Archive pour le 23 mai, 2016

Mark Chagall, Dio creatore

 

Mark Chagall, Dio creatore dans immagini sacre pag12b+

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LA SOFFERENZA – COSA DICE LA BIBBIA SULLA SOFFERENZA DEGLI INNOCENTI?

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LA SOFFERENZA – COSA DICE LA BIBBIA SULLA SOFFERENZA DEGLI INNOCENTI?

L’obiezione di Ivan Karamazov, nel celebre romanzo di Dostoievski, resta per molti il più grande ostacolo alla fede in un Dio d’amore: ci si può fidare di Dio in un mondo dove dei bambini sono torturati? Se Dio è buono, come può permettere la sofferenza degli innocenti? Testimone della ricerca spirituale dell’uomo lungo i secoli, la Bibbia stessa è alle prese con questa domanda. I salmi ci presentano lo smarrimento dei fedeli di fronte alla felicità dei malvagi e all’infelicità dei giusti: «Invano dunque ho conservato puro il mio cuore e ho lavato nell’innocenza le mie mani, poiché sono colpito tutto il giorno, e la mia pena si rinnova ogni mattina… Ma io a te, Signore, grido aiuto, e al mattino giunge a te la mia preghiera. Perché, Signore, mi respingi, perché mi nascondi il tuo volto?» (Salmo 73,13-14; 88,14-15). Chiaramente, la vecchia spiegazione che fa della pena una conseguenza del peccato non funziona sempre, esistono innumerevoli casi in cui la sofferenza non è la conseguenza di un’esistenza lontana da Dio. Nelle Scritture ebraiche, la figura di Giobbe è l’esempio tipico che suscita questo interrogativo. Uomo giusto e pio attraversa molte prove, ma rifiuta di abbandonare sia l’affermazione della sua innocenza sia la sua relazione con il Signore. Restando unito sino alla fine a questi due poli, Giobbe vede la sua lotta con il Signore sfociare in una nuova scoperta. Non si tratta di una spiegazione intellettuale, come di una giustificazione della sofferenza, cosa mostruosa che Dio non può mai dare, ma è piuttosto la rivelazione di un contesto dove tutto cambia di prospettiva. Giobbe comprende che il tentativo di gettare su Dio la responsabilità della sofferenza porta a un vicolo cieco, all’errore più grande. Scartata questa falsa pista, il campo è ormai libero per una comprensione più vera. Infatti questa visione è presente sin dall’inizio della rivelazione biblica. Il primo innocente che incontriamo nelle pagine della Bibbia è Abele, ingiustamente ucciso da suo fratello Caino. A questo proposito l’autore della Genesi scrive delle parole stupefacenti: «Il Signore disse a Caino: Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Genesi 4,10). Nella Bibbia il sangue è la vita (vedi Levitico 17,11.14), e questa vita annientata dalla malvagità umana ritrova paradossalmente una voce. Lungi dall’essere soffocato dalla violenza degli uomini, il desiderio di vita che abita il cuore della vittima è liberato attraverso la sua innocenza ferita. Il suo grido giunge fino a Dio e provoca il suo intervento. Questa stessa dinamica è presente nella storia della salvezza, nel racconto dell’Esodo. Quel che fa scendere Dio sulla terra non è qualche atto di prodezza o di dedizione da parte degli esseri umani, ma piuttosto il grido che nasce dalla loro oppressione. I lamenti degli schiavi mettono in moto un vasto processo di liberazione nel quale Dio si fa presente ( vedi Esodo 2,23-25). Con i profeti d’Israele, si fa un ulteriore passo in avanti. Essi sperimentano fin nella loro carne che Dio, l’Innocente per eccellenza, è rifiutato da un popolo che si crede autosufficiente. Come Osea costretto a sopportare con pazienza il tradimento della sua amata, immagine della fedeltà di Dio con il suo popolo infedele. Come Geremia esposto all’esclusione e alla persecuzione, «uomo di litigio e di contrasto per tutto il paese», condannato a rimanere solo con una «piaga incurabile» (Geremia 15,10.17-18). Occorrerebbe del tempo per comprendere che quegli uomini ci danno, in effetti, un’idea del cuore stesso di Dio, quando soffrono per non essere ascoltati né capiti. Se la vita dei profeti rivela che la sofferenza degli innocenti