John of Patmos watches the descent of the New Jerusalem from God in a 14th century tapestry

http://www.firenzevaldese.chiesavaldese.org/archivi/meditazioni/la_terra_come_eredita.htm
DEUT. 8, 6-10 “LA TERRA COME EREDITÀ”
(Chiesa Valdese)
C’è una forza poetica nella descrizione della “terra promessa” che ha trascinato e commosso molte generazioni. La prima cosa che viene descritta è l’acqua (corsi d’acqua, laghi, sorgenti), poi il cibo (frumento, orzo, vigne, fichi, melagrani, olivi, latte, che vuol dire mucche e vitelli, miele selvatico), “mangerai pane a volontà”, “non ti mancherà nulla”; poi si passa al mondo che oggi chiamiamo industriale (ferro e miniere di rame). C’è un godere della natura spontanea e poi c’è il lavoro umano. Ogni generazione viene dopo altre e può sentire così il proprio rapporto con la terra e con il lavoro, a parte le scoperte che fanno fare passi in avanti all’intera storia umana. Poi c’è la tecnologia che infatti cambia ed allarga i confini dell’utopia della “terra promessa”, forse però a discapito del rapporto con la terra e vera e propria. Vien fatto di chiedersi dov’è questo “paese dove scorre il latte e il miele”, se è da identificare nella sassosa e arida Palestina, o se la parola biblica vuol definire ogni parte della terra, come possibile terra promessa. In effetti, anche se ormai nelle città abbiamo rapporto solo con cemento e asfalto, con l’aggiunta di qualche affollato parco pubblico per portarci i bambini, ogni parte della terra ha particolarità e bellezze che ci lasciano senza fiato, compresi i deserti e i poli ghiacciati. L’altra domanda è: a chi è stato promesso il bel-paese e com’è stato diviso. L’antenato storico della prima promessa è Abramo. “Esci dalla tua terra… e va nel paese che io ti mostrerò” (Gen.12,1). Da lui discendono tutti i popoli della terra, o almeno molti che vi si richiamano. C’è poi come un “ritardo” nella attuazione della promessa della terra: Abramo vi abiterà senza saperlo e poi possederà solo la grotta del campo di Macpela, dove seppellirà Sara (a Hebron), comprandola a Efron l’Ittita (Gen.23). Questo “ritardo” nell’attuazione della promessa corrisponde all’arrivo di Mosé fino al Giordano, al suo vedere dal Monte Nebo la terra promessa, senza potervi entrare. “A te e ai tuoi discendenti” è la formula usata nella promessa divina; come sappiamo la discendenza fa parte della promessa ed è particolarmente importante per Abramo e Sara che sono sterili. I “discendenti” degli israeliti usciti dall’Egitto sono quelli che entreranno con Giosuè nella terra di Canaan passando il Giordano e si insedieranno forse ai margini delle città cananee come pastori semi-nomadi, a volte conquistando, o essendo tollerati, a volte scacciati da altri popoli. Se sono i discendenti i destinatari veri e propri della promessa si può capire come la terra si possa configurare come “eredità”. La terra un tempo poteva esser conquistata o ereditata, non comprata; si pensi alla risposta di Nabot al re Acab che voleva comprare la sua vigna (1 Re 21). La terra promessa è data in eredità dal Signore al suo popolo: “Voi dunque passerete il Giordano e abiterete il paese che il Signore, vostro Dio, vi dà in eredità” (12,10 vedi anche 4,21 e molti altri passi). E’ un concetto giuridico di valenza teologica: il paese viene messo a disposizione, ma rimane proprietà di Dio. “La terra è mia e voi state da me come stranieri e come ospiti” afferma Dio in Lev. 25, 23. Questo concetto sta alla base del principio dell’Anno Sabbatico e del Giubileo. I campi si lavorano per sei anni e poi si lascia la terra riposare per un anno intero, come Dio si riposa dalla buona creazione che ha fatta. Si vivrà bene lo stesso anche se mancherà il raccolto di un anno, perché si potranno conservare provviste negli anni precedenti. I poveri si avvantaggeranno dei raccolti che verranno spontanei dalla terra nell’anno sabbatico. Il Giubileo sarà ogni sette settimane di anni, sette volte sette anni (49 anni) poi squillerà la tromba nel giorno delle Espiazioni e si proclamerà il cinquantesimo anno come anno della Liberazione e del ritorno della terra ai proprietari che se ne erano disfatti per debiti. Siamo in piena utopia; è come sognare ad occhi aperti i nuovi cieli e la nuova terra dell’Apocalisse, dove non ci sarà più il dolore, scomparirà perfino il mare, visto come simbolo del disordine primordiale. Non sappiamo se e per quanto tempo gli ebrei abbiano attuato le regole suggerite da Lev. 25 o se hanno semplicemente continuato a tenerle davanti a sé, come facciamo anche noi, come l’utopia che non c’è, o non c’è ancora, ma dovrebbe esserci perché allora il mondo sarebbe migliore. Certo l’affermazione che Dio è proprietario della terra e noi l’abbiamo in uso sdrammatizza il concetto di possesso e lo universalizza nel momento in cui affermiamo l’unicità di Dio: “I cieli sono i cieli del Signore, ma la terra l’ha data agli uomini” (Sal. 115, 16). E’ come se dicesse l’intera umanità, non solo Israele. Dunque le divisioni sono umane e parziali, modificabili; devono essere ancorate a criteri di giustizia. La terra è lo spazio dove si riconosce l’intervento del Dio Creatore, dove si ascolta la sua chiamata e si risponde osservando i comandamenti. La terra è dove si risponde al Patto di Dio restandovi dentro a qualunque costo. Dio è quello che dà la forza di procurarsi benessere e ricchezze. La terra però è un’eredità che deve esser tenuta per preziosa e per la quale bisogna adoperarsi, se si vuole conservarla altrimenti potrebbe andare perduta. Lo stretto legame che Israele ha visto fra la propria storia e la fede, anche se ci fa problema, va considerato a fondo. Ogni volta che Israele è stato sconfitto e deportato in esilio, invece di inveire contro la malasorte o contro i nemici Israele viene rimproverato dai suoi profeti per non aver obbedito ai comandamenti di Dio, per non esser stato fedele al Patto; per questo viene punito, ma non cancellato dalla storia. Dio non può smentire se stesso e le sue promesse, dunque dopo tempi di angoscia verranno tempi lieti, perché Dio mantiene il giuramento fatto ai padri. La riflessione e raccomandazione che tornano insistenti è che Dio ha scelto il suo popolo non per i suoi meriti, non per il numero o il coraggio (7,7 8,17 9,5) o per la sua giustizia o rettitudine, ma perché Dio lo ama e mantiene il giuramento fatto ai padri. La salvezza per grazia annunciata dal Deuteronomio somiglia alla giustificazione per fede dell’apostolo Paolo. Le opere seguono come l’osservanza ai comandamenti, sono regole di vita che ci sono state date per il nostro bene. Il Bel-Paese si può perdere, forse è già perduto, se lo si lascia degradare negli anni che verranno. Già solo per questo è indispensabile il dialogo interreligioso, la militanza per la pace, la lotta contro la fame e contro le epidemie, la salvaguardia del creato. Forse la vita dell’umanità continua a svolgersi nella tensione fra la promessa del mondo migliore, che quelli che credono ricevono, ma non vi entrano, però possono adoperarsi perché vi entrino i propri discendenti. Questi a loro volta riceveranno anch’essi una promessa che riguarda le successive generazioni. Tuttavia la storia umana non è volta verso un progresso illimitato, perché, come la storia d’Israele, conosce in continuazione sconfitte, esilio, lunghe marce nel deserto, nelle quali si è assistiti dal Signore. Il Dio che ci accompagna e che continua a rinnovare le sue promesse garantisce con la sua ostinata fedeltà il loro compimento, perché ci ama e vuol far di noi il suo popolo nel bel-paese che è la sua/nostra terra.
http://www.lodp.org/2012/11/25/lanima-card-g-ravasi/
L’ANIMA – CARD. G. RAVASI
Pubblicato il 25 novembre 2012
Un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri. Sapienza 9-15.
