Archive pour mai, 2015

Holy Trinity Icon. Святая Троица

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Publié dans:immagini sacre |on 29 mai, 2015 |Pas de commentaires »

GIOVANNI PAOLO II – LA TRINITÀ: ALLE SORGENTI E ALL’ESTUARIO DELLA STORIA DELLA SALVEZZA

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GIOVANNI PAOLO II – LA TRINITÀ: ALLE SORGENTI E ALL’ESTUARIO DELLA STORIA DELLA SALVEZZA

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 19 gennaio 2000

1. “Trinità sovraessenziale, infinitamente divina e buona, custode della divina sapienza dei cristiani, portaci al di là di ogni luce e di tutto ciò che è ignoto fino alla vetta più alta delle mistiche Scritture, là dove i misteri semplici, assoluti e incorruttibili della teologia si rivelano nella tenebra luminosa del silenzio”. Con questa invocazione di Dionigi l’Areopagita, teologo dell’Oriente (Teologia mistica I, 1), iniziamo a percorrere un itinerario arduo ma affascinante nella contemplazione del mistero di Dio. Dopo aver sostato negli anni scorsi su ciascuna delle tre persone divine – il Figlio, lo Spirito, il Padre – in quest’anno giubilare ci proponiamo di abbracciare con un unico sguardo la gloria comune dei Tre che sono un unico Dio “non nell’unità di una sola persona, ma nella Trinità di una sola sostanza” (Prefazio della solennità della Santissima Trinità). Questa scelta corrisponde all’indicazione offerta dalla Lettera apostolica Tertio millennio adveniente, che pone come obiettivo della fase celebrativa del Grande Giubileo “la glorificazione della Trinità, dalla quale tutto viene e alla quale tutto si dirige, nel mondo e nella storia” (n. 55).
2. Ispirandoci ad un’immagine offerta dal Libro dell’Apocalisse (cfr 22,1), potremmo paragonare questo percorso al viaggio di un pellegrino lungo le rive del fiume di Dio, cioè della sua presenza e della sua rivelazione nella storia degli uomini.
Oggi, a sintesi ideale di questo cammino, sosteremo sui due punti estremi di quel fiume: la sua sorgente e il suo estuario, unendoli tra loro in un unico orizzonte. La Trinità divina sta infatti alle origini stesse dell’essere e della storia ed è presente nel loro traguardo ultimo. Essa costituisce l’inizio e il fine della storia della salvezza. Tra i due estremi, il giardino dell’Eden (cfr Gen 2) e l’albero di vita della Gerusalemme celeste (cfr Ap 22), corre una lunga vicenda segnata dalle tenebre e dalla luce, dal peccato e dalla grazia. Il peccato ci ha allontanati dallo splendore del paradiso di Dio; la redenzione ci riporta alla gloria di un nuovo cielo e una nuova terra, dove “non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno” (ibidem, 21,4).
3. Il primo sguardo su questo orizzonte è offerto dalla pagina iniziale della Sacra Scrittura, che addita il momento in cui la potenza creatrice di Dio trae dal nulla il mondo: “In principio Dio creò il cielo e la terra” (Gen 1,1). Questo sguardo si approfondisce nel Nuovo Testamento, risalendo fin nel cuore della vita divina, quando Giovanni, all’inizio del suo Vangelo, proclama: “In principio era il Verbo, e il Verbo era presso Dio e il Verbo era Dio” (Gv 1,1). Prima della creazione e a fondamento di essa, la rivelazione ci fa contemplare il mistero dell’unico Dio nella trinità delle persone: il Padre e il suo Verbo, uniti nello Spirito.
Lo scrittore biblico che scrisse la pagina della creazione non avrebbe potuto sospettare la profondità di questo mistero. Tanto meno era in grado di raggiungerlo la pura riflessione filosofica, giacché la Trinità è al di sopra delle possibilità del nostro intelletto, e può essere conosciuta solo per rivelazione.
E tuttavia, questo mistero che infinitamente ci supera è anche la realtà più vicina a noi, perché sta alle sorgenti del nostro essere. In Dio infatti noi “viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (At 17,28), e a tutte e tre le divine persone va applicato quanto S. Agostino dice di Dio: Egli è “intimior intimo meo” (Conf. 3, 6, 11). Nelle profondità del nostro essere, dove nemmeno il nostro sguardo riesce ad arrivare, la grazia rende presenti il Padre, il Figlio, lo Spirito Santo, l’unico Dio in tre persone. Il mistero della Trinità, lungi dall’essere un’arida verità consegnata all’intelletto, è vita che ci abita e ci sostiene.4. Da questa vita trinitaria, che precede e fonda la creazione, prende le mosse la nostra contemplazione in quest’anno giubilare. Mistero delle origini da cui tutto sgorga, Dio ci appare Colui che è la pienezza dell’essere e comunica l’essere, come luce che “illumina ogni uomo” (cfr Gv 1,9), come Vivente e datore di vita. Ci appare soprattutto come Amore, secondo la bella definizione della Prima Lettera di Giovanni (cfr 1 Gv 4,8). Egli è amore nella sua vita intima, dove il dinamismo trinitario è appunto espressione dell’eterno amore con cui il Padre genera il Figlio ed entrambi si donano reciprocamente nello Spirito Santo. È amore nel rapporto con il mondo, giacché la libera decisione di trarlo dal nulla è frutto di questo amore infinito che si irradia nella sfera della creazione. Se gli occhi del nostro cuore, illuminati dalla rivelazione, si fanno abbastanza puri e penetranti, diventano capaci di incontrare nella fede questo mistero, in cui tutto ciò che esiste ha la sua radice e il suo fondamento.
5. Ma come s’accennava all’inizio, il mistero della Trinità sta anche davanti a noi, come il traguardo a cui la storia tende, come la patria a cui aneliamo. La nostra riflessione trinitaria, seguendo i vari ambiti della creazione e della storia, guarderà a questa meta, che il libro dell’Apocalisse con grande efficacia ci addita come suggello della storia.
È questa la seconda e ultima parte del fiume di Dio, che abbiamo poc’anzi evocato. Nella Gerusalemme celeste l’origine e la fine si ricongiungono. Appare, infatti, Dio Padre che siede sul trono e dice: “Ecco, io faccio nuove tutte le cose” (Ap 21,5). Accanto a lui è presente l’Agnello, cioè Cristo, sul suo trono, con la sua luce, col libro della vita che raccoglie i nomi dei redenti (cfr ibidem, 21,23.27; 22,1.3). E, alla fine, in un dialogo dolce e intenso, ecco lo Spirito che prega in noi e insieme con la Chiesa, la sposa dell’Agnello, dice: “Vieni, Signore Gesù” (cfr ibidem, 22,17.20).
Ritorniamo, allora, a conclusione di questo primo abbozzo del nostro lungo pellegrinaggio nel mistero di Dio, alla preghiera di Dionigi l’Areopagita che ci ricorda la necessità della contemplazione: “È nel silenzio, infatti, che s’imparano i segreti di questa tenebra… che brilla della luce più abbagliante… Essa, pur rimanendo perfettamente intangibile e invisibile, riempie di splendori più belli della bellezza le intelligenze che sanno chiudere gli occhi” (Teologia mistica I,1).

