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LA PASSIONE DELLE PAZIENZE DI MADELEINE DELBRÊL

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LA PASSIONE DELLE PAZIENZE DI MADELEINE DELBRÊL

Tratto da Madeleine Delbrêl, Il piccolo monaco, P.Gribaudi editore, Torino, 1990

La passione, la nostra passione, sì, noi l’attendiamo.
Noi sappiamo che deve venire, e naturalmente intendiamo
viverla con una certa grandezza.
Il sacrificio di noi stessi: noi non aspettiamo altro che
ne scocchi l’ora.
Come un ceppo nel fuoco, così noi sappiamo di dover
essere consumati. Come un filo di lana tagliato
dalle forbici, così dobbiamo essere separati. Come un giovane
animale che viene sgozzato, così dobbiamo essere uccisi.
La passione, noi l’attendiamo. Noi l’attendiamo, ed essa non viene.

Vengono, invece, le pazienze.
Le pazienze, queste briciole di passione, che hanno lo
scopo di ucciderci lentamente per la tua gloria, di
ucciderci senza la nostra gloria.

Fin dal mattino esse vengono davanti a noi:
sono i nostri nervi troppo scattanti o troppo lenti,
è l’autobus che passa affollato,
il latte che trabocca, gli spazzacamini che vengono,
i bambini che imbrogliano tutto.
Sono gl’invitati che nostro marito porta in casa
e quell’amico che, proprio lui, non viene;
è il telefono che si scatena;
quelli che noi amiamo e non ci amano più;
è la voglia di tacere e il dover parlare,
è la voglia di parlare e la necessità di tacere;
è voler uscire quando si è chiusi
è rimanere in casa quando bisogna uscire;
è il marito al quale vorremmo appoggiarci
e che diventa il più fragile dei bambini;
è il disgusto della nostra parte quotidiana,
è il desiderio febbrile di quanto non ci appartiene.

Così vengono le nostro pazienze, in ranghi serrati o in
fila indiana, e dimenticano sempre di dirci che sono il martirio preparato per noi.

E noi le lasciamo passare con disprezzo, aspettando –
per dare la nostra vita – un’occasione che ne valga la pena.
Perché abbiamo dimenticato che come ci sono rami
che si distruggono col fuoco, così ci son tavole che
i passi lentamente logorano e che cadono in fine segatura.
Perché abbiamo dimenticato che se ci son fili di lana
tagliati netti dalle forbici, ci son fili di maglia che giorno
per giorno si consumano sul dorso di quelli che l’indossano.
Ogni riscatto è un martirio, ma non ogni martirio è sanguinoso:
ce ne sono di sgranati da un capo all’altro della vita.

E’ la passione delle pazienze.

Publié dans:spiritualità  |on 22 janvier, 2019 |Pas de commentaires »

DAL TRATTATO «L`AMMIRABILE CUORE DI GESÙ» DI SAN GIOVANNI EUDES, SACERDOTE

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DAL TRATTATO «L`AMMIRABILE CUORE DI GESÙ» DI SAN GIOVANNI EUDES, SACERDOTE

(Lib. 1, 5, § 2-3; Opera omnia 6, 107. 113-115)

Fonte della salvezza e della vera vita

Pensa, ti prego, che Nostro Signore Gesù Cristo è il tuo vero capo, e che fai parte delle sue membra. Egli ti appartiene come il capo al corpo. Tutto ciò che è suo, è tuo: il suo Spirito, il suo cuore, il suo corpo, la sua anima, e tutte le sue facoltà. Tu ne devi usare come di cose tue per servire, lodare, amare e glorificare Dio. Tu gli appartieni come le membra al loro capo. Parimenti egli desidera usare, coma cosa che gli appartenga, tutto ciò che è tuo, per indirizzarlo al servizio e alla gloria del Padre suo. Non solamente egli ti appartiene, ma vuole essere in te, vivendo e dominando in te come il capo vive e regna nelle sue membra. Egli vuole che tutto ciò che è in lui viva e domini in te: il suo spirito nel tuo spirito, il suo cuore nel tuo cuore, tutte le facoltà della sua anima nelle facoltà della tua anima, perché anche in te si adempiano queste divine parole: «Glorificate Dio nel vostro corpo» (1 Cor 6, 20) e perché la vita di Gesù si manifesti in te.
E non basta che tu appartenga al Figlio di Dio, ma devi essere in lui, come le membra sono nel loro capo. Tutto ciò che è in te deve essere incorporato in lui e da lui ricevere vita e guida. Non c`è vera vita per te se non in lui solo, che è la fonte esclusiva della vera vita. Fuori di lui per te non c`è che morte e perdizione. Egli deve essere il solo criterio delle tue iniziative, delle tue azioni, delle tue energie e della tua vita. Tu non devi vivere che di lui e per lui, seguendo queste divine parole: «Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso, perché se noi viviamo, viviamo per il Signore; se noi moriamo, moriamo per il Signore. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo dunque del Signore. Per questo infatti Cristo è morto ed è tornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi» (Rm 14, 7-9).
Dunque tu sei una sola cosa con questo stesso Gesù, come le membra sono una sola cosa con il loro capo. Perciò devi avere con lui uno stesso spirito, una stessa anima, una stessa vita, una stessa volontà, uno stesso sentimento, uno stesso cuore. E lui stesso deve essere il tuo spirito, il tuo cuore, il tuo amore, la tua vita e il tuo tutto.
Ora queste grandi verità traggono origine nel cristiano dal battesimo, vengono accresciute e rafforzate dal sacramento della confermazione e dal buon uso delle altre grazie partecipate da Dio, e ricevono il loro supremo perfezionamento dalla santa Eucaristia.
Per questo Cristo è morto ed è tornato alla vita: per essere il Signore dei morti e dei vivi. Sia che viviamo, sia che moriamo, siamo del Signore. Nessuno di noi vive per se stesso e nessuno muore per se stesso. (Rm 14, 9. 8. 7)

Publié dans:spiritualità  |on 5 mars, 2018 |Pas de commentaires »

LA SPIRITUALITÀ DEL DESERTO – PER DIVENTARE UOMINI DI PROFONDA INTERIORITÀ

http://www.aggancio.it/2016/09/la-spiritualita-del-deserto-per-diventare-uomini-di-profonda-interiorita/

