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MONS. GIANFRANCO RAVASI – INNO ALLA CARITÀ (1Cor 13)

http://www.novena.it/ravasi/ravasi2000/articoli2000.htm

MONS. GIANFRANCO RAVASI – INNO ALLA CARITÀ (1Cor 13)

Nell’atmosfera luminosa e gioiosa della Pasqua e alle soglie del mese primaverile di maggio che è scelto da molti fidanzati per la celebrazione delle loro nozze abbiamo pensato di ricorrere a una pagina bellissima della Bibbia, al celebre canto dell’agape, cioè dell’amore cristiano che Paolo ha intessuto nel capitolo 13 della sua prima Lettera ai Corinzi: «Se pure parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi l’amore, sarei un bronzo echeggiante o un cembalo tintinnante…». Ci spiace di non poter citare integralmente questo inno meraviglioso; possiamo, però, invitare i nostri lettori a rileggerlo su una loro Bibbia. Significativa è la scelta del vocabolo da parte dell’apostolo: i Greci per indicare l’amore usavano soltanto il termine eros; Paolo preferisce agape che esprime soprattutto la donazione, la totalità, la consacrazione di sé all’altro, mentre l’eros suppone ancora possesso, godimento e appagamento. L’apostolo ci ricorda che anche tre doni altissimi, come la profezia, la conoscenza e la fede, se privi dell’amore, sono uno zero. La stessa generosità eroica e il distacco dai beni, se non animati dall’amore, sono solo atti di autoglonficazione o gesti spettacolari. Un profeta brasiliano contemporaneo, Paulo Suess, ha così ripreso la prima parte dell’inno paolino: «Anche se parlassi la lingua di tutte le tribù viventi / e persino dei popoli scomparsi dalla terra e dalla memoria, / se non ho l’amore, / sono un trombone di gelida latta, un computer trilingue. / Anche se distribuissi tutte le mie scarpe e i viveri / per soccorrere il popolo scarso e denutrito, se non ho l’amore, / sono una delle tante Cavie rivoluzionarie, / un cacciatore di farfalle o un poeta sognatore». La seconda parte dell’inno – che per la precisione inizia nel v. 4 del capitolo 13 – è simile a un fiore i cui petali sono altrettante qualità dell’amore-agape: magnanimità, bontà, umiltà, disinteresse, generosità, rispetto, benignità, perdono, giustizia, verità, tolleranza, costanza… E il corteo delle virtù che accompagnano l’amore. Se l’amore si spegnesse, le virtù umane e religiose si eclisserebbero. Il nostro scrittore Giovanni Teston (1923-1993) ha voluto tradurre nel 1991 la prima Lettera ai Corinzi in una forma quasi poetica e ha esaltato in modo sorprendente la forza dolce di questo canto profondamente evangelico. Ma un altro scrittore, l’autore della famosa Fattoria degli animali, l’inglese George Orwell, in un suo romanzo Fiorirà l’aspidistra (1936) compirà un audace stravolgimento dell’inno paolino, una deformazione che è purtroppo reale nella storia dell’umanità. Egli, infatti, ha sostituito alla parola amore-agape quella quasi antitetica del “denaro”. Il canto si è, allora, trasformato in questa lode biasfema dell’idolo più venerato dagli uomini: «Anche se parlassi tutte le lingue, se non ho denaro, divengo un bronzo risonante… Se non ho denaro, non sono nulla… Il denaro tutto crede, tutto spera, tutto sopporta…». Il poeta latino Ovidio nella sua Ars amatoria era convinto che «con l’oro ci si procura anche l’amore» (2,278). In realtà con l’oro si può acquistare il sesso ma non l’amore.

 

IV GIORNATA EUROPEA DELLA CULTURA EBRAICA (2003) – RIFLESSIONI DEL CARD. WALTER KASPER (

http://www.vatican.va/roman_curia/pontifical_councils/chrstuni/relations-jews-docs/rc_pc_chrstuni_doc_20030908_kasper-antisemitismo_it.html

COMMISSIONE PER I RAPPORTI RELIGIOSI CON L’EBRAISMO

IV GIORNATA EUROPEA DELLA CULTURA EBRAICA

RIFLESSIONI DEL CARD. WALTER KASPER (2003)

ANTISEMITISMO: UNA PIAGA DA GUARIRE

Insieme alla fede dei Padri e alla Torà, il Tempio di Gerusalemme – almeno finché Tito non lo distrusse nel 70 – rappresentava il cuore dell’ebraismo, eccezion fatta per alcuni gruppi come gli esseni e i samaritani. Il Tempio costituiva uno dei luoghi di riunione e di preghiera anche per i primi discepoli del Risorto, guardati a volte dalle autorità con sospetto, con stima dal popolo, del quale condividevano la fede nel Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, di Sara e di Rebecca, di Rachele e Lia. C’era in tutti la consapevolezza di far parte dell’unico popolo di Dio, con il quale l’Altissimo aveva stretto alleanza, con il giuramento fatto ai padri, suggellato dopo il passaggio del Mar Rosso al Sinai, aperto alla promessa e alla speranza di rinnovamento e redenzione universale secondo l’annuncio messianico dei profeti. Il fariseo Gamaliele aveva saggiamente ammonito il sinedrio a non pretendere di spegnere con la forza un movimento spirituale nuovo, che trovava in Simon Pietro e Giacomo due leader carismatici, e che forse interpretava rettamente la tradizione ebraica e la speranza d’Israele. Un altro fariseo, discepolo di Gamaliele, il giovane Saulo di Tarso, si oppose dapprima con violenza ai seguaci di Gesù, ma dopo un’esperienza eccezionale di conversione aderì totalmente al Vangelo e divenne Paolo, l’apostolo dei pagani, percorrendo il Mediterraneo e l’impero fino al martirio in Roma. Sull’unico popolo di Dio, Israele, l’apostolo volle innestare l’olivo selvatico dei gentili, e lentamente ha preso più concreta forma la Chiesa di Cristo « sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti » (Efesini 2, 20), nei due rami di Ecclesia ex circumcisione e di Ecclesia ex gentibus, come si può ammirare nel mosaico paleocristiano di Santa Sabina sull’Aventino. L’insieme delle Sacre Scritture – sia quelle ebraiche del TaNaKH (Torà, Nevi ‘im e Ketuvim) che poi nel canone cristiano saranno dette Antico Testamento, sia quelle del Nuovo Testamento – è concorde nel testimoniare che Dio non ha abbandonato la sua Alleanza con il popolo ebraico (o « giudaico ») delle dodici tribù d’Israele. Naturalmente quello che può apparire come un pericoloso particolarismo esclusivista è bilanciato, nelle stesse Scritture, da un duplice universalismo messianico, sia ad intra, nella tensione fra diaspora ebraica ed ebrei della Terra d’Israele (Erez Israel), sia ad extra, nella tensione fra il popolo ebraico (‘am Israel) e tutti i popoli, chiamati a entrare nella stessa comunione di pace e di redenzione del popolo primogenito dell’alleanza. La Chiesa, pertanto, in quanto « popolo messianico », non si sostituisce a Israele, ma vi s’innesta, secondo la dottrina paolina, mediante l’adesione a Gesù Cristo morto e risorto, salvatore del mondo, e questo legame costituisce un vincolo spirituale radicale, unico e insopprimibile da parte cristiana. La concezione opposta – di un Israele un tempo (olim) prescelto, ma poi per sempre ripudiato da Dio e sostituito ormai dalla Chiesa – benché abbia avuto larga diffusione per quasi venti secoli, non rappresenta in realtà una verità di fede, come si vede sia negli antichi Simboli della chiesa primitiva, sia nell’insegnamento dei principali concili, in particolare del Concilio Vaticano II (Lumen Gentium 16, Dei Verbum 14-16, Nostra Aetate 4). Del resto, neppure Agar né Ismaele furono mai ripudiati da Dio, che ne fece « una grande nazione » (Genesi 21, 13); e Giacobbe, l’astuto « soppiantatore », ricevette infine l’abbraccio di Esaù. Il più recente documento della Pontificia Commissione Biblica su Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia Cristiana (2001), dopo aver riconosciuto la « forza sorprendente dei legami spirituali che uniscono la Chiesa di Cristo al popolo ebraico » (n. 85), conclude osservando che « Nel passato, tra il popolo ebraico e la Chiesa di Cristo Gesù, la rottura è potuta sembrare talvolta completa, in certe epoche e in certi luoghi. Alla luce delle Scritture questo non sarebbe mai dovuto accadere, perché una rottura completa tra la Chiesa e la Sinagoga è in contraddizione con la Sacra Scrittura » (ibidem). Nel contesto attuale, che non può prescindere dall’orrenda strage della Shoà nel secolo XX, il cardinale Joseph Ratzinger, introducendo questo documento, pone di conseguenza l’interrogativo: « Non ha forse contribuito la presentazione dei giudei e del popolo ebraico, nello stesso Nuovo Testamento, a creare nei confronti di questo popolo una ostilità, che ha favorito l’ideologia di coloro che volevano sopprimerlo? ». Il documento ammette onestamente che molti passi neotestamentari critici verso gli ebrei « si prestano a servire da pretesto all’antigiudaismo, e sono stati effettivamente utilizzati in questo senso » (n. 87). Alcuni anni prima lo stesso Papa Giovanni Paolo II aveva dichiarato che « nel mondo cristiano – non dico da parte della Chiesa in quanto tale – interpretazioni erronee e ingiuste del Nuovo Testamento riguardanti il popolo ebraico e la sua presunta colpevolezza sono circolate per troppo tempo, generando sentimenti di ostilità nei confronti di questo popolo » (31 ottobre 1997). Accadde così che « sentimenti di antigiudaismo in alcuni ambienti cristiani, e la divergenza che esisteva tra la Chiesa e il popolo ebraico, condussero a una discriminazione generalizzata » verso gli ebrei, nel corso dei secoli, in particolare nell’Europa cristiana (Commissione della Santa Sede per i Rapporti religiosi con l’Ebraismo, Noi ricordiamo: una riflessione sulla Shoah, 16 marzo 1998). Durante il secolo XIX, in un mutato contesto storico volto al superamento dell’antico regime che univa Chiesa e Stato, « cominciò a diffondersi in vario grado, attraverso la maggior parte d’Europa, un antigiudaismo che era essenzialmente più sociopolitico che religioso » (ibidem). Questa evoluzione dell’antigiudaismo, con l’aggiunta di confuse teorie sull’evoluzione e la superiorità della « razza ariana », ebbe per effetto quello che fu detto allora « antisemitismo », caratterizzato da esplosioni di violenza, pogrom e pubblicazioni di libelli antiebraici del tipo dei Protocolli dei savi anziani di Sion. In tale mentalità pervasa di disprezzo e perfino di odio verso gli ebrei, accusati di crimini orrendi come l’omicidio rituale, maturò l’indicibile tragedia della Shoà, il piano di sterminio orribilmente programmato dal governo nazista, che colpì le comunità ebraiche europee durante la seconda guerra mondiale. Le premesse ideologiche della Shoà, già ampiamente divulgate prima del conflitto, in opere come Mein Kampf e Der Mythus des zwanzigste Jahrhunderts (quest’ultimo messo all’Indice), non trovarono sufficiente opposizione né a livello culturale, né nell’ambito giuridico, né presso le comunità cristiane, anche se non mancarono reazioni, come quelle di G. Semeria, di G. Bonomelli o del giovane A. Bea. Purtroppo, però, tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, non mancarono esempi di riviste cattoliche anche molto autorevoli, che pubblicavano articoli di carattere antisemita, e « più in generale, i pregiudizi antiebraici furono sempre attivi, scaturendo dall’ »insegnamento di disprezzo » medievale, che fu una sorgente di stereotipi e di odio popolare » (J. Willebrands), così che si può affermare, in questo senso, che tale atteggiamento ha offerto un contesto favorevole alla diffusione dell’antisemitismo moderno. E va pure notato che la responsabilità di queste radici di odio tocca, in vario modo, con rare eccezioni, sia la cristianità occidentale che quella orientale, perciò richiede oggi una comune reazione ecumenica. Anche il documento vaticano Noi ricordiamo (II) dichiara che « il fatto che la Shoà abbia avuto luogo in Europa, cioè in paesi di lunga civilizzazione cristiana, pone la questione della relazione tra la persecuzione nazista e gli atteggiamenti dei cristiani, lungo i secoli, nei confronti degli ebrei ». Pur se ci furono, prima e durante la Shoà, episodi di condanna e di reazione all’antisemitismo, sia a livello personale con atti di eroismo fino al martirio, come nel caso del prevosto di Berlino Bernhard Lichtenberg, sia a livello istituzionale, con la condanna dell’antisemitismo (ad esempio da parte del S. Uffizio nel 1928 e da parte di Papa Pio XI nel 1938), in genere « la resistenza spirituale e l’azione concreta di altri cristiani non fu quella che ci si sarebbe potuto aspettare da discepoli di Cristo » (ibidem, IV). Anche in questo caso dunque, anzi in modo speciale a proposito dell’antisemitismo e della Shoà, possiamo a ragione parlare della necessità di compiere un processo di pentimento (teshuvà), che si concluda in atti esemplari e concreti, in quanto « come figli della chiesa, condividiamo infatti sia i peccati che i meriti di tutti i suoi figli » (ibidem, V). Certo uno di tali atti è stato quello che il Papa compì solennemente il 12 marzo 2000 nella basilica di San Pietro, e suggellò il 26 marzo a Gerusalemme al Muro del Tempio. Siamo però tutti chiamati a partecipare negli atteggiamenti interiori, nelle preghiere e nei fatti, a questo medesimo cammino di conversione e riconciliazione, perché si tratta di un’esigenza da vivere in capite et in membris, non limitata ad alcuni gesti autorevolmente significativi o a documenti di pur alto livello. Questo primo fondamentale impegno, di carattere spirituale e morale, ci riguarda tutti in quanto cristiani, ed ha perciò, possiamo dire, una dimensione spiccatamente ecumenica. Una seconda conseguenza, egualmente di natura teologica, è quella che scaturisce dal profondo, radicale e peculiare legame che unisce la Chiesa e il popolo ebraico « primogenito dell’alleanza » (Preghiera Universale del Venerdì Santo). Tale vincolo, da una parte ci spinge a rispettare e amare il popolo ebraico, dall’altra ci permette di cogliere nell’antisemitismo una ulteriore dimensione, rispetto a quella generale del razzismo o della discriminazione religiosa, che pure l’antisemitismo ha in comune con altre forme di odio etnico, culturale o religioso, come è descritto nel documento La Chiesa di fronte al razzismo (Pontificia Commissione Iustitia et Pax, 3 novembre 1988, I, 15). Si tratta qui non solo della dimensione culturale, sociale, politica o ideologica – e più in generale « laica » – dell’antisemitismo, che pure deve molto preoccuparci, ma di un suo specifico aspetto, quello che già veniva fermissimamente condannato nel 1928 dalla Sede Apostolica quando definiva l’antisemitismo « odium adversus populum olim a Deo electum » (AAS XX/1928, pp. 103-104). Oggi, a settantacinque anni di distanza, l’unica modifica che ci sentiamo in dovere d’introdurre riguarda solo l’eliminazione di quell’olim (« un tempo »): non è una cosa da poco, perché riconoscendo la perenne attualità dell’alleanza tra Dio e il suo popolo, Israele, potremo riscoprire a nostra volta, insieme con i fratelli ebrei, l’irrevocabile universalità della vocazione a servire l’umanità nella pace e nella giustizia, fino al pieno avvento del Suo regno. È quanto raccomanda il Pontefice anche nella sua esortazione apostolica post-sinodale Ecclesia in Europa del 28 giugno scorso, ricordando il « rapporto che lega la Chiesa al popolo ebraico e il ruolo singolare di Israele nella storia della salvezza » (n. 56). Papa Giovanni Paolo II continua osservando che « occorre riconoscere le comuni radici che intercorrono tra il cristianesimo e il popolo ebraico, chiamato da Dio a un’alleanza che rimane irrevocabile (Romani 11, 29), avendo raggiunto la definitiva pienezza in Cristo. È, quindi, necessario favorire il dialogo con l’ebraismo, sapendo che esso è di fondamentale importanza per l’autocoscienza cristiana e per il superamento delle divisioni tra le Chiese » (ibidem). Il dialogo e la collaborazione tra cristiani ed ebrei « implica, tra l’altro, che si faccia memoria della parte che i figli della Chiesa hanno potuto avere nella nascita e nella diffusione di un atteggiamento antisemita nella storia e di ciò si chieda perdono a Dio, favorendo in ogni modo incontri di riconciliazione e di amicizia con i figli di Israele » (ibidem). In questo spirito di ritrovata fraternità potrà rifiorire una nuova primavera per la Chiesa e per il mondo, con il cuore rivolto da Roma a Gerusalemme e alla terra dei Padri, perché anche là possa germogliare e maturare presto una pace durevole e giusta per tutti, come un vessillo innalzato in mezzo ai popoli.

Card. WALTER KASPER Presidente del Pontificio Consiglio per la Promozione dell’Unità dei Cristiani Presidente della Commissione per i Rapporti Religiosi con l’Ebraismo

Publié dans:Cardinali, ecumenismo |on 27 janvier, 2016 |Pas de commentaires »

GIANFRANCO RAVASI. EPIFANIA: NELLA RICERCA DEI MAGI LA NASCOSTA INQUIETUDINE DI OGNI ESSERE UMANO. IL SENSO DELLA “STELLA COMETA”.

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GIANFRANCO RAVASI. EPIFANIA: NELLA RICERCA DEI MAGI LA NASCOSTA INQUIETUDINE DI OGNI ESSERE UMANO. IL SENSO DELLA “STELLA COMETA”.

