Sant’Anselmo

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SANT’ ANSELMO D’AOSTA VESCOVO E DOTTORE DELLA CHIESA
21 APRILE – MEMORIA FACOLTATIVA
AOSTA, 1033 – CANTERBURY, INGHILTERRA, 21 APRILE 1109
Nasce verso il 1033 ad Aosta da madre piemontese, entrambi nobili e ricchi. Travagliato il rapporto con la famiglia che lo invia da un parente per l’educazione. Sarà solo con i benedettini d’Aosta che Anselmo trova il suo posto: a quindici anni sente il desiderio di farsi monaco. Contrastato dai genitori decide di andarsene: dopo tre anni tra la Borgogna e la Francia centrale, va ad Avranches, in Normandia, dove si trova l’abbazia del Bec con la scuola, fondata nel 1034. Qui conosce il priore Lanfranco di Pavia che ne cura il percorso di studio. Nel 1060 Anselmo entra nel seminario benedettino del Bec, di cui diventerà priore. Qui avvierà la sua attività di ricerca teologica che lo porterà ad essere annoverato tra i maggiori teologi dell’Occidente. Nel 176 pubblica il «Monologion». Nel 1093 diventa arcivescovo di Canterbury. A causa di dissapori con il potere politico è costretto all’esilio a Roma due volte. Muore a Canterbury nel 1109. (Avvenire)
Etimologia: Anselmo = protetto da Dio, Dio gli è elmo, dal tedesco
Emblema: Bastone pastorale
Martirologio Romano: Sant’Anselmo, vescovo e dottore della Chiesa, che, originario di Aosta, fu dapprima monaco nel monastero di Bec nella Normandia in Francia; divenutone abate, insegnò ai suoi confratelli a progredire sulla via della perfezione e a cercare Dio con l’intelletto della fede; promosso poi all’insigne sede di Canterbury in Inghilterra, lottò strenuamente per la libertà della Chiesa, sopportando per questo sofferenze e l’esilio.
Il celeberrimo Sant’Anselmo è una tra le più grandi glorie del Piemonte e della Valle d’Aosta, essendo nato verso il 1033 ad Aosta da madre piemontese. I suoi genitori erano nobili e ricchi: sua madre Ermemberga era una perfetta madre di famiglia, mentre suo padre Gandolfo viveva immerso nei suoi impegni secolari. Anselmo sin dalla sua infanzia sognò di poter raggiungere Dio e nella sua semplicità ipotizzava che risiedesse sulla sommità delle montagne. Già avido di sapere, fu affidato ad un parente per un’accurata educazione, ma non essendo stato compreso dal brutale maestro cadde in una terribile crisi d’ipocondria. Per guarirlo occorsero tutto il tatto e l’amorevolezza della mamma, la quale finalmente lo affidò poi ai benedettini d’Aosta. All’età di quindici anni Anselmo iniziò a sentire il desiderio di farsi monaco, ma il padre non ne volle sapere preferendo farlo erede dei suoi averi. Le attrattive del mondo e le passioni prevalsero allora sul giovane, specialmente dopo la morte della madre. Il padre, che morì poi monaco, lo prese in tale avversione che Anselmo decise di abbandonare la famiglia e la patria in compagnia di un servo.
Dopo tre anni trascorsi tra la Borgogna e la Francia centrale, Anselmo si recò ad Avranches, in Normandia, ove venne a conoscenza dell’abbazia del Bec e della sua scuola, fondata nel 1034. Vi si recò per conoscere il priore, Lanfranco di Pavia, e restare presso di lui, come tanti altri chierici attratti dalla fama del suo sapere. I progressi nello studio furono tanto sorprendenti che lo stesso Lanfranco prese a prediligerlo ed addirittura a farsi coadiuvare da lui nell’insegnamento. In tale contesto Anselmo sentì rinascere in sé il desiderio di vestire l’abito monacale. Avrebbe però altri posti dove poter sfoggiare la sua sapienza senza dover competere con il maestro Lanfranco, ma non trovando valide alternative nel 1060 entrò nel seminario benedettino del Bec. Dopo soli tre anni di regolare osservanza meritò di succedere a Lanfranco nella carica di priore e di direttore della scuola, visto che quest’ultimo era stato destinato a governare l’abbazia di Saint’Etienne-de-Caen. Nonostante il moltiplicarsi delle responsabilità, Anselmo non trascurò di dedicarsi sempre più a Dio ed allo studio, preparandosi così a risolvere le più oscure questioni rimaste sino ad allora insolute. Non bastandogli le ore diurne per approfondire le Scritture ed i Padri della Chiesa, egli soleva trascorrere parte della notte in preghiera e correggendo manoscritti. Ci si può fare un’idea del suo insegnamento leggendo gli opuscoli ed i dialoghi da lui lasciati, alcuni dei quali sono veri e propri piccoli capolavori pedagogici e dogmatici.
