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La traversata del Mar Rosso e il canto di Myriam

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Publié dans:immagini sacre |on 7 avril, 2015 |Pas de commentaires »

IL «SERVO DEL SIGNORE» (Is 42; 49-50; 52-53).

http://www.collevalenza.it/CeSAM/02_CeSAM_0014.htm

IL «SERVO DEL SIGNORE» (Is 42; 49-50; 52-53).

« ESSI SI VOLGERANNO A ME CHE HANNO TRAFITTO… IN QUEL GIORNO VI SARA’ UNA FONTANA ZAMPILLANTE » (Zc 12,10; 13,1)

P. Aurelio Pérez fam

All’interno del libro del profeta Isaia si distinguono chiaramente tre parti, di cui la prima (cap. 1-39) è quella propria del profeta Isaia, vissuto nell’VIII sec. a. C., e la seconda (cap. 40-55), ambientata in un quadro storico di quasi due secoli dopo, è quella che contiene i cosiddetti « canti del servo ».
L’orizzonte di consolazione, di attesa di liberazione, di speranza di rinnovamento cantato dal « secondo Isaia » durante l’esilio, è dominato dalla misteriosa figura del « servo del Signore », innocente e giusto, chiamato a radunare il popolo disperso e ad essere addirittura luce delle genti, ma attraverso una morte violenta che espia i peccati del popolo.
Chi è questo servo? Alcuni lo identificano con il popolo d’Israele, chiamato spesso « servo » del Signore (cf Is 41,8-16; 44,21-23), molti propendono a vedervi una figura storica, l’anonimo profeta che scrive (il secondo Isaia). In ogni modo sono i testi sul servo sofferente e la sua espiazione vicaria quelli che Gesù ha evocato ed ha applicato alla sua missione e passione, soprattutto in quella lectio divina che rilegge tutte le Scritture, fatta personalmente da Lui ai due discepoli di Emmaus dopo la risurrezione (Lc 24,25-32.44-46).

1. Il Signore presenta il suo Servo.

Primo canto (Is 42,1-9)
L’identità personale di questo servo viene, anzitutto, presentata solennemente dal Signore stesso, che lo qualifica come colui che Egli sostiene, il suo « eletto » in cui si compiace e in cui pone il suo Spirito, per portare il diritto alle nazioni e stabilirlo sulla terra (vv. 1.4).
Questa missione universale così grande sarà caratterizzata da uno stile di discrezione, misericordia e compassione, che non scoraggia nessuno, ma nello stesso tempo è fermo e costante nel portare a termine la missione che il Signore gli affida (vv. 2-4).
« Io, JHWH, ti ho chiamato nella giustizia e ti ho afferrato per mano, ti ho formato e ti ho stabilito alleanza di popolo e luce delle nazioni, per aprire gli occhi dei ciechi, far uscire dal carcere i prigionieri e dalla prigione gli abitatori delle tenebre » (vv. 6-7)

2. Il Servo presenta se stesso e la sua difficile missione

Secondo e terzo canto (Is 49,1-7; 50,4-9a)
Il Servo stesso presenta, di nuovo in modo solenne, la sua vocazione profetica. Ha coscienza di essere stato « chiamato » (49,1), anzi « plasmato » (49,5) dal Signore fin dal seno materno, non solo per ricondurgli Giacobbe e a Lui riunire Israele, ma anche per essere luce delle nazioni (49,6), affinché la salvezza misericordiosa del Signore arrivi alle estremità della terra e abbracci tutti.
Ma si tratta di una vocazione simile a quella di Geremia (cf Ger 1,4-10), caratterizzata da una misteriosa sofferenza, che sembra rendere inutile e destinato al fallimento lo sforzo del profeta (49,4), la cui vita verrà disprezzata e rifiutata (49,7). Ma l’opera del Signore nel suo Servo avrà, alla fine, la meglio e si manifesterà di fronte ai potenti della terra (49,7).
Continuando su questa linea, il terzo canto del Servo (50,4-9a), presenta, ancora in termini autobiografici, la sofferenza fisica e morale (v. 6), con dettagli (flagelli, insulti, sputi) che si compiranno alla lettera nella Passione di Gesù. Il Signore che chiama il suo Servo a sostenere gli sfiduciati, lo prepara a questa missione aprendogli l’orecchio alla sua volontà, e il Servo risponde con decisione (vv. 4-5), anzi rende la sua faccia dura come pietra, fiducioso nel Signore (v. 7; cf Ez 3,4-11; Lc 9,11).