” Secondo il pensiero biblico l’anima non è altro che la persona vivente nella sua carne. L’uomo è l’essere vivente nella sua totalità e non l’anima separata e distinta dal corpo.” Queste e simili frasi sono comuni in tutti i testi che trattano la concezione della persona umana secondo le Scritture (la cosiddetta ” Antropologia Biblica”). Ed effettivamente se noi contempliamo l’uomo così come appare nelle pagine sacre, lo scopriamo simile ad un microcosmo compatto, un essere unitario e vitale, nel quale non si può separare anima e carne, come farà la cultura Greca, convinta che il corpo sia la tomba dell’anima. Non per nulla essa esalterà l’immortalità dell’anima spirituale, mentre la concezione biblica opterà per la risurrezione dell’essere umano integrale e la Pasqua di Cristo ne è la suprema attestazione. Certo non mancano neanche nella Bibbia frasi che riflettono la visione greca, come appare spesso nel libro della Sapienza, composto in epoca greco-romana, che esalta l’immortalità dell’anima giusta, e che ad esempio offre frasi di questo genere: ” Un corpo corruttibile appesantisce l’anima e la tenda d’argilla grava la mente dai molti pensieri” (9-15). Tuttavia il sottofondo ideale di questo libro e il filo continuo della Bibbia è una costante rappresentazione dell’unità psicofisica della persona. Certo, questo non significa che non si riconosca nella creatura una presenza trascendente oltre alla rùah, che è lo spirito vitale posseduto anche dagli animali. Si parla infatti di una nishmat-hajjim, una sorta di “respiro di vita” che è “esclusivo di Dio e degli uomini” e che è insufflato in essi dal Creatore. Ora questa realtà è definita dalla Bibbia come una “fiaccola del Signore che scruta tutti i segreti recessi del cuore” (Prv, 20-27). L’immagine, molto orientale vuole descrivere quella che noi chiamiamo la coscienza, capace di penetrare nel segreto dell’interiorità umana personale. Questa è in pratica – secondo la Bibbia – che è quindi non solo alla radice dell’autocoscienza, ma anche della consapevolezza morale. Se passiamo al Nuovo Testamento, troviamo passi che a prima vista sembrino opporre anima e corpo. “Non temete quelli che uccidono il corpo ma non hanno il potere di uccidere l’anima. Temete quelli che hanno il potere di fare perire anima e corpo nella Geenna” (Mt. 10-28). Tuttavia è facile comprendere che non siamo nell’orizzonte culturale Greco, per il fatto che Gesù parla”uccidere e far perire l’anima”, un assurdo per la concezione dell’anima spirituale. Cristo, allora qui e altrove si veda (Mt 16. 25-26), intende considerare con la parola “anima”( in greco psjchè) la vita trascendente e piena, “l’intimità divina” offerta alla creatura attraverso la grazia. La suprema sciagura, non è dunque la morte fisica, ma il perdere la comunione vitale con Dio, radice della nostra risurrezione e della vita eterna con lui. E’ ciò che San Paolo puntualizzerà introducendo un nuovo termine, pnèuma, “spirito”. L’uomo nella sua realtà creaturale – dice l’Apostolo – è un corpo “psichico” ossia dotato della psychè, l’anima vitale, ma Dio gli dona il suo stesso spirito che lo rende “corpo spirituale”. La prima qualità dell’essere umano (“psichico”) lo vota alla morte, e solo con lo Spirito Divino a noi donato che entriamo nell’eternità e nella gloria del Risorto (1 Cor 15. 42-44).
FESTA DEI SANTI PIETRO E PAOLO
CELEBRAZIONE DEI PRIMI VESPRI
ALLOCUZIONE DEL SANTO PADRE GIOVANNI XXIII
Basilica Vaticana
Giovedì, 28 giugno 1962
Le care impressioni della visita al Laterano nei secondi Vesperi di S. Giovanni — in esultanza commossa innanzi al fervore così vivo di quella folla tutta popolare e modesta, ma vibrante di sentimento filiale intorno al Papa, il suo Vescovo di Roma — sono invito continuo a letizia spirituale, per questa celebrazione dei primi Vesperi della festa di S. Pietro in Vaticano. Come è bello ed insieme edificante questo chiudersi del Testamento Antico col Precursore di Cristo e l’aprirsi del Nuovo sulle indicazioni di lui, nella luce e dell’umile pescatore di Galilea, chiamato al governo del Testamento eterno, della Chiesa universale. Sul mare del mondo verso Roma Venerabili Fratelli! quanti qui siete, e diletti figli, non vi torni discaro qualche pensiero che intendiamo esprimervi a comune edificazione. Con S. Giovanni noi eravamo a sentirne la voce profetica nel deserto, quando insisteva sul Parate viam Domini: rectas facite semitas eius [1]. Cioè: strada del Signore da preparare: vie giuste da rettificare e da percorrere, sino a raggiungere la salvezza per tutti. Questa sera, siamo invece come sul mare, nella barca di Pietro, il pescatore, dove Gesù era salito, e di là parlava alle turbe. S. Luca racconta il bell’episodio. — Finito che Gesù ebbe di parlare, disse a Simone: « Va al largo con la barca, e calate le reti per la pesca ». Gli rispose Simone: « Maestro, abbiamo faticato tutta una notte senza prender nulla, ma sulla tua parola calerò le reti ». Così fece infatti, e ne seguì una pescagione copiosissima [2]. Su questa pagina evangelica, Padri della Chiesa e commentatori di ogni tempo amarono trattenersi. Dai loro scritti — ricordiamo particolarmente quelli di Leone e Gregorio — scende una dottrina, la cui nota di solennità è divenuta familiare all’orecchio ed al buon gusto di quanti hanno tra mano abitualmente il Messale ed il Breviario. Distintissimo fra questi il primo, il Magno, della cui morte gloriosa abbiamo festeggiato il centenario il 15 novembre scorso. In questa vigilia ci attira in modo speciale il pensiero di un altro Pontefice, grande lui pure, Papa Innocenzo III, che questa pagina di S. Luca ha saputo felicemente riassumere sotto amabili significazioni e figure. Il mare di Galilea, su cui Gesù si posa, è il secolo, diremo meglio il mondo intero, che egli è venuto a redimere. La barca di Pietro è la Santa Chiesa, di cui Pietro, Simone il pescatore, fu fatto capo. L’ordine di Gesù a Pietro e ai suoi perchè vadano al largo e portino a più vasto ardimento la pescagione, il Duc in altum dell’umile naviglio, è Roma, la capitale del mondo di allora, riservata a divenire, più tardi, la vera capitale, e il centro elevato e luminoso del mondo cristiano. La rete da gettarsi su le onde per la conquista delle anime è la predicazione apostolica. La Chiesa di Cristo diffusa « Ubique Terrarum» Che spettacolo questo mare di Galilea, chiamato a rappresentare i secoli e i popoli! Aquae multae: populi multi: mare magnum totum saeculum; così lo chiama Papa Innocenzo. Mare grande e spazioso. Il libro dei Salmi lo designa bene, anche più vivacemente : pieno di pesci d’ogni genere: animalia pusilla cum magnis: illic naves pertransibunt [3]. Come il mare è turbolento e amaro, così il secolo, così il mondo degli uomini, è turbato dalle amarezze e dai contrasti: non mai pace e sicurezza; non mai riposo e tranquillità; sempre e dappertutto timore e tremore: ubique labor et dolor. L’Evangelista S. Giovanni [4] scrisse che il mondo è tutto posto sulla malignità. Il sorriso è commisto al gemito: i punti estremi del gaudio sono occupati dal lutto [5]. L’uccello è nato per il volo: l’uomo è destinato al pesante lavoro [6]. Il libro dell’Ecclesiastico è anche più incisivo : — Una continua occupazione è riservata a tutti gli uomini, un giogo preme sulle spalle di tutti i figli di Adamo. Nel mare i pesci più piccoli sono divorati dai più grandi: così nel mondo i piccoli uomini sono schiacciati dai forti e dai prepotenti [7]. Ebbene è sulla vastità di questo mondo che si stende la misericordia dell’Altissimo, a redenzione dalla schiavitù, ad elevazione delle più nobili energie; è su questo mondo che il Padre Celeste ha mandato il Figlio suo Unigenito, rivestito di umana carne, per assistere tutti i figli dell’uomo nello sforzo della