Sant’Anselmo fu indubbiamente un grande speculativo, ma anche un grande direttore di anime. La fama del suo monastero si sparse ovunque ed attirò un’élite avida di scienza e di perfezione religiosa. Egli se ne occupava in prima persona con cura speciale. Molte delle sue 447 lettere mostrano l’arte che possedeva per guadagnare i cuori, adattandosi all’età di ciascuno e puntando sull’affabilità dei modi. Alla morte dell’abate Herluin, il 26 agosto 1078 i confratelli all’unanimità designarono Anselmo a succedergli. L’acutezza dell’intelligenza, la straordinaria dolcezza di carattere e la santità della vita gli meritarono un immenso ascendente tanto nel monastero quanto fuori. Intraprese relazioni con il maestro Lanfranco, nominato arcivescovo di Canterbury nel 1070, e collaborò all’organizzazione di alcuni monasteri inglesi: ciò gli permise inoltre di farsi conoscere dalla nobiltà del paese ed apprezzare dalla corte di Londra.
Nel 1076 Anselmo pubblicò il “Monologion” per soddisfare il desiderio dei monaci di meditare sull’essenza divina. Questa sua prima opera si rivelò un capolavoro per la densità e lucidità di pensiero circa l’esistenza di Dio, i suoi attributi e la Trinità. Ad essa seguì il “Proslogion”, più celebre della precedente per l’assai discusso argomento che escogitò a dimostrazione dell’esistenza dell’Essere supremo, in sostituzione dei lunghi e noiosi ragionamenti che aveva esposto nel “Monologion”. “Dio è l’essere di cui non si può pensare il maggiore; il concetto di tale essere è nella nostra mente, ma tale essere deve esistere anche nella realtà, fuori della nostra mente, perché, se esistesse solo nella mente, se ne potrebbe pensare un altro maggiore, uno, cioè, che esistesse non solo nella mente, ma anche nella realtà fuori di essa”.
La fama di Anselmo si diffuse ancora di più in tutta Europa. Era talmente venerato e amato in Inghilterra che il 6 marzo 1093, in seguito alle pressioni dei vescovi, dei signori e di tutto il popolo, fu eletto dal re Guglielmo II il Rosso arcivescovo di Canterbury, sede ormai vacante dalla morte di Lanfranco avvenuta nel 1089. La sua resistenza fu tenace ma inutile ed in riferimento alle difficoltà d’intesa tra il re e il primate affermò con i vescovi ed i nobili che l’accompagnavano: “Voi volete soggiogare insieme un toro non domo e una povera pecora. Il toro trascinerà la pecora tra i rovi e la farà a pezzi senza che sia servita a nulla. La vostra gioia si muterà in tristezza. Vedrete la chiesa di Canterbury ricadere nella vedovanza vivente il suo pastore. Nessuno di voi oserà resistere dopo di me e il re vi calpesterà a piacimento”.
La situazione della Chiesa inglese era effettivamente molto triste in quel periodo a causa della simonia, della decadenza dei costumi e della violazione della libertà religiosa da parte del re. Sant’Anselmo tentò di rimediare a tutto ciò, nella scia della riforma adottata da San Gregorio VII. Non destò quindi meraviglia se, nel 1095, scoppiò tra l’autorità secolare e quella religiosa un aspro conflitto circa il riconoscimento del pontefice Urbano II. Nulla convinse l’arcivescovo a recedere dal suo proposito e, dopo molte difficoltà, nel 1097 poté recarsi a Roma per consultare il papa stesso. Questi lo ricevette con grandi manifestazioni di stima e nel 1098 lo invitò al Concilio di Bari, convocato per ricondurre all’unità della Chiesa gli aderenti allo scisma consumatosi nel 1054 tra Oriente ed Occidente. Nelle questioni discusse Sant’Anselmo apparve come il teologo dei latini, confutando vittoriosamente le obiezioni degli avversari contro la processione dello Spirito Santo da parte di entrambe la altre persone della Santissima Trinità. Nel 1099 prese ancora parte al sinodo di Roma, in cui furono ribaditi i decreti contro la simonia, il concubinato dei chierici e la reinvestitura laica. Partì poi per Lione, ove fu però costretto a trattenersi poiché il re non lo autorizzava a tornare alla sua sede. In Italia aveva completato il suo grande trattato sui “Motivi dell’Incarnazione”, mentre a Lione ne ultimò un altro “Sulla nascita verginale di Cristo e il peccato originale”.