Era il 614 e la basilica di Betlemme, eretta attorno al 325-330 dalla madre di Costantino, Elena, e ristrutturata un paio di secoli dopo da Giustiniano, era assediata dal re persiano Cosroe che aveva già raso al suolo tutti gli edifici sacri cristiani della Terra Santa. Il sovrano stava già per ricorrere al fuoco e alle balestre quando s’accorse che sul frontone della basilica della Natività di Cristoerano raffigurati alcuni personaggi vestiti proprio come lui: erano i Magi che i bizantini avevano tratteggiato in abiti da cerimonia persiani. Quella chiesa, che racchiude nella cripta la grotta della nascita di Cristo, fu così salvata ed è ancor oggi possibile visitarla penetrandovi per un’unica porticina detta simbolicamente « dell’umiltà », ma forse più prosaicamente destinata a impedire ai cavalieri ottomani di accedere a cavallo nelle cinque navate dell’interno.

MATTEO E GLI APOCRIFI Il racconto di Matteo che riguarda i Magi (2, 1-12) è sobrio, sebbene non privo di colpi di scena ed è tutt’altro che fiabesco, anche se la tradizione artistica e popolare successiva si è lasciata conquistare dalle sue componenti narrative. Pensiamo, ad esempio, alle innumerevoli « Adorazioni dei Magi » di pittori celebri e ignoti, oppure al bel romanzo di Michel Tournier Gaspare, Baldassarre e Melchiorre (1980), al film Cammina cammina di Ermanno Olmi (1983), alla ballata che Thomas Stearns Eliot dedicò ai Magi nel 1927: « Fu per noi un freddo avvento / per un viaggio lungo come questo. / Le strade fangose (…) / e i cammelli pustolosi, i piedi sanguinanti / (…) Vi furono momenti in cui rimpiangemmo / i palazzi d’estate sui pendii, i terrazzi, / le seriche fanciulle che portavano / i sorbetti ». Nel 1985 durante una campagna di scavi nel deserto egiziano delle celle a ovest del delta del Nilo, è venuta alla luce la più antica testimonianza dipinta (VII-VIII sec.) dei nomi, ignoti al Vangelo, dei Magi. Sull’intonaco bianco del muro di una cella un monaco aveva tracciato in rosso questi tre nomi: « Gaspare, Belchior, Barthesalsa ». Si tratta di una delle tante deformazioni o variazioni che derivavano dai cosiddetti Vangeli apocrifi, testi nati dalla pietà popolare del cristianesimo primitivo, le cui pagliuzze d’oro di verità storica e di fede si nascondono in un magma di fantasie folcloristiche. In un frammento del perduto Vangelo degli Ebrei, assegnabile alla prima parte del II secolo, i Magi, « indovini dal colorito scuro e dai calzoni alle gambe », sono un vero e proprio stuolo, guidato però da una terna di capi: Melco, Caspare e Fadizarda. Qualche secolo dopo (VI-VII), ma su una base documentaria certamente più antica, un altro apocrifo, lo Pseudo Matteo, fonte privilegiata degli artisti medievali, scriverà: « I Magi offrirono ciascuno una moneta d’oro » al Bambino, ma aggiunsero ciascuno un dono personale: Gaspare la mirra, Melchiorre l’incenso, Baldassarre l’oro. Si costituiva così la tradizione popolare dei tre Magi, con nomi precisi e, a causa dei doni e di un salmo (il 72: « I re di Tarsis e di Saba offriranno tributi, a lui tutti i re si prostreranno »), furono dotati di dignità regale. Per non dire poi che in essi si tenterà di riassumere tutto lo spettro dei colori razziali: l’uno verrà identificato come un bianco, l’altro come un giallo e il terzo come un moro, mentre le loro ipotetiche reliquie approderanno, attraverso complesse vicende storiche, a Milano e a Colonia. La fantasia pirotecnica degli apocrifi e delle tradizioni popolari, scontenta della sobrietà dei dati offerti dal Vangelo di Matteo (2, 1-12), non si è fermata qui ma si è gettata con entusiasmo alla ricerca (e spesso all’invenzione) di scene pittoresche. Più contenuto è il Protovangelo di Giacomo del III secolo, che si accontenta di fissare l’attenzione soprattutto sulla stella. « Abbiamo visto – confessano i Magi – una stella grandissima che splendeva tra tutte le altre stelle e le oscurava tanto che le stelle non apparivano più. La stella poi si è arrestata proprio in cima alla grotta ». Della stella si interessa anche un altro apocrifo, L’infanzia del Salvatore, un testo scoperto in due versioni nel 1927 e databile attorno al VI secolo: « Ecco un’enorme stella che splendeva sulla grotta dalla sera al mattino; una stella così grande non era mai stata vista dall’inizio del mondo ». Ma, nel prosieguo del racconto, l’autore in modo più raffinato si preoccupa di ricordarci che quella stella era in realtà « la parola di Dio ineffabile ». Curioso resta, però, il monologo di Giuseppe che spia da lontano con apprensione i Magi: « Mi pare siano àuguri: non stanno fermi un momento, osservano e discutono tra loro. Sono forestieri: il vestito è diverso dal nostro vestito, la veste è amplissima e scura, hanno berretti frigi e alle gambe portano sarabare [gambali] orientali ». Alla domanda sull’identità del bambino, Giuseppe risponde – non si capisce se ironicamente o « teologicamente » – in questo modo: « Suppongo che sia mio figlio ». Ma essi gli spiegano che di ben altro si tratta. Ancor più vivace è il Vangelo arabo dell’infanzia del V-VI secolo che considera i Magi come discepoli di Zarathustra, il profeta della religione iranica, e li fa protagonisti di un delizioso apologo sulle fasce di Gesù Bambino. Ascoltiamo l’ignoto autore: « La signora Maria prese una delle fasce del bambino e la diede loro in ricordo. Essi si sentirono onoratissimi di prenderla dalle sue mani ». Rientrati nel loro paese, durante una festa in onore del fuoco sacro, gettarono quella fascia nelle fiamme del grande falò liturgico. Ma, spento il fuoco, ecco riapparire tra le ceneri, la fascia intatta. « Presero, allora, a baciarla e a imporsela sulla testa e sugli occhi ». Potremmo continuare per pagine e pagine questo pellegrinaggio nel mondo fantasmagorico dei Magi apocrifi. Noi, invece, ritorniamo al Vangelo dell’infanzia di Gesù secondo Matteo, un testo che probabilmente l’evangelista ha assunto dalla predicazione della Chiesa delle origini e ha imposto come premessa al suo Vangelo, un testo di denso contenuto e di non facile interpretazione, nonostante l’apparente semplicità. Proprio per la pagina dei Magi, infatti, che molti forse considerano ingenua, potremmo dire che è valido un famoso adagio rabbinico: « Ogni parola della Bibbia ha settanta volti ». Il racconto, superficialmente letto come una fiaba orientale, piena di profumi esotici, è in realtà denso di simbolismi che il lettore attento della Bibbia subito sapeva riconoscere, è carico di riferimenti teologici allusivi, è un intarsio di citazioni e di temi legati all’Antico Testamento, e si riferisce alla storia del bambino Gesù in modo molto originale e libero. Non siamo quindi in presenza di una novella dolcissima per piccoli, quanto piuttosto davanti ad una vera e propria sintesi cristologica, distribuita sui fili sottili di una trama storica dalle maglie molto larghe e allentate e sui fili più robusti di uno schema di pensiero molto fitto e profondo. Dobbiamo, perciò, guardare con piacere la superficie colorata del racconto ma dobbiamo anche superarla alla ricerca del significato ultimo sotteso: un modo errato di leggere questa pagina è di perdere di vista il Cristo e di lasciarci conquistare solo dai Magi. Certo, costoro sono attori importanti nel racconto come lo è la « loro » stella, ma essi non sono i protagonisti. Interessiamoci, perciò, di loro solo per raggiungere con loro la meta gloriosa che li attende. D’altronde l’interesse per questi misteriosi personaggi è antichissimo e affonda le sue radici, come si è visto, nelle origini stesse della tradizione cristiana. Nelle catacombe romane di Priscilla i Magi appaiono negli affreschi (230-250) prima dei troppo normali e modesti pastori. Tra le molte domande, che possono affiorare a questo livello di curiosità, scegliamone due: da dove provenivano i Magi e qual era la « loro » stella? Alla prima domanda il Vangelo di Matteo ci risponde con uno sbrigativo « giunsero da Oriente » e con la parola greca Màgoi. Con questo termine si intendevano gli astrologi, gli astronomi, gli incantatori, gli aruspici, i maghi, personaggi quindi di varia attendibilità, ciarlatani e sapienti. Un orizzonte, perciò, molto vasto e generico che dalla scienza può sconfinare fin nella cialtroneria. La provenienza « da Oriente » non è certamente più circoscritta perché abbraccia un orizzonte culturale molto variegato. Abbiamo già ricordato che il Vangelo arabo dell’infanzia li considerava discepoli di Zarathustra o Zoroastro, fondatore del mazdeismo iranico (600 a.C.?). Nell’Antico Testamento, però, il Libro di Daniele parla spesso di « magi » babilonesi (ad esempio, Daniele, 1, 20; 2, 2.10.26; 4, 6: in quest’ultimo passo si parla di un Baltazzar « principe dei magi »). Effettivamente Babilonia aveva il primato nell’antico Vicino Oriente riguardo agli studi astronomici e astrologici. Là, anche ai tempi di Gesù, era presente una nutrita colonia giudaica che forse aveva trasmesso la sua attesa messianica anche ai « magi » babilonesi. Nella Bibbia, però, « i figli d’Oriente » sono molto spesso gli Arabi del deserto (Arabia e Siria) o i Nabatei, le cui carovane commerciavano in incenso e oro e le cui relazioni con Israele risalivano all’epoca di Salomone. Ben quattro tribù arabe del deserto derivavano il loro nome dalle stelle, dimostrando così un vivo interesse per l’astrologia. Nel 160, lo scrittore cristiano Giustino affermava senza esitazione: « Andarono da Erode Magi provenienti dall’Arabia ». Ma uno studioso americano, Martin McNamara, qualche decennio fa ha reso molto più « domestici » i Magi considerandoli come membri degli Esseni, quella comunità giudaica nota soprattutto per il suo « monastero » di Qumran, posto sulle rive del Mar Morto: essi infatti si interessavano moltissimo di « oroscopi » messianici e nei loro scritti i doni dei Magi sono citati assieme al simbolo della stella del Messia. Un enigma irrisolto, quindi, quello della patria dei Magi. Risolvibile forse solo attraverso quella dimensione più profonda che il testo di Matteo rivela ad un’analisi più teologica. La vicenda storica in sé non è impossibile, come invece alcuni critici sostengono, proprio perché il segno astrale era un « codice » culturale tipico di quell’epoca e poteva essere connesso con la diffusione delle speranze messianiche che l’ebraismo aveva favorito con la sua diaspora nel mondo. Ma è certo che l’evangelista vuole sorpassare il fatto storico e vuole far brillare significati ulteriori in questi uomini dell’Oriente giunti a Gerusalemme per « rendere omaggio al neonato re dei Giudei ». La loro è la storia di un viaggio rischioso sul modello di quello di Abramo che « partì senza sapere dove sarebbe andato » (Ebrei, 11, 8). Il filosofo franceseEmmanuel Lévinas ha sottolineato che al mito di Ulisse che ritorna ad Itaca, al quieto vivere familiare, al passato nostalgico, nella Bibbia si oppone la storia di Abramo e dei Magi che lasciano la loro patria per una terra e una famiglia ignota. È il senso di quella bellissima definizione che gli Ebrei dell’Antico Testamento si danno come figli dell’esodo dall’Egitto: « Noi siamo forestieri come i nostri padri » (1 Cronache, 29, 15). È l’esortazione di Isaia (2, 3.5): « Venite, saliamo sul monte del Signore (…) Casa di Giacobbe, vieni, camminiamo nella luce del Signore! ». Il viaggio dei Magi può diventare, allora, l’emblema della vita cristiana intesa come sequela, discepolato, ricerca. Il viaggio esige distacco, coraggio, ricerca, speranza. Chi è legato a terra dai pesi delle cose e dei vincoli è incapace di essere pellegrino. Chi è convinto di possedere tutto e di avere già il monopolio della verità non ha l’ansia della ricerca; egli è simile ai sacerdoti di Gerusalemme del racconto matteano, freddi interpreti di una parola biblica che non li coinvolge né li converte. Chi si è troppo ben collocato nella sua città non ha bisogno di Betlemme, anzi Betlemme gli appare come un insignificante villaggio di provincia. Ma sappiamo anche che molti si muovono e, come i Magi, si fanno pellegrini della verità: « Molti verranno dall’Oriente e dall’Occidente e siederanno a mensa con Abramo, Isacco e Giacobbe nel Regno dei cieli, mentre i figli del Regno saranno cacciati fuori nelle tenebre » (Matteo, 8, 11-12). A Cristo, per strade misteriose, giungono schiere di cristiani « anonimi » come i Magi che lo cercano senza ancora conoscerlo e senza saperne il nome. Nella piccola processione dei Magi verso la verità e la luce Matteo vede la grande processione della Chiesa, « una moltitudine immensa che nessuno poteva contare, di ogni nazione, razza, popolo e lingua » (Apocalisse, 7, 9).

IL SEGNO COSMICO Il secondo attore del racconto dei Magi è il segno cosmico della stella. Sotto l’altare della grotta della Natività a Betlemme, i Francescani nel 1717 incastonarono una stella d’argento a 14 punte, tante quanti sono gli anelli delle tre catene genealogiche di Gesù citate nel capitolo 1 di Matteo. Una stella, questa, poco « evangelica » perché dette origine a liti interminabili tra Francescani e Ortodossi. Questi ultimi, con un colpo di mano, nel 1847 sequestrarono la stella e la nascosero nel loro monastero di San Saba nel deserto di Giuda. Furono necessari cinque anni di negoziati per farla riapparire sotto l’altare della grotta. È meglio, allora, guardare il cielo per cercare lassù, nei silenzi siderali, la stella dei Magi. Ma anche là quanta confusione tra gli esperti! Un opuscolo pubblicato dal prestigioso Adler Planetarium di Chicago e suggestivamente intitolato The Star of Bethlehem, propone diverse ipotesi. Keplero, uno dei padri dell’astronomia moderna, – vi si legge -, non aveva esitazioni: la stella dei Magi era una supernova, cioè una stella debole e molto lontana, nella quale avviene una colossale esplosione. Per settimane o mesi la stella diventa visibile anche nel nostro cielo con una luce vivida e distinta da quella degli altri astri: l’esplosione può infatti sprigionare una luce superiore anche centinaia di milioni di volte a quella del sole. Ogni anno gli astronomi ne scoprono una dozzina ma molto rare sono quelle visibili ad occhio nudo. Ma l’opinione più comune cerca nella stella dei Magi una cometa, soprattutto quella di Halley, la cui presenza nei cieli sembra documentata fin dal 240 a.C. in testi cinesi e giapponesi. Quando apparve nel 1911 nel cielo di Gerusalemme, il famoso biblista domenicano Marie-Joseph Lagrange, che allora risiedeva laggiù, la vide venire dall’Oriente, scomparire gradualmente quando fu allo zenit e « riapparire » più tardi quando tramontò a Occidente, proprio come è detto nel racconto di Matteo. Ma – e questo rende tutto dubbio – il calcolo astronomico del passaggio della cometa sul nostro orizzonte e su quello di Gerusalemme ha come data il 26 agosto del 12 a.C., cioè almeno sei anni prima della nascita di Gesù, che come è noto, è collocata convenzionalmente dagli esegeti attorno al 6 a.C. Ecco allora che altri studiosi si orientano verso una congiunzione di pianeti, in particolare quella tra Giove e Saturno avvenuta, sempre secondo i calcoli astronomici e i dati offerti da un papiro egiziano (la cosiddetta « tavola di Berlino ») e dall’ »almanacco astrale » di Sippar (Mesopotamia) su tavoletta, nel 7 a.C. e precisamente il 29 maggio, il 29 settembre e il 4 dicembre. Le ipotesi si affollano e oscurano sempre più la stella di Betlemme riducendola quasi ad una controversia tra astronomi. E allora, lasciando sospesa l’identificazione concreta, cerchiamo di ascoltare un consiglio offertoci proprio dal citato padre Lagrange: « Sulla stella di Betlemme ci può dire molto di più la teologia che non l’astronomia ».Sappiamo infatti che a più riprese nella tradizione biblica e in quella giudaica la stella è un segno messianico. Un esempio per tutti lo troviamo nel più famoso dei quattro oracoli del mago Balaam, costretto da Dio a benedire suo malgrado Israele. Nel capitolo 24 del Libro dei Numeri leggiamo appunto questa frase: « Una stella spunta da Giacobbe e uno scettro sorge da Israele » (versetto 17). Ora, la versione aramaica della Bibbia (il cosiddetto Targum) non ha nessuna esitazione nel tradurre il testo ebraico citato in questo modo: « Il Messia spunta da Giacobbe e il Re sorge da Israele ». In un racconto popolare giudaico dell’epoca di Gesù si immagina che, quando la regina di Saba giunse nel deserto di Giuda e si incamminò sulla strada per Gerusalemme, da una piccola oasi si levò all’improvviso verso il cielo una rosa. Quanto più essa ascendeva tanto più diventava sfolgorante sino a trasformarsi in una stella dalla luce irraggiungibile. Il Cristo dell’Apocalisse, costantemente circondato da stelle, si autodefinisce così: « Io sono la radice della stirpe di Davide, la stella radiosa del mattino »(22, 16). Il vescovo Ignazio di Antiochia nel 107, mentre veniva condotto a Roma per essere esposto alle belve, scriveva ai cristiani di Efeso: « Una stella brillò in cielo oltre ogni stella (alla nascita del Cristo); la sua luce fu oltre ogni parola e la sua novità destò stupore; tutte le altre stelle, insieme al sole e alla luna, formarono un coro attorno alla stella che tutte sovrastava in splendore ». Allora, se non riusciamo ad identificare nelle mappe celesti la stella dei Magi, riusciamo però a vederla e a seguirla, se abbiamo lo sguardo puro e limpido dei Magi. « Il popolo che camminava nelle tenebre – scrive Isaia (9, 1) e lo sentiamo ripetere nella liturgia del Natale – vide una grande luce, su coloro che abitavano in terra tenebrosa una luce rifulse ».