loro risurrezione dalle miserie di quaggiù, e per riaccompagnarli fino alle altezze della eterna vita. È su questo mare immenso della umanità purificata dalla virtù del Sangue di Cristo, che lo stesso Verbo del Padre propter nos homines et propter nostram salutem descendit de caelis, et incarnatus est de Spiritu Sancto ex Maria Virgine et homo factus est; homo et Salvator mundi, et totius mundi per Ecclesiam Sanctam suam Rex gloriosus et immortalis per saecula. Geniale commento di Innocenzo III La Chiesa di Cristo diffusa ubique terrarum viene rappresentata nel Vangelo dalla barca di Pietro, che Gesù predilesse, da cui sovente amò parlare come Maestro dei popoli, e che in una circostanza particolarmente misteriosa e solenne — questa di cui riferisce S. Luca nel capo quinto del suo Vangelo — volle indicare agli Apostoli suoi, come il punto più elevato delle divine conquiste del suo Regno. Avete passato una notte infeconda di navigazione col nihil cepimus. Ora dico a te, o Pietro, duc in altum: al largo la barca; e a tutti i suoi: gettate le reti, come fecero in perfetta obbedienza: et concluserunt piscium multitudinem copiosam. Diletti figli! È a questo punto della lettura evangelica che papa Innocenzo III, nella festa di S. Pietro se ne esce con vigore esultante: L’altezza di questo mare, altitudo maris istius, di cui Gesù benedetto disse a S. Pietro: duc in altum, è Roma, quae primatum et principatum super universum saeculum obtinebat et obtinet. La divina Provvidenza volle esaltare questa città : perchè come nel tempo del paganesimo trionfante essa sola aveva la dominazione sopra tutta la gentilità sparsa nel mondo, così dopo la venuta di Gesù Redentore iniziatasi la Cristianità, era degno e conveniente che la Chiesa Santa sola tenesse la dignità del magistero e del governo sopra tutti i fedeli della terra. E Papa Innocenzo prosegue a proclamare come Iddio abbia trovato e voluto consonum et dignum, che colui che era il capo e principe della Chiesa, costituisse la sede religiosa e principale, presso la città, che aveva il principato e il governo secolare. Per questo Gesù disse a Pietro Duc in altum, come a dire : Va a Roma e trasferisci te e i tuoi a quella città, e là gettate le vostre reti per la pesca. Così evidente parrà quanto il Signore abbia amato ed ami questa Sede augusta, e questa Roma meritasse il nome di sacerdotale e di regia, imperiale ed apostolica, depositaria ed in esercizio di dominio non solo sopra i corpi, ma anche di magistero sulle anime. Ben più nobile ora e degna di autorità divina che non fosse nel passato di potestà terrena. È assai toccante sentire dalle parole del grande Papa il richiamo della pia tradizione del Domine, quo vadis: e delle parole di Gesù a Pietro, tremante e fuggitivo: « Vado a Roma per farmi crocifiggere un’altra volta ». Interessante anche la differenza, secondo S. Luca, di espressioni di Gesù, che a S. Pietro parla in singolare: Duc in altum: e poi prosegue in plurale al resto degli Apostoli: Laxate retia in capturam. Il solo Pietro, come solo principe della Chiesa universale, è veduto nell’altezza della sua suprema prelatura. Non possiamo però dimenticare che anche a S. Paolo, come a lui, sarebbe stato affidato il compito di stendere in Roma la rete apostolica della sacra predicazione. Una spirituale conversazione come questa Nostra, Venerabili Fratelli e diletti figli, che introduce alla festa di S. Pietro, è naturale che si adorni come di duplice corona, che insieme conferma l’associarsi dei due grandi Apostoli, nella ammirazione e nel culto. Papa Innocenzo arriva fino alla bella comparazione di questi due grandi apostoli della Chiesa Romana, della Chiesa universale, in riferimento storico, poetico e contraddistinto ai due fondatori della Roma primitiva, cioè a Romolo e Remo, le cui due sepolture, al dire degli archeologi, giacevano quasi a parallela distanza dall’un capo all’altro della città; cioè Pietro dalla parte dove Romolo fu tumulato: e Remo dalla parte dove fu indicata la tomba di S. Paolo. Grande rispetto noi dobbiamo e amiamo rendere ai vetustissimi ricordi della Roma primitiva — come commentava allora Papa Innocenzo — ai duo fratres secundum carnem, qui urbem istam corporaliter non sine divina providentia — condiderunt, et honorabilibus iacent tumulata sepulcris. Ma è ben giusto che la nostra religiosa tenerezza si volga con particolare sentimento ai duo fratres secundum fidem, Petrus et Paulus, qui urbem istam spiritualiter fundaverunt, gloriosis basilicis tumulati.
Il Sacro Ministero della grande predicazione Notate la precisa significazione dei contrasti: duo fratres secundum carnem et corporaliter condentes: i due Santi Patroni di Roma, fratres secundum fidem: spiritualiter fundatores, gloriosis basilicis honorificentissime tumulati. Non dobbiamo dimenticare le reti dei pescatori, all’ordine di Gesù gettate nel mare e raccolte a gran fatica, a gran trionfo di apostolica obbedienza. La rete simbolica che oggi stesso, in intreccio floreale, sta sulle soglie di questa Basilica Vaticana. Come la barca di Pietro significa la Chiesa, come il mare mosso rappresenta il secolo e il mondo agitato, come Roma il centro dell’attività cattolica ed apostolica: così le reti sono figurazione del ministero della predicazione popolare. Papa Innocenzo approfitta dell’accenno per dare in sintesi istruttiva e fervorosa i caratteri sacri e peculiari della eloquenza pastorale : che è quanto dire del ministero sacro per la conquista e il nutrimento prezioso, di cui il sacerdozio cattolico deve essere distributore alle anime dei fedeli. Il provvido predicatore deve preparare i suoi saggi di istruzione popolare e anche più elaborata per qualunque classe e levatura. Saper variare di argomento, di tono, di colore : ora circa le virtù, ora circa i vizi, ora circa i premi ed ora circa i castighi, della misericordia e della giustizia, assai su questi due temi, ora con semplicità, ora con sottilità, ora secondo la storia ed ora secondo l’allegoria : presentazione di autorità, di similitudini, di ragioni, di esempi. Questi sono i fili e gli intrecci, di cui sono fatte le reti, capaci, resistenti, preziose. Queste le reti più sicure ed efficaci per convincere le anime alla chiarezza di visione della buona dottrina apostolica, per portarle al fervore, alla santificazione, alla letizia. Di queste reti si sono serviti i Beatissimi Apostoli Pietro e Paolo. Le loro Lettere ci parlano ancora dal fondo della loro età. Per questa predicazione Roma si è convertita dall’errore alla verità, dai vizi alle virtù: ed è divenuta domina gentium, maestra del mondo.
Onore nel tempo ai beati principi degli Apostoli La venerazione, che ogni buon cattolico nutre per gli Apostoli di Cristo di tutti i tempi e di tutti i popoli, deve mantenere il suo fervore : anzi nella imminente celebrazione del Concilio Ecumenico Vaticano II, che vuole essere tutto un profluvio di celeste dottrina, aumentare di ispirazione, di pacifica e santa esaltazione. Ma di questi due primi e beati Apostoli di Roma, Pietro e Paolo, sempre in eco alla tradizione dei secoli come Padri e Patroni principali e preclarissimi, dobbiamo particolarmente studiare i grandi insegnamenti, a splendore delle intelligenze, a fiamma dei cuori. Ci piace por termine a questa effusione di sentimenti e di voti paterni con la fervente invocazione augurale del grande Pontefice Innocenzo III, uno dei più insigni e gloriosi della Chiesa e della storia: Illos patres et patronos debet specialiter et principaliter honorare Roma inclita nostra, quatenus, meritis et precibus eorum adiuta, ita nunc salubriter conservetur in terris, ut tandem feliciter coronetur in caelis. Praestante Domino nostro Iesu Christo, qui est super omnia Deus benedictus in saecula saeculorum. Amen [8].