Nel 1110 Enrico Beauclerc successe al fratello Guglielmo sul trono inglese e, desiderando avere l’arcivescovo di Canterbury tra i suoi sostenitori, lo invitò a ritornare. Il nuovo sovrano non aveva però alcuna intenzione di rinunciare a spadroneggiare sulla Chiesa, motivo per cui nel 1103 Anselmo, inflessibile nella difesa dei suoi diritti, dovette una seconda volta andare in esilio a Roma. Dopo lunghe trattative con il nuovo papa Pasquale II, il sovrano rinunciò infine all’investitura dei feudi ecclesiastici, accontentandosi solo dell’omaggio. Nel 1106 il primate poté così ritornare nella sua sede e dedicare all’intenso lavoro pastorale gli ultimi anni della sua vita. Non potendo più camminare, si faceva quotidianamente trasportare in chiesa per assistere alla Messa. Sul letto di morte provò solo il rimpianto di non aver avuto tempo sufficiente per poter chiarire il problema dell’origine dell’anima. Sant’Anselmo morì il 21 aprile 1109 a Canterbury e fu sepolto nella celebre cattedrale. Il pontefice Alessandro III nel 1163 concesse all’arcivescovo Tommaso Becket, di procedere all’“elevazione” del corpo del suo predecessore, atto che a quel tempo corrispondeva a tutti gli effetti ad un’odierna canonizzazione. Sant’Anselmo d’Aosta fu infine annoverato tra i Dottori della Chiesa da Clemente XI l’8 febbraio 1720. Il Martyrologium ROmanum ed il calendario liturgico della Chiesa universale commemorano il santo nell’anniversario della nascita al cielo. Aosta, sua città natale, ha dedicato la strada principale del centro storico alla memoria del suo figlio più celebre.
Autore: Fabio Arduino
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PADRE RANIERO CANTALAMESSA – LA BELLEZZA – 13 GENNAIO 2000
Della bellezza si deve dire ciò che Agostino diceva del tempo: “Cos’è il tempo? Se nessuno me lo domanda, lo so; se voglio spiegarlo a chi me ne domanda ragione, non lo so più” . Io però non intendo affrontare il tema della bellezza (non sarei competente a farlo) da un punto di vista essenziale (cos’è il bello in sé, in che rapporto è con il vero e il buono), ma da un punto di vista esistenziale. Vorrei, in altre parole, riflettere con voi sulla esperienza che noi facciamo a riguardo della bellezza, a livello sia individuale che collettivo.
E anche di questa esperienza vorrei mettere in luce un aspetto ben preciso e limitato, quello che ci tocca più da vicino e che non riguarda solo la sfera estetica, ma anche quella morale. Non la bellezza, dunque, dei mari e dei tramonti, ma quella del corpo umano e specialmente del corpo della donna. È questa bellezza infatti che genera l’eros, una delle grandi forze che muovono il mondo, se non la più potente di tutte. Quella dei mari e dei tramonti non è una bellezza erotica, l’altra lo è, con tutto quello che ciò, sappiamo, comporta.
Nella misura in cui la pubblicità e lo spettacolo riflettono lo spirito, i gusti e le attese di un’epoca (e in larga misura li riflettono), questo tipo di bellezza sembra essere il valore più ricercato in questo passaggio di millennio, il grande “oggetto di culto” nelle società del benessere. L’esempio più plateale, di cui si è parlato di recente, sono i calendari di nudi. “Nudi alla meta del millennio” era intitolato l’articolo comparso negli ultimi giorni dell’anno sulla prima pagina di grande quotidiano, in cui si ironizzava su questo fenomeno che si tenta di far passare come evento artistico e culturale .
È una nuova sfida che viene posta ai credenti. Ha, il cristianesimo, qualcosa da dire sul problema della bellezza, o è condannato a ripetere le sterili messe in guardia di una certa predicazione moralistica del passato? Recentemente, su questo problema si sono udite alcune voci autorevoli. Nella sua recente “Lettera agli artisti” il papa ha detto cose profonde sulla bellezza, considerandola nel suo rapporto con l’arte e con il sacro; lo ha seguito il cardinale Martini con la lettera pastorale per l’anno 1999-2000, intitolata “Quale bellezza salverà il mondo?”.
Ma non si tratta di un problema solo pastorale, che riguarda la possibilità di annunciare il vangelo in una certa cultura ossessionata dal problema della bellezza; è un problema umano universale, dalla cui giusta soluzione dipende l’avvenire stesso della cultura e della vita sul nostro pianeta.
Sono ben note e spesso ripetute le parole che Dostoevskij pone in bocca a uno dei suoi personaggi prediletti, l’Idiota: “Il mondo sarà salvato dalla bellezza”. Ma a quella affermazione egli fa seguire subito una domanda: “Quale salvezza salverà il mondo?” . Perché, è chiaro, non ogni bellezza salverà il mondo; c’è una bellezza che può salvare il mondo e una bellezza che può perderlo. Il dramma è tutto qui.