LA SPIRITUALITÀ DEL DESERTO – PER DIVENTARE UOMINI DI PROFONDA INTERIORITÀ

APPROFONDIMENTI

Nella spiritualità cristiana il deserto è il simbolo del rapporto intimo e particolare con Dio, il luogo dove Dio conduce per tessere un nuovo inizio, caratterizzato da un legame interiore, forte, come un segno indelebile che determina una vita rinnovata perché alla Sua presenza, in Sua compagnia. Nella sua spiritualità Giaquinta ha messo a fuoco, nell’alveo della spiritualità del deserto, l’esperienza dell’alleanza, riletta come il punto della storia della salvezza nel quale prende forma concreta la relazione tra Dio e l’uomo come legame d’amore. Un legame interiore i cui frutti si irradiano nella Chiesa e nel mondo.
Alle origini del deserto
Quando penso al deserto, la prima immagine che mi viene in mente è una distesa di sabbia infuocata, i cui confini si perdono all’orizzonte.
Nel deserto è facile perdersi, non ci sono strade, non ci sono punti di riferimento.
Solo sabbia, sole, calore, silenzio.
Chi si avventura nel deserto si inoltra in un percorso difficile, pericoloso, rischia di perdersi o di mettere a repentaglio la sua vita.
Nella Bibbia il deserto evoca un luogo da evitare, perché abitato da bestie feroci, da briganti, un luogo dove non ci sono punti di riferimento fissi, ma sempre in movimento; è il luogo senza parola, come dice il significato del termine in ebraico. E Dio, nella sua sapienza fantasiosa e geniale, ha saputo trasformare questo luogo terribile in un simbolo di salvezza, anzi nell’esperienza intima, mistica, profonda dell’amore, della provvidenza, della tenerezza di Dio per l’uomo.
Solo Dio poteva compiere questo miracolo, necessario per far capire che veramente Lui è più forte della morte e dove arriva la sua Parola accade l’impossibile, il deserto fiorisce come un giardino, il silenzio lascia il posto alla voce dello Spirito che porta vita nuova lì dove c’era solo vuoto, buio, desolazione.
La storia della vita comincia nel deserto. Il libro della Genesi si apre descrivendo così cosa c’è prima della creazione: “La terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. E Dio disse…” (Gen 1, 2).
All’inizio della storia del mondo, Dio fissa quasi un imprinting nella creazione stessa: c’è la realtà, oscura, vuota e tenebrosa, di un deserto informe, ma quando Dio pronuncia la sua parola ogni cosa prende vita, forma, colore, è la presenza di Dio che fa la differenza trasformando un luogo ostile in esperienza di grazia, di incontro con la vita.
Nel deserto si rifugiano i profeti, in fuga da chi li perseguita, stanchi della loro missione; così succede al profeta Elia, in fuga dalla furia della regina Gezabele, che si inoltra nel deserto desideroso di morire. E in quel deserto è straordinariamente raggiunto da Dio che lo nutre, gli ridà vigore e lo conduce fino all’Oreb, dove si rivela nel sussurro di una brezza leggera, per consegnargli rinnovata la sua missione profetica.
Nel deserto l’alleanza: il segno della speranza
Ma il deserto è il luogo del grande cammino del popolo di Israele dall’Egitto alla terra promessa. Per Israele il deserto è più che un luogo di transito, è il simbolo di un cammino speciale, del cammino che determina e caratterizza il rapporto con il suo Signore. Israele si inoltra nel deserto non di sua iniziativa, ma per uno specifico invito di Dio, dietro una promessa precisa: “Ti condurrò in una terra dove scorre latte e miele, dove sarai libero ed io sarò il tuo dio e tu sarai il mio popolo”. La promessa è quella di un legame intimo e indissolubile che prendere il nome di alleanza, un legame che dà una nuova prospettiva e un nuovo orientamento.
La spiritualità del deserto è spiritualità dell’alleanza. I segni più profondi e incisivi che il Signore compie nell’Esodo avvengono all’inizio del percorso, non a conclusione. Prima di partire dall’Egitto, il Signore fa celebrare la Pasqua, anticipazione del passaggio, della liberazione che presto il popolo sperimenterà. Anche l’alleanza sul Sinai avviene durante il cammino, non è il termine, e ne segna il ritmo: da quel momento il popolo ha nella Legge scritta da Dio lo spartito sul quale modulare la vita.
Ma non basta, non è ancora sufficiente, il popolo tradisce quel patto, rivela tutta la sua fragilità. Il seme gettato nel deserto da Dio stesso non rimane senza frutto, è un seme di speranza, è una promessa di un compimento che giungerà al momento opportuno.
“Il popolo di Israele non riesce a seguire il ritmo dell’amore. Dopo i tanti fallimenti Dio stabilisce allora una economia e una alleanza differenti: scende dentro l’uomo, fa in modo che l’uomo non veda più l’alleanza come una realtà esterna, ma come un qualcosa che sta in lui, al di dentro. Non si tratta di osservare semplicemente una legge, ma di fare una esperienza; l’alleanza diventa esperienza di vita”(G. Giaquinta, L’alleanza, 61).
Nel cuore del deserto nasce la speranza, attraverso una parola nuova che Dio dice all’uomo: “Scriverò la mia legge nel tuo cuore, anzi ti darò un cuore nuovo, un cuore di carne al posto del cuore di pietra, un cuore capace di contenere il mio spirito”.
Una speranza per l’umanità
Per Giaquinta ogni uomo è chiamato a realizzare la sua alleanza con Dio, a dire il suo sì pieno, totale, definitivo. E sebbene questo patto sia personale, interiore, è destinato a irradiarsi sul resto dell’umanità, perché è l’alleanza portata a compimento da Cristo, il quale “spalanca le porte, apre a tutta l’umanità, con una universalità che crea nell’umanità uno stato di speranza…
Cristo presente nella storia, nella storia personale di ciascuno, nella mia storia, nella mia vita, Lui che mi inserisce nella sua vita. Ciascuno deve poter dire: io sono un trasformato, un chiamato da Cristo, io devo stringere, o rinnovare, con Cristo la mia alleanza, assumere nella mia vita la legge che Lui mi detta, cioè quello che Egli vuole io viva. È un problema personale, certamente, ma anche comunitario.
[…] Accettare e vivere veramente una simile impostazione significa diventare capaci di rivoluzionare la propria vita personale e comunitaria. Non è possibile rimanere nel quieto vivere. Il Signore ha chiamato ogni battezzato a vivere in lui, alla sua presenza. Egli, che è presente in noi, ci ha dato la sua legge, e la rinnova continuamente come rinnova il nostro patto con lui” (G. Giaquinta, L’alleanza, 121).
L’alleanza è il sigillo che Dio pone sul cuore dell’uomo, è la chiamata alla sua santità, a vivere in profonda relazione con Lui e trarre da questo legame interiore, anzi da questa presenza intima la capacità di guardare con occhi nuovi il deserto e scoprire in esso semi di speranza da raccogliere, custodire, coltivare, affinché germoglino frutti buoni per tutti. Così come l’alleanza ha sempre questa duplice dimensione personale e comunitaria, il santo ha lo sguardo penetrante, reso tale dallo Spirito. Così Giaquinta sintetizza la missione del santo di oggi: “Quale dunque il santo di oggi? In primo luogo un uomo aperto, che abbia la capacità di cogliere il pullulare di bene, di ansie, di attese, di speranze, che sappia cogliere nei movimenti che attorno nascono, fioriscono e forse muoiono, la voce implorante dello Spirito, una creatura, cioè, aperta a tutte le suggestioni dello Spirito. Non è possibile rinchiudersi nei vari schematismi, ma è necessario avere l’ampiezza del cuore di Cristo e di Paolo nella piena fedeltà alla Chiesa, ma con l’ampiezza della chiesa stessa. Il santo moderno, quindi, deve avere un senso di ampiezza e di percezione dei valori positivi anche tra le realtà negative con il senso di ottimismo che nasce appunto dalla certezza che è lo Spirito che agisce, non dimenticando che anche la maturazione del mondo verso alcuni ideali, cui si è già accennato prima, è opera dello Spirito: è lo Spirito che agisce nel mondo, senza che questo ne abbia la percezione, spingendolo verso Cristo. Di qui la necessità di saper valorizzare gli aspetti positivi di un mondo che resiste allo Spirito”. (G. Giaquinta, La santità, 51)
Queste parole sono state dette quasi quaranta anni fa: eppure conservano intatta la loro carica programmatica. Oggi viviamo immersi in tanti deserti, nei quali i semi di speranza sono ben nascosti; eppure non occorre essere santi per aguzzare la vista e accorgersi di quel pullulare di bene, di ansie, di attese… sarebbe già un primo passo, un ottimo esercizio per trasformare qualche angolo di deserto da luogo inospitale e ostile a giardino di vita.
Ma Giaquinta ci ricorda che il santo, colui che ha accolto nella sua vita l’alleanza con il Signore quale legame intimo d’amore con Lui, sa riconoscere Colui che ha messo il seme della speranza nel deserto, vede il bene come seme gettato dallo Spirito nel cuore dell’uomo, nel cuore del mondo, nel cuore della società. E questo fa la differenza. Perché se il seme della speranza è un frutto spontaneo dura quanto la volubilità umana.
Ma se è dono dello Spirito, allora la sua opera sarà certamente portata a compimento. E, cosa ancora più straordinaria, il mondo ha degli aspetti positivi che vengono da una presenza e da un’azione dello Spirito, sebbene ci sia nel mondo stesso una resistenza allo Spirito; motivo in più per cui è necessaria una azione di animazione e di mediazione da parte del santo che agisce all’interno del mondo per aiutarne il cammino e lo sviluppo seguendo l’azione dello Spirito.
Fame e sete
Uno dei paradossi del nostro tempo è la mancanza di equilibrio tra vita interiore e vita esteriore: sembra che esista solo la seconda e la prima è diventata sempre più sottile, povera, vuota. È questo il vuoto da riempire con l’amorevole compagnia di chi ripete l’annuncio del profeta: “Ecco, germoglia qualcosa di nuovo… non te ne accorgi?”.
Alcuni giorni fa ho letto questo passo del libro del profeta Amos: “Ecco verranno giorni, oracolo del Signore, in cui manderò la fame nel paese; non fame di pane né sete di acqua, ma di ascoltare le parole del Signore” (Am 8, 11). Mi sono sembrate parole molto adatte per il nostro tempo, in cui c’è tanta fame e sete di affetti, di relazioni sincere, di persone dedite al servizio del bene comune in maniera disinteressata; c’è fame di rispetto, di accoglienza, di compagnia. E in tutto questo deserto, occorre far risuonare la Parola, farla risuonare con una testimonianza di vita. Non occorre una testimonianza ineccepibile, perfetta e impeccabile, ma il sorriso, la parola, lo sguardo, i gesti di chi dice, anche senza parlare, di aver incontrato Cristo e di essersi accorto che la vita da quell’incontro è stata trasformata.
Cristina Parasiliti Oblata Apostolica, Associata del Movimento Pro Sanctitate

L’ANIMA È IL CARRO CHERUBICO CHE PORTA DIO (MACARIO IL GRANDE)

http://www.natidallospirito.com/2015/06/02/lanima-e-il-carro-cherubico-che-porta-dio-macario-il-grande/

SPIRITUALITA ORTODOSSA / DETTI DEI PADRI DEL DESERTO

L’ANIMA È IL CARRO CHERUBICO CHE PORTA DIO (MACARIO IL GRANDE)