IL SIMBOLO DELLA LUCE È per questo che la tradizione cristiana del Natale si snoda alla luce di questa stella, ma non tanto per una sua precisa collocazione nei sistemi stellari, quanto piuttostoper il suo valore di « luce », simbolo classico di Dio. La stessa data del Natale, il 25 dicembre, come è noto, è stata scelta probabilmente perché era la festa pagana del dio Sole. Il solstizio d’inverno segnava l’inizio della grande ascesa della luce solare, prima umiliata nell’oscurità invernale. In una stupenda omelia greca attribuita erroneamente a san Giovanni Crisostomo leggiamo questo bel paragrafo: « Dopo la fredda stagione invernale sfolgora la luce della mite primavera, la terra germina e verdeggia di erbe, si adornano i rami di nuovi germogli e l’aria comincia a rischiararsi dello splendore del sole. Ma per noi c’è una primavera celeste, è il Cristo che sorge come un sole dal grembo della Vergine. Egli ha messo in fuga le fredde nubi burrascose del diavolo e ha ridestato alla vita i sonnolenti cuori degli uomini, dissolvendo coi suoi raggi la nebbia dell’ignoranza ». È per questo che in un’antica iscrizione sepolcrale il battezzato là sepolto era chiamato in greco eliòpais: « figlio del sole ». Potremmo dire che, se il mondo può cercare le luci sfavillanti della pubblicità natalizia e le apparenze splendenti del consumismo, il cristiano sa dove trovare la vera luce, il suo sole, la sua stella. Quando a Roma sfrecciavano le trenta corse dell’Agone del Sole, quando per il natale del dio Sole a dicembre si accendevano nella notte fuochi di gioia, quando il popolino si prostrava verso il sole che sorgeva all’alba, la Chiesa si riuniva per celebrare la manifestazione del vero sole, Cristo. »Rallegriamoci anche noi, fratelli – esortava sant’Agostino – e lasciamo pure che i pagani esultino: poiché questo giorno per noi è santificato non dal sole visibile bensì dal suo invisibile Creatore ». Il Papa san Leone Magno polemizzava con una prassi dei cristiani romani ancora inficiata di paganesimo: essi, « prima di mettere piede nella basilica dell’apostolo Pietro a Natale, si soffermavano sui gradini, voltavano la persona verso il sole che sorgeva e, piegando il capo, s’inchinavano verso il sole per rendere omaggio al suo disco splendente ». La sua conclusione vale anche per la nostra ricerca sulla stella dei Magi: « Lascia pure che la luce del corpo celeste agisca sui sensi del tuo corpo, ma con tutto l’amore infiammato dell’anima tua ricevi dentro di te quella luce che illumina ogni uomo che viene in questo mondo! ». E nella liturgia natalizia noi continuiamo a sentire questa esaltazione del dono della luce che ha come punto di partenza la stella dei Magi e la profezia già citata di Isaia (capitolo 9) a proposito dell’Emmanuele. All’Epifania infatti la Chiesa prega così: « O Dio, in questo giorno con la guida della stella hai rivelato alle genti il tuo unico Figlio: fa’, o Signore, che la tua luce ci accompagni sempre e in ogni luogo ». La luce del Messia si riflette su di noi e ci illumina, ci guida, ci trasforma a immagine della sua gloria, ci penetra di immortalità. Infatti, se il più antico mosaico cristiano, quello del mausoleo romano dei Giulii (III secolo), rappresenta il Cristo-sole sfolgorante sul suo carro trionfale, è altrettanto significativo che la tradizione paleocristiana e medievale abbia rappresentato la Chiesa come la luna che riverbera la luce del Cristo. Gli occhi dei Magi fissi alla stella sono il simbolo di tutti gli uomini che « cercano Dio andando quasi a tentoni », come diceva san Paolo all’Areopago di Atene (Atti, 17, 27). Sono gli occhi di coloro che, secondo i versi del poeta Carlo Betocchi, « nella tristezza dell’esistere, / sotto il notturno lembo del Natale, / vedono una luce che non ha l’eguale ». Forse sono anche gli occhi di coloro che sperano di intuire un bagliore nell’orizzonte oscuro e amaro della storia. È in questa dimensione universalistica che vorremmo allegare una considerazione un po’ marginale e forse curiosa. Attorno all’anno 40 dell’era antica Virgilio, il grande poeta latino dell’Eneide, introduceva nella IV Egloga un seme di speranza che la tradizione cristiana posteriore cercherà di trapiantare nel proprio terreno religioso. Era una delle tante vie per ritrovare anche nell’attesa e nella ricerca di molte figure alte del pensiero e della cultura classica un fremito già orientato simbolicamente verso l’avvento di Cristo. Virgilio morirà nell’anno 19 ma non pochi cristiani dei primi secoli, leggendo i versi della sua IV Egloga, intravedevano il profilo ancora incerto e vago del loro Signore già intuito dal poeta latino. Scorriamo anche noi alcune righe di quel carme, interpretato appunto da quegli antichi lettori come una sorta di « profezia » pagana della nascita di Gesù. « Inizia da capo una grande serie di secoli; / ormai torna anche la Vergine, tornano i regni di Saturno / ormai una nuova progenie è inviata dall’alto cielo. / Tu al fanciullo che ora nasce, col quale infine cesserà / l’era del ferro e sorgerà in tutto il mondo quella dell’oro, / sii propizia, o casta Lucina; già regna il tuo Apollo. / E proprio sotto il tuo consolato inizierà questa splendida età, / o Pollione, e cominceranno a decorrere i grandi mesi (…) / Egli riceverà la vita divina, e agli dèi vedrà / mescolati gli eroi ed egli stesso sarà visto tra loro, / e con le virtù patrie reggerà il mondo pacificato (…) / Poche vestigia soltanto sopravviveranno dell’antica malvagità (…) / Guarda come si allieta ogni cosa per il secolo venturo. / Oh, rimanga a me l’ultima parte di una lunga vita / e spirito bastante per cantare le tue imprese ». Certo, è possibile – lo ha sostenuto nel 1931 anche un importante biblista come il gesuita padre Alberto Vaccari – che il poeta mantovano abbia attinto a temi o a immagini di matrice ebraica, desunti dal « libro dell’Emmanuele » di Isaia (cc. 7-12) o da altri scritti apocrifi giudaici, come i cosiddetti Oracoli Sibillini, tenendo conto della presenza di una folta comunità ebraica a Roma. Tuttavia il Bambino virgiliano rimane quasi certamente un romano. Infatti, siamo probabilmente davanti a un’allusione a un figlio del console Pollione a cui è dedicata l’Egloga: egli fu uno dei protagonisti dell’accordo di Brindisi nel 40, mirante a porre fine alle ostilità tra Antonio e Ottaviano. Oppure è di scena un figlio auspicato (ma fu poi una figlia, Antonia Maggiore) di Antonio e Ottavia, sorella di Ottaviano, le cui labili nozze sancirono appunto l’accordo di Brindisi. O ancora si tratta di Marcello, nato però già nel 43 da un precedente matrimonio di Ottavia e prediletto da Ottaviano (e morto poi nel 23). Ma non è da escludere che tutto il testo voglia celebrare simbolicamente la nascente età dell’oro inaugurata poi da Ottaviano Augusto. Resta, comunque, intatto il fascino di questa attesa di un Bambino « salvatore » e di un mondo nuovo, proprio alle soglie della nascita del Bambino chiamato Gesù, cioè « colui che salverà il suo popolo dai suoi peccati » (Matteo, 1, 21). La processione dei Magi, che ha come approdo l’illuminazione della fede (« Videro il Bambino con Maria sua madre e, prostratisi, lo adorarono », annota Matteo), diventa così un emblema che riassume in sé la speranza di un incontro di salvezza al termine del lungo cammino della ricerca, sostenuta dalla rivelazione cosmica della stella, una rivelazione a tutti aperta, e illuminata dalla parola esplicita delle scritture custodite a Gerusalemme, ma purtroppo ignorate dai loro custodi. L’epifania divina che Luca destinava agli ultimi, i pastori, Matteo la riserva agli stranieri, i diversi rispetto al popolo dell’elezione che, pur rischiarato dalla parola biblica (la citazione del profeta Michea – evocata da Matteo e che noi abbiamo già avuto occasione di presentare in queste pagine nel nostro articolo sul Natale di Gesù – su Betlemme patria del Messia), non si muove da Gerusalemme. I Magi diventano, come si diceva, l’espressione della ricerca umana che ha, però, all’origine una decisione iniziale di Dio che entra per primo nelle strade del mondo, anzi, nella « carne » stessa dell’umanità. È quasi con sorpresa che san Paolo, il cantore del primato della grazia divina, segnalava l’iniziativa assoluta del Dio salvatore quando, scrivendo ai cristiani di Roma, osservava che « Isaia giunge al punto di affermare: Io mi sono fatto trovare – [dice il Signore] – anche da quelli che non mi cercavano, mi sono rivelato anche a quelli che non si rivolgevano a me » (10, 20). Nel suo celebre L’uomo senza qualità Robert Musil sottolineava che « non è vero che il ricercatore insegua la verità. È la verità che insegue il ricercatore ». A mettersi sulle nostre vie per primo è Dio stesso che, con la stella della sua verità, spinge i Magi e tutti coloro che non chiudono gli occhi o si distraggono nella superficialità a contemplare quella luce. La poetessa ottocentesca americana Emily Dickinson scriveva: « Silenziosamente una stella gialla raggiunse / il suo seggio elevato, / la luna sciolse l’argenteo cappello / che copriva il suo volto lustrale. / Tutta la sera si accese dolcemente / come un’astrale sala di festa. / « Padre », io dissi al Cielo / « sei puntuale »". È la rappresentazione simbolica, in una notte limpida e stellata, della rivelazione divina: il Creatore si presenta puntuale per la sua epifania che ha nel Bambino di Betlemme la sua piena attuazione. Ad essa accorrono per primi i poveri e gli stranieri, coloro che hanno il cuore puro e libero dal possesso e dall’orgoglio, così come cantava Francis Jammes, tenero poeta francese morto nel 1938, amante dei valori cristiani e dei sentimenti semplici e delicati: « O Signore, non ho, come i Magi che sono dipinti sulle immagini, / dell’oro da offrirti. / « Dammi la tua povertà! ». / Non ho neppure, Signore, la mirra dal buon profumo né l’incenso in tuo onore. / « Figlio mio, dammi il tuo cuore! »". La vicenda dei Magi diventa, così, possibile a tutti attraverso i doni in assoluto più cari a Dio, la povertà profonda e il cuore aperto.

( L’Osservatore Romano – 6 gennaio 2008)

NATIVITÀ DELLA VERGINE MARIA -e- OMELIA ANGELO SCOLA

http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=129867

NATIVITÀ DELLA VERGINE MARIA -e- OMELIA ANGELO SCOLA

La celebrazione della nascita della Beata Vergine Maria (l’unica, insieme a Giovanni Battista e a Gesù stesso, di cui si celebra non solo il trapasso, ma la nascita terrena) è stata introdotta dal papa Sergio I (687-701) nel solco della tradizione orientale.

La Natività, come tutte le principali festività mariane, è di origine orientale. Nella Chiesa romana è attestata con sicurezza verso la metà del secolo VII. Forse la datazione iniziale di questa festa risale alla consacrazione di una chiesa a Gerusalemme (dedicata a S. Anna) nelle vicinanze della piscina probativa.
Già la tradizione antica notava che nella Chiesa si celebra solo la Natività di due personaggi: S. Giovanni Battista e Maria Santissima. Evidentemente la ragione di fondo per Maria, oltre alla sua perfezione e dignità unica, è quella della sua posizione ed importanza in ordine alla salvezza. L’entrata nel mondo di questa creatura ha un rilievo unico, sovrapersonale, universale. La festività odierna si colloca pertanto in un rapporto immediato con la solennità dell’Immacolato concepimento e con quella dell’Annunciazione del Signore.

Predestinata ad essere la Madre del Salvatore
La festa della Natività di Maria si ricollega ed è un prolungamento di quella del suo Immacolato Concepimento, di cui ripete i motivi, le espressioni di lode, ammirazione ed esultanza.
La Natività di Maria è « speranza e aurora di salvezza al mondo intero ». In Lei e con Lei le promesse diventano ormai speranza certa. Quello che è stato sospirato, desiderato, atteso, con la Natività di Maria diviene inizio del compimento dell’opera salvifica. Il concetto è espresso con un’immagine bellissima e particolarmente significativa in ordine al mutarsi dei tempi della salvezza: Maria compare nella scena di questo mondo come l’aurora che annuncia e precede il sorgere del sole.
Dio ha scelto Maria per diventare la Madre di Gesù Cristo. Secondo la fede della Chiesa, tutta la persona e l’esistenza di Maria sono improntate a questa chiamata eccezionale. Questo è il motivo per cui noi guardiamo al suo ingresso in questo mondo, alla sua nascita, con venerazione e con riconoscenza; e anche se la data esatta di questa nascita non ci è nota, essa cade inequivocabilmente negli anni immediatamente precedenti quella santa notte di Betlemme.
È volontà di Dio che noi diventiamo fratelli e sorelle di Gesù e che « prendiamo parte alla sostanza e alla forma di suo Figlio »; in Gesù egli ha « reso giusti » e « glorificato » già tutti coloro che ha chiamato alla sua sequela. Meravigliose parole dell’apostolo, in cui la Chiesa riconosce la parola di Dio stesso! Sì, grandi cose il Signore ha fatto rendendoci membri della sua Chiesa. Una gioia e una riconoscenza spontanee devono sgorgare dal nostro cuore; la nostra risposta deve essere quella di amare Dio con il corpo e con l’anima, con il cuore e con la ragione, con tutte le nostre forze.
Solo allora anche su di noi si potrà adempiere quanto la lettera di San Paolo afferma grandiosamente all’inizio: « Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio » (cf. Rm 8, 28-30). Come sono diventate vere queste parole per Gesù stesso, che attraverso il sacrificio della sua vita è divenuto il nostro Redentore; ma come sono diventate vere anche per Maria, la prima redenta, che per amore del Figlio è rimasta preservata dal peccato ed è quindi divenuta la Madre di tutti i redenti.
In questo modo Maria, attraverso la sua vocazione ad essere la Madre di Cristo, partecipa in misura particolare a quella chiamata comune, rivolta da Cristo a tutti gli uomini e che può essere realizzata in comunione con lui.
Se noi veneriamo il mistero della nascita di Maria con amore, ci renderemo conto sempre più chiaramente che mediante il suo « sì » e attraverso la sua maternità Dio è con noi.
Questo vale anche per quella primissima sorgente della comunità umana che noi chiamiamo famiglia. L’odierna festa della nascita di Maria e il mistero della nascita umana di Dio nel grembo della Sacra Famiglia guidano la nostra attenzione proprio sulla famiglia.
A ragione possiamo pensare che la Madre del Signore sia nata in una famiglia religiosa e devota. Maria stessa prega molto. Nel Magnificat, famosa lode della potenza e gloria del Signore, essa ci insegna l’indirizzo principale di ogni preghiera: « L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore » (Lc 1, 46-47). Cantate anche voi questa lode a Dio! Mostrate a Dio, mediante la fedele partecipazione alle celebrazioni eucaristiche della domenica e dei giorni feriali, che lo amate e onorate sopra ogni cosa e contemporaneamente siete pronti a dare a quest’amore un’espressione concreta e comunitaria! Andate al Signore eucaristico nel tabernacolo e pregate lì il Dio misteriosamente presente per voi stessi, per la vostra famiglia, per le vostre famiglie della vostra patria, per la famiglia dell’umanità e per la famiglia di Dio nella Chiesa! Esorto voi tutti, bambini, ragazzi e adulti, laici e sacerdoti, religiosi e religiose, sani e malati, impediti e attempati: pregate! Sì, mantenetevi fedeli alla preghiera quotidiana! La preghiera è la forza che veramente cambia e libera la nostra vita; nella preghiera avviene l’autentico « incontro con la vita ».