31 MAGGIO 2015 | SS. TRINITÀ – OMELIA

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31 MAGGIO 2015 | SS. TRINITÀ –  OMELIA

Dio uno in tre Persone: Padre, Figlio e Spirito santo
La Liturgia ci invita oggi a celebrare la festa della SS. Trinità: festa di Dio Padre, Figlio e Spirito Santo.
Dopo aver celebrato i grandi eventi della storia della salvezza – l’incarnazione del Verbo, la passione, morte e risurrezione di Gesù Cristo, la discesa dello Spirito Santo – la Chiesa ci invita ora a celebrare il principio da cui tutto è scaturito, ed il punto di arrivo a cui tutto deve arrivare: l’Alfa e l’Omega, il principio e la fine.
L’esistenza di un Dio che è Padre, Figlio e Spirito Santo rappresenta il vertice della rivelazione fatta da Gesù, ed il punto centrale del suo messaggio di salvezza.
L’amore del Padre ci crea, l’amore del Figlio ci salva, l’amore dello Spirito Santo ci santifica e ci rende figli di Dio.
Dal libro dei Salmi abbiamo un bellissimo inno a Dio creatore e padre:
O Signore nostro Dio quanto è grande il tuo nome su tutta la terra! Se guardo il tuo cielo, opera delle tue dita, la luna e le stelle che tu hai fissate, che cosa è l’uomo perché te ne ricordi…e te ne curi? Eppure tu l’hai fatto poco meno degli angeli, di gloria e di onore lo hai coronato, gli hai dato potere sulle opere delle tue mani.
Il salmista canta così le lodi di Dio, creatore delle bellezze dell’universo, e la gloria dell’uomo, creato ad immagine e somiglianza di Dio, costituito sovrano della creazione perché capace di conoscere ed amare Dio, il suo creatore.
Purtroppo però a rovinare l’armonia del creato, entra nel mondo il peccato, la ribellione dell’uomo a Dio suo creatore.
Con il peccato, che è rifiuto dell’amicizia con Dio, è entrata nel mondo la conflittualità tra gli uomini: Caino uccide il fratello Abele, il dolore, l’odio e la morte regnano nel mondo.
Ma l’amore di Dio Padre non abbandona l’uomo alla triste condizione che lui stesso si è costruito con le proprie mani, con la sua ribellione. Dio che ha creato l’universo e lo governa, diventa il Dio che vuole salvare e redimere la sua creatura, e sacrifica il suo unico Figlio per salvare l’umanità.
S. Paolo nella lettera ai Romani scrive: Dio dimostra il suo amore verso di noi perché, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi… Giustificati per la fede noi siamo in pace con Dio, per mezzo di Gesù Cristo nostro Signore.
Siamo Giustificati, ossia resi giusti e riconciliati con Dio, in virtù del sangue di Gesù Cristo, non con un semplice condono, ma per una rinascita interiore, una rigenerazione per opera dello Spirito Santo.
Infatti l’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito santo che ci è stato dato, cioè donato, da Gesù risorto; e noi possiamo chiamare Dio con il dolce nome di Abbà, Padre, perché siamo diventati realmente figli di Dio, partecipi della sua vita divina.
Questa liberazione dal peccato, questa rigenerazione alla grazia per opera dello Spirito Santo è il fondamento della speranza cristiana che non delude, la speranza della gloria di Dio che ci fa vantare anche nelle tribolazioni, come si esprime San Paolo; cioè la speranza di una partecipazione piena alla vita divina, in una comunione perfetta con Dio, SS. Trinità.
Il Battesimo, rigenerandoci alla vita divina, rendendoci figli di Dio, ci dona la gioia di sentire, già su questa terra, la presenza della SS. Trinità che dimora in noi, con la sua grazia.
Questo mistero soavissimo ed ineffabile faceva esprimere a S. Giovanna d’Arco un solo desiderio: se non sono in grazia, che Dio mi ci metta; se vi sono, che Dio mi ci conservi.
Sia questo il desiderio profondo anche di ognuno di noi. Viviamo ogni nostra giornata, ogni nostra azione, nel nome soavissimo della SS. Trinità, nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo.
Maria, docile all’invito di Dio Padre che l’ha scelta ad essere la Madre del Figlio, per opera dello Spirito Santo, è stata il canale per mezzo del quale è giunta a noi la salvezza; ci aiuti ad essere sempre riconoscenti verso la SS. Trinità: verso Dio Padre che per amore ci ha chiamati all’esistenza, verso Gesù che è morto e risorto per salvarci, verso lo Spirito Santo che ci santifica e con il Battesimo ci ha resi figli di Dio.

