Archive pour le 15 avril, 2015

Partenza degli israeliti, by David Roberts, 1829

Partenza degli israeliti, by David Roberts, 1829 dans immagini sacre David_Roberts-IsraelitesLeavingEgypt_1828

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SCRITTI SPIRITUALI SUL SENSO DELLA VITA – INTRODUZIONE EDITH STEIN

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SCRITTI SPIRITUALI SUL SENSO DELLA VITA – INTRODUZIONE

EDITH STEIN – LA MISTICA DELLA CROCE

«Vengo per pregare con voi», ha detto il Papa ad Auschwitz, «con tutta la Polonia e tutta l’Europa» Vengo «ad inginocchiarmi su questo Golgota del mondo contemporaneo, su queste tombe, in gran parte senza nome.

Nel giugno 1979, Giovanni Paolo II si recò in pellegrinaggio nella sua patria polacca. Ad Auschwitz, ricordò in particolare coloro che, come Edith Stein e Massimiliano Kolbe, furono vittime di uno spietato odio razziale. L’ebrea Edith Stein, i cui antenati erano immigrati in Polonia, e il sacerdote polacco Kolbe dimostrarono, in quanto cristiani, che anche di fronte all’orrore dello sterminio si può irradiare luce ed amore fraterno.
«Vengo per pregare con voi», ha detto il Papa ad Auschwitz, «con tutta la Polonia e tutta l’Europa» Vengo «ad inginocchiarmi su questo Golgota del mondo contemporaneo, su queste tombe, in gran parte senza nome. Questo è un luogo in cui vogliamo considerare fratelli ogni popolo ed ogni uomo. E se c’è stata amarezza nelle mie parole, cari fratelli e sorelle, esse sono state pronunciate non per accusare, ma per ricordare. Parlo infatti pensando a coloro che sono morti – ai quattro milioni di vittime cadute su questo campo enorme -, parlo a nome di tutti coloro i cui diritti vengono ignorati e violati. Parlo perché mi obbliga, ci obbliga a farlo, la verità» (Oss. Rom., 7 giugno 1979).