DA UN’OMELIA DEL PATRIARCA ANGELO SCOLA
Liturgia: Michea 5, 1-4a; dal Salmo 87; Rm 8, 28-30; Mt 1, 1-16. 18-23.
1. «Tutti là sono nati. … L’uno e l’altro è nato in essa. … Là costui è nato. … Il Signore ha posto in te le sorgenti della vita» (Salmo Responsoriale, 87). La Liturgia dell’odierna Solennità è tutta tramata dal tema della nascita. Commentando questo Salmo Sant’Agostino esclama: «L’Altissimo ha fondato questa città per nascervi, allo stesso modo che ha creato sua madre per nascere da lei. Quale promessa, quale speranza, fratelli miei! Ecco per noi l’Altissimo, che ha fondato la città, le dice: Madre!» (Sant’Agostino, Commento al Salmo 87).
La profezia di Michea, alludendo al tempo in cui sorgerà il Messia a Betlemme, riprende il tema della nascita. Afferma: «Quando colei che deve partorire partorirà…» (Mic 5,2, Prima Lettura).
Il Vangelo di Matteo che abbiamo sentito proclamare rivela il cuore della Festa di oggi: la nascita verginale di Gesù, a cui quella di Maria è ordinata. Ricostruendo puntigliosamente la genealogia di Gesù, da Abramo fino a Giuseppe, lo sposo di Maria, con quell’impressionante litania di nomi – noti e sconosciuti, giganti della fede ed empi, santi e peccatori… – Matteo ripete per decine di volte il potente «generò».
Il centro a cui conducono e da cui partono tutte le linee prospettiche della storia della salvezza, è la nascita nel corpo mortale del Figlio di Dio. In vista di questo mistero centrale fu decretata la nascita della Beata Vergine Maria.
Sotto la Sua speciale protezione Giovanni Tolomei volle mettere la sua persona, scegliendo il nome di Bernardo, un grande Padre del monachesimo innamorato della Vergine. Alla Natività di Maria ha intitolato la famiglia benedettina da lui fondata che per secoli ha custodito, servito e vivificato il Santuario di Nostra Signora del Pilastrello, di cui avete lungo tutto l’anno festeggiato il quinto centenario.
2. La nascita di Maria Vergine è, in un certo senso, lo spartiacque della storia della salvezza, come genialmente intuì, fin dal VII secolo, un Padre della Chiesa parlando della festa odierna: «L’ombra della notte si ritira all’appressarsi della luce del giorno… La presente festa è come una pietra di confine fra il Nuovo e l’Antico Testamento» (Andrea di Creta, Discorso 1; PG 97, 806-810).
Oggi dobbiamo ritornare a riflettere con forza sul significato del nascere e del generare. È necessario, perché la catena delle generazioni (dai bisnonni ai pronipoti) trovi un nuovo slancio educativo. La promessa di bene che il bambino incontra nella nascita e nei rapporti iniziali con i suoi cari è chiamata ad attuarsi mediante il compito della trasmissione e dell’assunzione del senso pieno della vita. Così Maria fece con Gesù. Così dobbiamo fare noi. La nascita non è solo un inizio biologico ma, come diceva il Servo di Dio Giovanni Paolo II, la nascita dipende dall’origine (genealogia), la cui ultima radice è il Padre creatore. Il Vangelo di oggi ce lo ha ricordato. I nostri bimbi non diventano uomini se non sono aiutati a scoprire questa origine. Tocca agli adulti (genitori ed educatori) questo compito affascinante e arduo di testimoniare ai figli la verità della vita nel concreto modo di amare (fidanzamento, matrimonio e famiglia) e di lavorare (professione, costruzione di vita buona).
Per questo rischioso compito educativo ci riempie di speranza l’affermazione di San Paolo ai Romani (Seconda Lettura): «Del resto, noi sappiamo che tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio, per coloro che sono stati ciamati secondo il suo disegno» (Rm 8, 28).
3. Davide ed Abramo, nello scarno resoconto di Matteo, sono i due pilastri portanti dell’interminabile fuga delle arcate delle generazioni del popolo dell’Alleanza che conducono a Gesù. In Lui la genealogia salvifica si conclude e si compie, ma Egli è in Se stesso e per noi l’ultimo e il «primogenito tra molti fratelli» (Rm 8, 29). In questo paradosso – che l’ultimo sia in realtà il primo – emerge con forza il mistero di Gesù Cristo. Egli è il disegno compiuto del Padre, l’ordo unico dell’uomo, della storia e del cosmo. In Lui, a Sua immagine, noi siamo stati «predestinati e creati, giustificati, chiamati alla gloria» (cfr. Rm 8, 29). Il disegno compiuto del Padre che, nello Spirito, svela la natura dell’uomo e della storia è Cristo Signore.
4. Con la nascita del Signore, a cui è stata ordinata la nascita della Vergine Sua Madre, entra nel mondo quella che Paolo non esita a definire come nuova creatura. Questa novità risplende in modo eminente nella Beata Vergine Maria, «speranza e aurora di salvezza per il mondo intero» (Postcommunio). Il monastero, immagine luminosa di tutta la comunità cristiana, è il configurarsi, nello spazio e nel tempo, della novità di vita portata da Cristo Signore. E la “cifra” di tale novità è l’amore di Dio, quel quaerere Deum di cui ha parlato il Santo Padre nell’indimenticabile visita al Collegio des Bernardins di un anno fa. Ma l’amore di Dio è inscindibile dall’amore dei fratelli: «Da’ quello che hai: te e tutto. Te e tutto disponi secondo la sua santissima volontà» (Bernardo Tolomei, Epistolario, Lettera N. 3. «… l’amore, trasformando l’amante nell’amato, fa di più cose una cosa sola» (op. cit., Lettera N. 7).
Con l’intercessione di Maria anche noi vogliamo almeno un poco imitare questa carità. Per il bene delle nostre persone e a favore di tutti i nostri fratelli uomini. Amen.

IL PARADISO, IL PURGATORIO, L’INFERNO E LO SCANDALO DELLA LIBERTÀ – NON SAREMO COME ACCIUGHE IN UN BARILE

http://www.vatican.va/news_services/or/or_quo/cultura/205q04a1.html

IL PARADISO, IL PURGATORIO, L’INFERNO E LO SCANDALO DELLA LIBERTÀ – NON SAREMO COME ACCIUGHE IN UN BARILE

Il 9 settembre esce il quarto numero del 2009 della rivista del bimestrale dell’Università Cattolica del Sacro Cuore « Vita e Pensiero ». Anticipiamo la riflessione che l’arcivescovo emerito di Bologna, cardinale del titolo dei Santi Giovanni Evangelista e Petronio ha dedicato al tema del giudizio finale e dell’aldilà.

di Giacomo Biffi

« Verrà a giudicare i vivi e i morti », diciamo nel Credo. Questa formula è tra le più antiche del linguaggio cristiano ed era di uso comune nella prima comunità. È riportata negli Atti (10, 42). La troviamo usata nella prima lettera di Pietro: « Dovranno rendere conto a colui che è pronto a giudicare i vivi e i morti » (1 Pietro, 4, 5), e nella lettera seconda a Timoteo: « Ti scongiuro davanti a Dio e a Gesù Cristo, che giudicherà i vivi e i morti… » (ii Timoteo, 4, 4. Per gli scritti postapostolici, cfr. Barnaba, 7, 2; Policarpo, Epistola, 2, 1; 2 Clemente, 1, 1). Che significa questa espressione?
Il significato vero è quello letterale: si vuol dire che Gesù sottoporrà al suo giudizio non solo quelli che troverà in vita alla sua venuta, ma anche tutti gli uomini del passato, che hanno già incontrato la morte. Più semplicemente si vuol dire – attraverso l’uso semitico del binomio di totalità, che indica l’intero mediante la distinta elencazione delle parti (per esempio « il cielo e la terra », per dire « tutto ») – che sarà giudicata tutta l’umanità, senza alcuna eccezione.
Oltre l’universalità delle persone, la Rivelazione ci parla di una universalità dei fatti umani: niente di ciò che è umano sfuggirà alla valutazione del giudice. Non si dovranno offrire vuote frasi adulatrici (Matteo, 21-23), ma si dovrà presentare la totalità delle opere compiute (Matteo, 16, 27; Romani, 2, 6; II Corinzi, 5, 10); e non appena sulle opere saremo giudicati, ma anche sulle parole (Matteo, 12, 36), sulle omissioni (Matteo, 25, 35-46), sui pensieri segreti (1 Corinzi, 4, 5).
Nelle pagine della Bibbia troviamo ricordati alcuni elementi che entrano a comporre la scenografia del giudizio, in un quadro che ha sempre eccitato la fantasia, ma che chiede piuttosto di essere letto, anche nei particolari pittoreschi, secondo il suo vero significato concettuale. Il profeta Gioele colloca il giudizio in una misteriosa « Valle di Giosafat » (Gioele, 4, 2), solo tardivamente – a partire dal IV secolo dopo Cristo – identificata con la valle del Cedron, a sud-est della spianata del tempio. Ancora oggi arabi ed ebrei ambiscono essere seppelliti sull’uno e sull’altro versante dell’avvallamento, per essere più pronti a rispondere all’ultimo appuntamento.
In realtà il nome ci rivela con molta chiarezza nella sua composizione la sua natura simbolica: Giosafat significa Jahvè giudica. Del resto, poco più avanti lo stesso profeta usa un altro nome, ugualmente significativo: « Valle della Decisione » (Gioele, 4, 14). Daniele delinea davanti a noi una vera e propria azione processuale con un giudice, una corte, i libri degli atti (Deuteronomio, 7, 9-10). L’immagine del processo si conserva fino alla predicazione di Gesù, anche se si sovrappongono altre raffigurazioni, come quella del pastore che alla sera esamina attentamente il suo gregge (Matteo, 25, 31-46). Ma, di là dai particolari fantastici, è possibile appurare come avverrà concretamente il nostro giudizio? Pensiamo di sì.
Il nostro mondo è caratterizzato da una quasi totale discordanza tra i valori reali e la loro esterna apparenza, sicché non è di solito possibile assegnare agli uomini e alle cose il giusto prezzo che hanno in faccia a Dio. Questa discordanza ha raggiunto il grado sommo – e ne è stata condannata – al momento dell’uccisione del Figlio di Dio, quando colui che era la nostra stessa « giustizia, santità, redenzione » (1 Corinzi, 1, 30), « è stato annoverato tra i malfattori » (Isaia, 53, 12). L’esecuzione di Gesù fuori della porta di Gerusalemme, cioè « fuori della vigna » che era la sua eredità (cfr. Marco, 12, 8), raffigura e avvera la sconfitta di Dio, che oggi appare come estromesso dal mondo che è suo. Dio è sconfitto, e non tanto dall’uomo che pecca, quanto dall’uomo che, peccando, appare bello, forte, felice, soddisfatto; mentre colui che, tentando di conformarsi alla volontà del Padre, incontra la derisione, la sofferenza, la morte, è associato al mistero della sconfitta del suo Creatore. Il momento del giudizio è appunto la fine di questo stato irrazionale e blasfemo.
Esso perciò consisterà essenzialmente nella brusca lacerazione del velo della esteriorità, così che tutta la creazione appaia « nuda e aperta » agli occhi di tutti, come è nuda e aperta da sempre agli occhi di Dio (Ebrei, 4, 13). Il suono della tromba finale – particolare del quadro che significativamente ritorna sempre nelle descrizioni bibliche della fine (Matteo, 24, 31; 1 Corinzi, 15, 22; 1 Tessalonicesi, 4, 15; Atti degli apostoli, 11, 15) – farà crollare la scena di questo mondo come le trombe di Giosuè squassarono, lasciandole diroccate, le mura di Gerico (Giosuè, 6, 20), e ciascuno sarà visto con la sua interiore ricchezza o con la sua interiore miseria.
Il primo che sarà « manifestato » sarà il Cristo, capo dell’universo e centro della storia umana, fino allora nascosto e quasi sopraffatto dalla futilità del mondo. E ogni essere, improvvisamente privato della maschera che impediva ogni autentico esame, apparirà nella sua vicinanza a lui o nella sua lontananza: questo sarà il giudizio. Gesù sarà dunque l’unico punto di riferimento dal quale tutto sarà misurato: per questo egli sarà il « giudice ». Allora finalmente sarà rovesciato il ricamo della nostra storia, e si potranno contemplare nella loro piena evidenza la bontà, l’armonia, la saggezza del disegno condotto a compimento da Dio, che senza una fede robusta ci è così difficile ravvisare oggi nei casi della storia mondana.
Che cosa determina nella realtà la vicinanza o la lontananza da Cristo? In altre parole, su quale legge saremo giudicati? Certo, saremo giudicati sulla nostra fedeltà alla legge di Dio, perché Gesù non ha abrogato il decalogo, il quale resta per gli uomini di tutti i tempi il codice di comportamento. Ma, poiché il Signore stesso ha chiarito che la legge di Dio ha come compendio, come anima, come significato sostanziale l’amore di Dio sopra ogni altro amore e l’amore del prossimo, come inveramento concreto dell’amore di Dio, possiamo ben dire che « all’ultimo dei giorni – come si esprime san Giovanni della Croce – saremo giudicati sull’amore » (cfr. Matteo, 25, 31-46).
« Tutti risorgeranno – dice il concilio Lateranense quarto – con i loro propri corpi, gli stessi che possiedono ora ». È un’affermazione categorica, ma in fondo non è che l’insegnamento della Sacra Scrittura: « Da Dio ho ricevuto queste membra; queste per le sue leggi disprezzo; queste da lui spero di avere di nuovo », dice il terzo dei fratelli prima del martirio, nella narrazione del secondo libro dei Maccabei (7, 11). E Paolo: « È necessario che questo corpo corruttibile si vesta di incorruttibilità e questo corpo mortale si vesta di immortalità » (1 Corinzi, 15, 53).
Cristo stesso – archetipo degli uomini che rinascono dalla morte – riprende dal sepolcro lo stesso corpo che è stato spento sul Calvario. Del resto, l’ipotesi di una risurrezione con un corpo diverso rivela una concezione dell’uomo che neppure sul piano di un’antropologia puramente razionale possiamo accettare. Tale ipotesi suppone infatti che l’anima stia nel corpo come una spada nel fodero; e che, come la spada, possa tranquillamente cambiare di fodero senza per questo mutare essa stessa. Ci sembra di dover ammettere con san Tommaso che l’anima intellettiva è l’unica « forma sostanziale » dell’uomo, sicché l’ipotesi fatta ci appare non solo teologicamente errata, ma anche filosoficamente assurda: non solo risorgeremo con il nostro identico corpo, ma neppure possiamo risorgere con un corpo diverso. Se il fatto della identità è fuori discussione, si discute molto sul modo di concepirla. La soluzione più semplice sta forse nel capire che lo stesso principio spirituale che anima il composto umano è la vera ragione della identità corporea. Poiché è la « forma sostanziale » dell’uomo, l’anima informando qualunque materia dà sempre origine allo stesso corpo, tanto che l’identità del nostro corpo è sempre salvata lungo l’arco della nostra vita, nonostante il continuo fluire degli elementi materiali. Intesa così – e forse non è possibile intenderla diversamente – la dottrina della identità scioglie immediatamente tutte le difficoltà che a prima vista essa stessa sembrerebbe provocare.
Un altro interrogativo, suscitato dall’argomento che stiamo trattando, si riferisce alla condizione dei corpi risorti, che certo non potrà ripetere lo stato di miseria proprio del corpo terrestre. Da parte mia, non credo che saremo tutti come le acciughe nel barile. Io credo che effettivamente i rapporti umani ci saranno. Anche l’amicizia ci sarà.
Non è il caso di anticipare con la fantasia una conoscenza che ci è stata riservata per quel giorno. Né ci sentiamo di seguire con animo tranquillo quei teologi che dal testo di san Paolo prima citato si pensano autorizzati a precisare le prerogative del corpo glorioso nei loro particolari. Tuttavia la Sacra Scrittura ci offre un principio e un modello, come dati sicuri per una riflessione sulla sorte che attende le nostre membra. Il principio è enunciato da san Paolo, quando ci parla di corpo « spiritualizzato » (1 Corinzi, 15, 44). Nel linguaggio dell’apostolo questo significa che la nostra carne, che ci appare così spesso ribelle alla volontà di Dio, sarà docilmente sottoposta all’azione dello Spirito Santo, che tutto trasforma e assimila a sé.