1. Ambiguità della bellezza
Un chiaro segno della ambiguità della bellezza nella nostra esperienza umana è che, accanto alla sua esaltazione, scopriamo, nella cultura moderna, un esplicito rifiuto di essa, un vero “insulto alla bellezza”, tanto da poter parlare della morte della bellezza, come si è parlato della morte di Dio.
Siccome a esprimersi sulla bellezza, sono stati, in passato, quasi esclusivamente gli uomini, il disprezzo della bellezza si è tradotto in disprezzo della donna:
“Ma tu, o Donna, mucchio di viscere…” .
“Tu, infame alla quale son legato
come il forzato alla catena,
come il testardo giocatore al gioco,
come il beone alla bottiglia,
come la carogna ai vermi!
Maledetta, maledetta!” .
In pittura un artista, Bernard Buffet, mostra degli uccelli mostruosi che si avventano su un corpo femminile nudo, come su una carogna. Qualcuno ha definito alcune donne celebri della pittura astratta “i cadaveri della bellezza” .
È la bellezza in se stessa (non solo della donna) che viene in tal modo “demistificata” e oltraggiata. È noto l’inizio della raccolta di poesie di Rimbaud Una stagione all’inferno: “Una sera mi misi in grembo la Bellezza. E l’ho sentita amara. E l’ho ingiuriata” .
Questo insulto porta, in arte, alla provocatoria rappresentazione di oggetti quali orinatoi e cose simili, e si estende al linguaggio quando, alla parola bella, si preferisce sistematicamente, anche in opere che si pretendono letterarie, la “parolaccia”.
“Dio, scrive Evdokimov, non è il solo a rivestirsi di Bellezza, il male lo imita e rende la bellezza profondamente ambigua”. La Scrittura attribuisce la caduta di Lucifero proprio alla sua bellezza di cui si è compiaciuto, senza più riferirla al creatore (cf. Is 14, 12; Ez 28, 2 s.). “La bellezza esercita il suo fascino, converte l’anima umana al suo culto idolatra, usurpa il posto dell’Assoluto, con una strana e totale indifferenza verso il Bene e la Verità”. “Se la verità è sempre bella, la bellezza non sempre è vera”. Il carattere ambiguo della bellezza è messo in luce dalla Bibbia nella descrizione stessa del primo peccato: Eva vide che il frutto “era gradito agli occhi e desiderabile” (Gen 3,5). Era esteticamente bello .
2. La causa
Qual è la causa di questa ambiguità? Come mai siamo portati fuori strada, proprio da quella luce che dovrebbe guidarci nel nostro cammino verso la felicità? La risposta tradizionale è: il peccato. Ma stando al racconto biblico, l’ambiguità della bellezza non fu solo l’effetto del peccato, ma anche la sua causa. Eva fu sedotta proprio dalla bellezza del frutto proibito, qualunque cosa esso significhi fuori metafora. L’uomo non si staccherebbe da Dio, se non fosse attratto dalle creature. Dei due elementi costitutivi del peccato – aversio a Deo et conversio ad creaturas -, il secondo precede psicologicamente il primo.
Dunque esiste una causa più profonda, anteriore al peccato stesso. Infatti l’ambiguità della bellezza affonda le sue radici nella natura stessa composita dell’uomo, fatto di un elemento materiale e di uno immateriale, di qualcosa che lo porta verso la molteplicità e di qualcosa che tende invece all’unità. Non c’è alcun bisogno di pensare (come hanno fatto gnostici, manichei e tanti altri) che i due elementi risalgano a due “creatori” rivali, uno buono che ha creato l’anima e uno cattivo che ha creato la materia e il corpo. È lo stesso Dio che ha creato l’uno e l’altro insieme, in unità profonda, “sostanziale”. Non però in una situazione statica, cioè perché l’uomo rimanesse tranquillo in questa sua posizione intermedia, con le due forze che si controbilanciano, o si neutralizzano a vicenda. Al contrario, perché, con l’esercizio concreto della sua libertà guidata dalla parola di Dio, decidesse lui stesso in che direzione svilupparsi: se “in alto”, verso ciò che sta “sopra” di lui, o “in basso”, verso ciò che sta “sotto” di lui, se verso l’unità, o verso la molteplicità.
È proprio in questa possibilità di autodeterminazione che risiede la dignità dell’uomo ed è in essa che trova il campo di esercizio privilegiato la sua libertà. Creando l’uomo libero, scrive un filosofo del Rinascimento, è come se Dio gli dicesse:
“Ti ho posto nel mezzo del mondo perché di là meglio tu scorgessi ciò che vi è in esso. Non ti ho fatto né celeste né terreno, né mortale né immortale, perché di te stesso quasi libero e sovrano artefice ti plasmassi e ti scolpissi nella forma che avresti prescelto. Tu potrai degenerare nelle cose inferiori che sono i bruti; tu potrai, secondo il tuo volere, rigenerarti nelle cose superiori che sono divine” .