3. Il Servo « schiacciato per le nostre iniquità »

Quarto canto (52,13-53,12)
La missione del Servo di JHWH conoscerà un fallimento bruciante agli occhi umani e un epilogo inatteso. Si tratta di una notizia inaudita. La persecuzione e la passione, che il Servo in persona presentava nel terzo canto, diventano una umiliante condanna a morte, in cui entra senza aprir bocca, « come agnello condotto al macello » (53,7). Martin Buber, ebreo anche lui, ha scritto che « il successo non è uno dei nomi di Dio ».
Solamente a distanza, coloro che erano stupiti di lui – «tanto era sfigurato per essere d’uomo il suo aspetto e diversa la sua forma da quella dei figli dell’uomo» (52,14) – apriranno gli occhi e «comprenderanno ciò che mai avevano udito» (52,15). Verrà alla luce una rivelazione incredibile: il Servo «castigato, percosso da Dio e umiliato» (53,4cd), questo «uomo dei dolori» è, in realtà, il soggetto nascosto del più alto compiacimento del Signore e della sua volontà di salvezza(1). Viene sottolineato con molta insistenza che la morte ignominiosa del servo innocente, ha nel disegno misterioso del Signore, un carattere vicario: « si è caricato delle nostre sofferenze » (53,4), « è stato trafitto per i nostri delitti… per le sue piaghe noi siamo stati guariti » (53,5, cf vv. 6.8b.11d.12d).
Com’era stato all’inizio (52,13-15), così alla fine, è il Signore che dice l’ultima parola sulla sorte e sulla « buona riuscita » e il « successo » (quello secondo Dio) che avrà il Servo(2). La sua morte si rivelerà un’esplosione di vita e il Signore gli darà in premio le moltitudini (53,11-12).

ZACCARIA: Il « trafitto » e la « fontana zampillante »
Il libro del profeta Zaccaria si divide in due parti ben distinte(3). La prima parte (cap. 1-8) si occupa, come il profeta Aggeo, della ricostruzione del Tempio e della restaurazione nazionale, ma che aprono all’era messianica, in cui sarà esaltato il sacerdozio rappresentato da Giosuè (3,1-7), ma in cui la regalità sarà esercitata dal « germoglio » (3,8), che 6,12 applica a Zorobabele. I due unti (4,14) governeranno in perfetto accordo.
La seconda parte (cap. 9-14), tutta diversa per stile e orizzonte storico, è importante soprattutto per la dottrina messianica: la rinascita della casa di Davide (12), l’attesa di un Re Messia umile e pacifico (9,9-10), l’annunzio misterioso del Pastore rifiutato e valutato trenta sicli d’argento (11,12-13), e del « Trafitto » (12,10), con cui il Signore stesso si identifica, verso cui si volgeranno gli sguardi, e nel cui « giorno » sgorgherà una « fontana zampillante » che laverà il peccato e l’impurità (13,1). Dietro questo misterioso « trafitto » ci sono le figure storiche del santo re Giosia, trafitto proprio nella pianura di Meghiddo, di tutti i profeti e giusti perseguitati, ma soprattutto si staglia la profezia del Messia Gesù trafitto sulla croce, dal cui costato sgorgherà la sorgente della salvezza per tutti. Il Nuovo Testamento citerà o farà allusione a questi capitoli di Zaccaria. (cf Mt 21,4-5; 27,9; Mc 14,27; Gv 19,37).

[1] Cf F. ROSSI DE GASPERIS – A. GARFAGNA, Prendi il Libro e mangia, 3.1, p. 47.

[2] Gli esegeti ritengono che sia più o meno contemporanea della profezia del secondo Isaia anche la “storia di Giuseppe” (Gen 37,2-50,26), segnata da un abbassamento drammatico a cui segue una glorificazione inattesa, attraverso la quale diventa il salvatore dei suoi fratelli malvagi e gelosi. Si ripeta la storia di una “pietra scartata dai costruttori, divenuta testata d’angolo” nel piano di Dio.

[3] Cf LA BIBBIA DI GERUSALEMME, EDB 1992, p. 1546.

CREDERE DA SOLI O CREDERE INSIEME?

http://www.usminazionale.it/2013_02/castellucci.htm

CREDERE DA SOLI O CREDERE INSIEME?

Prospettiva ecclesiologica

ERIO CASTELLUCCI

«La stessa professione della fede è un atto personale ed insieme comunitario. È la Chiesa, infatti, il primo soggetto della fede. Nella fede della comunità cristiana ognuno riceve il Battesimo, segno efficace dell’ingresso nel popolo dei credenti per ottenere la salvezza. Come attesta il Catechismo della Chiesa Cattolica: «‘Io credo’ è la fede della Chiesa professata personalmente da ogni credente, soprattutto al momento del Battesimo. ‘Noi crediamo’ è la fede della Chiesa confessata dai Vescovi riuniti in Concilio, o più generalmente, dall’assemblea liturgica dei fedeli. ‘Io credo’: è anche la Chiesa nostra Madre che risponde a Dio con la sua fede e che ci insegna a dire ‘Io credo’, ‘Noi crediamo’» (n. 167)».1
Se c’è una religione nella quale credere da soli e credere insieme vanno di pari passo e non si possono contrapporre, questa è certamente il cristianesimo; esistono infatti diversi motivi fondanti la correlazione tra dimensione personale e comunitaria della fede. Ne ricordo tre, che sono alla base dell’ecclesiologia.