[1] Cfr. Matth. 3, 3; Marc. 1, 3; Luc. 3, 4. [2] Cfr. Luc. 5, 1-7. [3] Ps. 103, 25-26. [4] 1 Io. 5, 19. [5] Prov. 14, 13. [6] Iob. 5, 7. [7] Cfr. Eccl. 40 e 13. [8] Innocentii III, Opera omnia, Sermo XXII, in solemnitate B. Apostolorum Petri et Pauli, Migne PL 207, col. 555, ss.
http://www.paroledivita.it/pagina_stampa.asp?id=777
L’IDENTIKIT DELLA PRIMA LETTERA DI PIETRO
di Francesco Bargellini Nota come la «lettera della speranza», 1Pietro si rivolge a tutti i cristiani per consolare e incoraggiare a stare saldi nelle avversità. Lo sguardo del pastore e la sapienza del teologo si fondono in una sintesi sorprendente. Chi è dunque il suo autore?
Il mittente si presenta come «Pietro apostolo di Gesù Cristo» (1,1) e, alla fine, esortando i presbiteri a pascere il gregge di Dio volentieri e con animo generoso, come «co-presbitero (sympresbýteros), testimone delle sofferenze di Cristo e partecipe della gloria che deve manifestarsi» (5,1). Inoltre, nei saluti finali, oltre a Silvano, l’autore menziona Marco come suo «figlio». La più antica tradizione (cf. Papia di Gerapoli) attesta che Marco fu l’interprete di Pietro a Roma e che compose il suo vangelo rielaborando la predicazione dell’apostolo. Dagli Atti e dalla tradizione paolina (cf. Col 4,10; 2Tm 4,11) emerge come una figura di mediazione tra Pietro e Paolo, testimoniando «un cristianesimo capace di integrare tradizioni diverse: quella paolina e quella petrina, e più ampiamente le tradizioni giudaico-palestinesi con quelle sviluppatesi nella diaspora e nella missione ai pagani»[1].
Autore e datazione Di fronte a tutti questi elementi diversi studiosi pensano che l’autore sia l’apostolo Pietro. Lo scritto (presupposto dalla Seconda lettera di Pietro: cf. 2Pt 3,1) sarebbe perciò databile negli anni 60 prima del martirio a Roma. Per altri invece è da attribuire a Silvano (già discepolo di Paolo: 1Ts 1,1; 2Ts 1,1; 2Cor 1,19): come avrebbe potuto un umile pescatore di Galilea scrivere in un greco tanto elegante? Lo confermerebbe la notizia che l’autore dà nei saluti finali: «Vi ho scritto brevemente per mezzo di Salvano» (5,12). Silvano non è un semplice trascrittore delle parole di Pietro, ma un vero autore. In tal caso la lettera andrebbe datata tra la fine degli anni 60 e la conclusione del I secolo. Nei saluti finali si trova un importante indizio per identificare il luogo di composizione della lettera: «Vi saluta la comunità che vive a Babilonia e anche Marco, figlio mio» (5,13). Babilonia è un noto crittogramma, usato da scrittori giudaici e cristiani, per indicare la capitale dell’impero romano (cf. Ap 17,5 dove però Babilonia incarna il male). Tale uso è attestato tra i cristiani solo dopo il 70 d.C., cioè dopo la distruzione del tempio di Gerusalemme. Per altri, invece, il luogo di composizione è da ricercare in un importante centro dell’Asia Minore, dal momento che la 1Pietro mostra una conoscenza diretta della tribolata situazione di quelle comunità cristiane. L’attribuzione diretta o indiretta della 1Pietro all’apostolo è dunque sostenibile. In particolare, l’ipotesi di Silvano come autore non è affatto da scartare. Tuttavia, una folta schiera di commentatori giudica la 1Pietro uno scritto pseudepigrafico databile dopo il 90: all’epoca di Domiziano (persecuzione del 96) o addirittura di Traiano (persecuzione del 110/111). In genere, però, si indica il decennio compreso tra l’80 e il 90. Anche se non esistono argomenti decisivi pro o contro la paternità petrina, l’impressione generale è che la realtà storica, sociale e religiosa presupposta non sia più quella tipica della prima generazione cristiana. Per questa ragione uno studioso della 1Pietro scrive: Se dunque non può essere tratta alcuna conclusione definitiva, la migliore ipotesi di lavoro è quella che sia opera pseudonima di un autore anonimo il quale, nel tentativo di essere apostolico, attinse alla tradizioni storicamente associate a Simon Pietro. Al di là di questo, l’autore resta per noi ignoto[2]. Si può forse aggiungere che l’autore della 1Pietro è espressione di una comunità petrina di Roma e che parla come interprete di una tradizione vivente. Prestando la voce a Pietro, parla come avrebbe fatto l’apostolo nella mutata realtà storico-sociale in cui i destinatari vivono[3].
Destinatari I destinatari sono indicati all’inizio della 1Pietro come membri della diaspora del Ponto, della Galazia, della Cappadocia, dell’Asia e della Bitinia (1,1). Si tratta di un’estesa area geografica che ricopre la parte settentrionale dell’Asia Minore (l’odierna Turchia), abitata da cristiani convertiti da Paolo o, preferibilmente, evangelizzati da predicatori itineranti oriundi da Gerusalemme[4]. Non è facile precisare condizione sociale e origine etnica dei destinatari della lettera. Le citazioni e le numerose allusioni all’Antico Testamento sembrerebbero favorire la loro provenienza dal mondo giudaico. Diversi indizi depongono però a favore di un’origine pagana, come mostrano gli accenni alla loro condizione profana prima della conversione (cf. 1,14.18; 2,10.25; 4,3-4). Inoltre la sorpresa suscitata dalla persecuzione (cf. 4,12) sarebbe meno comprensibile se i destinatari fossero di origine giudaica. Infine, la familiarità con l’Antico Testamento non è un argomento decisivo, perché tutti i cristiani erano istruiti nelle sacre Scritture e perché le vicende storiche d’Israele (cf. il diluvio come prefigurazione del battesimo: 3,20-21) e le figure bibliche (cf. Sara: 3,5-6) sono applicate alla vita cristiana, segno che la Chiesa ha assunto il ruolo di popolo eletto prima rivestito da Israele. È perciò preferibile pensare che quelle comunità fossero composte da pagani e da ebrei convertiti, anche se la maggioranza doveva essere rappresentata da cristiani provenienti dal mondo pagano. Per delineare la condizione economica e sociale dei destinatari il «codice familiare» di 1Pt 2,18-3,7 rappresenta una preziosa fonte di informazione. Un’attenta lettura di questo codice consente di superare una diffusa convinzione, per la quale le comunità cristiane dell’Asia Minore erano sostanzialmente formate dagli strati più poveri della società, da gente emarginata sul piano sia politico che culturale, probabilmente di estrazione rurale. Tale posizione fa leva su due punti: a un’ampia esortazione agli schiavi non ne corrisponde un’altra simile ai padroni. Inoltre, il fatto che i cristiani siano definiti «stranieri e pellegrini» (v. 2,11) è letto come un richiamo allo status politico dei destinatari prima della conversione. Il limite di questa posizione, oltre che dalla debolezza delle prove, deriva dal fatto che trascura altri dati ricavabili dalla lettera: l’attenzione agli schiavi in 1Pt 2,18-25 non significa che costituissero la maggioranza o che fossero privi di cultura. La stessa qualificazione dei destinatari come «stranieri e pellegrini» non comporta un riferimento alla loro condizione politica antecedente alla conversione. L’autore si rivolge infatti a loro «come stranieri e pellegrini». Si può concludere che le comunità destinatarie della 1Pietro Fossero costituite da persone provenienti dai più vari strati sociali ed economici (…) e dunque ogni tentativo di circoscrivere i destinatari a una sola classe sociale o economica non corrisponde all’effettiva situazione di notevole varietà presente fra loro[5].