Questo spiega la lotta tra la carne e lo Spirito e quindi il carattere drammatico che caratterizza l’esistenza dell’uomo nel mondo e il suo rapporto con la bellezza. Siamo davanti a una scelta.
Nel terremoto di Assisi di due anni fa, ci fu un affresco di Cimabue nella volta della basilica superiore che andò distrutto, riducendosi in migliaia di minuscoli frammenti colorati. Ora si sta pazientemente cercando di ricomporli per ricostruire l’affresco originale. È l’immagine di quello che è avvenuto nel passaggio dalla Bellezza increata di Dio alla molteplicità delle cose belle che ci sono nel mondo e, nello stesso tempo, del compito dell’uomo che è di risalire dal frammento all’intero. La prevaricazione nei confronti della bellezza comincia quando si dimentica l’intero e ci si attacca al frammento. Quando chi ha trovato un frammento, per ritornare all’esempio di prima, anziché farlo servire per ricomporre l’affresco originale, lo trafuga, lo privatizza, o lo distrugge, danneggiando così l’intero progetto.
Quand’è che, nei confronti della bellezza, l’essere umano, secondo la terminologia di Pico della Mirandola, “degenera” e si avvilisce? Non certo quando ammira, gode, o crea cose belle, ma quando lo fa abbandonandosi ad esse; quando non fa di esse un trampolino di lancio per elevarsi, con la lode e il desiderio, alla Bellezza incorruttibile, ma si getta a capofitto in esse facendo del loro godimento momentaneo un fine a se stesso. Sant’Agostino ha descritto, a questo riguardo, la sua esperienza in cui non stentiamo a riconoscere anche la nostra:
“Tardi ti ho amato, o bellezza tanto antica e tanto nuova, tardi ti ho amato. Tu eri dentro di me e io stavo fuori e ti cercavo qui, gettandomi, deforme, sopra queste forme di bellezza che sono creature tue…le quali neppure esisterebbero se non fossi tu a farle esistere” .
La bellezza creata diviene allora, per l’essere umano, la tomba, anziché il campo di esercizio, della sua libertà, perché essa, si sa, rende schiavi. È come la droga: nessuna dose appaga, una volta per tutte, il bisogno; occorrono dosi sempre nuove e sempre maggiori per produrre lo stesso effetto. Per impossessarsi e godere di questa bellezza, si fa esattamente quello che si fa per procurarsi la droga: si ruba e si uccide, o ci si uccide. Ai delitti passionali si concedono attenuanti proprio perché si riconosce che in essi il soggetto opera con una libertà assai ridotta. È vero dunque che un certo amore disordinato della bellezza “abbrutisce”, perché priva l’uomo di quello per cui è “uomo”, la ragione e la libertà.
La letteratura ci offre dei simboli famosi di queste due specie di bellezza femminile, quella che eleva e quella che porta alla rovina: la Beatrice di Dante e l’Elena di Omero. Il caso moderno più noto è quello di Marylin Monroe, che i sondaggi indicano come il mito moderno di fascino femminile più resistente nel tempo (guardandosi bene, però, dal ricordare come è finito tale mito). Anche nella Bibbia l’ambiguità della bellezza ha trovato espressioni memorabili. Da una parte, la bellezza che, nel Cantico dei cantici, due innamorati fanno a gara nel celebrare l’uno nell’altro (assunta poi come simbolo di realtà spirituali altissime); dall’altra, la bellezza di una donna che trascina David all’adulterio e al delitto (2 Sam 11,2). “La bellezza ti ha sedotto!”, dice Daniele a uno dei due anziani che volevano far morire la casta Susanna (Dan 13,56).
Dal punto di vista religioso, questo arrestarsi alla bellezza creata, è visto dalla Bibbia come l’essenza stessa dell’ idolatria in quanto con esso si mette la creatura al posto del creatore:
“Davvero stolti per natura tutti gli uomini che vivevano nell’ignoranza di Dio. e dai beni visibili non riconobbero colui che è, non riconobbero l’artefice, pur considerandone le opere… Se, stupiti per la loro bellezza, li hanno presi per dei, pensino quanto è superiore il loro Signore, perché li ha creati lo stesso autore della bellezza” (Sap 13, 1-3; cf. Rom 1, 20-23).