L’impronta della Trinità della “persona”
Con la nozione di “persona”, radicata nei racconti biblici della creazione, il cristianesimo ha intrecciato nella concezione dell’“essere umano” due idee diverse: l’idea di “individuo” e quella di “relazione”. La persona è l’essere umano dotato individualmente delle caratteristiche proprie della specie umana, almeno in senso potenziale, ossia l’intelletto e la libera volontà; ma è nello stesso tempo l’essere umano in relazione, poiché nella concezione biblica l’uomo non è fatto per restare solo, ma per costituire una coppia («maschio e femmina li creò»: Gen 1,27) e per dare vita ad una società («siate fecondi e moltiplicatevi »: Gen 1,22). Gli uomini sono creati a immagine e somiglianza di Dio (cf Gen 1,26-27) che non è un essere solitario, ma comunione di Persone: per questo sono intimamente spinti alla relazione, ad uscire da loro stessi e a raccogliersi in “comunione”. Se Dio fosse una persona sola, allora anche gli uomini, fatti a sua immagine, si realizzerebbero restando chiusi in se stessi; ma se Dio è Trinità di persone, allora gli uomini si realizzano in proporzione all’autenticità delle loro relazioni.
La nozione di “persona” comprende quindi due dimensioni inscindibili, che rischiano però di procedere spesso parallele o addirittura in contrasto: quella individuale e quella sociale. Come scrive un economista contemporaneo: «È proprio grazie alla nozione di persona che la cultura europea è riuscita a realizzare l’incontro tra individuo e società, categorie, queste, che di per sé sono conflittuali ».2
Per il cristianesimo quindi l’uomo è un individuo sociale, proteso fuori di se stesso: verso Dio, in una relazione religiosa che lo rende “inquieto” fino a quando non riposa in lui;3 verso i propri simili, stringendo legami che vanno dalla sessualità alla politica, passando attraverso le relazioni di famiglia, amicizia, collaborazione; verso la natura, della quale egli stesso è intessuto e per mezzo della quale egli vive, lavora, cresce; anche la relazione dell’uomo con se stesso è spinta ad uscire da sé, poiché l’uomo è l’unica creatura che possa porsi di fronte a se stesso come un soggetto di fronte a un oggetto: è il dono dell’autocoscienza.
In queste quattro relazioni creaturali dell’essere umano – religiosa,sociale, cosmica ed esistenziale- si può vedere un “germe ecclesiale”:Dio ha voluto l’uomo non come un’isola, ma come un essere teso alla relazione, portato a stringere rapporti e ad aprirsi agli altri e a lui stesso. “Adamo” ed “Eva” sono individui, ma essenzialmente aperti alla comunione con Dio e con i loro simili, alla relazione con la natura e con loro stessi. In fondo è questa la prima forma di alleanza di Dio con l’uomo: alleanza sigillata nell’atto stesso di creare l’uomo come essere in cerca di relazione, capace di comunione.4 Quella concentrata in Adamo è ancora un’ecclesiologia nascosta ed implicita: quasi un seme deposto, che avrebbe fruttificato solo gradualmente passando attraverso le successive fasi della storia salvifica.

La chiamata dei dodici
Per quale motivo Gesù non si dedica da solo alla predicazione del Regno di Dio, ma vuole dall’inizio circondarsi di dodici collaboratori? La ragione è evidente: Gesù dà corpo allo stile del Dio dei Patriarchi, che è suo Padre, al quale «piacque chiamare gli uomini a questa partecipazione della sua stessa vita non tanto in modo individuale e quasi senza alcun legame gli uni con gli altri, ma di riunirli in un popolo, nel quale i suoi figli dispersi si raccogliessero nell’unità».5 Gesù intende a sua volta radunare il popolo eletto, le “dodici tribù” d’Israele, volendo portare a compimento il progetto avviato nell’Antico Testamento, ma interrotto a causa dell’infedeltà verso Dio, che comportò la rottura dell’unità nazionale subito dopo il regno di Salomone. Gesù, raccogliendo i Dodici, esprime la volontà messianica di instaurare l’Israele degli ultimi tempi, che doveva inaugurare il Regno di Dio.6
Gesù, del resto, non poteva non avvalersi di una “comunità” per la predicazione del Regno, se è vero che stabilì il perno della sua predicazione nella legge dell’amore (cf Mt 22,34-40 par.). Se il Regno annunciato da Gesù vive della logica dell’amore, è chiaro che progredirà attraverso relazioni interpersonali, ossia attraverso una forma comunitaria. La crescita del Regno nel puro ambito della coscienza individuale non avrebbe creato quei rapporti interpersonali che la legge della carità esige: se ciò che viene accolto nella coscienza deve rispondere alle esigenze della carità, necessita di traduzioni in gesti e parole, incontri e relazioni. Trova qui la sua basilare ragion d’essere la Chiesa, che «esiste per la comunicazione dell’annuncio del Regno con la parola e per porsi nella storia come un segno vivente del Regno, attraverso la sua vita comunitaria dominata dal Signore Gesù ed attraverso il servizio di carità che in nome del Regno essa rende al mondo».7 I Dodici rimangono “individui” – e infatti Gesù li lascia liberi di aderire o meno alla sua sequela – ma sono inseriti vitalmente in quella “comunità” che è la preformazione della Chiesa, inaugurata nel mistero pasquale.