non solo spinge Dio all’azione per ristabilire la giustizia ma è anche il luogo privilegiato in cui gli esseri umani possono entrare nel suo mistero, una figura misteriosa che troviamo in Isaia 40-55 esprime questa verità molto chiaramente. Si tratta di un essere umano, descritto come l’ultimo degli ultimi, «oggetto di disprezzo», che ama e così prende su di sé tutta la malvagità degli altri trasformandola in sofferenza (vedi Isaia 53). Ed ecco che quest’uomo apparentemente respinto è effettivamente il Servo di Dio, cioè qualcuno che realizza sulla terra la volontà divina di salvezza. Se «al Signore è piaciuto prostrarlo con la sofferenza» (Isaia 53,10), è per esaltarlo davanti a tutti, affinché tutti vedano in lui l’attività di Dio stesso: Dio riconcilia a sé coloro che lo rifiutano, prendendo su di sé le conseguenze della loro infedeltà. La vita di Gesù ci dice qualcosa di più? Non è un caso che i primi cristiani si siano soffermati su questi capitoli d’Isaia, quando cercavano nelle Scritture delle luci per comprendere la sorte del loro maestro, Gesù. Le guarigioni che egli compie testimoniano già la sua volontà di prendere su di sé per amore le sofferenze degli altri (vedi Matteo 8,16.17). Però è soprattutto il suo modo d’affrontare una morte atroce che rompe il cerchio infernale del male. La condanna di un giusto che risponde con il perdono (vedi Luca 23,17.34) permette l’adempimento del disegno di Dio che è quello di rendere giuste le moltitudini (vedi Isaia 53,10-11). In altre parole, la sofferenza di un innocente vissuta fino in fondo dona a tutti gli esseri umani la leggerezza di un’innocenza ritrovata. Il sangue di Gesù è «più eloquente di quello di Abele» (Ebrei 12,24) perché suscita la venuta di Dio sulla terra come sorgente inesauribile di una nuova vita. L’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse di san Giovanni, presenta questo processo al capitolo 6, attraverso la sua visione sullo svolgimento della storia umana. Si tratta di un libro chiuso da sette sigilli. I primi quattro descrivono l’umanità abbandonata a se stessa, come una curva inesorabile che discende verso la morte. Con il quinto sigillo entriamo nel movimento inverso, l’attività salvatrice di Dio. E questa comincia giustamente con il grido delle «anime che furono immolate…» (Apocalisse 6,9-11), in cui bisogna vedere non solo i martiri cristiani, ma «tutto il sangue innocente versato sopra la terra, dal sangue dell’innocente Abele» (Matteo 23,35; vedi Apocalisse 18,24). In Dio, il sangue degli innocenti diviene portatore di un dinamismo che contrasta gli effetti distruttori della violenza. La loro apparente sconfitta inaugura un movimento di liberazione che culmina nella croce di Cristo. È ciò che è manifestato dall’apertura del sesto sigillo, dove si parla del «grande giorno dell’ira dell’Agnello» (Apocalisse 6,17). L’«ira di Dio» è la parola caratteristica utilizzata nella Bibbia per esprimere la sua risposta al peccato, risposta che tende a ristabilire la giustizia disprezzata. Qui, si riferisce all’atto con il quale Gesù prende su di sé tutto il male umano, subendone le conseguenze fino all’estremo, nel suo stesso corpo (vedi 1 Pietro 2,21-24). Donando la sua vita fino in fondo, Gesù condivide la sorte di tutte le vittime innocenti e così assicura che la loro pena non è stata vana. Porta le loro sofferenze all’interno della propria relazione con colui che chiama Abbà, Padre, e poiché il Padre lo ascolta sempre (vedi Giovanni 11,42), noi abbiamo la certezza che questa sofferenza non va perduta. Essa conduce alla scomparsa dell’antico ordine mondiale segnato dall’ingiustizia, e all’apparizione «di nuovi cieli e di una nuova terra, dove la giustizia abiterà» (2 Pietro 3,13). Ecco la risposta definitiva, frutto di una vita vissuta, data a Ivan Karamazov e a Giobbe. Lungi dal tollerare anche solo per un istante la sofferenza degli innocenti, nel suo Figlio unigenito Dio beve con loro quel calice amarissimo e, così facendo, la trasforma in una coppa di benedizione per tutti.