Questa caduta di livello dalla bellezza spirituale a quella materiale tende a ripetersi poi all’interno della stessa creatura e in particolare della donna. La rappresentazione della bellezza femminile non si concentra di solito sul volto, dove più chiaramente si manifesta l’interiorità, i sentimenti, i pensieri, in una parola l’anima della donna, ma su altre parti, sempre le solite, del corpo. È stato detto che nell’icona sacra il corpo serve da supporto al volto e il volto fa da cornice allo sguardo. Qui, esattamente il contrario: il volto è spesso un pretesto per rappresentare ciò che sta sotto di esso. Non ci sono più “Gioconde” in arte e, di questo passo, si perderà perfino la possibilità di averne in futuro.
Anche quelle “solite parti” del corpo di cui parlavo vengono rappresentate avulse dalla loro finalità naturale. Chi, guardando questo modo di rappresentare la donna, si ricorda ancora, per esempio, che le sue mammelle sono così fatte per allattare un bambino ed che è da questa loro attinenza strettissima con la vita, non da altro, che traggono la loro bellezza e il loro fascino? Cosa sa del suo corpo e dei suoi seni una top-model che non hai sentito su di essi le labbra di un bambino, ma solo flash di fotografi? Nulla di vero e di naturale; tutto diventa artificiale e venale La bellezza femminile è ridotta a sex appeal, con grave avvilimento della donna stessa che così viene ridotta a oggetto e concepita puramente in funzione dell’uomo.
3. Come Cristo ha redento la bellezza
San Paolo ha scritto:
“La creazione è stata sottomessa alla caducità non per suo volere, ma per volere di colui che l’ha sottomessa e nutre la speranza di essere lei pure liberata dalla schiavitù della corruzione, per entrare nella libertà della gloria dei figli di Dio” (Rom 8, 19-21).
Al posto di “creazione” possiamo mettere, in questo testo, la parola “bellezza” senza alterare in alcun modo il senso dell’affermazione. “La bellezza è stata sottomessa alla caducità e attende di essere liberata”. Anche la bellezza, come tutte le cose, ha bisogno di essere redenta. Per salvare il mondo, la bellezza ha bisogno, prima, di essere essa stessa salvata. La redenzione di Cristo si estende infatti anche alla bellezza e vediamo come ciò è avvenuto.
A riguardo di Cristo colpisce il contrasto tra due affermazioni. Da una parte egli è visto come “il più bello tra i figli dell’uomo” (Sal ), come “l’irradiazione della gloria divina” (Eb 1, 3), dall’altra a lui, nella passione, vengono applicate le parole dei carmi del Servo di Jahvé: “Non ha apparenza né bellezza per attirare i nostri sguardi, non splendore per provare in lui diletto…, come uno davanti al quale ci si copre la faccia” (Is 53, 2).
Come si concilia tutto ciò? Risponde la lettera agli Ebrei: “Quel Gesù, che fu fatto di poco inferiore agli angeli, lo vediamo ora coronato di gloria e di onore a causa della morte che ha sofferto” (Eb 2,9). Gesù ha redento la bellezza, privandosene per amore.
Per capire questo paradosso bisogna rifarsi a un principio fondamentale che Paolo formula all’inizio della prima lettera ai Corinzi:
“Poiché, nel disegno sapiente di Dio, il mondo, con tutta la sua sapienza, non ha conosciuto Dio, è piaciuto a Dio di salvare i credenti con la stoltezza della predicazione” (1 Cor 1,21).
È quello che Lutero chiamava il redimere le cose “mediante il loro contrario” (“sub contraria specie”). Applicato alla bellezza, esso significa: poiché mediante la bellezza delle creature l’uomo non è stato capace di elevarsi alla Bellezza del creatore, Dio ha cambiato per così dire metodo e ha deciso di rivelare la sua Bellezza attraverso l’ignominia e la deformità della croce e della sofferenza. Il raggiungimento della bellezza passa anch’esso ormai attraverso il mistero pasquale di morte – risurrezione.
Il modello e la fonte di questa bellezza nuova, di redenzione, non è più la bellezza invisibile di Dio, ma quella “che rifulge sul volto di Cristo” (2 Cor 4,6); la bellezza non è più, come la definiva Platone, “lo splendore del vero”, ma è lo splendore di Cristo (anche se le due cose coincidono, essendo lui stesso la Verità).
È esistita fin dalle origini del cristianesimo una tradizione secondo cui il Dio, a immagine del quale fu creato l’uomo (Gen 1, 27), non era il Dio invisibile e incorporeo (come può l’uomo fatto di carne essere a immagine di Dio che è spirito?), ma era il Cristo Verbo incarnato e uomo futuro. Immagine vera e perfetta di Dio è Cristo (Col 1,15); noi siamo l’immagine dell’Immagine di Dio . Il grado della nostra bellezza e perfezione dipende dal grado di somiglianza con lui.