D. Mario MORRA SDB

Moses erhält die Gesetzestafeln (Mosé riceve le Tavole della Legge)

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Publié dans:immagini sacre |on 28 mai, 2015 |Pas de commentaires »

ASCESA VERSO L’ALTO INCONTRO CON L’ALTRO – DI ENZO BIANCHI

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ASCESA VERSO L’ALTO INCONTRO CON L’ALTRO

DI ENZO BIANCHI

Al Forte di Bard, in Val d’Aosta, si è da poco aperta una prestigiosa mostra internazionale che durerà fino al mese di agosto, dal titolo « Verso l’Alto. L’ascesa come esperienza del sacro »: un percorso fatto di famosissime opere e originali installazioni multimediali che conducono il visitatore a riflettere su un tema antico: quello del rapporto tra le vette e la spiritualità. Perché da sempre l’uomo ha cercato un contatto con il divino attraverso il suo legame con la montagna. E ancora oggi l’esperienza degli alpinisti rivela che la scalata verso la cima può essere uno spazio di contemplazione.
«Sollevo i miei occhi verso i monti / da dove mi verrà l’aiuto?» (Salmo 121,1). Il salmista non aveva grandi vette davanti a sé: pellegrino verso Gerusalemme, il monte Sion, spingeva lo sguardo verso un’altura spirituale, verso l’Altro che non poteva che trovarsi in alto rispetto alla comune condizione umana. Invocazione, imprecazione, distacco, estraniamento, abbandono: tutto questo esprimiamo con il nostro levare gli occhi al cielo, con lo sguardo proteso che pare aver bisogno di alture per poter davvero far spiccare il volo al nostro anelito. In realtà, il nostro sguardo, anche quando si alza, « si posa » alla ricerca di un luogo in cui sostare per riprendere il cammino. Quante volte, nell’ascendere verso una vetta fermiamo il passo, apparentemente per riprendere fiato, in realtà per misurarci una volta ancora con l’altrove, segno di un Altro che sembra sempre rinviare l’appuntamento a una cima ulteriore, nascosta rispetto a quella più a ridosso di noi. Allora i nostri occhi si attardano a ripercorrere idealmente sentieri che paiono danzare attorno alle falde della montagna, visitano baite e villaggi, discendono lieti dalle cime innevate ai pendii boscosi fino ai pascoli verdeggianti, rincorrono gli irrefrenabili torrenti, si riflettono nelle calme acque di laghetti alpini…
La montagna invita a una duplice contemplazione, a due prospettive speculari e complementari: salendo si fissa lo sguardo sulla vetta, ci si protende verso l’al-di-là, l’ulteriore, quasi a incalzare l’irraggiungibile di cui pure calchiamo le radici rocciose. Una volta in vetta, invece, lo sguardo si distende rappacificato in un volgersi che non è retrospettivo ma piuttosto onnicomprensivo: rileggiamo il percorso appena compiuto e nel contempo la realtà dalla quale ci siamo innalzati, abbracciamo con un solo sguardo il mondo che credevamo di conoscere e a volte, per pura grazia, come san Benedetto poco prima di morire, ci può essere dato di vedere «davanti agli occhi tutto intero il mondo, quasi raccolto sotto un unico raggio di sole» (cfr. Gregorio Magno, Dialoghi II,35). La terra che tanto amiamo è lì, teneramente abbracciata al cielo cui aneliamo: questa duplice contemplazione che si dischiude nelle altezze parla alle profondità del nostro intimo e ci invita a intraprendere un viaggio la cui lunghezza non si può misurare perché fatto di memorie e di attese, di radici e di desiderio di spiccare il volo.
Capiamo meglio, allora, come mai la montagna – fosse anche «un’umile collina» come il monte Sion celebrato nei Salmi o come il dolce declivio verso il lago di Tiberiade che ha sentito scorrere sulla sua superficie la pace delle beatitudini e lo sciamare delle folle benedette – ha sempre simboleggiato il distacco dal quotidiano per perseguire l’ascesa, una ricerca di sé non autistica ma aperta al futuro, all’inatteso. Sì, accostarsi alla montagna è un cammino di ascesa interiore, vissuto con tutto il proprio corpo: i sensi spirituali si affinano grazie a quanto sperimentano le nostre membra. Così l’incontro tra il cielo e la terra è evocato dalla contrapposizione tra l’orizzontale della pianura e il verticale del monte, le alterne vicende dell’esistenza paiono simboleggiate dalla sequenza di salite e discese, la leggerezza e la semplicità sono richieste affinché l’ascesa non sia frenata dall’attaccamento all’inutile o al superfluo, il discernimento è acuito e l’oblio contrastato dal non poter tralasciare nulla di essenziale, per quanto apparentemente trascurabile, la vigilanza è tenuta desta dallo scrutare i segni del tempo e del cielo… Anche il rarefarsi dell’aria, il repentino mutare delle condizioni meteorologiche, il brusco contrasto tra passaggi ombreggiati e accecanti riflessi di sole sulla neve contribuiscono a una purificazione che nasce dalla sorprendente scoperta di come la complementarietà degli opposti plasmi il nostro sentire interiore.
Sì, inoltrarsi in montagna – ma anche solo ripercorrere con la mente e con il cuore le balze che si sono imparate a conoscere dai racconti biblici e dalle narrazioni di quanti ci hanno preceduto nel cammino della vita – rappresenta una inesauribile esplorazione interiore: davvero, come scriveva Dag Hammarskjöld, uomo di fede e amante della montagna, «il viaggio più lungo è il viaggio interiore». Un viaggio che richiede e al contempo stimola coraggio e resistenza, capacità di ascolto e di silenzio, solidarietà e fiducia in sé stessi e negli altri, attenta valutazione delle proprie forze per metterle al servizio di un’impresa nata in noi stessi ma destinata a dilatarsi su quanti ci stanno accanto.
Davvero muoversi «verso l’alto» può essere l’occasione non di irrefrenabile superbia ma, al contrario, di faticosa e liberante ascesi verso una dimensione più grande di noi e al contempo alla nostra portata. Da dove, infatti, ci verrà l’aiuto? «Dal Signore che ha fatto cielo e terra», canta il salmo, dal Signore che ha voluto che cielo e terra si toccassero in un abbraccio infinito.

