Archive pour le 1 avril, 2015

Romanino, Ultima cena

Romanino, Ultima cena dans immagini sacre

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Publié dans:immagini sacre |on 1 avril, 2015 |Pas de commentaires »

GIOVEDÌ SANTO. EUCARISTIA E SERVIZIO…

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GIOVEDÌ SANTO. EUCARISTIA E SERVIZIO…

5 APRILE 2012 DI AGOSTINO CLERICI

«Per trovare Dio bisogna cercarlo, perché è nascosto: e dopo averlo trovato, dobbiamo cercarlo ancora, perché è immenso». Questa bellissima espressione di sant’Agostino ci accompagnerà in questo Triduo pasquale, come un segnavia sul sentiero di montagna. Credo che, all’uomo di oggi è venuta a mancare proprio questa dimensione del cercare Dio: l’autosufficienza emargina Dio dalla vita come la peggiore delle persecuzioni.
Ecco, allora, stasera, il nostro Dio nascosto ci si manifesta in due gesti sublimi e inaspettati. Dapprima, quello che noi chiamiamo Eucaristia. Nascosto in un pasto, in un mangiare insieme di cui noi cristiani abbiamo smarrito il significato. Sazi ed ebbri di tutto, non sentiamo più i morsi della fame e della sete di Lui. Non scandalizzatevi, se vi dico che abbiamo confuso l’Eucaristia con la Messa. Mi direte: sono la stessa cosa! Sì, ma con il precetto della Messa abbiamo depotenziato il dono dell’Eucaristia. Con la scusa che bisogna andare a Messa, abbiamo dimenticato che l’Eucaristia è la convocazione di Dio, è il luogo in cui chi lo cerca lo trova perché Egli, il nascosto, ha deciso di farsi trovare qui.
Stasera abbiamo la fortuna di celebrare, per così dire, l’origine della Messa, di attingere direttamente all’Eucaristia. Che cosa fa Gesù, in prossimità della sua morte e della sua risurrezione? Raduna i suoi per una cena e, nel segno del pane e del vino, offre da mangiare se stesso, la sua carne e il suo sangue. Non finirò mai di dirvi che quella cena è Eucaristia solo perché Gesù, di lì a poche ore, realizzerà quel segno nella morte di croce, nel dono della sua vita effettivamente fatto. Ma quel segno ci è dato da celebrare in futuro proprio come memoria di quel dono e come esempio da imitare: «Fate questo in memoria di me». Il «questo» da fare non è tanto un rito, quanto un modo di vivere. Gesù vuole dirci: ripetete questo gesto simbolico e fate nella realtà quello che esso simboleggia, siate voi oggi il pane spezzato ed il vino versato, siate voi oggi quello che è stato il mio corpo sulla croce. Come facciamo a mettere qualunque altra cosa – il lavoro, la famiglia, il divertimento, lo sport – prima o addirittura al posto dell’Eucaristia, io non lo so… Ma accade. E accadrà sempre più se non metteremo l’Eucaristia prima della Messa, se non ci preoccuperemo della vita prima che del precetto. Da questo punto di vita è vero che qui si celebra soltanto la Messa, perché l’Eucaristia la si vive altrove, nelle nostre famiglie in una dedizione d’amore più convinto tra i coniugi e tra genitori e figli. La Messa – sia essa lunga o breve – ha una durata limitata. L’Eucaristia la estende nella vita, la fa diventare vita, e nasconde nuovamente la presenza di Dio nell’amore concreto e quotidiano.