Genere letterario e finalità La 1Pietro si presenta a prima vista come una lettera, incorniciata da un prescritto epistolare che indica mittente, destinatari e il consueto saluto (1,1-2) e, alla fine, da un postscritto con i saluti finali di rito da parte della comunità che vive in Babilonia e di Marco e un’invocazione di pace su tutti quanti sono in Cristo (5,12-14). Va aggiunto che, come avviene nelle lettere, idee-chiave enunciate all’inizio sono sviluppate all’interno dello scritto: «eletto» (1,1; cf. 2,4.6.9); «pellegrino» (1,1; cf. 2,11); «obbedienza» (1,2; cf. 1,14.22); «speranza/sperare» (1,3; cf. 1,13.21; 3,5.15); ecc. È sufficiente per dire che è una lettera? Il suo tono impersonale mal si concilia con la caratteristica basilare di una lettera che, per sua natura, suppone una relazione reciproca tra mittente e destinatari. Anche se si tenta di spiegare l’anomalia con i numerosi destinatari, resta il fatto che nella 1Pietro manca ciò che contraddistingue una lettera. Muovendo da questa costatazione e dal taglio parenetico dello scritto (frequenza di imperativi, uso dell’esegesi tipologica, attenzione alla condotta, ecc.), altri studiosi vedono nella 1Pietro un’omelia con una cornice epistolare, confortati dalla dichiarazione dell’autore in 5,12: «Vi ho scritto brevemente per mezzo di Silvano, che io ritengo fratello fedele, per esortarvi e attestarvi che questa è la vera grazia di Dio». Alcuni vanno oltre e, rilevando la presenza di accenni battesimali (cf. 1,23; 2,2; 3,21), sostengono che la 1Pietro è un’omelia battesimale o, addirittura la trascrizione di un rito battesimale in atto o un vero rituale per la celebrazione battesimale durante la veglia pasquale. A questo problema si collega quello dell’unità letteraria: la 1Pietro è uno scritto unitario o combina due scritti indipendenti composti in tempi diversi? I sostenitori di quest’ultima ipotesi fanno notare che la dossologia in 4,11 crea una netta cesura all’interno dello scritto. Inoltre, tra 1,1-4,11 e 4,12-5,11 si notano differenze di contenuto e di accento. Tali osservazioni, però, non sono decisive: lo scritto di 1Pietro è concepito come una «lettera», anche se il materiale in essa contenuto risente della tradizione omiletica, catechistica e liturgica della prima chiesa[6]. È il momento di chiedersi quale sia lo scopo principale della 1Pietro: che cosa si prefigge il suo autore? La presenza di materiale liturgico/omiletico proveniente dalla tradizione (cf. gli inni cristologici in 1,18-21; 2,4-8; 2,21-25; 3,18-22) non implica che la 1Pietro sia un’omelia battesimale. Questo materiale è in realtà usato per motivare delle comunità scoraggiate e “perseguitate”, richiamandole alla loro nuova identità come popolo di Dio e all’eredità di fede e di speranza che deriva dalla redenzione di Cristo. Sentendosi alienati dentro una società diventata per loro estranea e addirittura ostile, questi cristiani sono tentati di fuggire dalla realtà in cui vivono, “emigrando” da quelle istituzioni che li rifiutano sottoponendoli a vessazioni di ogni genere. Di fronte a questo pericolo la lettera risponde che non è strano per i cristiani essere come «stranieri e pellegrini» nel mondo (2,11), perché sono stati eletti da Dio «come edificio spirituale», per essere «stirpe eletta, sacerdozio regale, nazione santa, popolo che Dio si è acquistato» (cf. 2,5.9). Questa nuova identità impone ai cristiani di vivere nella società con «una condotta esemplare fra i pagani perché, mentre vi calunniano come malfattori, al vedere le vostre buone opere diano gloria a Dio nel giorno della sua visita» (2,12). In questo senso, i codici domestici nella 1Pietro indicano come tradurre la fede nella vita secondo la condizione sociale di ciascuno. Spicca, in particolare, l’esortazione agli schiavi (chiamati significativamente «familiari»), dove l’autore comanda di sottomettersi ai padroni additando l’esempio di Cristo, che «non commise peccato e non si trovò inganno sulla sua bocca» (2,22-24).
La struttura letteraria La lettera si presenta come una serie di esortazioni che mirano a sostenere la fede e la speranza delle comunità destinatarie con motivazioni di ordine teologico e cristologico, tutte attinte al patrimonio della tradizione. Anche se questa finalità generale dà allo scritto una certa unità, va riconosciuto che tra le singole esortazioni non è individuabile un vero collegamento logico. È per questa ragione che qualcuno indica la successione e lo sviluppo delle esortazioni, rinunciando a una precisa articolazione dello scritto. All’indirizzo-saluto (1,1-2) e al ringraziamento iniziale (1,3-12), infatti, seguono sette esortazioni che accentuano ora l’uno ora l’altro tema. Prima dei consueti saluti alla fine della lettera (5,13-14), l’autore ribadisce lo scopo del suo scritto (5,12). Se si presta però attenzione alle motivazioni teologiche offerte a sostegno della parenesi, è possibile notare la prevalenza della motivazione battesimale all’inizio (1,13-2,10), di quella cristologica nella parte centrale (2,11-3,22/4,11) e di quella escatologica alla fine (4,1/4,11-5,11). Indizi di ordine sia sintattico che lessicale confermano tale divisione: la prima parte (1,3-2,10) è delimitata dalla parola «misericordia», la seconda (2,11-4,11) è aperta dall’appello «carissimi» ed è chiusa dalla dossologia di 4,11 e la terza parte (4,12-5,11) è aperta e chiusa nello stesso modo (cf. 4,12 e 5,11).
Indirizzo e saluto iniziale 1,1-2
I. Nuova vita e missione dei rigenerati 1,3-2,10 – Benedizione trinitaria (1,3-12) – Vita d rigenerati (1,13-25) – Pietre vive, sacerdozio regale (2,1-10)
II. Condotta nella società pagana 2,11-4,11 – Nella società e in famiglia (2,13-3,12) – Dare ragione della speranza (3,13-22) – Una grande carità (4,1-11)
III. Sofferenze e perseveranza nell’attesa 4,12-5,11 – Lieti di soffrire per Cristo (4,12-19) – Codice di comportamento ecclesiale (5,1-5) – Chiamati alla gloria eterna (5,6-11)
Conclusione e saluti finali 5,12-14
Nella prima parte è delineata la vita e la missione nuove di quanti sono stati rigenerati dalla parola di Dio. Questa sezione culmina in 2,10, dove sono contrapposti il passato e il presente dei credenti: Un tempo voi eravate non popolo, ora invece siete popolo di Dio; un tempo eravate esclusi dalla misericordia, ora invece avete ottenuto misericordia. Nella seconda parte si indica la condotta che i credenti devono tenere nella società e nella famiglia, per testimoniare con coerenza la loro fede e la loro speranza (cf. 3,15), attirando al vangelo i pagani. Da segnalare il codice familiare in 2,13-3,12: all’interno di una cornice generale, spiccano i rapporti dei servi verso i padroni (2,18-25: cf. la motivazione cristologica), delle mogli verso i mariti (3,1-6: cf. l’esempio di Sara), e viceversa (3,7). La terza parte indica come comportarsi nella «casa/famiglia di Dio» (il termine «chiesa» è assente in 1Pietro): ecco il codice ecclesiale di 5,1-5. L’esortazione a perseverare nell’attesa della salvezza finale chiude la sezione[7].