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LA GRANDEZZA DEL COSMO COME PROBLEMA ESISTENTIVO E TEOLOGICO – KARL RAHNER

http://www.disf.org/rahner-grandezza-cosmo-teologia

LA GRANDEZZA DEL COSMO COME PROBLEMA ESISTENTIVO E TEOLOGICO – KARL RAHNER

Filosofi e teologi contemporanei

1981

da un contributo in Nuovi Saggi

In questo brano Rahner si chiede se l’enorme allargamento di orizzonti spazio-temporali, che giunge a creare nell’uomo l’idea di essersi ormai “perso” nel cosmo, abbia una qualche valenza teologica. Egli ne conclude che gli uomini, mentre riconoscono e accettano il loro “abbandono” cosmico, con ciò si pongono già al di sopra di esso e lo possono condividere come espressione e mediazione di una profonda esperienza della contingenza, quale vera esperienza teologica e creaturale. Rahner si dichiara infine possibilista circa l’esistenza di vita su altri mondi diversi dalla Terra. Un’altra questione, che non possiamo non toccare in questa trattazione, riguarda la grandezza del cosmo, così come essa viene accettata dalle odierne scienze naturali. Certo, non esiste qui neppure l’apparenza di un contrasto diretto tra le affermazioni delle scienze naturali e quelle della teologia tradizionale, perché questa non ha mai fatto delle affermazioni circostanziate sulla grandezza dell’universo. Tuttavia anche qui si annida una difficoltà non indifferente. L’esser persi nel cosmo come espressione e mediazione di un’ultima esperienza della contingenza Almeno fino a quando l’immagine geocentrica del mondo rimase in piedi, l’esperienza ingenua del cristiano ritenne ovviamente il cosmo come la casa che Dio creò per lui e per la storia della sua salvezza, la casa visibile della sua esistenza, che era stata edificata per lui e per lui esisteva. Certo, anche allora l’idea del cosmo condeterminante la sua esperienza religiosa non era del tutto unitaria, perché, per esempio, non riusciva a inquadrare tanto facilmente gli angeli, che da un lato, quali puri spiriti, non erano facilmente inseribili nell’edificio del cosmo e, dall’altro, dovevano eventualmente pur abitare in una delle sfere del cielo. Comunque il fatto che, per esempio, ancora un Suarez inserisca l’«ascensione di Cristo» fino al «caelum empyreum» nel cosmo antico e si domandi se il Cristo glorificato risieda nella sfera più alta del cielo o sopra di essa, mostra quanto l’antica immagine del mondo fosse amalgamata coi dogmi cristiani (si giungeva a pensare che i vulcani conosciuti fossero collegati al fuoco dell’inferno). Oggi il cristiano è costretto a vivere su un minuscolo pianeta sito nel sistema solare che appartiene a sua volta a una galassia di centomila anni luce d’estensione con trenta miliardi di stelle, galassia che è a sua volta solo una tra circa un miliardo di altre galassie dell’universo. Di fronte a un universo del genere non è certo facile per l’uomo sentirsi come colui per il quale in fondo questo cosmo esiste. In un simile cosmo dalla grandezza sterminata e non più immaginabile, l’uomo può sentirsi come un fenomeno marginale e casuale, specie quando egli sa di esser il risultato di un’evoluzione che è a sua volta costretta a lavorare con molti e inverosimili casi. Sotto questo aspetto l’uomo dalla mentalità scientifica è sopraffatto ancor più da un senso esistentivo di vertigine, allorché viene a sapere che il Logos eterno di Dio, che muove questo miliardo di galassie, dovrebbe esser diventato uomo su questo minuscolo pianeta che esiste disperso da qualche parte come un granello di polvere nell’universo. Tale senso di vertigine, che viene naturalmente rimosso dalla coscienza quotidiana, non va messo a tacere con sublimi riflessioni sullo spazio e sul tempo, come quelle suggeriteci da una fisica moderna che diventa inevitabilmente sempre meno immaginabile. Rimane la questione di sapere se e come il cristiano normale e l’uomo di tutti i giorni possano a poco a poco abituarsi a considerarsi persi nel cosmo. Quanto l’uomo pensa di sé, del proprio destino e della propria grandezza per altri motivi, non viene infatti smascherato come falso da questo abbandono nel cosmo sterminato (i motivi della teologia sono sempre validi perlomeno quanto quelli della fisica moderna, anche se esigono atteggiamenti ultimi diversi per poter esser attuati esistentivamente). La questione sta solo nel sapere come le due visuali del mondo possano coesistere nella medesima coscienza, senza che l’una si accaparri l’energia dell’uomo a sfavore dell’altra. Tale situazione va anzitutto ammessa e sopportata con serenità, visto che anche l’uomo dalla mentalità scientifica (pure al di fuori del cristianesimo) nelle sue decisioni vitali esistentive si prende più seriamente — e ciò a giusto titolo e in maniera inevitabile — di quanto la sua