In altre parole, quella trasfigurazione che lo Spirito di Dio opera fin da adesso nel mondo interiore dell’uomo, si estenderà a tutto il nostro essere, così che anche esteriormente riesca visibile la nostra rinnovazione.
Il modello poi è lo stesso Gesù risorto, che dalle testimonianze apostoliche sappiamo sovranamente libero nella sua azione, senza che le cose materiali o le forze della natura gli diano impaccio alcuno, e senza che i dolori o la morte gli possano più recare alcun danno. A lui già ci siamo interiormente conformati, quando siamo passati dalla vita di colpa a quella di grazia. E a lui ci conformeremo totalmente (Filippesi, 3, 21), quando anche il nostro corpo, dopo la purificazione di una morte cristiana, obbedirà alla sua vocazione di gloria.
Come già s’è detto, l’idea di un « giudizio » porta implicita l’idea di una discriminazione, anzi, poiché si tratta del giudizio ultimo e senza appello, l’idea di una discriminazione definitiva. La riflessione sulla glorificazione dell’uomo non può non coinvolgere dunque una riflessione simmetrica sulla dannazione dell’uomo. Difatti la stessa Rivelazione che ci parla di un premio eterno ci parla anche di un castigo eterno: la proposta di Dio non può essere accolta con beneficio d’inventario; o l’accettiamo o la rifiutiamo in blocco. Perciò la terribile e insopportabile prospettiva di un destino di punizione e di sofferenza è necessaria per una visione non snaturata dell’escatologia cristiana.
Gesù per spiegare la condizione del dannato è ricorso soprattutto al concetto di esclusione: « La porta fu chiusa » (parabola delle vergini: Matteo, 25, 10); « gettatelo fuori » (parabola dei talenti: Matteo, 25, 30); « via lontani da me, maledetti » (Matteo, 25, 41) (cfr. anche Apocalisse, 22, 15). Paolo dà una versione sportiva dello stesso concetto, ricorrendo all’immagine della « squalifica » (1 Corinzi, 9, 27). Occorre però capire bene quanto spaventevole sia questo « star fuori » dalla Gerusalemme celeste, che ha Iddio stesso come fonte della sua luce.
Noi riceviamo tutto da Cristo: siamo stati modellati su di lui, siamo stati creati per manifestare le sue perfezioni, riceviamo da lui continuamente l’alimento della nostra vita. Possiamo dire che tutti, anche i peccatori e gli infedeli, hanno, sia pure in diverso grado e natura, qualche legame con il Verbo incarnato: tutti infatti o sono inseriti o sono inseribili nel suo Corpo mistico. Tutti perciò sono in qualche modo raggiunti dalla sua grazia. All’inferno, l’uomo è invece totalmente avulso da questo Corpo, pur conservando una fondamentale ordinazione a esso: il dannato continua a essere creato a immagine del Salvatore e a glorificare con il suo stesso essere colui che rinnega e bestemmia con la sua volontà; continua ad avere un’assoluta necessità di incorporarsi in colui dal quale si mantiene avulso nel suo odio ostinato.
E poiché è il nostro legame con Gesù a consentirci di essere veramente uniti tra noi, colui che è all’inferno è disperatamente solo. Mentre la sua natura resta una natura sociale, anzi resta chiamata a una comunione soprannaturale – perché la vocazione di Dio è senza pentimenti e rimane anche su chi l’ha rifiutata – è tagliato fuori da qualunque convivenza d’amore, da qualunque amicizia. Anche per questo aspetto il dannato è una natura che si contraddice.
Ma questa avulsione da Dio e dal Regno di Dio non è l’unica ragione di sofferenza nell’inferno, anche se è la principale. La Scrittura – in parte già l’abbiamo visto – parla frequentemente di « fuoco ». È possibile intendere questo fuoco solo come una immagine che rappresenta il grande dolore di chi è perduto per sempre? La cosa è sotto il profilo strettamente esegetico del tutto improbabile. In primo luogo non abbiamo notizia dell’uso di una tale metafora per indicare una pena puramente interiore. Inoltre tale interpretazione non sembra dare sufficientemente conto né della frequenza del termine, né del senso preciso di alcuni passi in particolare (cfr. Matteo, 25, 41, dove il fuoco è detto « preparato » per i cattivi; Matteo, 13, 40-42, dove il fuoco è l’unico elemento parabolico conservato anche nella spiegazione).
Ovviamente non è necessario ritenere che il fuoco infernale abbia la stessa natura del nostro. Sarà sufficiente pensare a esso come a un elemento materiale estrinseco che, in qualunque modo, influisca tormentosamente sul dannato. Il destino umano sembra governato dal principio della « trasnaturazione »: come lo spirito del giusto è divinizzato con la grazia e il corpo è spiritualizzato con la risurrezione, così la dannazione proietta l’uomo in opposta direzione, materializzandone per così dire lo spirito e sottomettendo lo spirito così materializzato alla schiavitù della materia.
Non è possibile pensare che tutti si salvino? Non basta ammettere l’esistenza dell’inferno? Bisogna proprio pensare anche che ci stia effettivamente qualcuno? La dottrina rivelata, che ci obbliga a credere nella possibilità di dannarci, evita di darci qualche indicazione numerica circa i dannati. Anzi, rigorosamente parlando, non ci impone neppure di ritenere per fede che qualche uomo di fatto ci vada. Tuttavia affermare che l’inferno sia perfettamente vuoto è asserzione infondata, incauta e superficiale.
In primo luogo non si vede in forza di quali argomentazioni possa essere sostenuta. Non avendo nessun argomento « a posteriori » – per il quale, in mancanza di una Rivelazione, ci vorrebbe una esplorazione diretta – è fatale che un simile atteggiamento si appoggi, più o meno consapevolmente, su argomenti « a priori » (come la misericordia di Dio, l’impossibilità di compiere un vero peccato mortale e così via.). Ora gli argomenti « a priori », se provassero, proverebbero non solo la non esistenza ma anche la impossibilità. Il che sarebbe incompatibile con la dottrina rivelata.
In secondo luogo, la Rivelazione ci parla della effettiva riprovazione eterna dei demoni. Sicché non si eliminerebbe neppure il disagio psicologico di pensare a un essere personale prigioniero di una condizione così crudele. E dal momento che la Rivelazione richiama tanto spesso l’idea del castigo eterno, sarà meglio affidarsi a questa divina pedagogia, senza vanificarla con supposizioni che, per quel che ne sappiamo noi, non hanno fondamento.
Non dobbiamo mai dimenticare che chi ci ha parlato con più chiarezza dell’inferno, della sua pena, della sua eternità, è stato Gesù Cristo, cioè colui che più di ogni altro ha conosciuto e rivelato il cuore misericordioso del Padre e più di ogni altro ha avuto amore e compassione per gli uomini. Certo la dannazione resta una realtà misteriosa e incomprensibile. « Sarà soltanto quando saremo passati dall’altra parte che si risolveranno gli ultimi problemi, che cesserà per noi lo « scandalo », che la bontà divina ci apparirà infinita, non soltanto in tutto ciò che essa crea, ma anche nella pazienza che le fa tollerare la rivolta delle sue creature libere. Finché vivremo, il pensiero dell’inferno ci sconvolgerà: è una spina nel nostro cuore, che ci fa tremare di fronte ai giudizi di Dio, ci fa invocare una fede più pura, ci fa supplicare perché siano forzate le nostre volontà ribelli, perché nessuno tra gli uomini resista alle premure amorose di quella bontà infinita di cui l’apostolo scrive che è follia prenderla alla leggera (Galati, 6, 7) » (Charles Journet, Il male: saggio teologico, Torino, Borla, 1963, pagine 246).
L’inferno insomma è un pensiero insopportabile. Ma l’esistenza umana non ha un lieto fine immancabile, come nei vecchi film americani.
La risurrezione corporea è l’aspetto più appariscente ed esterno di una condizione nuova dell’umanità, che trova la sua radice e insieme la sua dimensione più profonda in un rapporto nuovo con Dio, che eccede l’ambito puramente creaturale. Gesù sembra alludervi, secondo il vangelo di Giovanni, proprio nella sua prima manifestazione, la mattina di Pasqua: « Io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro » (Giovanni, 20, 17). L’elemento più importante dello stato di gloria verso cui siamo incamminati sarà appunto una comunione con il Padre così forte e saziante da superare ogni attesa e ogni immaginazione.
Se già la risurrezione è un evento che va oltre ogni capacità di comprensione, il possesso di Dio trascende assolutamente ogni prospettiva e pone in luce ancora più intensa la generosità del piano divino e la grandezza del destino che ci è stato assegnato.
In che cosa consisterà questa intimità con il Padre? Sarà senza dubbio una unione d’amore, e come tale ha già le sue premesse nella vita di grazia. La carità infatti – che ci assimila a Cristo nella sua perfetta adesione al Padre – è la costante che accomuna lo stato del giusto durante il cammino terrestre e la sua condizione finale, ed è ciò che ci consente di essere già adesso nella « vita eterna », secondo l’insegnamento di Giovanni. Perciò san Paolo dice: « La carità non avrà mai fine » (1 Corinzi, 13, 8). La differenza sta nel fatto che l’amore del cristiano sulla terra nasce da una conoscenza che è sì soprannaturale e divinizzante, ma è velata e indiretta; nasce cioè dall’atto di fede, che è la radice e il fondamento di tutta la vita battesimale. Invece l’amore dell’uomo glorificato scaturirà dalla visione immediata di Dio. Dio che, secondo l’insegnamento biblico, è l’Invisibile e l’Inaccessibile, sarà contemplato senza intermediari: « La nostra conoscenza è imperfetta e imperfetta la nostra profezia. Ma quando verrà ciò che è perfetto, quello che è imperfetto scomparirà. Quand’ero bambino, parlavo da bambino, ragionavo da bambino. Ma, divenuto uomo, ciò che ero da bambino l’ho abbandonato. Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa, ma allora vedremo a faccia a faccia. Ora conosco in modo imperfetto, ma allora conoscerò perfettamente, come anch’io sono conosciuto » (1 Corinzi, 13, 9-12). La contemplazione diretta di Dio porrà nella massima evidenza il nostro stato di creature divinizzate e di figli che entrano in possesso della loro eredità.
E come il battesimo inizia in noi la presenza di una vita e di una ricchezza « ecclesiali », così la suprema fioritura di questa vita ci troverà partecipi di una « città santa », di un « popolo nuovo », della « Chiesa escatologica », insomma: « Vidi la città santa, la nuova Gerusalemme, scendere dal cielo, da Dio, pronta come una sposa adorna per il suo sposo. Udii una voce potente che usciva dal trono: Ecco la dimora di Dio con gli uomini! Egli dimorerà tra di loro ed essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro. E tergerà ogni lacrima dai loro occhi: non ci sarà più la morte, né lutto, né lamento, né affanno, perché le cose di prima sono passate » (Apocalisse, 21, 2-4). Vedremo dunque Dio « a faccia a faccia » e sarà una conoscenza ben diversa da quella che oggi ci è consentita. Quanto al purgatorio, è una cosa, da un certo punto di vista, molto semplice. Nel disegno di Dio bisogna purificarsi, non basta dire: io ho sbagliato. Sono però da considerarsi errate le tendenze della pietà popolare e di una certa teologia che ha interpretato il purgatorio come un piccolo inferno. Il clima del purgatorio è la serenità. Le anime sono in grazia di Dio. Il cardinale Schuster diceva che il purgatorio è come un corso di esercizi spirituali: uno riflette, pensa, vede le cose sbagliate che ha fatto, gli dispiace, si purifica. Mi piace pensare che il nostro purgatorio, il purgatorio di ciascuno, sia quello di vedere tutte le stupidaggini che abbiamo fatto nella vita. Mi è congeniale in questo senso la descrizione dantesca delle anime « che vanno a farsi belle ».
Le narrazioni del Nuovo Testamento circa l’ultimo giorno parlano tutte di uno sconvolgimento cosmico terrificante. Citiamo per esempio la seconda lettera di Pietro: « Il giorno del Signore verrà come un ladro; allora i cieli con fragore passeranno, gli elementi consumati dal calore si dissolveranno e la terra con quanto c’è in essa sarà distrutta » (ii Pietro, 3, 10, cfr. anche Matteo, 24, 29; Apocalisse, 6, 12-14). Ma è difficile assegnare un contenuto preciso a queste descrizioni, che appartengono al genere letterario apocalittico e non devono essere prese alla lettera.
Quanto alla data, è sempre stata oggetto di curiosità viva e morbosa in tutte le epoche della storia cristiana. San Paolo aveva già bisogno di ammonire severamente su questo punto la comunità di Tessalonica, che nella convinzione della imminente fine aveva a buon conto smesso di lavorare. In particolare, l’apostolo raccomanda – e non solo ai Tessalonicesi, visto che anche ai nostri tempi ogni tanto questo stato d’animo rinasce – che non ci si debba attenere a rivelazioni private o ad annunci divini o a lettere apostoliche che dichiarano prossimo il giorno del Signore (II Tessalonicesi, 2, 2).
Se c’è una cosa chiara nella Rivelazione, è la non conoscibilità della data: il Padre se l’è riservata come un segreto geloso e ogni notizia che circola a questo proposito non può certo essere considerata di provenienza divina: « Quanto a quel giorno o a quell’ora, nessuno li conosce, neanche gli angeli del cielo, e neppure il Figlio, ma solo il Padre » (Marco, 14, 32).
Resta da vedere se la Rivelazione ci indichi chiaramente dei segni premonitori della fine. Il segno che più ha colpito la fantasia popolare è la venuta di uno speciale nemico di Gesù che l’apostolo Giovanni chiama appunto Anticristo (1 Giovanni, 2, 18) e che san Paolo qualifica come l’Uomo del peccato, il Figlio della perdizione, l’Avversario, l’Iniquo (II Tessalonicesi, 2, 3-10). Egli si manifesterà negli ultimi tempi e sarà distrutto dall’alito della bocca del Signore e dallo splendore della sua venuta (II Tessalonicesi, 2, 8).
Ma se la comparsa di questo misterioso personaggio è certa, la sua natura è discussa, e gli uomini di tutte le epoche non hanno mancato di riconoscerlo in qualche abominato contemporaneo. Già san Giovanni, dicendo che « gli anticristi sono molti » (1 Giovanni, 2, 18), pone le premesse per una interpretazione collettivistica, che riconosca questo avversario di Dio in tutte le forze del male agenti lungo la storia, le quali si scateneranno con particolare violenza prima della loro finale eliminazione. In connessione con l’ »Uomo di iniquità », san Paolo parla anche di « apostasia » che dovrà colpire i cristiani, senza offrirci però nessuna notizia particolare (II Tessalonicesi, 2, 1).
Nel discorso escatologico, poi, Gesù ha preannunciato l’universale predicazione del vangelo in tutto il mondo abitato, e solo dopo, ha detto, « verrà la fine » (Matteo, 24, 14). Ma poiché il contesto sembra riferirsi piuttosto alla distruzione di Gerusalemme, anche questa profezia deve considerarsi compiuta con la missione apostolica in tutto il mondo greco-romano. Infine san Paolo predice in termini abbastanza espliciti la conversione della nazione giudaica, che avrebbe dovuto essere la prima a entrare nel Regno e che invece sarà l’ultima, secondo un oscuro e sapiente piano di provvidenza (Romani, 11, 25-36). Ma non ci dice nulla sulla vera natura e sulle modalità di questo ritorno.
Come si vede, nessuno di questi segni è tale da togliere o sminuire il carattere di « sorpresa », così ripetutamente attribuito dal libro sacro all’ultimo giorno della nostra storia.