Ed ecco il secondo segno davanti al quale sostiamo stasera e che ci manifesta il Dio nascosto che si fa trovare. Non più un gesto anticipatore come quello eucaristico del pane e del vino, ma un gesto reale di servizio, in cui la sporcizia accumulata dai piedi finisce nell’acqua del catino restando come attaccata alle mani che lavano e purificano. Il gesto della lavanda dei piedi dice l’autenticità dell’amore e in un certo senso lo verifica. Gesù, in quell’ultima sera della sua vita terrena, volle farsi maestro di un amore che non si limita ai «ti amo» detti con la bocca e che non è nemmeno la sostanza un po’ dolciastra del cuore. No, egli vuole insegnare l’amore che si mette in ginocchio, l’amore che si misura quando i piedi dell’altro sono sporchi e tu arrivi sino al catino in un gesto di supremo servizio. Non spaventiamoci se un amore così non ci va bene, se ci crea qualche problema. Non lo capirono neanche i discepoli, e Pietro diede voce a quella incomprensione. Non voleva lasciarsi lavare i piedi, perché credeva di amare Gesù e non sentiva alcun bisogno di quel gesto, non era abbastanza umile per lasciarsi servire dal suo Maestro. Lasciarsi amare è ancora più difficile che amare… E poi Gesù è il Signore e il Signore non lava i piedi ai suoi discepoli! Eccolo, allora, il Dio nascosto che si svela, che si lascia trovare, e si lascia trovare da noi in un gesto inaspettato, che genera una nuova immagine di Dio: «Sì, sono il Signore, ma è Signore solo chi serve, farsi schiavo è libertà» (come diciamo in un canto). Il servizio è l’estendersi dell’Eucaristia nella vita quotidiana, è il suo concretizzarsi nella carne. Il modo migliore di vivere la Messa che si è celebrata è servire e lasciarsi servire, amare e lasciarsi amare. Pensate a quanto sarebbero più belle le nostre famiglie, a quanto sarebbe più serena la vita di coppia e le relazioni tra genitori e figli, se questa fosse davvero la legge che le governa: «Ama e lasciati amare, mettiti al servizio e lasciati lavare i piedi».
Vorrei dire una parola particolare a questi bambini che si preparano alla Messa di Prima Comunione e a cui tra poco laverò i piedi. Vorrei dirvi che la vostra prima Eucaristia comincia stasera, come la prima Eucaristia degli apostoli cominciò con la lavanda dei piedi. Stasera è per voi un momento intenso di catechismo: dal gesto che riceverete, potete imparare molto su che cosa è veramente l’Eucaristia, su chi è veramente Gesù. Davvero voi cominciate stasera a fare la Comunione, lasciandovi lavare i piedi da me che, qui, indegnamente, sto al posto di Gesù e ripeto il gesto che egli ha compiuto. Se andando a casa, sarete più attenti ad avere meno pretese e ad essere più servizievoli, questo sarà il modo migliore per prepararvi a ricevere Gesù.