1. Il beato profeta Ezechiele contemplò una visione, un’apparizione divina e gloriosa, e ne fece la narrazione descrivendo una visione colma di ineffabili misteri(1). Vide, nella pianura, un carro di cherubini, quattro esseri viventi spirituali, di cui ciascuno aveva quattro volti: uno di leone, uno di aquila, uno di vitello e uno d’uomo. E per ogni volto avevano delle ali, sicché non v’era parte posteriore o rivolta all’indietro; e il loro dorso era colmo di occhi, e il loro ventre similmente era colmo di occhi, e non vi era parte che non fosse colma di occhi. E ogni volto era provvisto di ruote, una ruota dentro l’altra, e nelle ruote vi era lo Spirito. E vide come un trono e, seduto su di essi, una figura dalle sembianze umane e sotto i suoi piedi c’era come uno zaffiro lavorato. Il carro portava il cherubino e gli esseri viventi il Signore, assiso su di essi; ovunque volesse andare, era sempre in direzione di un volto. E vide, sotto il cherubino, come una mano d’uomo che lo sorreggeva e lo portava. 2. E ciò che il profeta vide nella sua sostanza era vero e certo. Indicava tuttavia qualcos’altro e prefigurava una realtà mistica e divina, un mistero nascosto in verità da secoli e da generazioni(2), ma svelato negli ultimi tempi(3) con la manifestazione di Cristo(4). Contemplava infatti il mistero dell’anima che avrebbe accolto il suo Signore e sarebbe divenuta per lui trono di gloria. Poiché l’anima resa degna di avere parte allo Spirito, fonte della sua luce(5), e illuminata dalla bellezza dell’ineffabile gloria del Signore, che l’ha preparata quale trono e sua dimora, diventa tutta luce(6), tutta volto, tutta occhio(7); non vi è in essa parte alcuna che non sia ricolma degli occhi spirituali della luce, cioè non vi è in essa nulla di tenebroso, ma è trasformata tutta intera in luce e spirito ed è tutta colma di occhi; non ha alcuna parte posteriore o che stia a tergo, ma è volto in ogni lato, poiché su di essa è assisa l’ineffabile bellezza della luminosa gloria di Cristo. E come il sole è identico a se stesso in ogni sua parte e non ha lato posteriore o difettoso, ma è tutto interamente glorificato dalla luce ed è tutto luce, uguale in tutte le sue parti, o come il fuoco, la luce stessa del fuoco, è tutta uguale e non ha in sé qualcosa di primo o di ultimo, di maggiore o di minore, così anche l’anima, che è stata perfettamente illuminata dall’ineffabile bellezza della gloria luminosa del volto di Cristo(8), che è in piena comunione con lo Spirito Santo ed è fatta degna di diventare dimora e trono di Dio, diventa tutta occhio, tutta luce, tutta gloria, tutto spirito. Tale la rende il Cristo, che la conduce, la guida, la sostiene, la trasporta e così la prepara e adorna di bellezza spirituale. È detto infatti: Una mano d’uomo stava sotto il cherubino(9), poiché Colui che in essa è trasportato è anche Colui che guida. 1 Cf. Ez 1,4-28. 2 Col 1,26. 3 Cf. 1Pt 1,20. 4 Cf. 2Tm 1,10 5 Il senso di queste parole viene chiarito al § 6: “…quanti possiedono l’anima della luce, cioè la potenza dello Spirito santo, sono dalla parte della luce”. 6 “l’anima vede la luce e diventa tutta luce” afferma Gregorio di Nazianzo (Carmina dogmatica 32, PG 37,512). È l’esperienza della trasfigurazione sovente attestata negli Apophtegmata patrum: di abba Arsenio si dice che era “tutto come di fuoco” (Arsenio 27, PG 65,96C) e il volto di abba Sisoès risplendeva come il sole (cf. Apophtegmata patrum, alph.: Sisoès 14, PG 65,396BC; cf. anche Pambo 1 e 12). Abba Giuseppe di Panefisi affermava “Non ti è possibile diventare monaco, se non diventi tutto di fuoco!” (Apophtegmata patrum, alph. Giuseppe di Panefisi 6, PG 65, 229C). Su questo tema nelle Omelie dello Pseudo-Macario vedi anche: Om. 8,3 e Om. 15,38. 7 I cherubini ricoperti di occhi nella tradizione cristiana sono diventati simbolo della vita contemplativa. Abba Bessarione diceva: “Il monaco deve essere come i cherubini e i serafini: tutto occhi!” (Apophtegmata patrum,alph.: Bessarione 11, PG 65,141D). 8 Cf. 2Cor 4,6. 9 Cf. Ez 1,8; 10,8.

Publié dans:Ortodossia, spiritualità  |on 24 octobre, 2015 |Pas de commentaires »

SCRITTI SPIRITUALI SUL SENSO DELLA VITA – INTRODUZIONE EDITH STEIN

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SCRITTI SPIRITUALI SUL SENSO DELLA VITA – INTRODUZIONE

EDITH STEIN – LA MISTICA DELLA CROCE

«Vengo per pregare con voi», ha detto il Papa ad Auschwitz, «con tutta la Polonia e tutta l’Europa» Vengo «ad inginocchiarmi su questo Golgota del mondo contemporaneo, su queste tombe, in gran parte senza nome.

Nel giugno 1979, Giovanni Paolo II si recò in pellegrinaggio nella sua patria polacca. Ad Auschwitz, ricordò in particolare coloro che, come Edith Stein e Massimiliano Kolbe, furono vittime di uno spietato odio razziale. L’ebrea Edith Stein, i cui antenati erano immigrati in Polonia, e il sacerdote polacco Kolbe dimostrarono, in quanto cristiani, che anche di fronte all’orrore dello sterminio si può irradiare luce ed amore fraterno.
«Vengo per pregare con voi», ha detto il Papa ad Auschwitz, «con tutta la Polonia e tutta l’Europa» Vengo «ad inginocchiarmi su questo Golgota del mondo contemporaneo, su queste tombe, in gran parte senza nome. Questo è un luogo in cui vogliamo considerare fratelli ogni popolo ed ogni uomo. E se c’è stata amarezza nelle mie parole, cari fratelli e sorelle, esse sono state pronunciate non per accusare, ma per ricordare. Parlo infatti pensando a coloro che sono morti – ai quattro milioni di vittime cadute su questo campo enorme -, parlo a nome di tutti coloro i cui diritti vengono ignorati e violati. Parlo perché mi obbliga, ci obbliga a farlo, la verità» (Oss. Rom., 7 giugno 1979).

