
piega le menti.

Dal passo, si evince come la funzione delle preghiere, che sono “figlie” di Zeus, sia di porre riparo alle colpe umane. È un prezioso documento sulla preghiera greca. Nel I libro dell’Iliade (33-47), invece, è riportato il testo di una preghiera rivolta ad Apollo:

Dio dall’arco d’argento, o tu che Crisa
proteggi e l’alma Cilla, e sei di Tènedo
possente imperador, Smintèo, deh m’odi.
Se di serti devoti unqua il leggiadro
tuo delubro adornai, se di giovenchi
e di caprette io t’arsi i fianchi opimi,
questo voto m’adempi; il pianto mio
paghino i Greci per le tue saette.
Sì disse orando. L’udì Febo, e scese
dalle cime d’Olimpo in gran disdegno
coll’arco su le spalle, e la faretra
tutta chiusa. Mettean le frecce orrendo
su gli omeri all’irato un tintinnìo
al mutar de’ gran passi; ed ei simìle
a fosca notte giù venìa.

Si tratta di una richiesta di vendetta rivolta ad Apollo affinché punisca i Greci per la tremenda colpa di cui si sono macchiati. La preghiera si apre con l’invocazione del dio, di cui poi si tessono le lodi e si enumerano le illustre azioni compiute, per poi passare in rassegna le proprie azioni in favore del dio: quasi come se si cercasse di mercanteggiare al fine di convincerlo ad esaudire la preghiera che sul finale gli viene rivolta. Questo costituisce, in generale, il modello di preghiera a cui la tradizione greca resta legata: è evidentemente una preghiera di richiesta, ma va detto che i Greci conobbero anche preghiere di lode, di ringraziamento e di esaltazione. Tuttavia, rimase loro sconosciuta la preghiera di richiesta di perdono: e ciò alla luce del fatto che quella greca era una religione della colpa, intesa però come un qualcosa di cui non si deve chiedere perdono agli dèi. Sarà invece con la nozione ebraico-cristiana di “peccato” a subentrare la richiesta di perdono rivolta a Dio.
I Greci conobbero pure preghiere pubbliche con carattere cittadino, nelle quali si pregavano gli dèi della città: ad esempio chiedendo beni pubblici (prosperità, ordine) o, in tempo di guerra, chiedendo di vincere sul nemico o, come si verifica nei Sette contro Tebe di Eschilo, di essere assistiti dagli dèi negli scontri bellici. La cultura greca, inoltre, dà vita a una cospicua produzione di inni, che i Greci distinsero in inni rivolti agli uomini (epainoi) e inni rivolti agli dèi (umnoi). In questa prospettiva, ci imbattiamo in un gran numero di inni rivolti a Dioniso, a Demetra e, in età ellenistica, ad Apollo e a Iside. Anche gli inni riprendono lo schema della preghiera che abbiamo analizzato a proposito del passo dell’Iliade, ma lo arricchiscono con un’enfatizzata “aretologia”, vale a dire con l’elenco delle virtù proprie della divinità elogiata. Un altro fenomeno degno di nota è la celebrazione delle feste, nelle quali le preghiere vengono pronunciate pubblicamente.
Dal IV secolo a.C., la cultura greca si innesta con le culture orientali grazie alle imprese compiute da Alessandro Magno, il quale unifica il bacino del Mediterraneo e impone il greco (meglio: la koinh greca) come lingua ufficiale. Ora, anche la Palestina si trova coinvolta in questo processo, che provoca un fruttuoso incontro tra il pensiero greco e quello giudeo. Questo incontro, dà vita al cosiddetto “giudaismo ellenistico” sviluppatosi ad Alessandria con Filone.
Rispetto a quella greca, la preghiera dei Romani non è particolarmente innovativa: i Romani, infatti, fanno loro il pantheon greco, ereditandone gli dèi. Va però precisato che a Roma il rituale di preghiera è più rigido, più ordinato e più sistematico che non in Grecia. Infatti, i riti sono codificati più rigidamente e le preghiere pubbliche sono presiedute da sacerdoti specializzati che scandiscono le formule. In particolare, sappiamo di alcuni riti del gruppo dei Salii, i quali invocavano gli dèi danzando. Nelle preghiere pubbliche, si chiedevano generalmente beni pubblici per la collettività; nelle preghiere private, invece, si invocavano gli dèi affinché proteggessero le greggi o, in città, la famiglia. Ma la letteratura latina tramanda anche preghiere personali: è il caso di Enea che prega il fiume Tevere (Eneide, VIII, 71-78), inteso come divinità padre delle Ninfe, chiedendogli di allontanare i pericoli e di essere propizio.    