I rapporti con gli altri scritti del Nuovo Testamento L’autore ricorre spesso agli scritti dell’Antico Testamento, soprattutto il Pentateuco, il profeta Isaia e i Salmi, per confermare le sue affermazioni sul prestabilito piano salvifico di Dio (cf. 1,2.20) e per verificare come i profeti predicessero la passione e la gloria di Cristo, mossi dal suo stesso Spirito. I paralleli si estendono anche agli scritti nel Nuovo Testamento. Con la lettera di Giacomo condivide termini o espressioni identici come: «diaspora» (1,1; cf. Gc 1,1), la gioia nelle prove (1,6-7; cf. Gc 1,2-4), la «rigenerazione mediante la Parola» (1,23; cf. Gc 1,18), il «culto spirituale» (2,5; cf. Gc 1,26-27), ecc. Tale situazione è spiegabile non tanto dalla dipendenza letteraria di 1Pietro da Giacomo, quanto dal fatto che entrambi gli scritti attingono in modo autonomo da una comune tradizione. È comunque con le lettere di Paolo che la lettera mostra i maggiori punti di contatto sia a livello di fraseologia sia a livello di pensiero: ad esempio, «in Cristo» (3,16; 5,10.14), «libertà» (2,16), le sofferenze di Cristo (1,11; 4,13; 5,1), «giustizia» (2,24, 3,14), ecc. Le differenze sono tuttavia più impressionanti: 1Pietro parla di giustizia/giustificazione senza precisare «per fede». Ignora altri temi caratteristici di Paolo come la tensione tra fede e opere, la chiesa come corpo di Cristo, la preesistenza di Cristo. Si può dire che la 1Pietro sia un’opera in gran parte indipendente, non più vicina al pensiero di Paolo o più lontana da esso di quanto Pietro lo sia stato storicamente da Paolo verso la fine delle loro vite (…) 1 e 2 Pt possono essere considerate come un corpo petrino distinto dal molto più esteso corpus paolino[8].
La collocazione tra le «lettere cattoliche» 1Pietro e 1Giovanni rappresentano il nucleo germinale del “corpo” canonico che va sotto il nome di «lettere cattoliche». Sono chiamate così da Eusebio nella Storia ecclesiastica (2,23,25) all’inizio del IV sec. L’ordine di successione nel canone (Gc-1Pt-2Pt-1Gv-2Gv-3Gv-Gd) sembra derivare da un famoso passo della lettera ai Galati, dove le «colonne» della Chiesa di Gerusalemme sono elencate secondo la stessa sequenza: …e riconoscendo la grazia a me data, Giacomo, Cefa [Pietro] e Giovanni, ritenute le colonne, diedero a me e a Barnaba la destra in segno di comunione, perché noi andassimo tra le genti e loro tra i circoncisi (Gal 2,9). Pietro e Giovanni sono gli apostoli più vicini a Gesù, mentre Giacomo e Giuda si presentano come «fratelli del Signore», membri della stretta cerchia familiare di Gesù che avrebbe assunto la guida della Chiesa madre di Gerusalemme. Il rapporto privilegiato di queste figure con il Signore spiega come, in alcuni elenchi della Chiesa occidentale, le lettere loro attribuite si trovino tra gli Atti degli apostoli e le lettere di Paolo. A parte gli indizi rinvenibili nella Prima lettera di Clemente, nella lettera di Policarpo ai Filippesi e in Papia, la 1Pietro comincia a essere esplicitamente testimoniata verso la fine del II secolo da Ireneo e da Clemente di Alessandria. Dal III secolo è inclusa tra gli scritti incontestati del Nuovo Testamento, a differenza della 2Pietro. La strana assenza dal Canone di Muratori potrebbe dipendere dal cattivo stato di conservazione del documento. Le Chiese siriache accettano la 1Pietro dal V secolo uniformandosi così alla posizione comune.
[1] E. Bosetti, La prima lettera di Pietro, EMP, Padova 20102, 16.
[2] P.J. Achtemeier, La prima lettera di Pietro. Commento storico esegetico, LEV, Città del Vaticano 2004, 108. [3] A. Chester – R.P. Martin, La teologia delle lettere di Giacomo, Pietro e Giuda, Paideia, Brescia 1998, 116-118. [4] R.E. Brown – J.P. Meier, Antiochia e Roma. Chiese madri della cattolicità antica, Cittadella, Assisi 1987, 159-161. [5] Achtemeier, La prima lettera di Pietro, 130-131. [6] R. Fabris, Lettera di Giacomo e Prima lettera di Pietro. Commento pastorale e attualizzazione, EDB, Bologna 1980, 154. [7] M. Mazzeo, Lettere di Pietro. Lettera di Giuda, Edizioni Paoline, Milano 2002, 18-23. [8] R.E. Brown, Introduzione al Nuovo Testamento, Queriniana, Brescia 2001, 940.
SOLENNITÀ DEI SANTI APOSTOLI PIETRO E PAOLO
SANTA MESSA E IMPOSIZIONE DEL PALLIO AI NUOVI METROPOLITI
OMELIA DEL SANTO PADRE BENEDETTO XVI
Basilica Vaticana Lunedì, 29 giugno 2009
Signori Cardinali, Venerati Fratelli nell’Episcopato e nel Sacerdozio, Cari fratelli e sorelle! A tutti rivolgo il mio saluto cordiale con le parole dell’Apostolo accanto alla cui tomba ci troviamo: “A voi grazia e pace in abbondanza” (1Pt 1, 2). Saluto, in particolare, i Membri della Delegazione del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e i numerosi Metropoliti che oggi ricevono il Pallio. Nella colletta di questa giornata solenne chiediamo al Signore “che la Chiesa segua sempre l’insegnamento degli Apostoli dai quali ha ricevuto il primo annunzio della fede”. La richiesta che rivolgiamo a Dio interpella al contempo noi stessi: seguiamo noi l’insegnamenti dei grandi Apostoli fondatori? Li conosciamo veramente? Nell’Anno Paolino che si è ieri concluso abbiamo cercato di ascoltare in modo nuovo lui, il “maestro delle genti”, e di apprendere così nuovamente l’alfabeto della fede. Abbiamo cercato di riconoscere con Paolo e mediante Paolo il Cristo e di trovare così la via per la retta vita cristiana. Nel Canone del Nuovo Testamento, oltre alle Lettere di san Paolo, ci sono anche due Lettere sotto il nome di san Pietro. La prima di esse si conclude esplicitamente con un saluto da Roma, che però appare sotto l’apocalittico nome di copertura di Babilonia: “Vi saluta la co-eletta che vive in Babilonia…” (5, 13). Chiamando la Chiesa di Roma la “co-eletta”, la colloca nella grande comunità di tutte le Chiese locali – nella comunità di tutti coloro che Dio ha adunato, affinché nella “Babilonia” del tempo di questo mondo costruiscano il suo Popolo e facciano entrare Dio nella storia. La Prima Lettera di san Pietro è un saluto rivolto da Roma all’intera cristianità di tutti i tempi. Essa ci invita ad ascoltare “l’insegnamento degli Apostoli”, che ci indica la via verso la vita. Questa Lettera è un testo ricchissimo, che proviene dal cuore e tocca il cuore. Il suo centro è – come potrebbe essere diversamente? – la figura di Cristo, che viene illustrato come Colui che soffre e che ama, come Crocifisso e Risorto: “Insultato, non rispondeva con insulti, maltrattato, non minacciava vendetta … Dalle sue piaghe siete stati guariti” (1Pt 2, 23s). Partendo dal centro che è Cristo, la Lettera costituisce poi anche un’introduzione ai fondamentali Sacramenti cristiani del Battesimo e dell’Eucaristia e un discorso rivolto ai sacerdoti, nel quale Pietro si qualifica come co-presbitero con loro. Egli parla ai Pastori di tutte le generazioni come colui che personalmente è stato incaricato dal Signore di pascere le sue pecorelle e così ha ricevuto in modo particolare un mandato sacerdotale. Che cosa, dunque, ci dice san Pietro – proprio nell’Anno sacerdotale – circa il compito del sacerdote? Innanzitutto, egli comprende il ministero sacerdotale totalmente a partire da Cristo. Chiama Cristo il “pastore e custode delle … anime” (2, 25). Dove la traduzione italiana parla di “custode”, il testo greco ha la parola epíscopos (vescovo). Un po’ più avanti, Cristo viene qualificato come il Pastore supremo: archipoimen (5, 4). Sorprende che Pietro chiami Cristo stesso vescovo – vescovo delle anime. Che cosa intende dire con ciò? Nella parola greca “episcopos” è contenuto il verbo “vedere”; per questo è stata tradotta con “custode” ossia “sorvegliante”. Ma certamente non s’intende una sorveglianza esterna, come s’addice forse ad una guardia carceraria. S’intende piuttosto un vedere dall’alto – un vedere a partire dall’elevatezza di Dio. Un vedere nella prospettiva di Dio è un vedere dell’amore che vuole servire l’altro, vuole aiutarlo a diventare veramente se stesso. Cristo è il “vescovo delle anime”, ci dice Pietro. Ciò significa: Egli ci vede nella prospettiva di Dio. Guardando a partire da Dio, si ha una visione d’insieme, si vedono i pericoli come anche le speranze e le possibilità. Nella prospettiva di Dio si vede l’essenza, si vede l’uomo interiore. Se Cristo è il vescovo delle anime, l’obiettivo è quello di evitare che