La seguente scelta di testi, tratti da scritti e lettere della filosofa e carmelitana Edith Stein, vuole mostrare a quali grandezze è chiamato l’uomo. Edith Stein proveniva da una famiglia ebraica. La religiosità della madre fu rispettata, ma non imitata dai figli, fin dal tempo degli studi, la ricerca della verità fu decisiva per Edith Stein. Verità non solo come conoscenza teoretica, ma come radicale atteggiamento di fondo, che informa tutta la vita. Fino a 21 anni, Edith Stein credette dì poter trovare la verità al di fuori della religione. Ricorderà il momento a partire dal quale decise consapevolmente di non pregare più. Cercò la verità nella psicologia e nella filosofia. Da studentessa, si impegnò per la parità della donna e si interessò di politica. Presto però riconobbe che il sapere porta alla responsabilità, che le regole morali devono plasmare la vita individuale per divenire fondamento costitutivo di un popolo e della sua struttura statale.
Edith Stein era una persona spiritualmente vivace e sensibile, pronta ad aiutare con generosità chi le chiedesse aiuto. Nella cerchia dei parenti e degli amici, era considerata già negli anni di studio particolarmente degna di fiducia per il suo carattere saldo e discreto. L’incontro con i filosofi Edmund Husserl, Max Scheler, Adolf Reinach, Hedwig ConradMartius le fece conoscere il mondo cristiano. Husserl era evangelico, Scheler si converti al cattolicesimo, Reinach e Conrad-Martius al credo evangelico. Edith Stein conobbe la fede cristiana dapprima attraverso il contatto con le persone e solo in seguito attraverso le letture e
lo studio. Esperienza travolgente fu per lei scoprire che la fede in Gesù Cristo crea vincoli di familiarità e di amicizia tra persone prima estranee e dona ai credenti una forza di amare e una conoscenza di sé che Edith Stein non aveva mai sperimentato.
Nel corso della sua ricerca della verità, dal 1916 cominciò in Edith Stein un travaglio inferiore che la portò poco per volta ad accettare la croce di Cristo. La morte di un suo caro amico le aveva fatto provare con improvvisa consapevolezza la forza della croce. Ma sarebbe stato necessario un lungo conflitto interiore per poter accettare l’esistenza di un Dio personale che ama. Leggendo i suoi studi di fenomenologia negli annali husserliani, troviamo indizi del fatto che Edith’ Stein intendesse il suo cammino verso Cristo come un itinerario «mistico». Ella analizza infatti come nella profonda disperazione esistenziale un uomo sia incapace di prendere delle decisioni, e descrive l’esperienza risanatrice e consolante di «una pace trascendentale che si spande nell’anima», e che si può identificare solo con Dio. La lettura dell’autobiografia della spagnola Teresa d’Avila, Dottore della Chiesa, fu per lei una conferma della propria esperienza personale.
Edith Stein si convertì al cattolicesimo nel 1922 con il desiderio di entrare nell’Ordine di Teresa d’Avila. La sua conversione non tardò a crearle difficoltà in famiglia, dove nessuno riusciva a capire la sua scelta; tutto ciò la indusse a vivere i successivi dieci anni della sua vita lavorando. Come insegnante e docente a Speyer, come conferenziera sui problemi di una moderna educazione femminile e come assistente universitaria a Mùnster, Edith Stein, cristiana impegnata professionalmente, cercò di unire in una fruttuosa sintesi il rapporto profondo con Dio e l’impegno gravoso che esigeva la sua attività. Aiutò molti a vedere in modo nuovo la propria vita e a vivere seguendo l’esempio di Cristo.
Fin da quando Hitler prese il potere, Edith Stein, allora a Mùnster, capì quale destino sarebbe stato riservato all’ebraismo europeo. Assistette agli assalti degli studenti aizzati contro gli ebrei dall’influsso del nazionalsocialismo. Queste esperienze acuirono in lei la coscienza di dover fare qualcosa per il suo popolo. Sperò in un’enciclica del Papa sulla questione ebraica. Non essendosi avverato questo suo desiderio, cercò ancora quale fosse il suo compito specifico, quello a cui si sentiva chiamata. L’improvviso esonero dall’incarico nella primavera del 1933, che dovette accettare insieme con molti suoi concittadini ebrei, le aprì ad un tratto una nuova strada. Rifiutò una proposta di lavoro in Sudamerica, come pure la possibilità di continuare tranquillamente il suo lavoro scientifico a Mùnster in attesa di tempi migliori. Il 4 ottobre 1933, entrò nel Carmelo di Colonia.
Come ebrea e come cristiana, Edith Stein si sentiva chiamata a rappresentare il suo popolo davanti a Dio, intercedendo per esso con la preghiera e il sacrificio. Pensava di poterlo fare nel modo migliore nel Carmelo. Entrare nel Carmelo significava per lei imparare a rinunciare a sé come Gesù, partecipare alla sua opera di redenzione. Vedeva la discriminazione di cui era vittima il suo popolo ebraico come una partecipazione alla croce-di Cristo. La persecuzione degli ebrei era per Edith Stein la persecuzione dell’umanità di Gesù. Seguendo l’esempio di Cristo, vedeva la possibilità di vincere il male con il bene. Vincere il male non significava per lei fuggire la sofferenza, ma prenderla su di sé nella forza della croce, in segno di solidarietà con gli altri e per gli altri.
L’incomprensione della sua famiglia ebrea, che vedeva la sua entrata in un monastero di clausura come fuga dalla realtà, come infedeltà nei confronti dei perseguitati, faceva parte dell’esperienza di dolore di Edith Stein. Ma non riuscì a distoglierla dalla sua strada. Dopo nove anni di vita religiosa nel Carmelo di Colonia e di Echt in Olanda, le fu chiesto ciò che fino a quel momento aveva vissuto segretamente: il sacrificio per i fratelli come testimonianza in nome di Gesù Cristo.
Il 2 agosto 1942, Edith Stein e sua sorella Rosa Stein furono arrestate ad Echt dalla Gestapo e condotte nel campo di concentramento di Amersfoort. Il 7 agosto 1942, fu deportata nel campo di sterminio di Auschwitz in Polonia con innumerevoli altri detenuti ebrei. In base a tutte le testimonianze finora raccolte, morì il 9 agosto 1942, uccisa nelle camere a gas di Auschwitz-Birkenau.
Ancora oggi sono valide le parole di Reinhold Schneider, morto nel 1958: «In Edith Stein è riposta una grande speranza, una promessa per il suo popolo – e per il nostro popolo: che questa figura impareggiabile entri veramente nella nostra vita, ci renda chiaro ciò che lei aveva compreso, e la grandezza e l’atrocità del suo sacrificio commuova entrambi i popoli»

(L’autore) Edith STEIN, LA MISTICA DELLA CROCE – autore: Edith Stein

Publié dans:EDITH STEIN, spiritualità  |on 15 avril, 2015 |Pas de commentaires »

UNA CONVERSAZIONE DI ALBINO LUCIANI VESCOVO

http://www.30giorni.it/articoli_id_839_l1.htm

UNA CONVERSAZIONE DI LUCIANI VESCOVO

«Io non sono un mistico»

«Di contemplazione non me ne intendo. Mi fermo alla semplice orazione, quella umile, quella delle anime semplici. Certa povera gente non ha imparato a meditare, ma dice bene le preghiere, con cuore, le preghiere vocali. Santa Bernadette è diventata santa solo per questo. Diceva bene il rosario, ubbidiva alla sua mamma»