Publié dans:meditazioni, SETTIMANA SANTA |on 1 avril, 2015 |Pas de commentaires »

SANTA MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE – OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI (2012)

http://w2.vatican.va/content/benedict-xvi/it/homilies/2012/documents/hf_ben-xvi_hom_20120405_coena-domini.html

SANTA MESSA NELLA CENA DEL SIGNORE

OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI

Basilica di San Giovanni in Laterano

Giovedì Santo, 5 aprile 2012

Cari fratelli e sorelle!

Il Giovedì Santo non è solo il giorno dell’istituzione della Santissima Eucaristia, il cui splendore certamente s’irradia su tutto il resto e lo attira, per così dire, dentro di sé. Fa parte del Giovedì Santo anche la notte oscura del Monte degli Ulivi, verso la quale Gesù esce con i suoi discepoli; fa parte di esso la solitudine e l’essere abbandonato di Gesù, che pregando va incontro al buio della morte; fanno parte di esso il tradimento di Giuda e l’arresto di Gesù, come anche il rinnegamento di Pietro, l’accusa davanti al Sinedrio e la consegna ai pagani, a Pilato. Cerchiamo in quest’ora di capire più profondamente qualcosa di questi eventi, perché in essi si svolge il mistero della nostra Redenzione.
Gesù esce nella notte. La notte significa mancanza di comunicazione, una situazione in cui non ci si vede l’un l’altro. È un simbolo della non-comprensione, dell’oscuramento della verità. È lo spazio in cui il male, che davanti alla luce deve nascondersi, può svilupparsi. Gesù stesso è la luce e la verità, la comunicazione, la purezza e la bontà. Egli entra nella notte. La notte, in ultima analisi, è simbolo della morte, della perdita definitiva di comunione e di vita. Gesù entra nella notte per superarla e per inaugurare il nuovo giorno di Dio nella storia dell’umanità.
Durante questo cammino, Egli ha cantato con i suoi Apostoli i Salmi della liberazione e della redenzione di Israele, che rievocavano la prima Pasqua in Egitto, la notte della liberazione. Ora Egli va, come è solito fare, per pregare da solo e per parlare come Figlio con il Padre. Ma, diversamente dal solito, vuole sapere di avere vicino a sé tre discepoli: Pietro, Giacomo e Giovanni. Sono i tre che avevano fatto esperienza della sua Trasfigurazione – il trasparire luminoso della gloria di Dio attraverso la sua figura umana – e che Lo avevano visto al centro tra la Legge e i Profeti, tra Mosè ed Elia. Avevano sentito come Egli parlava con entrambi del suo “esodo” a Gerusalemme. L’esodo di Gesù a Gerusalemme – quale parola misteriosa! L’esodo di Israele dall’Egitto era stato l’evento della fuga e della liberazione del popolo di Dio. Quale aspetto avrebbe avuto l’esodo di Gesù, in cui il senso di quel dramma storico avrebbe dovuto compiersi definitivamente? Ora i discepoli diventavano testimoni del primo tratto di tale esodo – dell’estrema umiliazione, che tuttavia era il passo essenziale dell’uscire verso la libertà e la vita nuova, a cui l’esodo mira. I discepoli, la cui vicinanza Gesù cercò in quell’ora di estremo travaglio come elemento di sostegno umano, si addormentarono presto. Sentirono tuttavia alcuni frammenti delle parole di preghiera di Gesù e osservarono il suo atteggiamento. Ambedue le cose si impressero profondamente nel loro animo ed essi le trasmisero ai cristiani per sempre. Gesù chiama Dio “Abbà”. Ciò significa – come essi aggiungono – “Padre”. Non è, però, la forma usuale per la parola “padre”, bensì una parola del linguaggio dei bambini – una parola affettuosa con cui non si osava rivolgersi a Dio. È il linguaggio di Colui che è veramente “bambino”, Figlio del Padre, di Colui che si trova nella comunione con Dio, nella più profonda unità con Lui.
Se ci domandiamo in che cosa consista l’elemento più caratteristico della figura di Gesù nei Vangeli, dobbiamo dire: è il suo rapporto con Dio. Egli sta sempre in comunione con Dio. L’essere con il Padre è il nucleo della sua personalità. Attraverso Cristo conosciamo Dio veramente. “Dio, nessuno lo ha mai visto”, dice san Giovanni. Colui “che è nel seno del Padre … lo ha rivelato” (1,18). Ora conosciamo Dio così come è veramente. Egli è Padre, e questo in una bontà assoluta alla quale possiamo affidarci. L’evangelista Marco, che ha conservato i ricordi di san Pietro, ci racconta che Gesù, all’appellativo “Abbà”, ha ancora aggiunto: Tutto è possibile a te, tu puoi tutto (cfr 14,36). Colui che è la Bontà, è al contempo potere, è onnipotente. Il potere è bontà e la bontà è potere. Questa fiducia la possiamo imparare dalla preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi.