l’anima nell’uomo s’immiserisca, è di far sì che l’uomo non perda la sua essenza, la capacità per la verità e per l’amore. Far sì che egli venga a conoscere Dio; che non si smarrisca in vicoli ciechi; che non si perda nell’isolamento, ma rimanga aperto per l’insieme. Gesù, il “vescovo delle anime”, è il prototipo di ogni ministero episcopale e sacerdotale. Essere vescovo, essere sacerdote significa in questa prospettiva: assumere la posizione di Cristo. Pensare, vedere ed agire a partire dalla sua posizione elevata. A partire da Lui essere a disposizione degli uomini, affinché trovino la vita. Così la parola “vescovo” s’avvicina molto al termine “pastore”, anzi, i due concetti diventano interscambiabili. È compito del pastore pascolare e custodire il gregge e condurlo ai pascoli giusti. Pascolare il gregge vuol dire aver cura che le pecore trovino il nutrimento giusto, sia saziata la loro fame e spenta la loro sete. Fuori di metafora, questo significa: la parola di Dio è il nutrimento di cui l’uomo ha bisogno. Rendere sempre di nuovo presente la parola di Dio e dare così nutrimento agli uomini è il compito del retto Pastore. Ed egli deve anche saper resistere ai nemici, ai lupi. Deve precedere, indicare la via, conservare l’unità del gregge. Pietro, nel suo discorso ai presbiteri, evidenzia ancora una cosa molto importante. Non basta parlare. I Pastori devono farsi “modelli del gregge” (5, 3). La parola di Dio viene portata dal passato nel presente, quando è vissuta. È meraviglioso vedere come nei santi la parola di Dio diventi una parola rivolta al nostro tempo. In figure come Francesco e poi di nuovo come Padre Pio e molti altri, Cristo è diventato veramente contemporaneo della loro generazione, è uscito dal passato ed entrato nel presente. Questo significa essere Pastore – modello del gregge: vivere la Parola ora, nella grande comunità della santa Chiesa. Molto brevemente vorrei ancora richiamare l’attenzione su due altre affermazioni della Prima Lettera di san Pietro, che riguardano in modo speciale noi, in questo nostro tempo. C’è innanzitutto la frase oggi nuovamente scoperta, in base alla quale i teologi medievali compresero il loro compito, il compito del teologo: “Adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (3, 15). La fede cristiana è speranza. Apre la via verso il futuro. Ed è una speranza che possiede ragionevolezza; una speranza la cui ragione possiamo e dobbiamo esporre. La fede proviene dalla Ragione eterna che è entrata nel nostro mondo e ci ha mostrato il vero Dio. Va al di là della capacità propria della nostra ragione, così come l’amore vede più della semplice intelligenza. Ma la fede parla alla ragione e nel confronto dialettico può tener testa alla ragione. Non la contraddice, ma va di pari passo con essa e, al contempo, conduce al di là di essa – introduce nella Ragione più grande di Dio. Come Pastori del nostro tempo abbiamo il compito di comprendere noi per primi la ragione della fede. Il compito di non lasciarla rimanere semplicemente una tradizione, ma di riconoscerla come risposta alle nostre domande. La fede esige la nostra partecipazione razionale, che si approfondisce e si purifica in una condivisione d’amore. Fa parte dei nostri doveri come Pastori di penetrare la fede col pensiero per essere in grado di mostrare la ragione della nostra speranza nella disputa del nostro tempo. Tuttavia, il pensare – pur così necessario – da solo non basta. Così come parlare, da solo, non basta. Nella sua catechesi battesimale ed eucaristica nel secondo capitolo della sua Lettera, Pietro allude al Salmo usato nella Chiesa antica nel contesto della comunione, e cioè al versetto che dice: “Gustate e vedete com’è buono il Signore” (Ps 34 [33], 9; 1 Pt 2, 3). Solo il gustare conduce al vedere. Pensiamo ai discepoli di Emmaus: solo nella comunione conviviale con Gesù, solo nella frazione del pane si aprono i loro occhi. Solo nella comunione col Signore veramente sperimentata essi diventano vedenti. Ciò vale per tutti noi: al di là del pensare e del parlare, abbiamo bisogno dell’esperienza della fede; del rapporto vitale con Gesù Cristo. La fede non deve rimanere teoria: deve essere vita. Se nel Sacramento incontriamo il Signore; se nella preghiera parliamo con Lui; se nelle decisioni del quotidiano aderiamo a Cristo – allora “vediamo” sempre di più quanto Egli è buono. Allora sperimentiamo che è cosa buona stare con Lui. Da una tale certezza vissuta deriva poi la capacità di comunicare la fede agli altri in modo credibile. Il Curato d’Ars non era un grande pensatore. Ma egli “gustava” il Signore. Viveva con Lui fin nelle minuzie del quotidiano oltre che nelle grandi esigenze del ministero pastorale. In questo modo divenne “uno che vede”. Aveva gustato, e per questo sapeva che il Signore è buono. Preghiamo il Signore, affinché ci doni questo gustare e possiamo così diventare testimoni credibili della speranza che è in noi. Alla fine vorrei far notare ancora una piccola, ma importante parola di san Pietro. Subito all’inizio della Lettera egli ci dice che la mèta della nostra fede è la salvezza delle anime (cfr 1, 9). Nel mondo del linguaggio e del pensiero dell’attuale cristianità questa è un’affermazione strana, per alcuni forse addirittura scandalosa. La parola “anima” è caduta in discredito. Si dice che questo porterebbe ad una divisione dell’uomo in spirito e fisico, in anima e corpo, mentre in realtà egli sarebbe un’unità indivisibile. Inoltre “la salvezza delle anime” come mèta della fede sembra indicare un cristianesimo individualistico, una perdita di responsabilità per il mondo nel suo insieme, nella sua corporeità e nella sua materialità. Ma di tutto questo non si trova nulla nella Lettera di san Pietro. Lo zelo per la testimonianza in favore della speranza, la responsabilità per gli altri caratterizzano l’intero testo. Per comprendere la parola sulla salvezza delle anime come mèta della fede dobbiamo partire da un altro lato. Resta vero che l’incuria per le anime, l’immiserirsi dell’uomo interiore non distrugge soltanto il singolo, ma minaccia il destino dell’umanità nel suo insieme. Senza risanamento delle anime, senza risanamento dell’uomo dal di dentro, non può esserci una salvezza per l’umanità. La vera malattia delle anime san Pietro, alla nostra sorpresa, la qualifica come ignoranza – cioè come non conoscenza di Dio. Chi non conosce Dio, chi almeno non lo cerca sinceramente, resta fuori della vera vita (cfr 1 Pt 1, 14). Ancora un’altra parola della Lettera può esserci utile per capire meglio la formula “salvezza delle anime”: “Purificate le vostre anime con l’obbedienza alla verità” (cfr 1, 22). È l’obbedienza alla verità che rende pura l’anima. Ed è il convivere con la menzogna che la inquina. L’obbedienza alla verità comincia con le piccole verità del quotidiano, che spesso possono essere faticose e dolorose. Questa obbedienza si estende poi fino all’obbedienza senza riserve di fronte alla Verità stessa che è Cristo. Tale obbedienza ci rende non solo puri, ma soprattutto anche liberi per il servizio a Cristo e così alla salvezza del mondo, che pur sempre prende inizio dalla purificazione obbediente della propria anima mediante la verità. Possiamo indicare la via verso la verità solo se noi stessi – in obbedienza e pazienza – ci lasciamo purificare dalla verità. E ora mi rivolgo a voi, cari Confratelli nell’episcopato, che in quest’ora riceverete dalla mia mano il Pallio. È stato intessuto con la lana di agnelli che il Papa benedice nella festa di sant’Agnese. In questo modo esso ricorda gli agnelli e le pecore di Cristo, che il Signore risorto ha affidato a Pietro con il compito di pascerli (cfr Gv 21, 15-18). Ricorda il gregge di Gesù Cristo, che voi, cari Fratelli, dovete pascere in comunione con Pietro. Ci ricorda Cristo stesso, che come Buon Pastore ha preso sulle sue spalle la pecorella smarrita, l’umanità, per riportarla a casa. Ci ricorda il fatto che Egli, il Pastore supremo, ha voluto farsi Lui stesso Agnello, per farsi carico dal di dentro del destino di tutti noi; per portarci e risanarci dall’interno. Vogliamo pregare il Signore, affinché ci doni di essere sulle sue orme Pastori giusti, “non perché costretti, ma volentieri, come piace a Dio … con animo generoso … modelli del gregge” (1 Pt 5, 2s). Amen.