una conversazione di Albino Luciani vescovo

Il Signore ci fa tante raccomandazioni, nel Vangelo, sulla preghiera. L’insistenza. Non basta domandare una volta. Non è come suonare il pianoforte: tocchi il tasto, ne esce il suono. «Signore, dammi questa grazia». Pronti, servito! A tamburo battente. Non è così. Il Signore stesso ha detto che non è così. Voglio che domandiate. Ha raccontato anche la parabola. C’era un giudice iniquo in una città. Non gliene importava niente né di Dio né dei poveri mortali. Una vedova andava ogni giorno da lui: «Rendimi giustizia, rendimi giustizia!». «Via, Via! Non ho tempo, non ho tempo». Ma la vedova tornava. Finalmente un giorno il giudice ha detto tra sé: «Anche se non temo Dio e non ho nessun riguardo per gli uomini, poiché questa vedova viene sempre ad importunarmi e non mi lascia più in pace, le voglio fare giustizia, così non l’avrò più tra i piedi». Conclusione di Gesù Cristo: questo lo fa un giudice iniquo e per un motivo egoistico, e il Padre vostro, quando voi insisterete nel domandargli che vi faccia giustizia, il Padre vostro dei cieli, che vi ama, non ve lo farà? E abbiamo già sentito dal Concilio: Bisogna pregare sempre: pregare senza interruzione.
Il nostro primo dovere è di insegnare alla gente a pregare, perché quando abbiamo dato loro questo mezzo potente, si arrangiano anche loro ad ottenere le grazie del Signore. Io non posso fare un trattato sulla preghiera, anche perché forse ne sapete più di me. Accennerò solo a qualche cosa. Forse battiamo molto sulla preghiera di petizione: «Signore, ricordati di me; Signore perdonami!». Bellissimo! Però Gesù quando ci ha insegnato il Pater noster, ci ha detto: «Pregate così», e la sua preghiera l’ha divisa in due parti. La prima: «Sia santificato il tuo nome, venga il tuo regno, sia fatta la tua volontà». È questa la parte che riguarda il nostro rapporto con Dio. Solo dopo si passa alla seconda: «Dacci il nostro pane, ecc.». Quindi anche nelle proprie preghiere si deve seguire questo metodo: fare prima la preghiera di adorazione, di lode, di ringraziamento; e solo dopo quella di domanda. Nelle epistole di san Paolo: «Gratias agamus, Deo gratias, Deo autem gratias…». Queste espressioni, non le ho contate io, ricorrono più di centocinquanta volte. San Paolo rende grazie continuamente. Ma osservate anche le altre preghiere: «Ave Maria, piena di grazia, il Signore è con te». Dopo viene la domanda: «Prega per noi, peccatori». Prima si fa un bel complimento alla Madonna. Bisogna essere diplomatici: si fa una lode, e poi si chiede. Anche gli oremus antichi, non quelli moderni, hanno tutti all’inizio la lode, il complimento. «Deus qui corda fidelium Sancti Spiritus illustratione docuisti…», fatta una bella lode: «da nobis quaesumus…», viene la domanda. Invece: «Concede nobis, famulis tuis…», questo è un oremus moderno; comincia subito col domandare qualcosa. Non ha capito niente, non ha capito niente, chi lo ha composto. E anche le litanie della Madonna: «Mater purissima», l’elogio, «ora pro nobis», la domanda; tutte così. Questo metodo dobbiamo usarlo nelle nostre preghiere. Preoccuparsi un po’ anche… Non ha bisogno il Signore delle nostre preoccupazioni, ma gli fa certamente piacere che ci occupiamo un po’ di lui. C’è un libro molto bello di padre Faber: Tutto per Gesù; non è “alto”, cose umili; e dice proprio che bisogna preoccuparsi degli interessi di Dio, prima che degli interessi nostri. Dicevo: l’adorazione: «Tu sei lassù, o Dio immenso onnipotente, e io sono qui, piccolo piccolo, Signore», questo senso di adorazione di stupore davanti a Dio. «Ti devo tutto, Signore!». Il ringraziamento. Il sentirsi sempre piccoli, miseri, davanti a Dio. Bisogna aiutarli, i fedeli, ad adorare, a ringraziare il Signore. Nessuno è grande davanti a Dio. Davanti a Dio anche la Madonna s’è sentita guardata, piccola. È importantissimo sentirci guardati da Dio. Sentirci oggetto dell’amore che Dio ci porta. San Bernardo, quand’era piccolissimo, in una notte di Natale, s’è addormentato in chiesa e ha sognato. Gli è parso di vedere Gesù bambino che diceva, additandolo: «Eccolo là, il mio piccolo Bernardo, il mio grande amico». S’è svegliato, ma l’impressione di quella notte non si è più cancellata e ha avuto un’enorme influenza sulla sua vita. Sentiamoci piccoli, perché siamo piccoli. Se non ci sentiamo piccoli è impossibile la fede. Chi alza la cresta, chi si vanta troppo, non ha fiducia in Dio. Tu sei grandissimo, Signore, io, di fronte a te, piccolissimo. Non mi vergogno di dirlo. E farò volentieri quello che mi chiedi. Tanto più che non chiedi per prendere, ma per dare, non chiedi a vantaggio tuo, ma nell’interesse mio! Manzoni dice: «L’uomo, mai è più grande di quando si inginocchia davanti a Dio». Nelle preghiere che si fanno manca sempre di più quello che è il senso dell’adorazione. È invece uno degli attegiamenti fondamentali di tutta la religione cristiana.
Albino Luciani a Lourdes durante la processione eucaristica
Albino Luciani a Lourdes durante la processione eucaristica
Quali preghiere e con quale metodo? Voi siete maestri in Israele; sapete che la preghiera più bella è, per sé, quella passiva, dove ci si abbandona all’azione della grazia. Così è di qualche anima che viene addirittura catturata da Dio, lavorata, dominata, santificata. È la cosiddetta preghiera mistica, di quelli che si danno alla contemplazione. E su questo non posso dirvi niente, perché sinceramente io non sono un mistico. Mi dispiace. L’ho insegnato anche a scuola, ho studiato i vari sistemi, le varie tendenze, i carmelitani di qua, i gesuiti di là… Però santa Teresa, che era una donna molto esperta, dice: «Io ho conosciuto dei santi, dei veri santi, che non erano contemplativi, e ho conosciuto dei contemplativi che avevano grazie di orazione superiore, che però non erano santi». Il che vuol dire che, «salvo meliore iudicio», non sarebbe necessaria la contemplazione alla santità. Sulla contemplazione quindi non posso perciò intrattenervi, perché sinceramente non me ne intendo, anche se ho letto qualche libro. Perciò mi fermo alla semplice orazione, quella umile, quella delle anime semplici. Io mi spiego di solito con un esempio molto semplice e pratico. Sentite: c’è il papà che festeggia l’onomastico: in casa hanno organizzato un po’ di festicciola. Arriva il momento: lui sa già di che si tratta, e dice: «Adesso vediamo cosa mi fanno di bello!». Per primo viene il più piccolo dei suoi bambini: gli hanno insegnato la poesia a memoria. Povero piccolo! È lì di fronte al papà, recita la sua poesia. «Bravo!», dice il papà, «ho tanto piacere, ti sei fatto onore, grazie, caro». A memoria. Va via il piccolino, e si presenta il secondo figliolo, che fa già le medie. Ah, non si è mica degnato di imparare una poesiola a memoria; ha preparato un discorsetto, roba sua, farina del suo sacco. Magari breve, ma si impanca da oratore. «Non avrei mai creduto», il papà, «che tu fossi così bravo a far discorsi, caro». È contento il papà: ma guarda che bei pensieri!… Non sarà un capolavoro, ma… Terza, la signorina, la figliola. Questa ha preparato semplicemente un mazzetto di garofani rossi. Non dice niente. Va davanti al papà, neanche una parola: però è commossa, è così rossa che non si sa se sia più rossa lei o i garofani. E il papà le dice: «Si vede che mi vuoi bene, sei così emozionata». Ma neanche una parola. Però i fiori li gradisce, specialmente perché la vede tanto commossa e così piena di affetto. Poi c’è la mamma, c’è la sposa. Non dà niente. Lei guarda suo marito e lui guarda lei: semplicemente uno sguardo. Sanno tante cose. Quello sguardo rievoca tutto un passato, tutta una vita. Il bene, il male, le gioie, i dolori della famiglia. Non c’è altro. Sono i quattro tipi di orazione. Il primo è l’orazione vocale: quando dico il rosario con attenzione, quando dico il Pater noster, l’Ave Maria; allora siamo dei bambini. Il secondo, il discorsetto, è la meditazione. Penso io e faccio il mio discorso col Signore: bei pensieri e anche profondi affetti, intendiamoci. Il terzo, il mazzo di garofani, è l’orazione affettiva. La ragazzina tanto emozionata e tanto affettuosa. Qui non occorrono molti pensieri, basta lasciar parlare il cuore. «Mio Dio, ti amo». Se uno fa anche solo cinque minuti di orazione affettiva, fa meglio che la meditazione. Quarto, la sposa, è l’orazione della semplicità o di semplice sguardo, come si dice. Mi metto davanti al Signore, e non dico niente. In qualche maniera lo guardo. Sembra che valga poco, questa preghiera, invece può essere superiore alle altre. Fate qualche considerazione su ciascuna di queste forme di preghiera. Anche la prima. Si dice: è un bambino, comincia appena. Ma santa Teresa scrive: si può diventar santi con la prima orazione. Certa povera gente non ha imparato a meditare, ma dice bene le preghiere, con cuore, le preghiere vocali. Santa Bernadette è diventata santa solo per questo. Diceva bene il rosario, ubbidiva alla sua mamma. È diventata santa.
Ed ora lasciate che vi raccomandi la devozione alla Madonna, giacché devo fare un cenno al rosario, che in parte è una preghiera vocale. Il rosario è anche la Bibbia dei poveri. Mai tralasciare il rosario, e recitarlo bene. Io sono molto preoccupato dei miei fedeli: ce ne sono ancora di quelli che fanno la preghiera in casa, ma non dicono più il rosario. Quando i figli in famiglia vedono il papà che prega, che prega insieme a tutti, questo ha un effetto sull’educazione, che le nostre prediche non avranno mai, siatene certi. Quindi nella visita pastorale faccio anche questa domanda: «Recitano la preghiera in casa?». Purtroppo pregano poco. Peccato! Allora lo dico in chiesa: «Fate il piacere! Dovete guardare la televisione, capisco. Ma se non potete dire il rosario, tutte le cinque poste, ditene almeno una, dieci Ave Maria, un mistero solo. Vi raccomando tanto, almeno questo. E anche voi insistete sulla devozione alla Madonna. Un giorno mi hanno anche chiesto, sono curiose queste pie anime: «Lei quale Madonna preferisce? Quella del Carmine? Perché, vede, io sono devota della Madonna del Carmine». È gente piuttosto alla buona e io ho risposto: «Se lei mi permette un consiglio, io le suggerirei la Madonna dei piatti, delle scodelle e delle minestre». Guardate che la Madonna si è fatta santa senza visioni, senza estasi, si è fatta santa con queste piccole cose di lavoro quotidiano. Volevo dire: molta devozione alla Madonna. Sì al rosario, la fiducia in lei, ma anche l’imitazione delle sue virtù. Quindi non stancatevi di raccomandare la devozione a Maria.

LA SPIRITUALITÀ DELL’AVVENTO

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LA SPIRITUALITÀ DELL’AVVENTO