La seguente scelta di testi, tratti da scritti e lettere della filosofa e carmelitana Edith Stein, vuole mostrare a quali grandezze è chiamato l’uomo. Edith Stein proveniva da una famiglia ebraica. La religiosità della madre fu rispettata, ma non imitata dai figli, fin dal tempo degli studi, la ricerca della verità fu decisiva per Edith Stein. Verità non solo come conoscenza teoretica, ma come radicale atteggiamento di fondo, che informa tutta la vita. Fino a 21 anni, Edith Stein credette dì poter trovare la verità al di fuori della religione. Ricorderà il momento a partire dal quale decise consapevolmente di non pregare più. Cercò la verità nella psicologia e nella filosofia. Da studentessa, si impegnò per la parità della donna e si interessò di politica. Presto però riconobbe che il sapere porta alla responsabilità, che le regole morali devono plasmare la vita individuale per divenire fondamento costitutivo di un popolo e della sua struttura statale.
Edith Stein era una persona spiritualmente vivace e sensibile, pronta ad aiutare con generosità chi le chiedesse aiuto. Nella cerchia dei parenti e degli amici, era considerata già negli anni di studio particolarmente degna di fiducia per il suo carattere saldo e discreto. L’incontro con i filosofi Edmund Husserl, Max Scheler, Adolf Reinach, Hedwig ConradMartius le fece conoscere il mondo cristiano. Husserl era evangelico, Scheler si converti al cattolicesimo, Reinach e Conrad-Martius al credo evangelico. Edith Stein conobbe la fede cristiana dapprima attraverso il contatto con le persone e solo in seguito attraverso le letture e
lo studio. Esperienza travolgente fu per lei scoprire che la fede in Gesù Cristo crea vincoli di familiarità e di amicizia tra persone prima estranee e dona ai credenti una forza di amare e una conoscenza di sé che Edith Stein non aveva mai sperimentato.
Nel corso della sua ricerca della verità, dal 1916 cominciò in Edith Stein un travaglio inferiore che la portò poco per volta ad accettare la croce di Cristo. La morte di un suo caro amico le aveva fatto provare con improvvisa consapevolezza la forza della croce. Ma sarebbe stato necessario un lungo conflitto interiore per poter accettare l’esistenza di un Dio personale che ama. Leggendo i suoi studi di fenomenologia negli annali husserliani, troviamo indizi del fatto che Edith’ Stein intendesse il suo cammino verso Cristo come un itinerario «mistico». Ella analizza infatti come nella profonda disperazione esistenziale un uomo sia incapace di prendere delle decisioni, e descrive l’esperienza risanatrice e consolante di «una pace trascendentale che si spande nell’anima», e che si può identificare solo con Dio. La lettura dell’autobiografia della spagnola Teresa d’Avila, Dottore della Chiesa, fu per lei una conferma della propria esperienza personale.
Edith Stein si convertì al cattolicesimo nel 1922 con il desiderio di entrare nell’Ordine di Teresa d’Avila. La sua conversione non tardò a crearle difficoltà in famiglia, dove nessuno riusciva a capire la sua scelta; tutto ciò la indusse a vivere i successivi dieci anni della sua vita lavorando. Come insegnante e docente a Speyer, come conferenziera sui problemi di una moderna educazione femminile e come assistente universitaria a Mùnster, Edith Stein, cristiana impegnata professionalmente, cercò di unire in una fruttuosa sintesi il rapporto profondo con Dio e l’impegno gravoso che esigeva la sua attività. Aiutò molti a vedere in modo nuovo la propria vita e a vivere seguendo l’esempio di Cristo.
Fin da quando Hitler prese il potere, Edith Stein, allora a Mùnster, capì quale destino sarebbe stato riservato all’ebraismo europeo. Assistette agli assalti degli studenti aizzati contro gli ebrei dall’influsso del nazionalsocialismo. Queste esperienze acuirono in lei la coscienza di dover fare qualcosa per il suo popolo. Sperò in un’enciclica del Papa sulla questione ebraica. Non essendosi avverato questo suo desiderio, cercò ancora quale fosse il suo compito specifico, quello a cui si sentiva chiamata. L’improvviso esonero dall’incarico nella primavera del 1933, che dovette accettare insieme con molti suoi concittadini ebrei, le aprì ad un tratto una nuova strada. Rifiutò una proposta di lavoro in Sudamerica, come pure la possibilità di continuare tranquillamente il suo lavoro scientifico a Mùnster in attesa di tempi migliori. Il 4 ottobre 1933, entrò nel Carmelo di Colonia.
Come ebrea e come cristiana, Edith Stein si sentiva chiamata a rappresentare il suo popolo davanti a Dio, intercedendo per esso con la preghiera e il sacrificio. Pensava di poterlo fare nel modo migliore nel Carmelo. Entrare nel Carmelo significava per lei imparare a rinunciare a sé come Gesù, partecipare alla sua opera di redenzione. Vedeva la discriminazione di cui era vittima il suo popolo ebraico come una partecipazione alla croce-di Cristo. La persecuzione degli ebrei era per Edith Stein la persecuzione dell’umanità di Gesù. Seguendo l’esempio di Cristo, vedeva la possibilità di vincere il male con il bene. Vincere il male non significava per lei fuggire la sofferenza, ma prenderla su di sé nella forza della croce, in segno di solidarietà con gli altri e per gli altri.
L’incomprensione della sua famiglia ebrea, che vedeva la sua entrata in un monastero di clausura come fuga dalla realtà, come infedeltà nei confronti dei perseguitati, faceva parte dell’esperienza di dolore di Edith Stein. Ma non riuscì a distoglierla dalla sua strada. Dopo nove anni di vita religiosa nel Carmelo di Colonia e di Echt in Olanda, le fu chiesto ciò che fino a quel momento aveva vissuto segretamente: il sacrificio per i fratelli come testimonianza in nome di Gesù Cristo.
Il 2 agosto 1942, Edith Stein e sua sorella Rosa Stein furono arrestate ad Echt dalla Gestapo e condotte nel campo di concentramento di Amersfoort. Il 7 agosto 1942, fu deportata nel campo di sterminio di Auschwitz in Polonia con innumerevoli altri detenuti ebrei. In base a tutte le testimonianze finora raccolte, morì il 9 agosto 1942, uccisa nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau.
Ancora oggi sono valide le parole di Reinhold Schneider, morto nel 1958: «In Edith Stein è riposta una grande speranza, una promessa per il suo popolo – e per il nostro popolo: che questa figura impareggiabile entri veramente nella nostra vita, ci renda chiaro ciò che lei aveva compreso, e la grandezza e l’atrocità del suo sacrificio commuova entrambi i popoli»