http://www.vatican.va/jubilee_2000/magazine/documents/ju_mag_01091999_p-20_it.html
LA CATECHESI DI GIOVANNI PAOLO II – (GIUBILEO 2000)
LA MORTE COME INCONTRO CON IL PADRE
Il significato della morte è stato il tema a cui il Pontefice ha volto l’attenzione, nella Catechesi di mercoledì 2 giugno. “Oggi – egli ha detto tra l’altro – è diventato difficile parlare della morte, perché la società del benessere è incline a rimuovere questa realtà il cui solo pensiero procura angoscia”. 1.Dopo aver riflettuto sul destino comune dell’umanità, quale si realizzerà alla fine dei tempi, vogliamo oggi volgere l’attenzione a un altro tema che ci riguarda da vicino: il significato della morte. Oggi è diventato difficile parlare della morte perché la società del benessere è incline a rimuovere questa realtà il cui solo pensiero procura angoscia. Infatti, come ha osservato il Concilio, “di fronte alla morte l’enigma della condizione umana diventa sommo” (Gaudium et spes, 18). Ma su questa realtà la Parola di Dio, seppure in modo progressivo, ci offre una luce che rischiara e consola. Nell’Antico Testamento le prime indicazioni sono offerte dalla comune esperienza dei mortali, non ancora illuminata dalla speranza di una vita beata oltre la morte. Si pensava per lo più che l’esistenza umana si concludesse nello “sheól”, luogo di ombre, incompatibile con la vita in pienezza. Molto significative a tal proposito le parole del Libro di Giobbe: “Non sono poca cosa i giorni della mia vita? Lasciami, sì ch’io possa respirare un poco, prima che me ne vada, senza ritornare, verso la terra delle tenebre e dell’ombra di morte, terra di caligine e di disordine, dove la luce è come le tenebre” (Gb 10,20-22). 2.In questa visione drammatica della morte si fa strada lentamente la rivelazione di Dio, e la riflessione umana si apre ad un nuovo orizzonte che riceverà luce piena nel Nuovo Testamento. Si comprende innanzitutto che, se la morte è quel nemico inesorabile dell’uomo, che tenta di sopraffarlo e di ricondurlo sotto il suo potere, Dio non può averla creata, perché non può godere della rovina dei viventi (cfr Sap 1,13). Il progetto originario di Dio era diverso, ma venne contrastato dal peccato commesso dall’uomo per influsso demoniaco, come spiega il Libro della Sapienza: “Dio ha creato l’uomo per l’immortalità; lo fece a immagine della propria natura. Ma la morte è entrata nel mondo per invidia del diavolo; e ne fanno esperienza coloro che gli appartengono” (Sap 2,23-24). A questa concezione si richiama anche Gesù (cfr Gv 8,44) e su di essa si fonda l’insegnamento di san Paolo sulla redenzione di Cristo, nuovo Adamo (cfr Rm 5,12.17; 1 Cor 15,21). Con la sua morte e risurrezione, Gesù ha vinto il peccato e la morte che è sua conseguenza. 3.Alla luce di quanto Gesù ha compiuto, si comprende l’atteggiamento di Dio Padre di fronte alla vita e alla morte delle sue creature. Già il Salmista aveva intuito che Dio non può abbandonare i suoi servi fedeli nel sepolcro, né permettere che il suo santo veda la corruzione (cfr Sal 16,10). Isaia addita un futuro in cui Dio eliminerà la morte per sempre, asciugando “le lacrime su ogni volto” (Is 25,8) e risuscitando i morti a vita nuova: “Ma di nuovo vivranno i tuoi morti, risorgeranno i loro cadaveri. Si sveglieranno ed esulteranno quelli che giacciono nella polvere, perché la tua rugiada è rugiada luminosa; la terra darà alla luce le ombre” (ivi, 26,19). Alla morte come realtà livellatrice di tutti i viventi viene così a sovrapporsi l’immagine della terra che, quale madre, si appresta al parto di un nuovo essere vivente e dà alla luce il giusto destinato a vivere in Dio. Per questo, anche se i giusti “agli occhi degli uomini subiscono castighi, la loro speranza è piena di immortalità” (Sap 3,4). La speranza della risurrezione viene affermata magnificamente nel Secondo Libro dei Maccabei da sette fratelli e dalla loro madre, al momento di subire il martirio. Uno di loro dichiara: “Da Dio ho queste membra e, per le sue leggi, le disprezzo, ma da lui spero di riaverle di nuovo” (2 Mac 7,11); un altro, “ridotto in fin di vita, diceva: ‘E’ bello morire a causa degli uomini per attendere da Dio l’adempimento delle speranze di essere da lui di nuovo risuscitati’” (ivi, 7,14). Eroicamente, la loro madre li incoraggiava ad affrontare la morte con questa speranza (cfr ivi, 7,29). 4.Già nella prospettiva dell’Antico Testamento i profeti ammonivano ad attendere “il giorno del Signore” con animo retto, altrimenti esso sarebbe stato “ tenebra e non luce” (cfr Am 5,18.20). Nella rivelazione piena del Nuovo Testamento si sottolinea che tutti saranno sottoposti a giudizio (cfr 1 Pt 4,5; Rm 14,10). Ma di fronte ad esso i giusti non dovranno temere, in quanto eletti destinati a ricevere l’eredità promessa; essi saranno posti alla destra di Cristo che li chiamerà “benedetti del Padre mio” (Mt 25,34; cfr 22,14; 24,22.24). La morte che il credente sperimenta come membro del Corpo mistico dischiude la via verso il Padre, che ci ha dimostrato infatti il suo amore nella morte di Cristo, “vittima di espiazione per i nostri peccati” (1 Gv 4,10; cfr Rm 5,7). Come ribadisce il Catechismo della Chiesa Cattolica, la morte “per coloro che muoiono nella grazia di Cristo, è una partecipazione alla morte del Signore, per poter partecipare anche alla sua Risurrezione” (n. 1006). Gesù “ci ama e ci ha liberati dai nostri peccati con il suo sangue, … ha fatto di noi un regno di sacerdoti per il suo Dio e Padre” (Ap 1,5-6). Bisogna certo passare attraverso la morte, ma ormai con la certezza che incontreremo il Padre quando “questo corpo corruttibile si sarà vestito d’incorruttibilità e questo corpo mortale d’immortalità” (1 Cor 15,54). Allora si vedrà chiaramente che “la morte è stata inghiottita per la vittoria” (ivi) e la si potrà interpellare con atteggiamento di sfida, senza paura: “Dov’è, o morte, la tua vittoria? Dov’è, o morte, il tuo pungiglione?” (ivi, 55). E’ proprio per questa visione cristiana della morte che san Francesco d’Assisi poteva esclamare nel Cantico delle Creature: “Laudato si, mi Signore, per sorella nostra morte corporale” (Fonti Francescane, 263). Di fronte a questa consolante prospettiva, si comprende la beatitudine annunciata dal Libro dell’Apocalisse, quasi a coronamento delle beatitudini evangeliche: “Beati fin d’ora i morti che muoiono nel Signore. Sì, dice lo Spirito, riposeranno dalle loro fatiche, perché le loro opere li seguono” (Ap 14,13).