 

Publié dans:Enzo Bianchi, meditazioni |on 28 mai, 2015 |Pas de commentaires »

COSA DICE LA BIBBIA SULLA SOFFERENZA DEGLI INNOCENTI?

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LA SOFFERENZA

COSA DICE LA BIBBIA SULLA SOFFERENZA DEGLI INNOCENTI?

LETTERA DA TAIZÉ: 2003/6

L’obiezione di Ivan Karamazov, nel celebre romanzo di Dostoievski, resta per molti il più grande ostacolo alla fede in un Dio d’amore: ci si può fidare di Dio in un mondo dove dei bambini sono torturati? Se Dio è buono, come può permettere la sofferenza degli innocenti?
Testimone della ricerca spirituale dell’uomo lungo i secoli, la Bibbia stessa è alle prese con questa domanda. I salmi ci presentano lo smarrimento dei fedeli di fronte alla felicità dei malvagi e all’infelicità dei giusti: «Invano dunque ho conservato puro il mio cuore e ho lavato nell’innocenza le mie mani, poiché sono colpito tutto il giorno, e la mia pena si rinnova ogni mattina… Ma io a te, Signore, grido aiuto, e al mattino giunge a te la mia preghiera. Perché, Signore, mi respingi, perché mi nascondi il tuo volto?» (Salmo 73,13-14; 88,14-15). Chiaramente, la vecchia spiegazione che fa della pena una conseguenza del peccato non funziona sempre, esistono innumerevoli casi in cui la sofferenza non è la conseguenza di un’esistenza lontana da Dio.
Nelle Scritture ebraiche, la figura di Giobbe è l’esempio tipico che suscita questo interrogativo. Uomo giusto e pio attraversa molte prove, ma rifiuta di abbandonare sia l’affermazione della sua innocenza sia la sua relazione con il Signore. Restando unito sino alla fine a questi due poli, Giobbe vede la sua lotta con il Signore sfociare in una nuova scoperta. Non si tratta di una spiegazione intellettuale, come di una giustificazione della sofferenza, cosa mostruosa che Dio non può mai dare, ma è piuttosto la rivelazione di un contesto dove tutto cambia di prospettiva. Giobbe comprende che il tentativo di gettare su Dio la responsabilità della sofferenza porta a un vicolo cieco, all’errore più grande. Scartata questa falsa pista, il campo è ormai libero per una comprensione più vera.
Infatti questa visione è presente sin dall’inizio della rivelazione biblica. Il primo innocente che incontriamo nelle pagine della Bibbia è Abele, ingiustamente ucciso da suo fratello Caino. A questo proposito l’autore della Genesi scrive delle parole stupefacenti: «Il Signore disse a Caino: Che hai fatto? La voce del sangue di tuo fratello grida a me dal suolo!» (Genesi 4,10). Nella Bibbia il sangue è la vita (vedi Levitico 17,11.14), e questa vita annientata dalla malvagità umana ritrova paradossalmente una voce. Lungi dall’essere soffocato dalla violenza degli uomini, il desiderio di vita che abita il cuore della vittima è liberato attraverso la sua innocenza ferita. Il suo grido giunge fino a Dio e provoca il suo intervento.
Questa stessa dinamica è presente nella storia della salvezza, nel racconto dell’Esodo. Quel che fa scendere Dio sulla terra non è qualche atto di prodezza o di dedizione da parte degli esseri umani, ma piuttosto il grido che nasce dalla loro oppressione. I lamenti degli schiavi mettono in moto un vasto processo di liberazione nel quale Dio si fa presente ( vedi Esodo 2,23-25).
Con i profeti d’Israele, si fa un ulteriore passo in avanti. Essi sperimentano fin nella loro carne che Dio, l’Innocente per eccellenza, è rifiutato da un popolo che si crede autosufficiente. Come Osea costretto a sopportare con pazienza il tradimento della sua amata, immagine della fedeltà di Dio con il suo popolo infedele. Come Geremia esposto all’esclusione e alla persecuzione, «uomo di litigio e di contrasto per tutto il paese», condannato a rimanere solo con una «piaga incurabile» (Geremia 15,10.17-18). Occorrerebbe del tempo per comprendere che quegli uomini ci danno, in effetti, un’idea del cuore stesso di Dio, quando soffrono per non essere ascoltati né capiti.
Se la vita dei profeti rivela che la sofferenza degli innocenti non solo spinge Dio all’azione per ristabilire la giustizia ma è anche il luogo privilegiato in cui gli esseri umani possono entrare nel suo mistero, una figura misteriosa che troviamo in Isaia 40-55 esprime questa verità molto chiaramente. Si tratta di un essere umano, descritto come l’ultimo degli ultimi, «oggetto di disprezzo», che ama e così prende su di sé tutta la malvagità degli altri trasformandola in sofferenza (vedi Isaia 53). Ed ecco che quest’uomo apparentemente respinto è effettivamente il Servo di Dio, cioè qualcuno che realizza sulla terra la volontà divina di salvezza. Se «al Signore è piaciuto prostrarlo con la sofferenza» (Isaia 53,10), è per esaltarlo davanti a tutti, affinché tutti vedano in lui l’attività di Dio stesso: Dio riconcilia a sé coloro che lo rifiutano, prendendo su di sé le conseguenze della loro infedeltà.