(L’autore) Edith STEIN, LA MISTICA DELLA CROCE – autore: Edith Stein

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IL PASSAGGIO DI CRISTO NELLA REGIONE DELLA MORTE HA TRASFORMATO IL MORIRE DI TUTTI – di Gianfranco Ravasi

http://paroledivita.myblog.it/2010/04/12/quando-arriva-il-giorno-dell-incontro-il-passaggio-di-cristo/

QUANDO ARRIVA IL GIORNO DELL’INCONTRO.

IL PASSAGGIO DI CRISTO NELLA REGIONE DELLA MORTE HA TRASFORMATO IL MORIRE DI TUTTI

Posted on 12 aprile 2010

di Gianfranco Ravasi

“Fratello, se vieni a visitare la mia tomba, non devi piangere. Non è giusto addolorarsi per l’unione con Dio. Dopo la mia morte non cercare la mia tomba sulla terra: la mia tomba è nel cuore di coloro che amano”. Più di una volta ho sostato anch’io a Konya, in Turchia, sotto la grandiosa cupola verde ove è collocato il cenotafio di Gialal ed-Din Rumi, il grande poeta mistico musulmano del XIII secolo. Accanto si leggono appunto le parole che ho citato e che egli aveva dettato per la sua epigrafe. Esse ci svelano una delle tante coincidenze spirituali tra le grandi religioni nella loro anima autentica. Un’antica preghiera musulmana invoca: “Dio mio, concedimi di morire nel desiderio di incontrarti. Concedimi di prepararmi al giorno dell’Incontro”.
La morte, dunque, non come estuario che sfocia sul nulla, ma come l’Incontro per eccellenza con Dio nella casa del suo regno. Come dice Rumi, la nostra vera tomba non è nel sepolcro, ma nel cuore di coloro che amano, cioè quelli che hanno amore e fede dentro di sé, e quindi custodiscono una scintilla o un germe di eternità. E l’eternità è l’orizzonte a cui siamo destinati dopo la morte. Certo, ben diversi sono i sentimenti dominanti ai nostri giorni. Li esprimeva suggestivamente il cantautore Francesco Guccini nella sua Canzone di notte n.2: “Ognuno vive dentro ai suoi egoismi / vestiti di sofismi, / e ognuno costruisce il suo sistema / di piccoli rancori irrazionali, / di cosmi personali / scordando che poi infine tutti avremo / due metri di terreno”. Già Cristo aveva considerato questa visione minimalista della vita nella parabola del ricco insensato che accumula senza posa per piombare in una morte sulla quale echeggia una voce terribile: “Quello che hai preparato di chi sarà?” (Luca, 12, 20).