La liturgia dell’Avvento è tutta un richiamo a vivere alcuni atteggiamenti essenziali del cristiano: l’attesa vigilante e gioiosa, la speranza, la conversione, la povertà.
L’attesa vigilante e gioiosa deve sempre caratterizzare il cristiano e la Chiesa perché il Dio della rivelazione è il Dio della promessa, il quale in Cristo ha manifestato tutta la sua fedeltà all’uomo. Tutta la liturgia dell’Avvento risuona di questa promessa, soprattutto nella voce di Isaia, che ravviva la speranza d’Israele. Non siamo di fronte a una finzione come se in questo tempo liturgico la Chiesa dovesse mettersi a recitare la parte degli ebrei che attendevano il Messia promesso. La liturgia esprime sempre la realtà e quando nell’Avvento assume la speranza d’Israele, lo fa vivendola ai livelli più profondi e pieni di attuazione. La speranza della Chiesa è la stessa speranza d’Israele, ma già compiuta in Cristo. Lo sguardo, allora, della comunità cristiana si fissa con più sicura speranza verso il compimento finale: la venuta gloriosa del Signore: “Maranathà: vieni, Signore Gesù”. E’ il grido e il sospiro di tutta la Chiesa nel suo pellegrinaggio terreno verso l’incontro definitivo con il Signore. Al senso dell’attesa vigilante è accompagnata sempre l’invito alla gioia. L’Avvento è un tempo di attesa gioiosa perché ciò che si spera, certamente avverrà. Dio è fedele.
Nell’Avvento tutta la Chiesa vive la sua grande speranza. Il Dio della rivelazione di Gesù ha un nome: “Dio della speranza” (Rm 15,13). Non è l’unico nome del Dio vivo, ma è il nome che lo identifica quale “Dio per e con noi”. L’Avvento è il tempo liturgico della grande educazione alla speranza: una speranza forte e paziente; una speranza che accetta l’ora della prova, della persecuzione e della lentezza nello sviluppo del regno; una speranza che si affida al Signore e libera dalle impazienze soggettivistiche e dalle frenesie del futuro programmato dall’uomo. La Chiesa vive nella speranza la sua esistenza come grazia di Cristo, tutta e solo ancorata alla parola del vangelo. Questa Chiesa è chiamata dal mistero dell’Avvento a rendersi segno e luogo di speranza per il mondo in un impegno concreto di liberazione integrale dell’uomo, liberazione che è inscindibilmente grazia di Dio e libera risposta umana.
Avvento, tempo di conversione. Non c’è possibilità di speranza e di gioia senza ritornare al Signore con tutto il cuore nell’attesa del suo ritorno. La vigilanza richiede di lottare contro il torpore e la negligenza, di essere sempre pronti e perciò stesso richiede distacco dai piaceri e dai beni terreni. Appare evidente che gli atteggiamenti fondamentali del cristiano, richiesti dallo spirito dell’Avvento, sono intimamente connessi tra loro, per cui non è possibile l’attesa, la speranza e la gioia per la venuta del Signore senza una profonda conversione. Lo spirito di conversione, proprio dell’Avvento, ha tonalità diverse da quelle richiamate dalla Quaresima. La sostanza essenziale è sempre la stessa, ma, mentre la Quaresima è contrassegnata dall’austerità per la riparazione del peccato, l’Avvento è contrassegnato dalla gioia per la venuta del Signore.
Un atteggiamento, infine, che caratterizza la spiritualità dell’Avvento, è quello del povero. Non è tanto il povero in senso economico, ma il povero inteso nel senso biblico: colui che si affida a Dio e si appoggia con fiducia in lui. Questi “anavim”, come li chiama la Bibbia, sono i miti e gli umili, perché le loro disposizioni fondamentali sono l’umiltà, il timore di Dio, la fede.

Giuliano Franzan OFM Cap.

ENZO BIANCHI, LE PAROLE DELLA SPIRITUALITÀ- LA PREGHIERA

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ENZO BIANCHI, LE PAROLE DELLA SPIRITUALITÀ

La preghiera, una relazione

All’interno di ogni tradizione religiosa la preghiera, nelle sue forme e nei suoi modi, appare essere direttamente connessa al volto del Dio che essa intende raggiungere. E il Dio della rivelazione biblica è il Dio vivente che non sta al termine di un nostro ragionamento, ma…

All’interno di ogni tradizione religiosa la preghiera, nelle sue forme e nei suoi modi, appare essere direttamente connessa al volto del Dio che essa intende raggiungere. E il Dio della rivelazione biblica è il Dio vivente che non sta al termine di un nostro ragionamento, ma nella libertà amorosa dei suoi atti, dei suoi interventi che lo mostrano essere egli stesso alla ricerca dell’uomo. È pertanto vero che, lungi dall’essere il frutto del naturale senso di autotrascendenza dell’uomo o l’esito del suo innato senso religioso, la preghiera cristiana, che contesta ogni autosufficienza antropocentrica, appare come risposta dell’uomo alla decisione gratuita e prioritaria di Dio di entrare in relazione con l’uomo. È Dio che, secondo tutte le pagine bibliche, cerca, interroga, chiama l’uomo, il quale è condotto dall’ascolto alla fede, e nella fede reagisce attraverso il rendimento di grazie (benedizione, lode ecc.) e la domanda (invocazione, supplica, intercessione ecc.), cioè attraverso la preghiera sintetizzata nei suoi due momenti fondamentali. La preghiera è dunque oratio fidei (Giacomo 5, 15), eloquenza della fede, espressione dell’adesione personale al Signore.
Al tempo stesso la rivelazione biblica attesta anche la dimensione della preghiera come ricerca di Dio fatta dall’uomo: ricerca come spazio che l’uomo predispone allo svelarsi, che resta libero e sovrano, di Dio a lui; ricerca come apertura dell’uomo all’evento dell’incontro in vista della comunione; ricerca come affermazione dell’alterità di Dio stesso rispetto all’uomo, come segno del fatto che egli non può essere posseduto dall’uomo anche quando dall’uomo è conosciuto; ricerca come elemento costitutivo della dialettica dell’amore, della relazione di dialogicità centrale nella preghiera. Se la preghiera cristiana è risposta al Dio che ci ha parlato per primo, essa è anche invocazione e ricerca del Dio che si nasconde, che tace, che cela la sua presenza. La dialettica amorosa presente nel Cantico dei Cantici, il gioco di nascondimento e scoperta, di desiderio e ricerca tra amante e amata può applicarsi anche alla preghiera. I Salmi lo mostrano: «o Dio, dall’aurora io ti cerco, la mia anima ha sete di te, mio Dio [...] ti parlo nelle veglie notturne, [...] il mio essere aderisce a te, la tua destra mi abbraccia e mi sostiene» (Salmo 63). E il dialogo amoroso presente nel Cantico è in fondo la realtà a cui la Scrittura vuole condurre l’uomo nel suo rapporto con Dio. È forse questa dimensione relazionale ciò che meglio esprime il proprium della preghiera cristiana, preghiera che si immette e vive all’interno della relazione di alleanza stabilita da Dio con l’uomo.
Posta questa fondamentale premessa, possiamo dire che, se la vita è adattamento all’ambiente, la preghiera, che è vita spirituale in atto, è adattamento al nostro ambiente vitale ultimo che è la realtà di Dio in cui tutto e tutti sono contenuti. Essenziale, come disposizione fondamentale della preghiera cristiana, è l’accettazione e la confessione della propria debolezza. Esemplare è l’atteggiamento del pubblicano della parabola evangelica (Luca 18,9-14) che prega presentandosi a Dio così com’è in realtà, senza menzogne e senza maschere, senza ipocrisie e senza idealizzazioni, e accettando come propria verità quello che Dio pensa di lui, lo sguardo di Dio su di lui. Solo chi è capace di un atteggiamento realistico, povero e umile, può stare davanti a Dio accettando di essere conosciuto da Dio per ciò che egli è veramente. Del resto ciò che davvero è importante è la conoscenza che Dio ha di noi, mentre noi ci conosciamo solo in modo imperfetto (cfr. 1 Corinti 13,12; Galati 4,9). Base di partenza per la preghiera è allora la confessione della nostra incapacità di pregare: «Noi non sappiamo cosa domandare per pregare come si deve, ma lo Spirito viene in aiuto alla nostra debolezza e intercede per noi con gemiti inesprimibili» (Romani 8,26). Da questa confessione scaturisce l’apertura all’accoglienza della vita di Dio in noi. La preghiera porta il soggetto a decentrarsi dal proprio «io» per vivere sempre più della vita di Cristo in lui, per vivere sotto la guida dello Spirito, per vivere da figlio nei confronti del Padre. Questo decentramento non ha nulla a che vedere con il «far il vuoto in se stessi» che scimmiotta atteggiamenti spirituali afferenti ad altre tradizioni culturali e religiose. È un decentramento finalizzato all’agape, all’amore. Infatti il fine della preghiera cristiana, che la distingue anche dalle forme di meditazione e dalle tecniche di ascesi o di concentrazione diffuse nelle religioni orientali, è la carità, l’uscita da sé per l’incontro con la persona vivente di Gesù Cristo e per pervenire ad amare gli uomini «come lui ci ha amati». Questa relazionalità, che è riflesso della vita del Dio trinitario e che abbraccia tanto Dio quanto gli altri uomini, è dunque il contrassegno fondamentale della preghiera cristiana.

LE COLONNE DELLA DIMORA

http://www.usminazionale.it/2010_12/bissi.htm

LE COLONNE DELLA DIMORA

di ANNA BISSI

Un giorno il piccolo Placido1 ricevette una comunicazione da una figura drappeggiata di raccoglimento, la quale lo istruì in merito alla vita interiore. « La Vita interiore – disse – è una Vita che è interiore ». Il piccolo Placido si precipitò a informare il padre Maestro a proposito della sensazionale rivelazione, che avrebbe sconvolto tutti i monasteri e la cristianità intera, domandandosi se sarebbe stato opportuno avvertire il Santo Padre, il Papa. Il nostro giovane monaco ci rivela così, attraverso la sua « stupefacente scoperta », che la nostra dimora interiore non è una realtà statica, immobile, ma vitale. Questa è la prima colonna su cui possiamo edificare il luogo della nostra interiorità: la consapevolezza che dentro di noi abita una vita.