(L’Osservatore Romano 6 settembre 2009)

PORTARE IL PESO DEL DOLORE : GIOBBE, DAL MISTERO DEL MALE AL MISTERO DI DIO, RAVASI

http://www.fondazionegraziottin.org/pdf/articoli.php?ART_TYPE=SPIRIT&EW_FATHER=17829

PORTARE IL PESO DEL DOLORE : GIOBBE, DAL MISTERO DEL MALE AL MISTERO DI DIO

Tratto da:<br />GIANFRANCO RAVASI, PORTARE IL PESO DEL DOLORE,
Edizioni San Paolo, 2013, p. 49-59

Guida alla lettura

Nell’ultima parte del volumetto “Portare il peso del dolore”, Gianfranco Ravasi tira le somme sul messaggio del libro di Giobbe: ne analizza il contenuto a tre livelli – il mistero dell’uomo, del dolore, di Dio – e arriva a concludere che, nonostante le apparenze e il giudizio comune, il vero argomento dello scritto non è il secondo (il mistero del dolore) ma il terzo (il mistero di Dio).
Ravasi sottolinea come quella di Giobbe sia innanzitutto una triplice storia: di un uomo, con tutti i limiti esistenziali e morali degli uomini; di un credente, che non si accontenta delle soluzioni confezionate dalla religione per spiegare l’enigma del male senza mettere in discussione la natura di Dio; di un sofferente che, dall’esperienza angosciante di un dolore inspiegato e inspiegabile, saprà trarre la forza di «esaltare la necessità della fede».
Posto a confronto con il mistero del male Giobbe rifiuta la “tecnologia” della retribuzione, per la quale ogni sofferenza è sanzione automatica di peccati personali, e tenta di aprire «una nuova riflessione che coinvolga Dio in modo positivo»: al punto che secondo Ravasi – e qui sta secondo noi la forza dirompente e scandalosa del libro, la sua difficoltà quasi inaccessibile – si può affermare che per Giobbe «il mistero del male deve condurre a Dio in un modo molto più genuino di quanto lo faccia l’esistenza del bene».
Condurre a Dio: è questo il vero cuore del libro. Troppo spesso confuso con uno svelamento del mistero del dolore (che, vale la pena ripeterlo, rimane tale anche al termine del racconto), Giobbe è in realtà un libro di pura teologia: «La questione centrale dell’opera non è il male di vivere, ma il come poter credere e in quale Dio credere nonostante l’assurdo della vita». La risposta è che esiste una ‘etzah, una razionalità divina superiore e incomprensibile, che «riesce a collocare in un progetto ciò che per l’uomo sembra invece debordare da ogni progetto, cioè il male». Alla fine, perciò, Giobbe riuscirà a cogliere non «l’incastro perfetto del male nella trama della storia e dell’essere», bensì «il volto di colui che questo incastro realizza non secondo quanto noi supponiamo ma secondo il suo disegno trascendente». E a questo punto si abbandonerà al disegno divino.
Conclusione forse troppo facile, per la nostra sensibilità moderna, come troppo facile, insoddisfacente e contraddetta dalla realtà era ed è la dottrina della retribuzione. Ma questo non deve sorprenderci: Giobbe vive in un mondo le cui coordinate culturali sono troppo distanti dalle nostre, in un mondo che non poteva in alcun modo prescindere da Dio e che nelle mani di Dio affidava anche il non-senso della vita. Il vero valore di una comprensione corretta della vicenda, quindi, non sta tanto nella possibilità di ricavarne risposte accettabili anche per noi, donne e uomini di oggi, ma nel rendersi conto, senza deformazioni devote, di ciò che realmente afferma sul tema del dolore, della malattia e della morte uno dei capisaldi della letteratura sapienziale di tutti i tempi. In altre parole, quello che per Giobbe era un punto d’arrivo spirituale ed esistenziale, per noi è una semplice acquisizione culturale. Semplice, ma non irrilevante, soprattutto per i credenti:
la conoscenza di ciò che questo libro dice, e soprattutto di ciò che non dice, è infatti un buon antidoto contro i cattivi maestri, contro coloro che – come gli amici di Giobbe – tentando di spiegare l’esistenza del male finiscono per trasmettere un’immagine perversa di Dio e della vita.
Il filosofo francese Philippe Nemo nel suo libro “Job ou l’excès du mal” (Parigi 1978, p. 111) ha dato questa felice definizione di Giobbe: «Giobbe tutto intero è il nome divino». Il vertice, infatti, dell’itinerario della ricerca del grande sofferente non è la soluzione ad una questione umana ma è nel «vedere Dio con i miei occhi», rifiutando tutte le spiegazioni di seconda mano, tutto il «sentito dire» (42,5). Per questo il messaggio dell’opera, anche se si snoda dall’intreccio tra l’uomo, il mondo, il male, la società e Dio, ha come meta ultima Dio, la sua parola, la sua teofania, la sua contemplazione.
Il mistero dell’uomo
Giobbe è innanzitutto la storia di un uomo, di un credente, di un sofferente. E’ la storia di un uomo: da questo volume si possono estrarre molti materiali per rappresentare la condizione umana, spesso affidati alla forza dei simboli. C’è un senso fortissimo ed esistenziale del limite umano: «L’uomo, nato di donna, breve di giorni e sazio di inquietudine, come fiore sboccia e subito è avvizzito, come ombra svanisce e mai si arresta» (14,1-2). Egli abita «tende di argilla e nella polvere ha fondamento» (4,19), «l’uomo, questo verme, l’essere umano, questo lombrico» (25,6). Non è solo un limite esistenziale ma anche morale: «Può il mortale essere giusto dinanzi a Dio, puro l’uomo dinanzi al suo Creatore?» (4,17). «Chi può estrarre il puro dall’impuro? Nessuno!» (14,4). L’uomo, infatti, è “nit’ab” e “ne’elah” (15,16): i due aggettivi evocano due simboli piuttosto realistici, il primo sottintende la reazione istintiva di fronte a qualcosa di ripugnante e disgustoso, il secondo, invece, significa “acido”, “alterato” e indica perciò una sopravvenuta corruzione o deformazione (vedi gli argomenti a fortiori sulla corruzione dell’uomo in 4,17-19 e 15,14-16 o 25,4-6).
Giobbe è, però, anche la storia di un credente. In ogni istante della sua storia drammatica, anche di fronte alla sua più cupa disperazione e alle sue più dure urla quasi blasfeme contro Dio, Giobbe non cessa di essere un credente. Anzi, la sua storia è per eccellenza quella della ricerca di Dio, evitando tutte le scorciatoie della teologia codificata e semplificata. Egli non abbandona mai questo filo anche nel silenzio più totale di Dio, anche nell’abisso dell’assurdo, ed è per questo che alla fine «i suoi occhi lo vedono»; ed è per questo che alla fine Dio, ignorando le accuse e le proteste, preferisce la fede nuda di Giobbe alla compassata religiosità dei suoi avvocati difensori teologi: «La mia ira si è accesa contro di voi perché non avete parlato di me con fondamento come il mio servo Giobbe» (42,7). Un forte senso di Dio pervade tutto il libro: «Nella sua mano Dio stringe l’anima di ogni vivente e il respiro dell’uomo di carne… Ciò che egli demolisce nessuno lo può ricostruire, chi egli incarcera nessuno lo può liberare. Se blocca le acque, tutto si inaridisce, se le sblocca si inonda la terra» (12,10.14-15). Il cammino di Giobbe è, quindi, quello di un credente che attraverso l’oscurità vuole giungere all’approdo della luce e del dialogo col suo Signore.
Ma Giobbe è anche e ininterrottamente la storia di un sofferente. È questa la dimensione evidente che non ha bisogno di essere illustrata. Il dolore d’altra parte, per tutte le teologie mature, è il banco di prova della fiducia in Dio e nella vita. Famoso è il quadro di base tracciato da Epicuro in un frammento conservato dal “De ira Dei” dello scrittore latino cristiano Lattanzio (c. 13): se Dio vuole togliere il male e non può, allora è debole (e quindi non è Dio); se può e non vuole, allora è radicalmente ostile nei confronti dell’uomo; se non vuole e non può, allora è debole e ostile; se vuole e può, perché esiste il male e perché esso non viene eliminato da Dio? I più diversi tentativi di soluzione e di spiegazione del dilemma Dio e/o il dolore costellano tutta l’avventura del pensiero umano. La stessa Bibbia, come si è visto, ci offre uno spettro molto variegato di soluzioni che tentano di circoscrivere qualche faccia di questo mistero. Giobbe usa questo campo di battaglia, il più difficile per la fede, proprio per esaltare la necessità della fede. La sua rappresentazione della sofferenza non è, quindi, romantica o esistenziale, ma sostanzialmente canalizzata al mistero di Dio.
Il mistero del male
Su questo grande interrogativo certamente Giobbe si attesta, ma non con lo scopo di metterlo a tema né tanto meno di risolverlo “razionalmente”. Nella Bibbia c’è, come si è detto, lo sforzo di penetrare in questa cittadella inafferrabile: c’è una proposta propria dei libri biblici storici, c’è una visione profetica, c’è una lettura caratteristica del Deuteronomio, c’è una interpretazione apocalittica, c’è una presentazione salmica legata alle suppliche del Salterio, c’è poi la grande proposta neotestamentaria vincolata alla morte di Cristo e alla sua pasqua. Giobbe tiene nel suo mirino soprattutto la proposta della letteratura biblica sapienziale (presente soprattutto nel libro dei Proverbi), codificata nella teoria della retribuzione che largo spazio avrà anche nel resto della teologia di Israele. Come si è detto, secondo questa teoria ogni sofferenza è sanzione di peccati personali. La sua applicazione può rivestire forme differenti: retribuzione terrena e personale (Pr 11,21.31; 19,17; Gb 22,2), retribuzione collettiva (Sir 11,20- 28; Qo 9,5), retribuzione immediata, retribuzione differita (Sal 37,10; 49,17; 73,18-19; Gb 8,8ss; Sir 11,26-28), retribuzione nell’oltrevita (Sap 3). Giobbe rifiuta questa “tecnologia” morale come insufficiente a spiegare storia ed esistenza. Egli adotta la realtà del male lasciandola nella sua forza di scandalo, nella sua provocazione bruta vanamente coperta dai veli retributivi proposti dai suoi amici teologi che dialogano con lui.
Ma la sua polemica e la sua sincerità nei confronti della soluzione sapienziale classica hanno lo scopo di sgombrare il terreno da ogni soluzione ipocrita e semplificatoria. Su questo terreno del male, “la rocca dell’ateismo”, come scriveva il drammaturgo tedesco Georg Büchner, Giobbe vuole aprire una nuova riflessione che coinvolga Dio in modo positivo. In un certo senso potremmo dire che per Giobbe il mistero del male, che egli fa balenare in tutta la sua tragica violenza e verità, deve condurre a Dio in un modo molto più genuino di quanto lo faccia l’esistenza del bene. Il poeta biblico è fermamente convinto che il male, proprio perché mistero, non può essere “razionalizzato”, addomesticato attraverso un facile teorema teologico. Il male e il dolore urlano con tutta la loro forza contro la mente dell’uomo. Ma il poeta biblico è altrettanto fermamente convinto che esiste una ‘etzah (38,2), una “razionalità” da mistero, cioè superiore e totalizzante, quella di Dio: essa riesce a collocare in un progetto ciò che per l’uomo sembra invece debordare da ogni progetto, cioè il male.
Il mistero di Dio
Siamo giunti, così, al vero cuore del libro. Giobbe è uno scritto “teologico” nel senso pieno del termine. Fondamentale è l’oscillazione tra la ricerca spasmodica di Dio dei cc. 3-27 e l’esaltante esperienza di Dio dei cc. 38-39 / 40-42. Giobbe resta contemporaneamente teso verso la disperazione e la bestemmia a cui lo conduce “logicamente” la sua intelligenza e verso la speranza e l’inno di lode a cui lo conduce la scoperta di Dio. Dio, infatti, vuole far balenare l’impossibilità di ridurre il suo “progetto” ad un semplice schema.
Giobbe riconosce, davanti alla sfilata dei segreti cosmici che gli vengono presentati da Dio nei suoi discorsi, di non essere in grado di sondare che qualche particella microscopica, mentre Dio sa percorrerli con la sua onniscienza e onnipotenza. Lo sfidato, Dio, diventa a sua volta sfidante nei confronti dell’uomo facendogli intuire che la “logica” di Dio è onnicomprensiva e ben più autentica di quella limitata della creatura, che si sente continuamente “insensata” e inceppata nel suo procedere. Alla fine, perciò, agli occhi di Giobbe non appare l’incastro perfetto del male nella trama della storia e dell’essere, bensì il volto di colui che questo incastro realizza non secondo quanto noi supponiamo ma secondo il suo disegno trascendente. E a questo punto Giobbe si abbandona al disegno divino: «Se pure corressi per mari stranieri tornerò sempre a far naufragio nel tuo, Signore» (M. Pomilio).
Giobbe diventa, in questa luce, una grande catechesi sulla fede pura e sul vero volto di Dio contro ogni compromesso e contraffazione anche teologica. Come si è detto, per Giobbe è insufficiente ogni lettura “umana”, perché l’analisi del mistero dell’uomo e del male è condotta in modo funzionale rispetto al vertice tematico autentico che è divino. La centralità del «vero Dio misconosciuto dall’uomo vecchio» (D. Barthélemy) è giustificabile in Giobbe a livello letterario e tematico. A livello esterno, letterario, perché Dio è sempre presente nell’opera come atteso, come interlocutore desiderato, anche se assente come parte in causa: «Oh, se sapessi dove incontrarlo, come arrivare sino al suo trono! Esporrei davanti a lui la mia causa con la bocca colma di argomenti. Conoscerei finalmente con quali discorsi mi replica, capirei che cosa mi deve comunicare» (23,3-5).
La stessa struttura del libro rivela questa tensione di fondo: la rivelazione e i discorsi finali del Signore sono la conseguenza logica e l’esito risolutivo del dialogo e della sfida che l’uomo-Giobbe lancia nel c. 31. Lo stesso “mediatore” sognato a un certo punto da Giobbe perché funga da arbitro neutrale nella contesa tra l’uomo e Dio non può che essere Dio stesso, perché nessuno può essere arbitro superiore rispetto a Dio. Si può dire con l’esegeta Jean Lévêque che Giobbe vive la sua prova «come una domanda su Dio ed è solo a Dio che vuole porla». E, come si è ripetuto, il senso ultimo di questo itinerario a delta ramificato non è quello di rendere ragione del mistero del dolore in sé preso, quanto piuttosto quello di dire «cose rette» su Dio (42,7). In altri termini: la questione centrale dell’opera non è il male di vivere, ma il come poter credere e in quale Dio credere nonostante l’assurdo della vita. Contro il razionalismo della teoria retributiva, contro il razionalismo teologico degli amici, Giobbe ribadisce la necessità della gratuità della fede, e l’esigenza del “vedere” attraverso un’autentica esperienza di fede (cfr. Sal 73,17).

Gianfranco Ravasi, nato nel 1942 a Merate (Lecco) e ordinato sacerdote nel 1966, è stato per molti anni Prefetto della Biblioteca-Pinacoteca Ambrosiana di Milano. Nel settembre 2007, dopo essere stato nominato da Benedetto XVI Presidente del Pontificio Consiglio della Cultura e delle Pontificie Commissioni per i Beni Culturali della Chiesa e di Archeologia Sacra, è stato consacrato Arcivescovo Titolare di Villamagna di Proconsolare. A lungo docente di esegesi dell’Antico Testamento nella Facoltà Teologica dell’Italia settentrionale e di Ebraico nel Seminario arcivescovile milanese, è membro di numerose accademie e istituzioni culturali italiane e straniere, oltre che autore di diversi volumi. Collabora con i quotidiani L’Osservatore Romano, Il Sole 24 Ore, Avvenire, con il settimanale Famiglia Cristiana e con il mensile Jesus. Il 20 novembre 2010 è stato creato Cardinale da Benedetto XVI.

CARD. CARLO MARIA MARTINI – GERUSALEMME : SIMBOLO E REALTA’

http://www.artcurel.it/ARTCUREL/TERRASANTA/gerusalemmesimboloerealta.htm

CARD. CARLO MARIA MARTINI

GERUSALEMME : SIMBOLO E REALTA’

La Gerusalemme celeste e la Gerusalemme storica

La Gerusalemme celeste (Ap 21, 1-22, 5)

Siamo nella parte finale dell’Apocalisse, dedicata alla descrizione della Gerusalemme celeste, a cui seguirà la conclusione. Il nuovo ordine di cose, instaurato dalla morte e risurrezione di Cristo, è disegnato attraverso due grandi fasce di simboli.
Quelli della creazione e del paradiso di Genesi 1-2, dove si parla di « nuovo cielo », « nuova terra », « ogni cosa nuova ». Il profeta Isaia annunciava « una cosa nuova » (43,19), qui viene fatta « ogni cosa nuova », la nuova creazione. Al tema sono connessi i simboli del fiume nel paradiso, dell’acqua che sgorga, dell’albero che dà vita (cfr. Gen 2) e anche quelli della nuova città, descritta da Ezechiele dal capitolo 40 al 48 (risuonano pure passi del Deuteroisaia e di Zaccaria), che è senza tempio, meglio è tutta tempio, tutta dimora di Dio. Dunque, due fasce di simboli: della creazione e della restaurazione di Israele come nuova città.
Vorrei sottolineare tre momenti di questa presentazione: il momento di contrasto, il nuovo ordine di cose e i simboli più specifici della nuova città.
Il momento di contrasto
Il contrasto è evocato fin dall’inizio con le parole:  » Allora io vidi » e, in seguito, con le parole: « E vidi poi venire dal cielo ». I Non si tratta però di una prima visione, perché fa parte di visioni descritte nei versetti precedenti (« vidi poi venire », « vidi ») e che annunciano la scomparsa di tutti gli elementi negativi della storia (cfr. Ap 20), riassunti nella morte e negli inferi. Tale scomparsa, annunciata poco prima, è ripresa nel nostro brano: scompariranno le lacrime, non ci sarà più morte né lutto né lamento ne affanno perché le cose di prima sono passate (21, 4 ); i vili, gli increduli, gli abietti, gli omicidi, gli immorali non entreranno nel nuovo ordine di cose (v. 8).
Viene quindi proclamato quel giudizio di Dio che è l’inizio del nuovo ordine di cose, giudizio formulato in base a due criteri: le opere compiute, registrate nel libro, e l’iniziativa salvifica divina espressa con l’immagine dell’iscrizione nel libro della vita.
Perciò i versetti immediatamente precedenti, richiamati in 21, 4.8 e anche in altri capitoli, presentano quale premessa della visione di Gerusalemme, della nuova città, lo sfondo della distruzione del male operata dalla croce di Cristo, distruzione del male che è frutto positivo della croce. La croce ha messo fuori gioco l’universo spirituale costituito dalla ribellione a Dio, per- mettendo la nascita di un ordine nuovo e di un nuovo universo di valori delineati a partire dall’inizio del capitolo 21.
Il nuovo ordine di cose
Il nuovo ordine di cose lo leggiamo in 21, 1-5, ed è presentato con le parole: « nuovo cielo e nuova terra » (« In principio Dio creò il cielo e la terra », Gen 1, 1). Un nuovo ordine spirituale e morale, nel quale siamo collocati. E la cosa nuova è anche la città santa, la nuova Gerusalemme, simbolo del nuovo ordine di grazia e di misericordia instaurato da Dio. La città discende dal cielo perché il nuovo ordine è puramente gratuito, non è opera di uomini, bensì di Dio che lo fa e lo dona.
È una città ed è pure una sposa adorna per il suo sposo, pronta per le nozze, bellissima, così come la sposa di cui parlava Ezechiele al capitolo 16, 8ss: vestita di ricami, calzata con pelli di tasso, cinto il capo di bisso, ricoperta di seta, adorna di gioielli. Così va immaginata questa sposa che nell’ Apocalisse è veramente e pienamente fedele.
E lo sposalizio, che fa parte dell’ordine nuovo, è l’alleanza richiamata al v. 3, dove è evocato Lv 26, 11 (« stabilirò la mia dimora in mezzo a voi »), insieme ad altri brani dell’Antico Testamento sull’alleanza, per dare questa visione complessiva: Dio dimorerà tra di loro, essi saranno il suo popolo ed egli sarà il Dio-con-loro.
Di fronte a tale visione, noi ci domandiamo: riguarda il presente o il futuro? Queste parole sono compiute?
Al v. 6 è scritto: « Ecco, sono compiute! ». Tuttavia si potrebbe pensare a un’anticipazione profetica, a un passato che riguarda il futuro.
In realtà, per il principio ermeneutico, io leggo qui molto più volentieri la descrizione di ciò che è compiuto nella morte e risurrezione di Gesù. Non quindi un ordine nuovo di cose che verrà, ma un ordine che è e che viene e nel quale tutti siamo già dentro.
Siamo già nell’alleanza, siamo già la nuova città che scende dal cielo, siamo già la sposa pronta per lo sposo, pur se non ancora in pienezza; fin da ora, nella passione e risurrezione di Cristo, tutto è compiuto e si compie in coloro che sono in lui.
Alcuni simboli della città celeste
I simboli di questo nuovo ordine di cose sono espressi soprattutto nella cosiddetta seconda descrizione della Gerusalemme celeste, che inizia al v. 9.
Sembra quasi di essere di fronte a un doppione, perché viene ripresentata la città che scende dal cielo; l’autore finale non se ne preoccupa, anzi, ritiene di dover ripetere le stesse cose proprio per farci penetrare nella coscienza che siamo in una realtà nuova instaurata dal mistero pasquale di Cristo.
Al v. 10 la santa città « che scende dal cielo, da Dio » è contemplata dal veggente mentre si trova su un monte grande e alto. Nei versetti successivi, sul simbolo base della città si sviluppano almeno cinque linee simboliche, continuamente riprese.
La prima è quella della luce, della gloria di Dio che irradia sulla città e la rende totalmente trasparente, colma della sua presenza, così da non aver più bisogno di un centro luminoso come il tempio: l’intera città è luce.
Il secondo elemento simbolico è il grande, alto muro, con le sue fondamenta, che dà le dimensioni della città.
Il terzo è quello delle dodici porte, con le loro scritte e i loro ornamenti.
Poi l’elemento del fiume, che attinge al racconto della Genesi.
Infine, gli alberi con i frutti e le foglie: l’albero della vita.
Mi limito a ripercorrere le prime due linee simboliche, nel desiderio di mostrare l’unità dell’insieme, l’unico messaggio che viene ripetutamente presentato.
La città, al v. 10, è dunque risplendente della gloria di Dio e il v. 11 commenta tale splendore, simile a quello di gemma preziosissima, quale pietra di diaspro cristallino.
Il tema della luce è ripreso al v. 18: la città è di oro puro, simile a terso cristallo; per questo (v. 23) non ha bisogno della luce del sole ne della luce della luna, dal momento che la gloria di Dio la illumina e la sua lampada è l’agnello.
Al v. 24 la luce diviene il riferimento per tutta l’umanità: « Le nazioni cammineranno alla sua luce ».
Il nuovo ordine di cose nel quale siamo, il regno di Cristo che già si instaura, è splendore attraente della gloria del Padre e dell’agnello. È una realtà luminosa in cui vivere è bello perché dà sicurezza, respiro, chiarezza, gioia, e « non vidi alcun tempio in essa » (v. 22), perché il Signore Dio onnipotente e l’agnello so- no il suo tempio. La trasparenza di Dio è tale che Dio è percepibile in ogni luogo, lo si incontra ovunque. La conversione cristiana è propria di chi entra in questo nuovo modo di vedere le cose, di chi accoglie la rivelazione della gloria di Dio e si lascia illuminare dalla sua luce.
Il muro è descritto, al v. 12, come grande e alto. Al v. 14 si dice che « le mura della città poggiano su dodici basamenti, sopra i quali sono i dodici nomi dei dodici apostoli dell’Agnello ». Mura assai singolari, che danno alla città un’impensabile altezza, misurata con una canna d’oro; la città ha una forma strana, tutta simbolica, la forma di un quadrato dove la lunghezza è uguale all’altezza e alla larghezza. Si tratta di un cubo di oltre cinquecento chilometri di lato, e le mura hanno uno spessore di oltre sei chilometri. Dunque, un’ampiezza smisurata, un’estensione e un’altezza inimmaginabili per una città. E se ne dice poi la ricchezza incalcolabile: le mura sono costruite con diaspro, le fondamenta delle mura adornate di pietre preziose.
Contempliamo così una città capace di accoglienza senza limiti, una città che dà un agio e una sicurezza che non hanno paragone. In essa si è pienamente sicuri e ci si sente molto ricchi nella sfera divina, nell’essere in Cristo, in questa luce di Dio.
Se continuassimo la riflessione sugli altri simboli, ci accorgeremmo che ciascuno aggiunge qualcosa al significato della conversione cristiana e, mentre prelude alla piena manifestazione di Dio nel suo Regno – che è indescrivibile a parole -, ci invita già a chiederci se veramente abbiamo la coscienza di vivere in questa nuova realtà, se abbiamo la coscienza della bellezza, della ricchezza, della sicurezza, della luminosità, dell’apertura, della disponibilità della realtà nella quale siamo essendo in Cristo, essendo con lui nel Padre, nel mistero trinitario.
È interessante rileggere i versetti conclusivi della descrizione dei simboli, dove viene sottolineato l’effetto del nuovo ordine di cose instaurato dalla morte e risurrezione di Gesù: « Le nazioni cammineranno alla sua luce e ire della terra a lei porteranno la loro magnificenza. Le sue porte non si chiuderanno mai durante il giorno, poiché non vi sarà più notte. Non entrerà in essa nulla di impuro, ne chi commette abominio e falsità; ma solo quelli che sono scritti nel libro della vita dell’Agnello » (vv. 24-27).
La nuova Gerusalemme è il punto di riferimento che dà senso a tutta la storia umana, è il punto di arrivo di tutte le nazioni e di tutti i popoli, è la città ideale aperta e pronta a ricevere tutti, è la città che esclude ogni impurità e ogni falsità, che affratella nazioni e popoli amano amano che vengono immersi in questa pienezza luminosa che è la manifestazione di Dio, del suo amore senza limiti. Le misure della città sono alla dismisura dell’altezza, lunghezza, larghezza della carità di Cristo e superano ogni comprensione.
Il cristiano che legge l’Apocalisse
Per il cristiano che legge l’Apocalisse, ogni pagina dei capitoli 21 e 22 è un modo di dire il suo essere in Cristo, le ricchezze che fin da ora gli sono date quale primizia, anticipo, pregustazione di ciò che sarà definitivo e in parte già lo è. Possiamo chiederci come tale ricchezza tocca l’attuale Gerusalemme storica.
Chi ama questa Gerusalemme e tutte le città storiche che partecipano alle sue sofferenze, comprende la risposta alla domanda, anche se non è facile esprimerla in maniera razionale e logica. Provo comunque a farlo: la Gerusalemme attuale è attratta dalla forza dei simboli al di là di se stessa e quindi ha un suo destino; destino di cui è simbolo, destino da cui è attirata verso la pienezza alla quale richiama continuamente con il suo nome e con la sua storia. In altre parole, c’è una permanente tensione dialettica tra la Gerusalemme storica e la Gerusalemme celeste; l’una richiama l’altra e quella celeste attrae quella della storia e, con essa, attrae tutta la storia umana.
Conclusione
Domandiamoci a che cosa ci stimola la visione che abbiamo cercato di contemplare.
A me pare che stimoli anzitutto a scoprire la pienezza in cui siamo e a esserne grati a Dio: pienezza che è il cammino storico dell’umanità, che si rivela a noi quale cammino positivo, di senso, e non soltanto di pura attesa, ma cammino già di partecipazione alle ricchezze inestimabili, inesauribili di Cristo, come singoli, come gruppo, come città, come società e come umanità.
Se, con la grazia del Signore, con gli occhi della fede, ci sforziamo di scoprire la pienezza in cui siamo, dobbiamo lasciarci trascinare da questa dinamica storica. Dinamica che ci indica dove la storia va e ci aiuta a capire come anticiparla nel- la fraternità e nella giustizia, sperando e operando affinché, attraverso la vittoria del bene sul male, anzi traendo il bene dal male, la luce della Gerusalemme celeste irradi e dia gioia e sicurezza fin da ora a tante persone che camminano con noi.
Ancora, la visione che abbiamo cercato di contemplare ci stimola a coinvolgere la Gerusalemme storica, e tutte le città che soffrono delle sue sofferenze, in questo cammino che trascina il mondo verso la definitiva pienezza.
——————————-