Sulla scia della celebrazione pasquale che si distende in questi giorni, riproponiamo un tema che è nel cuore di ogni creatura, nonostante lo sforzo di esorcizzarlo, quello del morire, ma lo faremo da un’angolatura teologica, anzi cristologica. Se stiamo ai Vangeli, Gesù incontra direttamente tre cadaveri: quelli della figlia di Giairo (Marco, 5, 35-43), del figlio di una vedova del villaggio galilaico di Nain (Luca, 7, 11-17) e dell’amico Lazzaro (Giovanni, 11). Davanti alla morte anche Cristo soffre, la percepisce come un dramma; lui stesso, sentendola incombere su di sé, è travolto dall’angustia. Annota Marco: nel Getsemani, Gesù “cominciò a sentire paura e angoscia. Disse a Pietro, Giovanni e Giacomo: La mia anima è triste fino alla morte” (14, 33-34). E la sua implorazione è quella di ogni uomo che supplica di essere liberato dallo spettro della fine: “Abba’, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice!”; e l’evangelista ricorda: “pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora” (14, 35-36).
Quando, alla fine, la morte gli piomba addosso, essa ha i contorni di una vera e propria tragedia. La sofferenza fisica lo attanaglia brutalmente, gli amici lo lasciano solo e, su tutto, incombe il silenzio del Padre: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Anzi, per Marco e Matteo, quella di Gesù è quasi una brutta morte: “Gesù, lanciando un forte grido, spirò… Gesù gridò di nuovo a gran voce ed emise lo spirito” (Marco, 15, 37; Matteo, 27, 50). Cristo rivela, in questo momento estremo, l’Incarnazione nella sua verità più lacerante: il Figlio di Dio, morendo, diventa veramente nostro fratello, perché la carta d’identità fondamentale di ogni figlio di Adamo reca sempre la data della morte, assente nella carta d’identità di Dio.
Eppure, anche in quell’istante e nei successivi, quando è un cadavere nelle mani ora crudeli dei soldati, ora pietose degli amici, Gesù non cessa di essere il Figlio di Dio. Ecco, allora, la radicale lettura cristiana della morte. Già appariva in quei tre incontri che sfociavano non su una risurrezione definitiva: la figlia di Giairo, il figlio della vedova e Lazzaro hanno, infatti, dovuto successivamente morire. Tuttavia, Cristo, facendo rivivere costoro temporaneamente, illustrava in maniera reale ed efficace il destino ultimo dell’umanità, la risurrezione, ossia la vita per sempre in Dio, il Vivente. La stessa redazione evangelica di quei miracoli di risurrezione tiene in filigrana quella di Cristo così da trasformarli in “segni” pasquali (esplicito è, al riguardo, Giovanni con la vicenda di Lazzaro). Questa luce avvolge in pienezza il morire di Cristo. Infatti, l’evangelista Luca all’abbandono del Padre, descritto da Matteo e Marco, sostituisce l’abbandono di Gesù al Padre: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito! Detto questo, spirò” (23, 46). E Giovanni, come è noto, presenta la morte in croce non più come il nadir dell’umanità di Gesù, bensì come lo zenit epifanico della sua divinità: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono” (8, 28) e non c’è bisogno di ricordare che “Io Sono” è l’autodefinizione divina del Sinai (Esodo, 3, 14).
Da un lato, Cristo col peso reale della sua umanità non minimizza né elide lo scandalo del morire, la sua dimensione di oscurità, il suo bagliore cupo di dolore. D’altro lato, però, la sua divinità, attraversando la regione tenebrosa della morte, la irradia con la luce della sua eternità. Il Venerdì Santo della crocifissione e il Sabato Santo della sepoltura, segni decisivi dell’Incarnazione, si aprono alla Domenica di Pasqua, che è – per usare una famosa frase del profeta Zaccaria – “un unico giorno, non avrà più né dì né notte, ma verso sera risplenderà di nuovo la luce” (14, 7), evidente metafora dell’eternità. Come scriveva suggestivamente in Resistenza e resa, il diario della sua “passione” nel lager nazista, Dietrich Bonhoeffer, “venire a capo del morire non significa ancora venire a capo della morte (…) Non è dall’ars moriendi, ma è dalla risurrezione di Cristo che può spirare nel mondo presente un nuovo vento purificatore”.