Prima di riflettere sul contenuto della richiesta di Gesù, dobbiamo ancora rivolgere la nostra attenzione su ciò che gli Evangelisti ci riferiscono riguardo all’atteggiamento di Gesù durante la sua preghiera. Matteo e Marco ci dicono che Egli “cadde faccia a terra” (Mt 26,39; cfr Mc 14,35), assunse quindi l’atteggiamento di totale sottomissione, quale è stato conservato nella liturgia romana del Venerdì Santo. Luca, invece, ci dice che Gesù pregava in ginocchio. Negli Atti degli Apostoli, egli parla della preghiera in ginocchio da parte dei santi: Stefano durante la sua lapidazione, Pietro nel contesto della risurrezione di un morto, Paolo sulla via verso il martirio. Così Luca ha tracciato una piccola storia della preghiera in ginocchio nella Chiesa nascente. I cristiani, con il loro inginocchiarsi, entrano nella preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi. Nella minaccia da parte del potere del male, essi, in quanto inginocchiati, sono dritti di fronte al mondo, ma, in quanto figli, sono in ginocchio davanti al Padre. Davanti alla gloria di Dio, noi cristiani ci inginocchiamo e riconosciamo la sua divinità, ma esprimiamo in questo gesto anche la nostra fiducia che Egli vinca.
Gesù lotta con il Padre. Egli lotta con se stesso. E lotta per noi. Sperimenta l’angoscia di fronte al potere della morte. Questo è innanzitutto semplicemente lo sconvolgimento, proprio dell’uomo e anzi di ogni creatura vivente, davanti alla presenza della morte. In Gesù, tuttavia, si tratta di qualcosa di più. Egli allunga lo sguardo nelle notti del male. Vede la marea sporca di tutta la menzogna e di tutta l’infamia che gli viene incontro in quel calice che deve bere. È lo sconvolgimento del totalmente Puro e Santo di fronte all’intero profluvio del male di questo mondo, che si riversa su di Lui. Egli vede anche me e prega anche per me. Così questo momento dell’angoscia mortale di Gesù è un elemento essenziale nel processo della Redenzione. La Lettera agli Ebrei, pertanto, ha qualificato la lotta di Gesù sul Monte degli Ulivi come un evento sacerdotale. In questa preghiera di Gesù, pervasa da angoscia mortale, il Signore compie l’ufficio del sacerdote: prende su di sé il peccato dell’umanità, tutti noi, e ci porta presso il Padre.
Infine, dobbiamo ancora prestare attenzione al contenuto della preghiera di Gesù sul Monte degli Ulivi. Gesù dice: “Padre! Tutto è possibile a te: allontana da me questo calice! Però non ciò che voglio io, ma ciò che vuoi tu” (Mc 14,36). La volontà naturale dell’Uomo Gesù indietreggia spaventata davanti ad una cosa così immane. Chiede che ciò gli sia risparmiato. Tuttavia, in quanto Figlio, depone questa volontà umana nella volontà del Padre: non io, ma tu. Con ciò Egli ha trasformato l’atteggiamento di Adamo, il peccato primordiale dell’uomo, sanando in questo modo l’uomo. L’atteggiamento di Adamo era stato: Non ciò che hai voluto tu, Dio; io stesso voglio essere dio. Questa superbia è la vera essenza del peccato. Pensiamo di essere liberi e veramente noi stessi solo se seguiamo esclusivamente la nostra volontà. Dio appare come il contrario della nostra libertà. Dobbiamo liberarci da Lui – questo è il nostro pensiero – solo allora saremmo liberi. È questa la ribellione fondamentale che pervade la storia e la menzogna di fondo che snatura la nostra vita. Quando l’uomo si mette contro Dio, si mette contro la propria verità e pertanto non diventa libero, ma alienato da se stesso. Siamo liberi solo se siamo nella nostra verità, se siamo uniti a Dio. Allora diventiamo veramente “come Dio” – non opponendoci a Dio, non sbarazzandoci di Lui o negandoLo. Nella lotta della preghiera sul Monte degli Ulivi Gesù ha sciolto la falsa contraddizione tra obbedienza e libertà e aperto la via verso la libertà. Preghiamo il Signore di introdurci in questo “sì” alla volontà di Dio, rendendoci così veramente liberi. Amen.

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