[Tratto da: Lettura ecumenica della Parola, 9-10 settembre 1994, in AA.VV. Gerusalemme patria di tutti, EDB, Bologna 1995]

MITEZZA E UMILTÀ TRASFORMANO L’OLTRAGGIO IN BENEDIZIONE – CARD. SCHÖNBORN

http://www.zenit.org/it/articles/mitezza-e-umilta-trasformano-l-oltraggio-in-benedizione

MITEZZA E UMILTÀ TRASFORMANO L’OLTRAGGIO IN BENEDIZIONE

L’OMELIA DEL CARD. SCHÖNBORN NELLA MESSA DEL PAPA CON I SUOI EX ALLIEVI

01 SETTEMBRE 2010

CASTEL GANDOLFO, mercoledì, 1° settembre 2010 (ZENIT.org).- Pubblichiamo di seguito l’omelia tenuta il 29 agosto scorso dal Cardinale Christoph Schönborn, Arcivescovo di Vienna, durante la messa celebrata dal Papa per i suoi ex allievi a Castel Gandolfo.

* * *
La scena del Vangelo di oggi, un pranzo di sabato presso uno dei capi dei farisei, comincia con un’osservazione reciproca. L’ospite e i suoi amici guardano Gesù. «Gli prestavano attenzione» traduce Adolf Schlatter. Lo scrutano in modo critico. E riescono a trovare l’occasione per confermare i loro giudizi critici. Gesù, infatti, guarisce un uomo malato di idropisia (la nostra lettura della domenica salta questa guarigione) e lo fa di sabato!
E Gesù osserva loro. Osserva il loro comportamento durante il pranzo, la rissa per sedersi ai primi posti. Colui che è osservato in maniera critica diviene a sua volta spettatore del proprio comportamento puerile. Sotto forma di parabola si mette uno specchio davanti a loro e anche davanti a noi, che ascoltiamo il Vangelo.
Come sempre, le parabole affrontano esperienze di vita quotidiana. Sedersi all’ultimo posto non è innanzitutto una questione di umiltà, ma di saggezza: meglio essere invitati ad andare avanti che a retrocedere con vergogna. Questa saggezza però non è una strategia scaltra per conquistare il posto d’onore. La vera umiltà a sempre qualcosa di realistico. Mozart sapeva e, a volte diceva, di essere fra i migliori. Era vero. La sua umiltà stava nel fatto che apprezzava il suo genio, ma lo considerava sempre un dono di Dio e quindi lo considerava come un compito. Non ho bisogno di spiegare l’analogia con il nostro venerato maestro. L’umiltà è qualcosa di molto sobrio. Ha a che fare con la veridicità e con la gratitudine. L’umiltà è soprattutto lo sguardo grato, sobrio e gioioso al nostro essere creature. Gesù ha detto a santa Caterina da Siena: «Riconosci chi sei tu e chi sono io e sarai felice: io sono colui che è, tu sei colei che non è». L’Apostolo dice: «Che cosa mai possiedi, che non tu non abbia ricevuto». L’umiltà come fondamentale atteggiamento creaturale! Per comprenderla e viverla in modo più profondo, il Creatore-Logos si è fatto carne, servitore, egli stesso divenuto creatura per mostrarci dal centro della nostra essenza creaturale quale deve essere l’atteggiamento di una creatura. Ci invita ad apprendere da lui che è «mite e umile di cuore» (Matteo 11,29).
Mitezza e umiltà raccomandava già il Siracide: «Quanto sei più grande, tanto più fatti umile» (Siracide, Prima lettura), letteralmente è così (però nella traduzione ufficiale della bibbia in tedesco era troppo duro, sebbene il riferimento cristologico saltasse agli occhi).
Quindi il nostro sguardo è rivolto a Cristo. Egli è colui che ha scelto l’ultimo posto, lui che era nella condizione di Dio (cfr. Filippesi 2). Mi ricorda la breve parabola dell’ultimo posto durante un altro pasto, che Gesù condivise con i suoi discepoli. Secondo san Luca, dopo che Gesù ebbe fondato l’Eucaristia, nacque una discussione fra gli apostoli su chi di loro fosse da considerare più grande (cfr. Luca 22,24-30): una lotta clericale per il predominio nel cenacolo, subito dopo l’istituzione del sacerdozio della Nuova Alleanza!
Sì, Signore, tu osservi in che modo lottiamo per il posto d’onore, apertamente o subdolamente. E ci ricordi: «Io sto in mezzo a voi come colui che serve» (Luca 22,27). Dovremmo vergognarci costantemente riconoscendo che dobbiamo ancora imparare molto da te. Signore tu stesso ci consoli: Sì, nel cenacolo, nonostante il tradimento imminente, il Signore ha fatto agli apostoli la grande promessa: «voi siete quelli che avete perseverato con me nelle mie prove e io preparo per voi un regno, come il Padre mio l’ha preparato per me» (Luca 22, 28 e seguenti). Che atto di fiducia da parte del Signore! Ci ha affidato il Regno di suo Padre.
Affinché la grandezza della nostra vocazione non ci renda superbi, egli ha posto noi, e soprattutto i primi apostoli, all’ultimo posto. Così almeno pensa san Paolo: «ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo dati in spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati… Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati la spazzatura del mondo» (1 Corinti 4, 9-13).
Santo Padre! Che queste parole dell’Apostolo le siano di conforto quando gli oltraggi provengono dai fedeli stessi, dai cristiani stessi e le viene mostrato il «cartellino rosso». L’umiltà trasforma l’oltraggio in benedizione. Grazie, santità, per averci mostrato l’atteggiamento di Gesù, che è mite e umile di cuore.
Non c’è forse qualcosa di meraviglioso nella fede cristiana, nell’esperienza cristiana? La gioia per il fatto che i criteri del regno dei cieli sono così diversi. Chi è veramente grande nel regno dei cieli? Quanto riempie di gioia poter intuire, già qui sulla terra, nelle persone che vivono secondo il cuore di Gesù, chi sono i grandi nel regno dei cieli! E questa gioia non manca al Santo Padre nei numerosi incontri con persone che sono grandi secondo i criteri dell’«ecclesia», della comunità dei «primogeniti i cui nomi sono iscritti nei cieli», anche se per il mondo non hanno significato.
Ora il Signore stesso ci invita alla sua mensa. Non ha paura di invitare poveri, storpi, zoppi e ciechi. Invita noi, umili peccatori, con tutte le nostre mancanze e pecche e sta in mezzo a noi come colui che serve. Beati coloro che vengono invitati al banchetto dell’Agnello!

[Traduzione de L'Osservatore Romano]

IL PASSAGGIO DI CRISTO NELLA REGIONE DELLA MORTE HA TRASFORMATO IL MORIRE DI TUTTI – di Gianfranco Ravasi

http://paroledivita.myblog.it/2010/04/12/quando-arriva-il-giorno-dell-incontro-il-passaggio-di-cristo/

QUANDO ARRIVA IL GIORNO DELL’INCONTRO.

IL PASSAGGIO DI CRISTO NELLA REGIONE DELLA MORTE HA TRASFORMATO IL MORIRE DI TUTTI

Posted on 12 aprile 2010

di Gianfranco Ravasi

“Fratello, se vieni a visitare la mia tomba, non devi piangere. Non è giusto addolorarsi per l’unione con Dio. Dopo la mia morte non cercare la mia tomba sulla terra: la mia tomba è nel cuore di coloro che amano”. Più di una volta ho sostato anch’io a Konya, in Turchia, sotto la grandiosa cupola verde ove è collocato il cenotafio di Gialal ed-Din Rumi, il grande poeta mistico musulmano del XIII secolo. Accanto si leggono appunto le parole che ho citato e che egli aveva dettato per la sua epigrafe. Esse ci svelano una delle tante coincidenze spirituali tra le grandi religioni nella loro anima autentica. Un’antica preghiera musulmana invoca: “Dio mio, concedimi di morire nel desiderio di incontrarti. Concedimi di prepararmi al giorno dell’Incontro”.
La morte, dunque, non come estuario che sfocia sul nulla, ma come l’Incontro per eccellenza con Dio nella casa del suo regno. Come dice Rumi, la nostra vera tomba non è nel sepolcro, ma nel cuore di coloro che amano, cioè quelli che hanno amore e fede dentro di sé, e quindi custodiscono una scintilla o un germe di eternità. E l’eternità è l’orizzonte a cui siamo destinati dopo la morte. Certo, ben diversi sono i sentimenti dominanti ai nostri giorni. Li esprimeva suggestivamente il cantautore Francesco Guccini nella sua Canzone di notte n.2: “Ognuno vive dentro ai suoi egoismi / vestiti di sofismi, / e ognuno costruisce il suo sistema / di piccoli rancori irrazionali, / di cosmi personali / scordando che poi infine tutti avremo / due metri di terreno”. Già Cristo aveva considerato questa visione minimalista della vita nella parabola del ricco insensato che accumula senza posa per piombare in una morte sulla quale echeggia una voce terribile: “Quello che hai preparato di chi sarà?” (Luca, 12, 20).

Sulla scia della celebrazione pasquale che si distende in questi giorni, riproponiamo un tema che è nel cuore di ogni creatura, nonostante lo sforzo di esorcizzarlo, quello del morire, ma lo faremo da un’angolatura teologica, anzi cristologica. Se stiamo ai Vangeli, Gesù incontra direttamente tre cadaveri: quelli della figlia di Giairo (Marco, 5, 35-43), del figlio di una vedova del villaggio galilaico di Nain (Luca, 7, 11-17) e dell’amico Lazzaro (Giovanni, 11). Davanti alla morte anche Cristo soffre, la percepisce come un dramma; lui stesso, sentendola incombere su di sé, è travolto dall’angustia. Annota Marco: nel Getsemani, Gesù “cominciò a sentire paura e angoscia. Disse a Pietro, Giovanni e Giacomo: La mia anima è triste fino alla morte” (14, 33-34). E la sua implorazione è quella di ogni uomo che supplica di essere liberato dallo spettro della fine: “Abba’, Padre! Tutto è possibile a te, allontana da me questo calice!”; e l’evangelista ricorda: “pregava che, se fosse possibile, passasse via da lui quell’ora” (14, 35-36).
Quando, alla fine, la morte gli piomba addosso, essa ha i contorni di una vera e propria tragedia. La sofferenza fisica lo attanaglia brutalmente, gli amici lo lasciano solo e, su tutto, incombe il silenzio del Padre: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?”. Anzi, per Marco e Matteo, quella di Gesù è quasi una brutta morte: “Gesù, lanciando un forte grido, spirò… Gesù gridò di nuovo a gran voce ed emise lo spirito” (Marco, 15, 37; Matteo, 27, 50). Cristo rivela, in questo momento estremo, l’Incarnazione nella sua verità più lacerante: il Figlio di Dio, morendo, diventa veramente nostro fratello, perché la carta d’identità fondamentale di ogni figlio di Adamo reca sempre la data della morte, assente nella carta d’identità di Dio.
Eppure, anche in quell’istante e nei successivi, quando è un cadavere nelle mani ora crudeli dei soldati, ora pietose degli amici, Gesù non cessa di essere il Figlio di Dio. Ecco, allora, la radicale lettura cristiana della morte. Già appariva in quei tre incontri che sfociavano non su una risurrezione definitiva: la figlia di Giairo, il figlio della vedova e Lazzaro hanno, infatti, dovuto successivamente morire. Tuttavia, Cristo, facendo rivivere costoro temporaneamente, illustrava in maniera reale ed efficace il destino ultimo dell’umanità, la risurrezione, ossia la vita per sempre in Dio, il Vivente. La stessa redazione evangelica di quei miracoli di risurrezione tiene in filigrana quella di Cristo così da trasformarli in “segni” pasquali (esplicito è, al riguardo, Giovanni con la vicenda di Lazzaro). Questa luce avvolge in pienezza il morire di Cristo. Infatti, l’evangelista Luca all’abbandono del Padre, descritto da Matteo e Marco, sostituisce l’abbandono di Gesù al Padre: “Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito! Detto questo, spirò” (23, 46). E Giovanni, come è noto, presenta la morte in croce non più come il nadir dell’umanità di Gesù, bensì come lo zenit epifanico della sua divinità: “Quando avrete innalzato il Figlio dell’uomo, allora conoscerete che Io Sono” (8, 28) e non c’è bisogno di ricordare che “Io Sono” è l’autodefinizione divina del Sinai (Esodo, 3, 14).
Da un lato, Cristo col peso reale della sua umanità non minimizza né elide lo scandalo del morire, la sua dimensione di oscurità, il suo bagliore cupo di dolore. D’altro lato, però, la sua divinità, attraversando la regione tenebrosa della morte, la irradia con la luce della sua eternità. Il Venerdì Santo della crocifissione e il Sabato Santo della sepoltura, segni decisivi dell’Incarnazione, si aprono alla Domenica di Pasqua, che è – per usare una famosa frase del profeta Zaccaria – “un unico giorno, non avrà più né dì né notte, ma verso sera risplenderà di nuovo la luce” (14, 7), evidente metafora dell’eternità. Come scriveva suggestivamente in Resistenza e resa, il diario della sua “passione” nel lager nazista, Dietrich Bonhoeffer, “venire a capo del morire non significa ancora venire a capo della morte (…) Non è dall’ars moriendi, ma è dalla risurrezione di Cristo che può spirare nel mondo presente un nuovo vento purificatore”.
Un vento che san Paolo ha sentito soffiare così fortemente da farlo diventare non solo l’asse della sua cristologia, fin dal suo primo scritto che professa la “morte per noi” del Figlio di Dio (1 Tessalonicesi, 5, 10), ma anche dell’antropologia cristiana. Infatti, il passaggio reale di Cristo nella regione della morte trasforma il morire di tutti: egli “è morto per tutti, perché quelli che vivono (…) vivano per colui che è morto e risorto per loro” (2 Corinzi, 5, 15). In questa prospettiva la morte di Gesù è la liberazione della nostra prima e seconda morte, per usare il linguaggio dell’Apocalisse. Infatti, da un lato, “se siamo morti con Cristo, crediamo che anche vivremo con lui, sapendo che Cristo, risorto dai morti, non muore più (…) Egli morì una volta per tutte, ora vive e vive per Dio” (Romani, 6, 8-10). Egli, dunque, feconda il grembo della morte con la sua divina “rugiada luminosa”, volendo ricorrere a un’immagine isaiana (26, 19) e ci fa risorgere non a vita transitoria ma alla vita eterna di Dio.
D’altro lato, però, egli ci libera anche dalla “seconda morte, lo stagno di fuoco” (Apocalisse, 20, 14), ossia dalla morte spirituale del peccato: “Cristo morì per i nostri peccati (…) Voi consideratevi morti al peccato, e viventi per Dio, in Cristo Gesù” (1 Corinzi, 15, 3; Romani, 6, 11). Oltre alla risurrezione dalla morte fisica, Cristo ci dona la giustificazione che libera dalla morte spirituale. Potente e fin audace è la frase della Seconda Lettera ai Corinzi: “Colui che non aveva conosciuto peccato, Dio lo fece peccato in nostro favore, perché in lui noi potessimo diventare giustizia di Dio” (5, 21). Proprio per questo duplice effetto, l’evento pasquale – come si diceva – è capitale sia nella cristologia sia nell’antropologia cristiana. Paolo è, al riguardo, esplicito nella sua celebre asserzione: “Se Cristo non è risorto, vuota è la nostra predicazione, vuota anche la vostra fede” (1 Corinzi, 15, 14). Naturalmente la riflessione teologica paolina è molto più complessa, ma il cuore del suo pensiero batte proprio nella morte-risurrezione di Cristo come principio e sorgente della nostra morte-risurrezione integrale (fisica e morale) e il battesimo ne è l’efficace rappresentazione “sacramentale”.
Un’ultima nota attorno al tema della morte di Cristo. Quell’evento è certamente un’umiliazione estrema per un Dio. San Paolo, nel celebre inno incastonato nella Lettera ai Filippesi, parla di una “kenosi” (ekènosen), un termine che indica uno svuotamento: “pur essendo nella condizione di Dio…, svuotò se stesso, assumendo una condizione di servo…, umiliò se stesso facendosi obbediente fino alla morte e a una morte di croce” (2, 6-8). Ora, questa scelta di solidarietà nei confronti dell’umanità è espressione di amore. È così che nel Nuovo Testamento la croce di Cristo diventa un segno d’amore. Chi non ricorda l’emozionante avvio del racconto della passione di Gesù secondo Giovanni: “Sapendo che era venuta la sua ora di passare da questo mondo al Padre, avendo amato i suoi che erano nel mondo, li amò sino alla fine” (13, 1)?
Anzi, in quella donazione suprema si può intravedere l’amore del Padre: “Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non vada perduto, ma abbia la vita eterna” (3, 16). È un atto di amore libero e genuino, come osserva Paolo: “A stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi” (Romani, 5, 7-8). A questo punto scatta una lezione per il fedele, è la via dell’imitazione da seguire.
Il filosofo danese dell’Ottocento Soeren Kierkegaard, nel suo Esercizio del cristianesimo, scriveva: “Che differenza c’è tra un ammiratore e un imitatore? L’imitatore è, ossia vuole essere chi egli ammira; l’ammiratore, invece, loda l’altro ma rimane personalmente fuori”. Ebbene, san Giovanni, nella sua Prima Lettera, di fronte alla morte di Cristo per amore (il “dare la vita per la persona che si ama”, come aveva detto lo stesso Gesù) ci invita non tanto all’ammirazione ma all’imitazione: “In questo abbiamo conosciuto l’amore, nel fatto che Cristo ha dato la sua vita per noi. Allora, anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli” (3, 16).