“e tu con l’onde tue,
padre Tebro sacrato, al vostro Enea
date ricetto, e da’ perigli omai
lo liberate. Ed io da qual sia fonte
che sgorghi, in qual sii riva, in qual sii foce
(poiché tanta di me pietà ti stringe)
sempre t’onorerò, sempre di doni
ti sarò largo. O de l’esperid’onde
superbo regnatore, amico e mite
ne sia il tuo nume, e i tuoi detti non vani”.

Il modello con cui è strutturata la preghiera è, ancora una volta, quello greco della preghiera rivolta ad Apollo, modello che resta del tutto invariato nella sua struttura.
Fin dai tempi più antichi (pensiamo a Senofane, nemico giurato dell’antropomorfismo), i filosofi greci sottopongono a critica razionale la preghiera e, più in generale, la religione. Platone stesso, che molta attenzione riserva al divino, tuona contro la religione popolare e, nelle Leggi (X), contro quella della città. In particolare, nella prospettiva fatta valere da Platone, la preghiera è una richiesta rivolta agli dèi e, insieme al sacrificio, entra a far parte di un rapporto di scambio nel senso più banale del termine (cioè nel senso del do ut des). L’idea che sta alla base della preghiera è infatti, stando a Platone, che tramite doni o parole lusinghiere si possano piegare gli dèi alla propria volontà. Ma allora gli dèi sono corruttibili? Ed è davvero necessario o utile pregare, se la preghiera è banalmente questo scambio? Il problema della preghiera è sentitissimo anche dai filosofi successivi a Platone: così Aristotele scrive un trattato sulla preghiera (purtroppo andato perduto), gli Stoici si interrogano sul significato del pregare, Epicuro azzera il senso della preghiera. È col Neoplatonismo, specie con quello di Giamblico e di Proclo, che la preghiera assume particolare rilievo in sede filosofica. Ad esempio, Giambico è propulsore di una “mistica operativa” mirante alla fusione con l’Uno tramite la teurgia (ossia l’insieme degli atti che favoriscono il ritorno all’Uno). In questa prospettiva, la preghiera altro non è se non un’attività teurgica e, pertanto, priva di autonomia. Ne I misteri degli Egizi, Giamblico esplicita questa unione tra preghiera, teurgia ed estasi, sostenendo che dapprima (con la preghiera) ci si avvicina al divino, il quale secondariamente ci si offre, e infine si verifica la fusione ineffabile con l’Uno. Così intesa, la preghiera è un momento di questo percorso: essa istituisce un primo contatto col divino. Nel V secolo, Proclo scrive un trattato Sulla preghiera, nel quale sviluppa le intuizioni di Giambico, riprendendo le tre tappe del percorso e scandendole in maniera più marcata. In particolare, Proclo rivela di conoscere forme “basse” di preghiera rispetto a quella unitiva.
Occorre poi far menzione del corpo degli “scritti ermetici”, i quali confermano l’incontro del pensiero greco e giudeo. In tutti questi autori, la preghiera tradizionale cessa di essere un atto per passare ad essere un atteggiamento tutto interiore: è per tale via inaugurato il modo cristiano di dialogare con Dio. Come la ricerca unitiva dei Neoplatonici non si arresta mai, così il cristiano dialoga incessantemente col suo Dio, in una sorta di anticipazione della concezione monastica degli oranti notte e giorno. Significativamente, Origene dirà che tutta la vita del cristiano è preghiera.   

Publié dans:STORIA - STUDI VARI, STUDI |on 1 juillet, 2013 |Pas de commentaires »

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