La vita di Gesù ci dice qualcosa di più?
Non è un caso che i primi cristiani si siano soffermati su questi capitoli d’Isaia, quando cercavano nelle Scritture delle luci per comprendere la sorte del loro maestro, Gesù. Le guarigioni che egli compie testimoniano già la sua volontà di prendere su di sé per amore le sofferenze degli altri (vedi Matteo 8,16.17). Però è soprattutto il suo modo d’affrontare una morte atroce che rompe il cerchio infernale del male. La condanna di un giusto che risponde con il perdono (vedi Luca 23,17.34) permette l’adempimento del disegno di Dio che è quello di rendere giuste le moltitudini (vedi Isaia 53,10-11). In altre parole, la sofferenza di un innocente vissuta fino in fondo dona a tutti gli esseri umani la leggerezza di un’innocenza ritrovata. Il sangue di Gesù è «più eloquente di quello di Abele» (Ebrei 12,24) perché suscita la venuta di Dio sulla terra come sorgente inesauribile di una nuova vita.
L’ultimo libro della Bibbia, l’Apocalisse di san Giovanni, presenta questo processo al capitolo 6, attraverso la sua visione sullo svolgimento della storia umana. Si tratta di un libro chiuso da sette sigilli. I primi quattro descrivono l’umanità abbandonata a se stessa, come una curva inesorabile che discende verso la morte. Con il quinto sigillo entriamo nel movimento inverso, l’attività salvatrice di Dio. E questa comincia giustamente con il grido delle «anime che furono immolate…» (Apocalisse 6,9-11), in cui bisogna vedere non solo i martiri cristiani, ma «tutto il sangue innocente versato sopra la terra, dal sangue dell’innocente Abele» (Matteo 23,35; vedi Apocalisse 18,24). In Dio, il sangue degli innocenti diviene portatore di un dinamismo che contrasta gli effetti distruttori della violenza. La loro apparente sconfitta inaugura un movimento di liberazione che culmina nella croce di Cristo.
È ciò che è manifestato dall’apertura del sesto sigillo, dove si parla del «grande giorno dell’ira dell’Agnello» (Apocalisse 6,17). L’«ira di Dio» è la parola caratteristica utilizzata nella Bibbia per esprimere la sua risposta al peccato, risposta che tende a ristabilire la giustizia disprezzata. Qui, si riferisce all’atto con il quale Gesù prende su di sé tutto il male umano, subendone le conseguenze fino all’estremo, nel suo stesso corpo (vedi 1 Pietro 2,21-24).
Donando la sua vita fino in fondo, Gesù condivide la sorte di tutte le vittime innocenti e così assicura che la loro pena non è stata vana. Porta le loro sofferenze all’interno della propria relazione con colui che chiama Abbà, Padre, e poiché il Padre lo ascolta sempre (vedi Giovanni 11,42), noi abbiamo la certezza che questa sofferenza non va perduta. Essa conduce alla scomparsa dell’antico ordine mondiale segnato dall’ingiustizia, e all’apparizione «di nuovi cieli e di una nuova terra, dove la giustizia abiterà» (2 Pietro 3,13). Ecco la risposta definitiva, frutto di una vita vissuta, data a Ivan Karamazov e a Giobbe. Lungi dal tollerare anche solo per un istante la sofferenza degli innocenti, nel suo Figlio unigenito Dio beve con loro quel calice amarissimo e, così facendo, la trasforma in una coppa di benedizione per tutti.

Publié dans:TAIZÉ ARTICOLI |on 28 mai, 2015 |Pas de commentaires »

DENIS 1900, LAISSEZ VENIR A MOI LES ENFANTS

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Publié dans:immagini sacre |on 27 mai, 2015 |Pas de commentaires »

PUÒ LA MATEMATICA SPIEGARE DIO?

http://www.zenit.org/it/articles/puo-la-matematica-spiegare-dio

PUÒ LA MATEMATICA SPIEGARE DIO?

Nel libro Dio e i numeri incapaci don Domenico Concolino spiega come superare l’apparente contraddizione tra pensiero logico-matematico e lettura teologica del reale