Un vento che san Paolo ha sentito soffiare così fortemente da farlo diventare non solo l’asse della sua cristologia, fin dal suo primo scritto che professa la “morte per noi” del Figlio di Dio (1 Tessalonicesi, 5, 10), ma anche dell’antropologia cristiana. Infatti, il passaggio reale di Cristo nella regione della morte trasforma il morire di tutti: egli “è morto per tutti, perché quelli che vivono (…) vivano per colui che è morto e risorto per loro” (2 Corinzi, 5, 15). In questa prospettiva la morte di Gesù è la liberazione della nostra prima e seconda morte, per usare il linguaggio dell’Apocalisse. Infatti, da un lato, “se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più (…) Egli morì una volta per tutte, ora vive e vive per Dio” (Romani, 6, 8-10). Egli, dunque, feconda il grembo della morte con la sua divina “rugiada luminosa”, volendo ricorrere a un’immagine isaiana (26, 19) e ci fa risorgere non a vita transitoria ma alla vita eterna di Dio.
D’altro lato, però, egli ci libera anche dalla “seconda morte, lo stagno di fuoco” (Apocalisse, 20, 14), ossia dalla morte spirituale del peccato: “Cristo morì per i nostri peccati (…) Voi consideratevi morti al peccato, e viventi per Dio, in Cristo Gesù” (1 Corinzi, 15, 3; Romani, 6, 11). Oltre alla risurrezione dalla morte fisica, Cristo ci dona la giustificazione che libera dalla morte spirituale. Potente e fin audace è la frase della Seconda Lettera ai Corinzi: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (5, 21). Proprio per questo duplice effetto, l’evento pasquale – come si diceva – è capitale sia nella cristologia sia nell’antropologia cristiana. Paolo è, al riguardo, esplicito nella sua celebre asserzione: “Se Cristo non è risorto, vuota è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede” (1 Corinzi, 15, 14). Naturalmente la riflessione teologica paolina è molto più complessa, ma il cuore del suo pensiero batte proprio nella morte-risurrezione di Cristo come principio e sorgente della nostra morte-risurrezione integrale (fisica e morale) e il battesimo ne è l’efficace rappresentazione “sacramentale”.
Un’ultima nota attorno al tema della morte di Cristo. Quell’evento è certamente un’umiliazione estrema per un Dio. San Paolo, nel celebre inno incastonato nella Lettera ai Filippesi, parla di una “kenosi” (ekènosen), un termine che indica uno svuotamento: “pur essendo nella condizione di Dio…, svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo…, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (2, 6-8). Ora, questa scelta di solidarietà nei confronti dell’umanità è espressione di amore. È così che nel Nuovo Testamento la croce di Cristo diventa un segno d’amore. Chi non ricorda l’emozionante avvio del racconto della passione di Gesù secondo Giovanni: “Sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (13, 1)?
Anzi, in quella donazione suprema si può intravedere l’amore del Padre: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (3, 16). È un atto di amore libero e genuino, come osserva Paolo: “A stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Romani, 5, 7-8). A questo punto scatta una lezione per il fedele, è la via dell’imitazione da seguire.
Il filosofo danese dell’Ottocento Soeren Kierkegaard, nel suo Esercizio del cristianesimo, scriveva: “Che differenza c’è tra un ammiratore e un imitatore? L’imitatore è, ossia vuole essere chi egli ammira; l’ammiratore, invece, loda l’altro ma rimane personalmente fuori”. Ebbene, san Giovanni, nella sua Prima Lettera, di fronte alla morte di Cristo per amore (il “dare la vita per la persona che si ama”, come aveva detto lo stesso Gesù) ci invita non tanto all’ammirazione ma all’imitazione: “In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che Cristo ha dato la sua vita per noi. Allora, anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (3, 16).

(L’Osservatore Romano – 12-13 aprile 2010)

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI, Cardinali |on 15 avril, 2015 |Pas de commentaires »

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