Vita è un termine difficile da spiegare. Il card. Tomas Spidlik ci propone questa definizione: noi « spontaneamente consideriamo vivo ciò che si muove da sé, che ha il principio del movimento interno e dunque, muovendosi, sviluppa se stesso. Inoltre esigiamo che tale sviluppo sia organico, armonico ».2

Tali parole ci permettono di cogliere altre « colonne » su cui costruire la dimora della coscienza. Innanzitutto il dinamismo, il movimento interno: perché ci sia vita è necessario il superamento della staticità, poiché ogni vita comporta sempre una crescita incessante, uno sviluppo. Ricordo un sacerdote il quale mi confessava la sua sofferenza quando, domandando ai suoi parrocchiani anziani come stavano, si sentiva rispondere: « Tiriamo avanti ». Ancor più doloroso è pensare alle comunità religiose che parlano del loro « tran tran ». Questi termini, che offrono un’immagine della vita come il susseguirsi di istanti da catturare e trattenere, in cui ciò che è importante è il sopravvivere più che il vivere, è fondamentalmente anti-cristiana. La nostra vocazione è, infatti, una chiamata alla vita da intendersi in senso dinamico, un invito alla crescita, allo sviluppo: Gesù è venuto a portarci una vita abbondante (cf Gv10,10).

Siamo allora invitati a riflettere sulla nostra vita e domandarci se essa sia davvero tale. Il rischio, infatti, è quello di ridurre l’esistenza, esperienza spirituale inclusa, a un ritualismo, alla ripetizione di gesti che hanno perso di significato; altro pericolo possibile è quello di irrigidirsi di fronte a ciò che non corrisponde ai nostri desideri e sentirsi così delusi, senza più vita, delle « anime morte » interamente o parzialmente, perché scontente e amareggiate, incapaci di sperare in se stesse e negli altri o, ancor peggio, in Dio. Un invito evangelico ci ammonisce rispetto alla possibilità di non-vita presente anche in coloro che cercano il Signore o a cui egli si rivolge: « Lascia che i morti seppelliscano i loro morti », dice Gesù all’uomo che gli chiede di andare al funerale del padre prima di seguirlo (cf Lc 9,59).

La dimora e le sue leggi

Se la dimora interiore è il luogo dove nasce e cresce la vita, e se questo sviluppo vuole essere organico e armonico, ciò significa che tale costruzione non può essere pensata in termini soggettivi, ma deve rispettare alcune leggi. Nella nostra epoca caratterizzata dal sincretismo, le esperienze più diverse– psicologiche, religiose, di benessere fisico – si possono accostare l’una all’altra, senza apparire contraddittorie. Per il cristiano, al contrario, la vita interiore è vita, se risponde a dei criteri definiti, esterni al soggetto che la vive. Essa è vita se lo mette in relazione, se lo orienta verso colui che è la Vita.

La dimora della coscienza è il luogo dove Dio abita e non tutte le esperienze sono atte a preparargli un posto, in cui egli può venire a dimorare presso di noi (cf Gv 14,23). Essa non si costruisce dunque in modo spontaneo e superficiale e richiede la capacità di andare contro corrente rispetto al riduzionismo contemporaneo. Tale fenomeno tende innanzi tutto a far coincidere la vita interiore con la vita psichica; di questa, poi, prende in considerazione solo le funzioni più primitive e inconsistenti, le emozioni epidermiche, le sensazioni di benessere che pongono allo stesso livello un’esperienza di preghiera e una seduta di ginnastica rilassante, la lettura della Bibbia o il testo di un qualche « santone » indiano.

La dimora della coscienza si costruisce invece là dove la dimensione psichica si lascia illuminare dalla luce ricevuta nel Battesimo. Essa ci abita interiormente e, se glielo permettiamo, può informare tutto il nostro vissuto, orientando le scelte, il sentire, il riflettere e tutte quelle capacità psicologiche che possono essere messe al servizio del fine per cui costruiamo la dimora: l’incontro con Dio.

Relazioni intime e profonde

La dimora della coscienza è, quindi, il laboratorio dove si apprende la vita relazionale nel senso più vero e profondo del termine, vale a dire dell’apice a cui possono giungere i legami: l’amore. Non è la meditazione in cui si dilettano molti nostri contemporanei, non è la preghiera recitata con le labbra, ma senza toccare il cuore. Non è nemmeno la riflessione teologica, che talvolta può ridursi a un insieme di elucubrazioni teoriche. Ciò che rende la nostra vita veramente interiore è piuttosto una vita in cui si intrecciano rapporti, si creano dei nessi, si coglie il filo d’oro dell’amore, capace di tenere insieme tutte le realtà. La dimora della coscienza è l’ambito dove si intessono i legami, in cui il nostro spirito impara a integrare le varie dimensioni dell’esistenza, cogliendo in esse un senso, un significato sempre uguale e, nello stesso tempo, sempre diverso: l’amore di Dio donato all’uomo.

La dimora della coscienza è il luogo della relazione, ma gli incontri che in essa avvengono devono avere due caratteristiche: l’intimità e la profondità. Una coscienza matura, infatti, presuppone la capacità di un vero incontro con l’altro e dunque la presenza di un Io che ha superato modalità primitive di mettersi in relazione, basate sulla gratificazione e sul rapporto strumentale, dove l’altro è usato – anche se spesso inconsapevolmente – per i propri scopi personali. Essa tende piuttosto al vero incontro, fatto di dono e di accoglienza, di dimenticanza di sé e di generosa disponibilità. I legami instaurati da una persona interiore, inoltre, hanno la caratteristica dell’intimità, vale a dire della capacità di stare davanti all’Altro/ altro così come si è, senza il bisogno di difendersi, proteggersi, mascherarsi e apparire diversi.

Un laboratorio di simboli

Infine, la dimora interiore è un laboratorio, dove tutta la realtà può venire letta in chiave simbolica. Per l’uomo interiore, che mantiene salda la relazione con Dio e con i fratelli, tutto – in particolar modo il cosmo e la storia – diventa un simbolo, vale a dire una realtà che lega, tiene insieme il visibile e l’invisibile o manifesta la presenza dell’invisibile nel visibile. Per questo l’uomo interiore è un po’ come l’innamorata, che vede le tracce dell’amato in tutto ciò che la circonda. La vocazione dell’uomo alla relazione, all’amore, è data infatti a una creatura inserita in un mondo con cui è necessario creare un legame. La dimora interiore è dunque il luogo in cui si riacquista una giusta relazione con il cosmo: innanzi tutto attraverso un atteggiamento rispettoso nei confronti della natura, dove l’uomo non si pone come colui che usa e sfrutta, ma come chi accoglie e ha cura. Il cosmo, però, è anche il dono che Dio ha fatto alla sua creatura ed esso acquista valore prima di tutto perché ci parla del donatore, di colui da cui l’abbiamo ricevuto.

La vita interiore è la vita in cui colleghiamo costantemente il dono accolto alla persona di colui che ce l’ha donato, in un gioco di continui rimandi: per l’uomo interiore tutto è un richiamo a un Amore da cui tutto proviene.

La vita interiore diventa allora lo spazio in cui la persona esercita il suo ministero regale, risponde alla vocazione di introdurre il cosmo creato nel mondo spirituale, di creare il nesso tra il visibile e l’invisibile, perché, come dice Gregorio di Nazianzo, tutto l’universo, visibile e invisibile, « sia riempito della gloria di Dio, dal momento che tutto è di Dio ».3 La vita interiore è anche il luogo in cui si esercita la profezia. La capacità simbolica, animata dallo Spirito Santo, trasforma anche il modo di interpretare la storia: essa non si configura più come un susseguirsi di eventi, ma come una realtà attraversata dal Mistero, in cui le vicende personali e collettive sono interpretate alla luce della Pasqua.

Nella dimora della coscienza si creano così dei nessi tra funzione simbolica e relazione: la capacità di interpretare la realtà al di là dei fatti specifici che la attraversano si associa alla fiducia, grazie alla quale è possibile trascendere il dato reale e l’apparenza, per cogliere tutto ciò che avviene, a livello personale e nella storia degli uomini, come segno della presenza di un amore, da rintracciare oltre il visibile. Allora, come scrive Olivier Clément:4 « Nella contemplazione della natura » – ma noi potremmo anche aggiungere: e in quella dei volti e della storia – « il cuore intelligente diventa … « dimora di luce » che raggiunge la luce segreta delle cose ».

1 Personaggio uscito dalla penna di suor G. Gallois che, sotto le apparenze di un fumetto, presenta
in modo ricco e profondo la vita monastica. G. GALLOIS, La vita del piccolo san Placido, Gribaudi, Milano
1993, 29.
2 T. SPIDLIK, Maranatha. La vita dopo la morte, Lipa, Roma 2007, 37.
3 GREGORIO DI NAZIANZO, Orazione 39, 13.
4 O. CLÉMENT, I volti dello Spirito, Qiqajon, Bose 2004, 145.