Questo è stata in ogni caso l’ideale di bellezza che ha animato per molti secoli l’arte e la spiritualità cristiana, sia dell’Oriente che dell’Occidente. La bellezza è stata sempre una componente talmente importante della visione cristiana che tutto un filone della spiritualità ortodossa ha preso il nome di “Filocalia”, amore del bello. Sant’Agostino dice che filosofia e filocalia sono più che due sorelle gemelle: sono la stessa cosa .
Dostoevskij aveva tentato di rappresentare in un suo personaggio, l’”Idiota”, l’ideale di una bellezza fatta di pura bontà e positività, senza tuttavia riuscirvi appieno e, a chi glielo faceva notare, rispose, quasi per scusarsi: “Al mondo esiste un solo essere assolutamente bello, il Cristo, ma l’apparizione di questo essere infinitamente bello è di certo un infinito miracolo” .
Gli iconografi sapevano che la luce che dovevano fissare sulla tavola non era una luce qualsiasi, ma la luce taborica, la luce che rifulse sul Tabor come anticipo della risurrezione. Sul Tabor i discepoli furono sopraffatti da un senso di bellezza ed esclamarono: “Signore, è bello per noi stare qui!” (Mc 9,5).
Cos’è che differenzia questa bellezza da ogni altra, pur trattandosi anche qui di una bellezza corporale? È che questa è una bellezza che viene dall’interno, che ha nel corpo il suo mezzo di espressione, non la sua sorgente ultima. Tra questa bellezza e quella esteriore, fatta solo di belle forme e armonia di colori, c’è la stessa differenza che tra una vetrata di cattedrale vista dall’esterno, dalla pubblica via, e la stessa vetrata vista dall’interno, con la luce che l’attraversa e la accende. Il corpo umano diventa il “sacramento” della bellezza: cioè il suo segno, il suo tramite, la sua manifestazione, la sua trasparenza, non la sua sorgente ultima. Non è uno schermo sul quale cade la luce, ma la sorgente da cui promana.
Capita a volte di vedere dei volti di contemplative che richiamano da vicino questo mistero. Nient’altro che un volto e degli occhi, spesso chini a terra, eppure l’esclamazione che si ode più spesso dalla bocca di laici che per la prima volta escono da un tale incontro è: “Che volti! Che luce! Che bellezza!”. Di esse si può dire quello che in uno dei suoi drammi Claudel dice di una fanciulla: “Gli occhi di tutti ricevono la luce, ma i suoi la donano” . Ma è soprattutto sul volto dei bambini (almeno di quelli che hanno la fortuna di crescere in un ambiente sano) che è dato cogliere questa bellezza che promana dall’innocenza e dalla limpidezza del cuore.
4. E nel frattempo?
Cristo, nel mistero pasquale, ha dunque redento la bellezza mediante il suo contrario, cioè lasciandosi spogliare di ogni bellezza. Ha proclamato che superiore allo stesso amore della bellezza è la bellezza dell’amore. Cosa significa tutto questo per noi? Che dobbiamo rinunciare in questo mondo a cercare e a godere della bellezza creata, e in primo luogo della bellezza legata al corpo umano, in attesa della trasfigurazione del nostro corpo nella risurrezione finale? No, la bellezza creata è fatta per abbellire questa vita, non la futura che avrà la sua bellezza. Solo bisogna che questa ricerca accetti di passare attraverso la croce che la redime. La croce della bellezza non è altro che l’amore con quello che esso esige in fatto di fedeltà, di rispetto dell’altro, di sacrificio, di obbedienza a Dio e al senso stesso delle cose.
Parlando a dei giovani e dei fidanzati, vorrei citare una delicata poesia di Goethe, intitolata “Trovata” (Gefunden), il cui significato credo sia trasparente. (La traduco io stesso meglio che posso, non conoscendo alcuna traduzione italiana):
Andavo nel bosco,
solingo a passeggio,
senza nulla cercare,
così almeno pensavo.
Nell’ombra intravidi
un tenero fiore,
lucente qual stella,
o ridente pupilla.
Mi accinsi a strapparlo
ma disse tremante:
“Perché recidermi
e farmi appassire?”.
Allora lo presi
con ogni radice
portandolo a casa,
in mezzo al giardino.
Qui l’ho trapiantato
in luogo tranquillo
e ad ogni stagione
germoglia e fiorisce”.
Due modi diversi di manifestare l’amore e coltivare la bellezza tra giovani!
Per tutti, fidanzati, sposi e consacrati, la redenzione della bellezza passa attraverso la mortificazione e in particolare, in questo caso, la mortificazione degli occhi.