insignificanza cosmica sembrerebbe permettergli. Oggi e soprattutto in futuro l’uomo e il cristiano dovranno inoltre rendersi conto in maniera più chiara e radicale che essi, mentre riconoscono e accettano il loro «abbandono» cosmico, con ciò si pongono già al di sopra di esso e lo possono condividere come espressione e mediazione di quell’ultima esperienza della contingenza, che sentono e accettano necessariamente in virtù della loro antica fede e nella loro qualità di creature finite di fronte al Dio infinito. In questa luce possiamo senz’altro dire che il cosmo è diventato addirittura «più teologico» per l’uomo, che lo orienta cioè in maniera più inesorabile di prima all’esperienza e all’accettazione della sua creaturalità. Partendo di qui, il senso di vertigine cosmica può esser senz’altro interpretato come un momento dello sviluppo della coscienza teologica dell’uomo. Quando l’odierna coscienza scientifica dell’uomo parte dal fatto ritenuto ovvio (benché la cosa non sia poi affatto tanto ovvia) che l’esplorazione scientifica del cosmo non potrà mai arrivare a una conclusione, e quando in virtù della teologia dell’incomprensibilità di principio di Dio tale convinzione diventa un dato teologico, allora l’esperienza di una specie di incommensurabilità dell’universo è in un certo senso solo il corrispettivo spaziale che ci si poteva propriamente attendere (ovviamente in un momento successivo). La dissoluzione di un radicamento (Behaustheit) spaziale dell’uomo ad opera di uno sradicamento (Unbehaustheit) spaziale riflettente il carattere della sua esistenza religiosa è in fono un momento legittimo del suo destino. Quando poi la fisica moderna intraprende a decifrare la grandezza finita dell’universo effettivo, documenta ancora una volta la peculiarità dello spirito di fronte alla materia, spirito capace di porre se stesso e il proprio mondo di fronte a sé, e rende percettibile all’uomo la finitudine creaturale del mondo nonostante la sua incommensurabilità. Storia dello spirito su un’altra stella? In tale contesto non possiamo passare completamente sotto silenzio una questione, che oggi è di moda, anche se non è del tutto nuova, cioè la questione se si possa concepire su altre « stelle » l’esistenza di esseri corporeo-spirituali identici o simili agli uomini. In fondo, neppure le scienze naturali saranno in grado di dare una risposta alla questione di fatto. Né al riguardo sarà possibile rispondere neppure per quanto attiene la possibilità concreta, dal momento che la probabilità calcolata a partire dal numero sterminato delle stelle e la difficoltà dell’evoluzione della vita fino all’«uomo» difficilmente possono essere confrontate tra loro. Tuttavia (e qui ci si allontana dall’antica immagine del mondo), bisogna dire che oggi non si può più escludere la possibilità di principio di un’evoluzione della vita fino a una coscienza intelligente e sarebbe una rappresentazione antropomorfica ritenere che il Dio creatore porti avanti l’evoluzione cosmica in un’altra zona dell’universo fino al punto che esista la possibilità immediata di una vita spirituale, per poi interrompere arbitrariamente tale evoluzione. Del resto, la dottrina tradizionale degli angeli ci dice che anche nel passato la teologia ha dovuto tener conto della coesistenza di altre creature personali con gli uomini e che quindi non pochi problemi teologici non emergono per la prima volta solo ora (vocazione di tutti allo stesso ultimo fine; Cristo capo di tutta la creazione, ecc.). Chi volesse dilettarsi ad approfondire speculativamente questo problema tanto lontano sotto il profilo esistentivo, potrebbe dire che a tali altri esseri corporeo-spirituali bisogna ragionevolmente ascrivere pure un destino soprannaturale nella vicinanza immediata a Dio (nonostante tutta la gratuità della grazia), che però noi non possiamo naturalmente sapere nulla della storia della loro libertà, che tuttavia dobbiamo ammettere. Né di fronte all’immutabilità di Dio in se stesso e all’identità del Logos si potrà dimostrare che una molteplice incarnazione in diverse storie della salvezza sia semplicemente inconcepibile. Diciamo tutto questo solo per mostrare che da parte della teologia non esiste necessariamente alcun veto assoluto contro una storia dello spirito su un’altra stella. Di più il teologo non può dire su tale questione; egli deve limitarsi a ricordare che la rivelazione cristiana ha per scopo la salvezza dell’uomo e non mira a rispondere a domande che non interessano in maniera realmente significativa l’attuazione di tale salvezza nella libertà. Karl Rahner, Nuovi Saggi, Paoline, Roma 1984, vol. IX, pp. 74-79.

Publié dans:COSMOLOGIA, RAHNER KARL |on 23 mai, 2016 |Pas de commentaires »

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