(L’Osservatore Romano – 12-13 aprile 2010)

Publié dans:CAR. GIANFRANCO RAVASI, Cardinali |on 15 avril, 2015 |Pas de commentaires »

GERUSALEMME PATRIA DI TUTTI – « LECTIO » DEL SALMO 122, TRATTO DA: C.M. MARTINI

http://www.nostreradici.it/a_jerusalem.htm#meditatio

[TRATTO DA: CARLO MARIA MARTINI, LETTURA ECUMENICA DELLA PAROLA, 9-10 SETTEMBRE 1994,

GERUSALEMME PATRIA DI TUTTI, EDB, BOLOGNA 1995]

« LECTIO » DEL SALMO 122

[Testo del Salmo]
Nel testo ebraico questo salmo è intitolato Cantico delle ascensioni o delle ascesi, dei gradini, delle salite, un titolo che caratterizza ben quindici salmi (dal 120 al 134), detti pure I canti del pellegrinaggio, raccolti insieme per servire da cantici del pellegrinaggio a Gerusalemme.
Nella versione originale, il 122 è anche il primo dei quindici che viene attribuito a Davide, insieme ai due successivi (dei rimanenti uno è ascritto a Salomone mentre per gli altri non ci sono ipotesi). Certamente c’è un motivo per tale attribuzione, pur se non si ritiene che essa sia autentica e storica perché il salmo sarebbe stato composto più tardi, quando il pellegrinaggio a Gerusalemme era diventato un’abitudine.
In ogni caso, Davide è il fondatore della città e il Salmo 122 presuppone Davide come un personaggio: « Là ha sede il trono di giustizia, il trono di Davide » (v. 5). Probabilmente, parlando di Gerusalemme come città « costruita, salda e compatta », il salmista intende riferirsi alla città ricostruita dopo l’esilio, che diventa quindi il vanto e la gioia di Israele.
L’attribuzione del salmo a Davide è comunque fondata, perché esso testimonia un grande amore alla città costruita da Davide quale capitale del suo popolo.
Quali sono gli elementi costitutivi del salmo?
Anzitutto notiamo una inclusione, cioè una parola che ricorre all’inizio e alla fine: casa del Signore, dimora del Signore. « Andiamo alla dimora del Signore » (v. 1); « Per la casa del Signore » (v. 9).
È interessante osservare come poi non si parli più di questa casa, ma piuttosto della città: ciò significa che dapprima Gerusalemme è vista in particolare come luogo del tempio e poi anche come città nel suo insieme.
Un altro elemento fondante è la triplice menzione di Gerusalemme (vv. 2. 3. 6), descritta nelle sue porte, nelle sue mura, nei suoi baluardi. Appellata tre volte, delineata con tre caratteristiche e indicata con il pronome « tu »: « alle tue porte », « sia pace a chi ti ama ».
Altro elemento strutturale del salmo è che Gerusalemme è vista quale luogo di pace. Ben quattro le occorrenze di questo termine: « domandate pace per Gerusalemme », « sia pace a coloro che ti amano », « sia pace sulle tue mura », « su di te sia pace ». Il gioco di parole è evidente: « Gerusalemme » veniva interpretata quale « città dello shalom », della pace: sia pace alla città della pace, domandate pace per la città della pace.
Infine il salmo è caratterizzato anche da altre ripetizioni che gli imprimono un ritmo poetico, molto bello: le tribù, le tribù del Signore, i seggi di giustizia, i seggi della casa di Davide.
Vi cogliamo, pur se non possiamo penetrare a fondo il ritmo dell’originale, quell’affiato che ne fa un poema, un cantico, qualcosa che nasce dal cuore e, attraverso ritmi, ripetizioni, assonanze (sono tante nel testo ebraico) mette in luce un’anima innamorata di Gerusalemme.
Tenendo conto di questi elementi formali, cerchiamo di capire la struttura logica del salmo, facilmente suddivisibile secondo le tappe di un pellegrinaggio.
Un pellegrinaggio viene anzitutto deciso; immaginiamo che il salmo venga cantato da un gruppo di pellegrini che giungono alle porte della città. Essi devono fermarsi per sbrigare alcune pratiche burocratiche previste prima dell’ingresso; si riposano e contemplano la città. Contemplandola ripensano all’inizio del cammino, al momento in cui hanno deciso di partire; è il v. 1, « Quale gioia quando mi dissero: ‘Andremo alla casa del Signore »‘.
Dopo l’inizio, è immediatamente sottolineato l’arrivo: ora ci siamo, « i nostri piedi si fermano alle tue porte, Gerusalemme! » (v. 2).
Al v. 3 Gerusalemme viene contemplata dall’esterno, ammirata quale costruzione salda e compatta, in cui tutto è unità. È un riferimento alla città sul monte, che dà l’impressione di compattezza (sulla roccia), e insieme alla situazione spirituale della città, salda perché fondata sul Signore, unificata dallo Spirito di Dio.
Quindi, Gerusalemme è contemplata nelle sue caratteristiche e nel suo ruolo (w. 4-5). Si tratta di una riflessione a livello morale: meta di pellegrinaggio, luogo di culto, di lode, di testimonianza della gloria di Dio, centro amministrativo e politico: « I seggi del giudizio, i seggi della casa di Davide », casa a cui fu promessa la perpetuità. Dunque un centro religioso e un centro politico-amministrativo a cui si guarda con fiducia per i beni che ci attendono dalla responsabilità politica che ricade su Gerusalemme.
A questo punto segue la preghiera che può essere pensata a due cori, partendo dal v. 6: « Domandate pace per Gerusalemme ». Anzi, colui che ha espresso la sua gioia, magari il capo- pellegrinaggio, rivolge un invito ai compagni pellegrini: « Do- mandate… ». E all’invito risponde il coro: « sia pace a coloro che ti amano, sia pace sulle tue mura, sicurezza nei tuoi baluardi » (v. 7). Il capo, allora, riprende da solo: « Per i miei fratelli e i miei amici io dirò: ‘Su di te sia pace!’. Per la casa del Signore nostro Dio, chiederò per te il bene » (w. 8-9). Qui ritorna l’appellazione a Gerusalemme con il « tu », come a una persona amica che si incontra e cui si augura il bene, la pace.
Dunque, due cori, nel senso di un solista e di un gruppo.
Sul tempo in cui il salmo è stato scritto ho già accennato un’ipotesi: il tempo dopo l’esilio, quando il tempio è ricostruito e il popolo va in pellegrinaggio alla città santa, l’unico simbolo rimasto dell’unità di Israele.

« Meditatio »del Salmo 122
Per rileggere il messaggio, sono possibili diverse piste, diverse linee. Ne ho scelte tre: una lettura storico-esistenziale (messianica); una lettura più specificamente cristiana; e una terza personale, che riguarda ciascuno di noi.
Gli elementi di una lettura storico-esistenziale sono i grandi simboli del cammino umano contenuti nel salmo, che ne fanno una realtà di tutti i tempi, di tutti i luoghi, di tutte le culture.
Due sono i principali. n primo è il pellegrinaggio, menzionato non quale tema specifico, bensì nel suo decidersi, nel suo compiersi. È un grande simbolo del cammino umano, della vita dell’uomo e dell’umanità, della vita di tutti gli uomini e di tutte le donne considerati come collettività. n simbolo avverte: se la vita umana è colta come pellegrinaggio, allora essa non è un vagare senza scopo e neppure una fuga dal paradiso, priva di speranza; al contrario, è un camminare verso un termine. Questa è già un’apertura straordinaria per accogliere l’esistenza umana come una realtà che ha un senso preciso. E quando abbiamo riconosciuto che tale cammino ha un senso e una meta, scoppia la gioia: « Quale gioia… ».
Gerusalemme è l’altro simbolo, la meta stessa del cammino. Un simbolo universale perché si tratta di una città, di un luogo di incontro, un luogo di relazioni molteplici, dove i diversi si ritrovano. Quindi l’umanità non va verso una dispersione, una Babele confusa, ma verso un luogo nel quale tutti si incontreranno, si capiranno, intesseranno rapporti reciproci.
Questa città è salda, non delude. n tema della saldezza è il più ripreso dal Nuovo Testamento, che non cita esplicitamente il Salmo 122 però ne riprende il contenuto: andiamo verso una città salda, solida, ben costruita, compatta, dove tutto è unità. Questo è il termine del cammino umano. Ed è anche il luogo d’incontro armonioso e aperto con Dio, dove Dio è lodato e dove c’è ordine perché la legge è fatta osservare, dove c’è il trono di giustizia e ci sono i seggi del giudizio. L’umanità va verso un luogo dove la giustizia, quella di Dio, non la nostra, trionfa. Dove, soprattutto, l’umanità spera di vivere l’ideale della pace e della sicurezza: « Domandate pace per Gerusalemme, su di te sia pace e tranquillità nelle tue mura, sicurezza nelle tue case ».
L’umanità è così definita come colei che anela a una tale città, che va verso di essa e trova speranza nella fiducia di camminare e di essere condotta alla meta. Una visione quindi molto positiva, anzi propositiva perché ne derivano molte conseguenze per il modo di camminare dei popoli.
Da questa visione nasce pure una certa pazienza storica: a noi spetta di porre le premesse affinché si vada sempre meglio verso la città armoniosa, unita, capace di lodare l’Eterno, di vivere l’ordine della giustizia.
Una lettura cristiana ci fa subito pensare a Gesù che ha vissuto profondamente la gioia del Salmo 122. Già a dodici anni aveva esclamato: quale gioia ho provato ascoltando i miei genitori che mi dicevano: andiamo alla dimora del Signore! E probabilmente l’ha cantato alle porte di Gerusalemme quella prima volta e poi ogni volta, fino all’ultimo pellegrinaggio nel quale si avviava piangendo verso la città santa: « Oh, se tu riconoscessi ciò che giova alla tua pace! ». Anzi, nel testo greco il salmo usa l’espressione erofesafe de fa eis eirenen (v. 6) ripresa dal Nuovo Testamento: se tu riconoscessi le cose che riguardano la pace di Gerusalemme.
Dunque Gesù ha cantato questo salmo nella gioia e nella sofferenza sapendo che la sua sofferenza era parte del cammino di Gerusalemme e dell’umanità verso la pace.
Partendo dalla lettura che ne ha fatto Gesù, ci domandiamo se il Salmo 122 risuona anche negli scritti apostolici neotestamentari. Non mi sono venute alla mente citazioni specifiche, tuttavia il tema della città salda è molto presente.
Ef 2, 19-20, 22: « Voi non siete più stranieri ne ospiti, ma siete concittadini dei santi e familiari di Dio, edificati sopra il fondamento degli apostoli e dei profeti [...] In Gesù ogni costruzione cresce bene ordinata per essere tempio santo del signore; in lui anche voi insieme con gli altri venite edificati per diventare dimora di Dio ».
Questo tema è penetrato fortemente nello spirito di Paolo, che ne fa un simbolo interpretativo della crescita della comunità cristiana, che è la realtà che viene edificata come la città del salmo.
L’aspetto di pellegrinaggio verso tale città è però presente in particolare in Eb 11 e in Eb 12: Abramo ha potuto partire e lasciare tutto in quanto « aspettava la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso » (11, 10); « Chi dice così, dimostra di essere alla ricerca di una patria » (11, 14), pellegrino sulla terra; « Se avessero pensato a quella da cui erano usciti, avrebbero avuto possibilità di ritornarvi; ora invece essi aspirano a una migliore, cioè a quella celeste. Per questo Dio non disdegna di chiamarsi loro Dio: ha preparato infatti per loro una città » (11, 15-16).
E ancora: « Vi siete accostati alla città del Dio vivente, alla Gerusalemme celeste » (12, 22), ecco la menzione diretta. Alla città che fa parte delle cose incrollabili: « Rimangono le cose che sono incrollabili. Perciò riceviamo in eredità un regno incrollabile » (12, 27-28).
Riassumendo il messaggio del salmo: l’uomo è in cammino, pellegrino verso una città salda, compatta, nella quale Dio è lodato, nella quale è la pienezza della pace, una città che non delude e per cui vale la pena abbandonare le altre città.
Nella spiritualità del Nuovo Testamento è penetrato inoltre il pensiero delle moltitudini, di tutte le tribù della terra. Le moltitudini salgono ora verso tale città, e tutte sono chiamate « moltitudini del Signore ».
Così, la lettura cristiana diventa lettura ecclesiale; la chiesa non è la meta, la grande città, ma è un popolo in marcia verso quella città.
Se Israele testimonia « là » la tua gloria, Signore, se « là » ha sede il trono di giustizia, i nostri interessi sono veramente là? È il « là » di questa città verso cui camminiamo il nostro criterio di giudizio storico? Perché, se è così, allora tutte le altre realtà sono relative, tutti gli eventi (storici, sociali, politici, culturali, ecclesiali) vanno valutati tanto quanto rispondono a un cammino verso la città compatta, pacifica, giusta, oppure rallentano o fanno deviare il cammino.
Quindi il cristiano, interrogato sulle sue speranze, dovrebbe rispondere spontaneamente: le mie speranze sono la Gerusalemme celeste, sono là le mie speranze. È i « là » della pienezza dell’azione di Dio nel suo popolo, nell’umanità.
La lettura più personale del salmo dà spazio a tante riflessioni.
Pensiamo ai pellegrinaggi che ciascuno di noi ha fatto a Gerusalemme e nei quali probabilmente ha cantato, evocato, recitato il Salmo 122 allorché ha visto le mura della città. Nella preghiera potremmo ringraziare il Signore per le esperienze che ci ha donato nei nostri pellegrinaggi, per quanto ci ha fatto capire su Gerusalemme. Ogni volta che ne rivediamo le mura, proviamo una fortissima emozione. E se non siamo mai stati a Gerusalemme, come immaginiamo il pellegrinaggio verso la città santa, come lo viviamo nella preghiera?
« Andiamo con gioia! » è parola che esprime la tensione verso il pellegrinaggio, equivale a dire: sapevo che sarebbe venuto questo momento e penso a ciò che da sempre ho desiderato.

Conclusione
In quale modo la Gerusalemme di oggi partecipa, nel suo destino doloroso e tragico, alle benedizioni di Dio, alla promessa di pace?
Partecipa anzitutto attraverso la nostra instancabile preghiera per la sua pace, le nostre preghiere per la città reale e simbolica che conosciamo, di cui tocchiamo le mura: Sia pace sulle tue mura!

Ci domandiamo se e come operiamo per la pace di Gerusalemme, la cui pace è simbolo, segno, radice e causa della pace di tante altre città.
Il Salmo 122 ci impegna dunque a pregare e a operare per la pace nella giustizia.

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