Roma, 26 Maggio 2015 (ZENIT.org) Antonio Gaspari

È vero che i numeri sono capaci di spiegare e prevedere la realtà fisica? Ed è sufficiente la scienza matematica a farci conoscere la realtà tutta? Dobbiamo continuare a pensare che tra pensiero logico matematico e lettura teologica del reale esista una contrapposizione insanabile?
È evidente che l’esperienza di fede è irriducibile ad una mera quantificazione e catalogazione: allora può esistere una relazione tra matematica e Dio?
A queste ed altre domande ha cercato di rispondere, con il libro Dio e i numeri incapaci (Edizioni Rubbettino), il teologo e filosofo don Domenico Concolino, cappellano dell’Università “Magna Graecia” di Catanzaro. ZENIT lo ha intervistato.
Perché questo titolo? Che relazione c’è tra Dio e la matematica?
È molto facile osservare il modo in cui tutta la sacra Scrittura è attraversata da simbolismi matematici ed interpretazioni numeriche, peraltro molto comuni in altri pensieri religiosi, Ma non è precisamente questo il centro del mio discorso.
Il titolo di quest’ultimo libro nasce, invece, da una lunga riflessione che affonda le sue radici nel pensiero trinitario dei Padri e in alcune istanze tipiche della modernità. Il Dio cristiano, la Trinità, non è anzitutto un dio “pensato” ma è un mistero che precede il nostro pensare e perciò è un mistero donato. Questa è una sua qualità permanente. Ora, ad esempio, il fatto che il Padre ed il Figlio non siano “la stessa” persona, ma invece sono “una cosa sola”, ci fa orientare verso un diverso modo di pensare. Bisogna, in altre parole, trovare un pensiero che ci possa comunicare veramente lui, ma che sia più ampio della semplice ragione calcolante.
Lo dimostra ad esempio la storia eretica di Fausto Soccini, un senese poco conosciuto, morto nel 1604, il quale era caduto precisamente nell’errore di voler estendere il dominio della matematica, così come funziona nel mondo, alla grande realtà del mistero trinitario: e siccome 1 non è uguale a 3 e né può esserlo, allora per Soccini il Dio dei cristiani non poteva essere vero. Ma Dio, il Dio trinitario, sfugge alla presa di un puro pensiero calcolante. Se ricadesse completamente dentro la presa dei numeri, esso diventerebbe un pezzo del nostro mondo. Così quell’episodio, come altri che descrivo nel libro, mi fece riflettere molto. Il testo cerca dunque di spiegare in che senso i numeri (almeno quelli naturali) quando si dirigono al mistero di Dio e della sua imprevedibile azione nel mondo rivelano una ‘incapacità’ che può essere colmata solamente da un pensiero più ampio ed allargato.
Benché abbastanza riduttiva, la matematica e la capacità di calcolo, rappresentano le basi scientifiche con cui gli umani comprendono e riproducono la realtà fisica. Qual è il suo parere in proposito? Quale definizione darebbe della matematica?
Dicono che il futuro oggi sia dei matematici. La loro capacità di lettura del mondo fisico ed una certa forza predittiva si è trasformata lungo i secoli in un vero e proprio dominio su di esso. Ma questo potente dominio non è ugualmente estendibile in ciò che riguarda l’uomo e la sua storia di fede. In realtà l’esistenza umana, con il suo carattere di libertà, e l’esistenza di un Dio che misteriosamente interviene ancora oggi nella storia degli uomini, sfuggono alla presa dei numeri i quali, potentissimi nel regno della necessità e della materia, diventano poveri in quello della storia di Dio con gli uomini, in quest’ultimo campo al numero manca letteralmente “il terreno sotto i piedi”.
Il teologo Hans Urs von Balthasar aveva intravisto il problema quando in un’intervista (dimenticata) ricordava un tale limite del pensiero, affermando: “Forse, (gli operatori pastorali, ndr) hanno l’impressione di fronteggiare così la crisi, di fare qualcosa. Siamo in un mondo tecnico e allora ci si rivolge ai computer. Nelle nostre diocesi adesso è arrivata anche l’elettronica, si sfornano tabulati con le statistiche della frequenza alla Messa, delle comunioni distribuite… Il che, oltretutto, non ha proprio alcuna rilevanza: questo tipo di conti può e deve tenerli solo Dio per il quale una sola comunione vera vale più di mille superficiali registrate dal computer” (p. 18).
È chiaro che la matematica non sbaglia, essa è davvero capace di catturare ed esibire buona parte del mondo visibile e della materia, ma per il credente, il mistero del visibile e la sua spiegazione ultima, non risiede nel solo numero, bisogna invece risalire a quel Logos personale, che sostiene ogni cosa perché la precede e l’eccede. Lì i numeri sono incapaci.
Nel libro lei spiega il legame tra l’aritmetica e la fede vissuta. Come si fa?
A questo proposito ho cercato di comprendere filosoficamente il concetto di “numero” come “ritardo” rispetto al darsi storico della fede. Il numero, cioè, dice principalmente ciò che accaduto, ciò che esiste, ciò che vede, ma non il dover essere dell’ente in oggetto, un dover essere illuminato dalla fede. In questo senso la fede vissuta non procede come una pura tecnica di appropriazione del reale, ma piuttosto come un dono di luce, dono che illumina la realtà che i numeri indagano. Se così non fosse, allora, davvero il numero conterrebbe in sé tutto il futuro dell’uomo.