La scelta tra la bellezza che ci eleva e ci fa liberi quella che ci rende schiavi, comincia da ciò che guardiamo. Si legge di un santo monaco che “avendo visto un giorno la bellezza femminile in tutto il suo splendore, pianse di gioia e si mise a lodare il Creatore”. Riportando questo fatto nella sua Scala del paradiso, san Giovanni Climaco commenta: “Un uomo così è già risorto prima della risurrezione di tutti”. Ma questo è un traguardo che raggiungeremo, appunto, con la risurrezione. Nel frattempo, conviene forse ricordare il proposito di Giobbe: “Avevo stretto con gli occhi un patto di non fissare neppure una vergine” (Gb 31, 1) e più ancora l’ammonimento di Cristo: “Chiunque guarda una donna per desiderarla, ha gia commesso adulterio con lei nel suo cuore” (Mt 5,28).
Non possiamo continuare a far ricadere sulla donna il peso delle nostre lotte o addossare ad esse la responsabilità delle nostre cadute, come si è fatto spesso in passato predicando contro “l’immodestia delle donne”, o scrivendo trattati “contro l’ornamento femminile” . Sarebbe un continuare sulla linea di Adamo, facendo ricadere la colpa su Dio stesso: “La donna che tu mi hai posto accanto mi ha dato dell’albero e io ne ho mangiato” (Gen 3, 12). Oltretutto, questa via si è rivelata sempre di poca efficacia, se non addirittura controproducente. Dobbiamo affrontare noi stessi la lotta come, suppongo, da parte , devono fare anche le nostre sorelle donne.
Sant’Agostino non si è vergognato di manifestare noto il combattimento che doveva sostenere a questo riguardo, e non da giovane, ma da vescovo. Egli ricorda le innumerevoli lusinghe che gli uomini seminano, per gli occhi, in quello che producono: vesti, oggetti, pitture, sculture; loda Dio, convinto che ogni immagine bella creata dall’artista, anche se distorte nel suo fine, proviene comunque da lui che è Bellezza infinita; quindi prosegue:
“Purtroppo anch’io che so tutto questo, incespico in queste cose belle…Mi lascio prendere miserevolmente e tu, mio Dio, mi tiri fuori misericordiosamente. Qualche volta senza ch’io ne risenta, poiché vi ero incappato non del tutto volontariamente, qualche altra volta con mio dolore, perché vi ero rimasto impigliato” .
Non so cosa direbbe Agostino se vivesse oggi, dopo l’invenzione del cinema e della televisione!
Più importante però che chiudere gli occhi alla falsa bellezza è aprirli alla Bellezza vera. Contemplare, nella Parola o nell’icona, Cristo crocifisso e risorto. In lui la bellezza è stata definitivamente “liberata dalla schiavitù della corruzione”. L’Eucaristia racchiude, in questo campo, uno straordinario potere di guarigione. Lo si scopre il giorno che uno comincia ad ascoltare come rivolte personalmente a lui (e a ripetersele nel momento della lotta), le parole della consacrazione: “Prendete, mangiate, questo è il mio corpo offerto in sacrificio per voi”.
Il segreto è anche qui lo Spirito Santo; è lui irradia sulla Chiesa la bellezza di Cristo, come ne irradia il profumo. È lo “Spirito creatore, che aleggiando continua a far passare il mondo e le cose dal caos al cosmo, dall’informe al formato, dalla bellezza materiale a quella spirituale. “Chi si unisce al Signore forma un solo Spirito con lui” (1 Cor 6, 17). La vita eterna non consisterà solo nel contemplare la Bellezza increata, ma nell’essere uniti ad essa, con una unione di cui quella terrena dei corpi è, per dirla ancora con Goethe, solo un simbolo (nur ein Gleichnis):
“Quello che passa
non è che un simbolo;
quassù si compie
l’irraggiungibile.
Qui l’ineffabile
è realtà.
L’eterno femminino
ci eleverà” .
A proposito di “eterno femminino”, il pensiero va spontaneamente a Maria, la tota pulchra, la Tutta bella, come la chiama la liturgia. Lutero ha scritto di lei: “Nessuna immagine di donna suscita nell’uomo pensieri così puri come questa vergine” .
Un modo diverso, ma importantissimo, di partecipare al mistero pasquale di redenzione della bellezza è di chinarsi su quelli che, come Cristo nella sua passione, “non hanno splendore né bellezza per attirare i nostri sguardi”. Sui poveri, i crocifissi, i derelitti di oggi. Madre Teresa di Calcutta che stringe con infinita tenerezza tra le braccia un bambino malato o un moribondo abbandonato fa parte, con tutte le sue rughe, di questa bellezza redenta e che redime.
Non sarà infatti – per rispondere alla domanda di Dostoevskij – l’amore della bellezza che salverà il mondo, ma la bellezza dell’amore.