Anna Bissi
Psicoterapeuta
Basilica sant’Andrea
p.za Roma 35 – 13100 Vercelli

Publié dans:meditazioni, spiritualità  |on 5 juin, 2014 |Pas de commentaires »

« DIO VIDE TUTTO QUELLO CHE AVEVA FATTO, ED ECCO CHE ERA MOLTO BUONO » (Gen 1,31):

 http://www.collevalenza.it/CeSAM/02_CeSAM_0004.htm 

« DIO VIDE TUTTO QUELLO CHE AVEVA FATTO, ED ECCO CHE ERA MOLTO BUONO » (Gen 1,31):
MISERICORDIA NELLA CREAZIONE

p. Aurelio Pérez fam

La creazione è il primo atto d’amore di Dio, l’amore fontale per così dire, nel senso che tutto scaturisce da questa fonte dell’essere e della vita che è Dio stesso, come dal grembo di una madre. Anche all’inizio della creazione troviamo, come per la legge del Sinai, dieci parole-comandi (« Dio disse… », Gen 1, 3.6.9.11.14.20.24.26.28.29), attraverso le quali il Signore ha dato vita a tutto il creato(1). Ma la novità biblica, sconosciuta ai sapienti del mondo, è che Dio ha fatto ogni cosa che c’è nel mondo, soprattutto l’essere umano, per amore:
« Nel cammino della fede biblica diventa sempre più chiaro ed univoco ciò che la preghiera fondamentale di Israele, lo Shema, riassume nelle parole: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, il Signore è uno solo» (Dt 6, 4). Esiste un solo Dio, che è il Creatore del cielo e della terra e perciò è anche il Dio di tutti gli uomini. Due fatti in questa precisazione sono singolari: che veramente tutti gli altri dei non sono Dio e che tutta la realtà nella quale viviamo risale a Dio, è creata da Lui. Certamente, l’idea di una creazione esiste anche altrove, ma solo qui risulta assolutamente chiaro che non un dio qualsiasi, ma l’unico vero Dio, Egli stesso, è l’autore dell’intera realtà; essa proviene dalla potenza della sua Parola creatrice. Ciò significa che questa sua creatura gli è cara, perché appunto da Lui stesso è stata voluta, da Lui «fatta». E così appare ora il secondo elemento importante: questo Dio ama l’uomo. La potenza divina che Aristotele, al culmine della filosofia greca, cercò di cogliere mediante la riflessione, è sì per ogni essere oggetto del desiderio e dell’amore — come realtà amata questa divinità muove il mondo —, ma essa stessa non ha bisogno di niente e non ama, soltanto viene amata. L’unico Dio in cui Israele crede, invece, ama personalmente ».(2)
Il messaggio biblico sulla creazione è fondamentalmente positivo: prima della creazione rovinata dal peccato c’è la creazione buona uscita dalle mani di Dio. Per 7 volte viene detto che ciò che Dio ha fatto è buono (tob, kalos = buono e bello), fino alla conclusione: « Dio vide tutto quello che aveva fatto, ed ecco che era molto buono » (Gen 1,31; cf vv. 4.10.12.18.21.25).
La redenzione stessa è un riportare la creazione al principio voluto da Dio, come dice Gesù a proposito dell’unione voluta da Dio tra l’uomo e la donna: « al principio non è stato così » (Mt 19,4). E’ importantissimo per noi sempre ritornare a questo « principio » che non è un fatto temporale, storico o preistorico, perché Dio non è storico né preistorico, è l’Eterno, anche se il suo Amore si spingerà fino al punto che l’Eterno entrerà nel nostro tempo creato.
Sarebbe un errore contro la sapienza di Dio opporre la creazione alla redenzione. Il Signore non distrugge ciò che ha fatto, ma lo rinnova, lo purifica, portando a compimento l’opera che ha iniziato.

« In principio Dio creò il cielo e la terra » (Gen 1,1ss)
E’ questo l’inizio di una rivelazione sull’umanità e sul mondo, non di un trattato di cosmologia(3). Rivelazione appunto dell’amore creatore, provvidente, che tutto mantiene e sorregge nelle sue mani misericordiose e potenti. La prima cosa che il Signore vuole rivelarci con la sua Parola (siamo alle prime pagine della Scrittura Santa) è che tutto ciò che esiste, compresi noi, l’ha creato LUI, non è frutto del caos né del caso.
« Tutte queste cose le ha fatte la mia mano, esse sono mie, oracolo del Signore ». (Is 66,2)
Tutti noi e ciascuno di noi, il cielo e la terra e tutte le cose che vi abitano procediamo da un Sì d’amore che Dio ha pronunciato su di noi e su tutto il creato.
Il primo canto all’amore misericordioso del Signore che é « eterno », nasce contemplando l’opera della Creazione:
« Celebrate il Signore, perché è buono, poiché eterna è la sua misericordia… Ha fatto i cieli con sapienza… » (Sal 136,1-9)
«Dio creò l’uomo a sua immagine, a immagine di Dio lo creò; maschio e femmina li creò»
Siamo di fronte al primo canto nuziale che Dio rivolge alle sue creature, uscite buone, pure e belle dalle sue mani. Per loro ha preparato un giardino meraviglioso, e nel centro di esso ha collocato l’uomo e la donna, fatti « a immagine e somiglianza » di Dio. C’è un’unità originaria (Dio creò l’Adam) che si differenzia nei sessi (li creò maschio e femmina). Ma l’unità – immagine di Dio Uno – sta all’inizio e alla fine della creazione dell’uomo e della donna, chiamati alla comunione. Con l’uomo e la donna (ish e ishah) il Signore ha intessuto il dialogo dell’amicizia, nelle loro mani ha messo tutto il creato perché lo custodiscano e lo coltivino, e in esso crescano fecondi e felici. L’essere immagine e somiglianza di qualcuno indica anche la « figliolanza », come leggiamo più avanti:
« Quando Adamo ebbe centotrent’ anni generò un figlio a sua somiglianza, conforme all’ immagine sua, e lo chiamò Set » (Gen 5,3)
« E Dio disse… »
Questo Sì alla vita è stato detto da Dio attraverso il suo Verbo Creatore. La Parola di Dio è efficace: Egli « dice » e le cose vengono all’esistenza:
« Con la parola del Signore furon fatti i cieli e col soffio della sua bocca tutto il suo ornamento… poiché egli parlò e fu fatto, egli comandò ed esso fu creato » (Sal 33,6.9; cf 148,1-6)
Dio chiama all’esistenza (la nostra prima e universale vocazione è quella alla vita), dà dei nomi, fa le creature secondo la loro specie, assegna loro dei fini, ed esse prendono forma rispondendo alla potenza della sua parola. Il caos disordinato diventa cosmo ordinato.
Nella pienezza della Rivelazione coglieremo il mistero di questa Parola che era « al Principio » presso Dio ed era Dio: « Tutte le cose sono state fatte per mezzo di Lui e senza di Lui niente è stato fatto » (Gv 1,3). Anzi « tutte le cose sono state create per mezzo di lui e in vista di lui » (Col 1,16).
« Mandi il tuo Spirito ed essi sono creati » (Sal 104,30)
Insieme alla Parola c’è lo Spirito creatore, la ruah di Dio che dà la vita, dopo aver aleggiato su quel caos iniziale per mettervi ordine; la stessa ruah che Dio soffia nelle narici dell’Adam originario, fatto di creta, e solo allora l’Adam diventa un essere vivente (nefesh). Senza lo Spirito (=il respiro, il soffio di Dio) c’è la morte. Si preannuncia già misteriosamente la dimensione trinitaria, che verrà rivelata pienamente quando la Parola-Figlio assumerà la creta di Adam per divenire il nuovo Adam datore dello Spirito di vita.
Cantare la misericordia del creatore nella contemplazione del creato
Una delle cose più belle, gioiose e liberanti che ci è dato di fare è contemplare l’opera della creazione e noi al suo interno. Sentirci « creature », oggetto dell’interesse amoroso e provvidente del Creatore, ci colloca al posto giusto di fronte a Dio, in vera umiltà gioiosa, piena di gratitudine e capace di assumere le responsabilità che Lui ci affida con il dono della vita. La preghiera che passa in rassegna le opere del Signore, una per una (cf Sal 104, Gb 36,22-37,24; Sal 19,1-7; Dn 3,51-90 ecc.) apre il cuore alla benedizione e alla lode ed fonte di vera gioia e fondato ottimismo. Pensiamo al Cantico delle creature di S. Francesco, alle esclamazioni della nostra Madre di fronte al creato: « qué pintor! ».
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[1] “La creazione esiste perché obbedisce alle dieci parole di Dio, e l’uomo vive ed esiste perché obbedisce ai dieci comandi di Dio” (B. COSTACURTA, Spiritualità dell’Antico testamento – appunti degli studenti – PUG 1994-1995).
[2] BENEDETTO XVI, Deus Caritas est, 9.
[3] Cf F.R. DE GASPERIS, Sentieri di vita, I, Paoline 2005, p. 36ss.

Publié dans:biblica, spiritualità  |on 30 avril, 2014 |Pas de commentaires »
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