La fede vissuta, le decisioni che tutti i credenti, ogni giorno, sono chiamati a prendere davanti a Dio, sono invece attraversati continuamente dal mistero della grazia divina e dall’esercizio della libera volontà dell’uomo. Per questo la fede vissuta può subire evoluzioni e involuzioni. Può crescere o diminuire. In questo campo, per così dire “misto”, la pura statistica, non può pretendere assoluto valore predittivo, non può avere l’ultima parola.
Lei sostiene che il metodo matematico riduce la comprensione della realtà. Sostiene anche che la risposta sta nella filosofia e non nella matematica. Ci illustra come e perché?
La dialettica tra essenza ed esistenza può illuminare un tale problema; in tale dialettica si vede bene come i numeri sono incapaci di accoglie il traboccante mondo della vita.
In linea generale, per farla breve, bisogna riconoscere che noi siamo figli dell’algebra e pure della grammatica, siamo figli di un pensiero analitico, noi ci serviamo di numeri, lettere ed immagini, al fine di com-prendere la realtà (visibile, non ancora visibile ed invisibile) e relazionarci tra di noi. Ma appunto seguendo questa via, usando questi particolari oggetti mentali, noi la riduciamo e riducendo perdiamo pezzi di questo nostro mondo. Il procedimento è necessario ma, appunto, dobbiamo capire ciò che facciamo.
A questo proposito John Henry Newman ha insegnato parlando di circle of knowledge (circolo della conoscenza) che bisogna continuamente integrare le nostre conoscenze, le nostre conquiste con altre conoscenze e metterle in relazione con altri soggetti che hanno compiuto il nostro stesso percorso.
Così, potremmo dire, siamo persone da sempre poste in un cammino di verità, siamo posti in un lungo cammino verso una pienezza di comprensione del mondo visibile, il quale però ci appare sempre eccedente le nostre parole, le nostre immagini, i numeri.
Qui vedrei, però, una grande chance per tutti coloro che vogliono capire un po’ di più Dio, del mondo e dell’uomo: filosofia e teologia possono trovare proprio a questo livello una feconda alleanza in vista di una conoscenza autenticamente umana.
Nella seconda parte del suo libro, lei sostiene che il numero può essere collocato nell’orizzonte dello Spirito e del vero. Affermazione ambiziosa: può illustrarcela?
Esatto. Affermazione ambiziosa ma, in realtà, molto semplice. Una volta stabilita la verità, il senso e lo spazio d’azione dei numeri naturali, per esempio con l’aiuto di un pensatore come il sacerdote e matematico russo Pavel Florenskij, i numeri, inseriti nella grande luce della fede, diventano davvero formidabili strumenti, ci indicano un cammino di conoscenza, il cui risultato però va sempre confrontato e armonizzato col piano della fede creduta. Il nuovo che così si raggiunge non distrugge l’antico ma lo arricchisce. È vera sapienza saper collocare in giusto ordine gli elementi essenziali della nostra conoscenza.
Inoltre, si aprirebbe qui un fecondissimo dialogo tra pensiero matematico – che con le sue statistiche su parrocchie, matrimoni, battesimi, frequenza della messa domenicale aiuta a capire la realtà che ci circonda – e pensiero teologico, che alla luce della fede, legge il mondo dei numeri, e così consegnano una visione più ampia ai pastori d’anime del XXI secolo. Guardano cioè verso ciò che Joseph Ratzinger disse al matematico Odifreddi: “Nella Sua religione della matematica, tre temi fondamentali dell’esistenza umana restano non considerati: la libertà, l’amore e il male”. Ecco davvero un surplus di significato, davanti al quale ogni numero è incapace di lettura.
In sintesi può spiegarci le conclusioni del suo studio sulla relazione tra matematica e vita ecclesiale?
Alleanza fruttuosa ma gerarchizzata. Il matematico, restando all’interno del suo mestiere, può dare un grosso contributo ai pastori d’anime del nostro tempo, fotografando i fenomeni analizzati, ma l’uomo di fede possiede uno sguardo più articolato, uno sguardo più ampio di vita e di speranza. Uno sguardo che pensa anche ciò che non è ‘visto’ dal numero, come, ad esempio, la possibilità che si ponga nella storia un nuovo inizio, un inizio che viene da Dio, per raggiungere alla fine una speranza che va oltre il puro pensiero calcolante, quella speranza che indica papa Francesco: “La speranza di cui parliamo non si fonda sui numeri o sulle opere, ma su Colui nel quale abbiamo posto la nostra fiducia e per il quale nulla è impossibile” (28.11.2014).
Vorrei concludere ricordando che questo libro l’ho dedicato a quel piccolo gruppo di giovani che come me hanno vissuto e vivono da vicino l’esperienza del Movimento Apostolico. Nessuno di noi, 37 anni fa, avrebbe previsto ciò che oggi i nostri occhi possono vedere.