Sacramenti, Parola, Carità: segni costitutivi della Chiesa
La Pasqua di Gesù, mistero di morte, risurrezione e dono dello Spirito, si trasmette alla Chiesa non nella forma di semplice “ricordo” di un avvenimento passato, ma nella forma di “memoriale”, ossia di un avvenimento che si rende continuamente presente attraverso dei segni. Sono la Parola, i Sacramenti e la Carità i tre grandi segni, consegnati da Gesù agli apostoli, attorno ai quali si intesse quella rete di relazioni che si chiama “Chiesa”. Gesù ha dato agli apostoli i compiti di annunciare e testimoniare a tutte le genti il Vangelo (cf Mt 28,19; Mc 16,15; At 1,8), celebrare la cena eucaristica (cf Mt 26,26-29 e par.; 1Cor 11,23-26), battezzare (cf Mt 28,19), perdonare i peccati (cf Mt 16,19; 18,18; Gv 20,22-23), insegnare i suoi comandamenti (cf Mt 28,20) che si riassumono nel servizio (cf Gv 13,14-15) e nella carità vicendevole (cf Gv 13,34-35).
L’annuncio del Vangelo, la celebrazione dei sacramenti e la testimonianza della carità esigono un intreccio di relazioni; attorno a questi tre segni si crea quell’attività e quella vita che costituiscono la natura stessa della Chiesa. Essa esiste per ricevere e comunicare la “vita buona” del Vangelo, per accogliere e donare la grazia di Dio nei sacramenti e per instaurare nel mondo lo stile della carità. Ecco perché la “fede”, che comprende tutte queste dimensioni, è atto personale e comunitario assieme: personale, in quanto richiede il libero assenso dell’intelligenza e della volontà e non può essere un atto forzato, istintivo o irrazionale, altrimenti non sarebbe “umano”; comunitario, in quanto richiede il coinvolgimento di altri, crea dei “legami”: l’annuncio del Vangelo richiede almeno un predicatore e un ascoltatore, i sacramenti almeno un ministro e un beneficiario, la carità almeno due persone che si pongono in relazione tra di loro nello stile di Dio, che “è amore” (1Gv 4,8.16). Per questo Gesù ha detto: «dove sono due o tre riuniti nel mio nome, io sono in mezzo a loro» (Mt 18,20) e l’apostolo Giovanni ha potuto esprimere alla prima persona plurale, in modo mirabile, la dinamica ecclesiale della trasmissione della fede: «Quello che abbiamo veduto e udito, noi lo annunziamo anche a voi, perché anche voi siate in comunione con noi» (1Gv 1,3).

1 BENEDETTO XVI, Lettera apostolica Porta fidei, 11 ottobre 2011, n. 10.
2 S. ZAMAGNI, «A proposito delle radici dell’identità europea. Una prospettiva economica di sguardo», in A. OLMI (ed.), L’eredità dell’Occidente. Cristianesimo, Europa, Nuovi mondi, Nerbini, Loreto 2010, 99.
3 Cf S. AGOSTINO, Confessioni, I,1,1.
4 CF G. BARBAGLIO-G. COLOMBO, «Creazione», in G. BARBAGLIO e S. DIANICH (edd.), Nuovo Dizionario di Teologia, Paoline, Roma 1977, 188-189.
5 CONCILIO VATICANO II, Ad Gentes, n. 2.
6 Cf J. HOFFMANN, «La Chiesa e la sua origine», in M. FALCHETTI (ed.), Iniziazione alla pratica della teologia, III, Dogmatica II, Queriniana, Brescia 1986, 55-146.
7 S. DIANICH, La Chiesa mistero di comunione, Marietti, Torino 1987, 30.

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