Publié dans:Fede e Matematica |on 27 mai, 2015 |Pas de commentaires »

PAPA FRANCESCO : LA FAMIGLIA – 16. FIDANZAMENTO

http://w2.vatican.va/content/francesco/it/audiences/2015/documents/papa-francesco_20150527_udienza-generale.html

PAPA FRANCESCO

UDIENZA GENERALE

Mercoledì, 27 maggio 2015

LA FAMIGLIA – 16. FIDANZAMENTO

Cari fratelli e sorelle, buongiorno!

Proseguendo queste catechesi sulla famiglia, oggi vorrei parlare del fidanzamento. Il fidanzamento – lo si sente nella parola – ha a che fare con la fiducia, la confidenza, l’affidabilità. Confidenza con la vocazione che Dio dona, perché il matrimonio è anzitutto la scoperta di una chiamata di Dio. Certamente è una cosa bella che oggi i giovani possano scegliere di sposarsi sulla base di un amore reciproco. Ma proprio la libertà del legame richiede una consapevole armonia della decisione, non solo una semplice intesa dell’attrazione o del sentimento, di un momento, di un tempo breve … richiede un cammino.
Il fidanzamento, in altri termini, è il tempo nel quale i due sono chiamati a fare un bel lavoro sull’amore, un lavoro partecipe e condiviso, che va in profondità. Ci si scopre man mano a vicenda cioè, l’uomo “impara” la donna imparando questa donna, la sua fidanzata; e la donna “impara” l’uomo imparando questo uomo, il suo fidanzato. Non sottovalutiamo l’importanza di questo apprendimento: è un impegno bello, e l’amore stesso lo richiede, perché non è soltanto una felicità spensierata, un’emozione incantata… Il racconto biblico parla dell’intera creazione come di un bel lavoro dell’amore di Dio; il libro della Genesi dice che «Dio vide quanto aveva fatto, ed ecco, era cosa molto buona» (Gen 1,31). Soltanto alla fine, Dio “si riposò”. Da questa immagine capiamo che l’amore di Dio, che diede origine al mondo, non fu una decisione estemporanea. No! Fu un lavoro bello. L’amore di Dio creò le condizioni concrete di un’alleanza irrevocabile, solida, destinata a durare.
L’alleanza d’amore tra l’uomo e la donna, alleanza per la vita, non si improvvisa, non si fa da un giorno all’altro. Non c’è il matrimonio express: bisogna lavorare sull’amore, bisogna camminare. L’alleanza dell’amore dell’uomo e della donna si impara e si affina. Mi permetto di dire che è un’alleanza artigianale. Fare di due vite una vita sola, è anche quasi un miracolo, un miracolo della libertà e del cuore, affidato alla fede. Dovremo forse impegnarci di più su questo punto, perché le nostre “coordinate sentimentali” sono andate un po’ in confusione. Chi pretende di volere tutto e subito, poi cede anche su tutto – e subito – alla prima difficoltà (o alla prima occasione). Non c’è speranza per la fiducia e la fedeltà del dono di sé, se prevale l’abitudine a consumare l’amore come una specie di “integratore” del benessere psico-fisico. L’amore non è questo! Il fidanzamento mette a fuoco la volontà di custodire insieme qualcosa che mai dovrà essere comprato o venduto, tradito o abbandonato, per quanto allettante possa essere l’offerta. Ma anche Dio, quando parla dell’alleanza con il suo popolo, lo fa alcune volte in termini di fidanzamento. Nel Libro di Geremia, parlando al popolo che si era allontanato da Lui, gli ricorda quando il popolo era la “fidanzata” di Dio e dice così: «Mi ricordo di te, dell’affetto della tua giovinezza, dell’amore al tempo del tuo fidanzamento» (2,2). E Dio ha fatto questo percorso di fidanzamento; poi fa anche una promessa: lo abbiamo sentito all’inizio dell’udienza, nel Libro di Osea: «Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza. Ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (2,21-22). È una lunga strada quella che il Signore fa con il suo popolo in questo cammino di fidanzamento. Alla fine Dio sposa il suo popolo in Gesù Cristo: sposa in Gesù la Chiesa. Il Popolo di Dio è la sposa di Gesù. Ma quanta strada! E voi italiani, nella vostra letteratura avete un capolavoro sul fidanzamento [I Promessi Sposi]. È necessario che i ragazzi lo conoscano, che lo leggano; è un capolavoro dove si racconta la storia dei fidanzati che hanno subito tanto dolore, hanno fatto una strada piena di tante difficoltà fino ad arrivare alla fine, al matrimonio. Non lasciate da parte questo capolavoro sul fidanzamento che la letteratura italiana ha proprio offerto a voi. Andate avanti, leggetelo e vedrete la bellezza, la sofferenza, ma anche la fedeltà dei fidanzati.
La Chiesa, nella sua saggezza, custodisce la distinzione tra l’essere fidanzati e l’essere sposi – non è lo stesso – proprio in vista della delicatezza e della profondità di questa verifica. Stiamo attenti a non disprezzare a cuor leggero questo saggio insegnamento, che si nutre anche dell’esperienza dell’amore coniugale felicemente vissuto. I simboli forti del corpo detengono le chiavi dell’anima: non possiamo trattare i legami della carne con leggerezza, senza aprire qualche durevole ferita nello spirito (1 Cor 6,15-20).
Certo, la cultura e la società odierna sono diventate piuttosto indifferenti alla delicatezza e alla serietà di questo passaggio. E d’altra parte, non si può dire che siano generose con i giovani che sono seriamente intenzionati a metter su casa e mettere al mondo figli! Anzi, spesso pongono mille ostacoli, mentali e pratici. Il fidanzamento è un percorso di vita che deve maturare come la frutta, è una strada di maturazione nell’amore, fino al momento che diventa matrimonio.
I corsi prematrimoniali sono un’espressione speciale della preparazione. E noi vediamo tante coppie, che magari arrivano al corso un po’ controvoglia, “Ma questi preti ci fanno fare un corso! Ma perché? Noi sappiamo!” … e vanno controvoglia. Ma dopo sono contente e ringraziano, perché in effetti hanno trovato lì l’occasione – spesso l’unica! – per riflettere sulla loro esperienza in termini non banali. Sì, molte coppie stanno insieme tanto tempo, magari anche nell’intimità, a volte convivendo, ma non si conoscono veramente. Sembra strano, ma l’esperienza dimostra che è così. Per questo va rivalutato il fidanzamento come tempo di conoscenza reciproca e di condivisione di un progetto. Il cammino di preparazione al matrimonio va impostato in questa prospettiva, avvalendosi anche della testimonianza semplice ma intensa di coniugi cristiani. E puntando anche qui sull’essenziale: la Bibbia, da riscoprire insieme, in maniera consapevole; la preghiera, nella sua dimensione liturgica, ma anche in quella “preghiera domestica”, da vivere in famiglia, i sacramenti, la vita sacramentale, la Confessione, … in cui il Signore viene a dimorare nei fidanzati e li prepara ad accogliersi veramente l’un l’altro “con la grazia di Cristo”; e la fraternità con i poveri, con i bisognosi, che ci provocano alla sobrietà e alla condivisione. I fidanzati che si impegnano in questo crescono ambedue e tutto questo porta a preparare una bella celebrazione del Matrimonio in modo diverso, non mondano ma in modo cristiano! Pensiamo a queste parole di Dio che abbiamo sentito quando Lui parla al suo popolo come il fidanzato alla fidanzata: «Ti farò mia sposa per sempre, ti farò mia sposa nella giustizia e nel diritto, nell’amore e nella benevolenza. Ti farò mia sposa nella fedeltà e tu conoscerai il Signore» (Os 2,21-22). Ogni coppia di fidanzati pensi a questo e dica l’un l’altro: “Ti farò mia sposa, ti farò mio sposo”. Aspettare quel momento; è un momento, è un percorso che va lentamente avanti, ma è un percorso di maturazione. Le tappe del cammino non devono essere bruciate. La maturazione si fa così, passo a passo.
Il tempo del fidanzamento può diventare davvero un tempo di iniziazione, a cosa? Alla sorpresa! Alla sorpresa dei doni spirituali con i quali il Signore, tramite la Chiesa, arricchisce l’orizzonte della nuova famiglia che si dispone a vivere nella sua benedizione. Adesso io vi invito a pregare la Santa Famiglia di Nazareth: Gesù, Giuseppe e Maria. Pregare perché la famiglia faccia questo cammino di preparazione; a pregare per i fidanzati. Preghiamo la Madonna tutti insieme, un’Ave Maria per tutti i fidanzati, perché possano capire la bellezza di questo cammino verso il Matrimonio. [Ave Maria….]. E ai fidanzati che sono in piazza: “Buona strada di fidanzamento!”.

San Filippo Neri

San Filippo Neri dans immagini sacre 46-S-Filippo-Neri-2

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Publié dans:immagini sacre |on 26 mai, 2015 |Pas de commentaires »
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