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UN MONDO DI GRAZIA – LETTURE DAL MIDRASH SUI SALMI MIDRASH TEHILLIM

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UN MONDO DI GRAZIA – LETTURE DAL MIDRASH SUI SALMI MIDRASH TEHILLIM

1. Un mondo di grazia

Il Salterio è stato giustamente definito un « microcosmo »: letterario, teologico, poetico, liturgico, simbolico, e altro ancora (1). Ma la definizione più esatta, più pregnante, dovrebbe essere: un « microcosmo di grazia ». « Grazia », in ebraico chesed, è infatti la parola-chiave del libro dei Salmi. Delle 245 attestazioni complessive del termine, nella Bibbia ebraica, più della metà (127) si registrano nel Salterio. Se ci volgiamo poi al derivato chasid (« grazioso », « benevolo », ma io traduco anche « santo ») le ricorrenze salmiche sono addirittura 25 su 32. Perciò, per tentare di delineare una teologia dei Salmi, sarebbe sufficiente mettere a fuoco questo concetto basilare, perché è quello che meglio di ogni altro esprime e riassume il rapporto uomo-Dio nel Salterio.
Questo rapporto si fonda appunto sulla « grazia » o benevolenza divina nei confronti degli uomini. Come altri importanti termini ebraici a forte connota zio ne teologica, neppure chesed è di facile traduzione. lo rimango ancorato all’equivalenza tradizionale (il latino gratia), benché i moderni preferiscano magari altre soluzioni, e il Dizionario Teologico dell’Antico Testamento curato da Jenni e Westermann proponga, ad esempio, « bontà ». Più importante che stabilire equivalenze, tutte più o meno inadeguate, è cercare di afferrare il concetto, quale emerge dall’uso del termine nei vari contesti.
Kathleen Sakenfeld, una studiosa americana che ha dedicato a questo termine un’intera monografia (2), arriva grosso modo alle seguenti conclusioni (che riassumo): la chesed è un atto a favore di qualcuno da parte di un altro che ha un’ autorità superiore, il quale può avere una responsabilità morale per compiere tale atto, ma non una responsabilità legale, sicché rimane pur sempre libero di non compierlo.
Va sottolineata la clausola « non una responsabilità legale », perché la Sakenfeld dimostra che il termine chesed non si applica esclusivamente a rapporti giuridici, comportanti diritti e doveri reciproci, come quelli tra marito e moglie, genitori e figli, sovrano e sudditi: è chesed qualunque gesto di benevolenza da parte di chi è in grado di fare un favore a un altro che si trova nel bisogno.
È chesed, per esempio, la benevolenza reciproca, sigillata da un patto, che si usano Gionata e David: dapprima Gionata usa clemenza verso David, aiutandolo a sfuggire la morte, e poi David promette » grazia » alla casa di Gionata, una volta che avrà conseguito il regno (cf. 1Sam 20,8-16). La benevolenza è usata, reciprocamente e alternativamente, da chi si trova in situazione di forza: perciò è un « patto », ma un patto amichevole, non un vincolo necessario, un legame di tipo giuridico. Vi è dunque responsabilità morale, e non legale: proprio questo tipo di responsabilità morale è la chesed. Altrove, David dice: « Voglio usare (lett.: ‘fare’) benevolenza a Chanun figlio di Nachash, come suo padre ha usato (lett.: ‘fatto’) benevolenza con me » (2Sam 10,2). Vuol dire che gli restituisce un favore, a cui però non è obbligato: in termini strettamente giuridici, egli potrebbe benissimo esimersi dal farlo.
Avendo già citato per due volte David, è il caso di aggiungere che, all’infuori del Salterio, il luogo in cui ricorre più spesso il termine chesed è precisamente la sua storia, narrata nei due libri di Samuele. Si direbbe che la chesed sia proprio l’invenzione di David, e che egli si possa definire un genio della grazia. Nel corso della sua vicenda umana, vissuta a lungo in condizioni di inferiorità, egli l’ha anzitutto sperimentata dagli altri e da Dio. Divenuto re, l’ha usata verso gli altri con la stessa divina prodigalità.
Questa divina prodigalità, questa graziosa generosità, si riflette in tutto il Salterio davidico. Ogni volta che David si rivolge a Dio fa sempre appello, implicitamente, ma spesso anche esplicitamente, alla sua grazia: « Pietà di me, o Dio, secondo la tua grazia » (Sal 51,3). Il midrash fa l’esempio di un malato che va’ dal medico senza avere i soldi per pagargli la prestazione: può solo fare appello alla sua benevolenza, alla sua « responsabilità morale » (nr. 18).
Un altro salmo afferma: « Una parola ha detto Dio, due ne ho udite: a Dio appartiene la forza e tua, Signore, è la grazia » (Sal 62, 12). Il midrash che riporto su questo versetto si sofferma soprattutto nel dire che il Santo, sia benedetto, non usa il metro degli uomini per giudicare (nr. 20). Ma un altro midrash sullo stesso passo, ancora più noto e importante (sfortunatamente assente però dalla raccolta cui mi sono rigorosamente attenuto, cioè il Midrash Tehillim) sostiene che « forza » e « grazia » sono una sola cosa in Dio: diventano due solamente per noi, cioè secondo il nostro metro umano, le nostre scale di valori che esaltano la forza e deprimono la grazia.
La grazia, o « gratuità », come atteggiamento esistenziale, viene chiamata, con parola post-biblica, chasidut: è il modo di essere dei chasidim. Ho già dichiarato la mia preferenza per « santo », quando devo tradurre chasid, perché trovo insoddisfacenti le rese correnti con « pio » o « devoto », ma talora uso anche « benevolo », nel senso attivo di « caritatevole », cioè qualcuno che usa grazia, che fa misericordia (nr. 29). Così è colui che ha cura del debole, secondo le parole del Sal 41 (nr. 15). E il midrash sul Sal 118,20 (« Questa è la porta del Signore: per essa entrino i giusti ») ricorda singolarmente la scena del giudizio finale descritta da Matteo: nel regno sono ammessi solamente coloro che avranno fatto grazia agli affamati, agli assetati, agli ignudi (nr. 41).
Si edifica così, attraverso le pagine dei Salmi, con materiale prezioso, perla dopo perla, quello che possiamo veramente definire un « mondo di grazia ». L’espressione deriva alla lettera dal Sal 89,3 secondo il testo masoretico, che su questo punto si discosta sensibilmente da qualsiasi versione, antica o moderna. E molto probabile, a dire il vero, che il testo ebraico di questo salmo sia in cattivo stato: per il solo v. 3, l’edizione stuttgartense propone non meno di sei correzioni. Resta, comunque, che il testo ebraico è leggibile anche così com’è, e soprattutto dà un senso estremamente suggestivo: « Giacché ho detto: un mondo di grazia sarà edificato » .
Solitamente si interpreta qualcosa come: « la mia grazia sarà edificata per sempre », ma ciò suppone tutta una serie di correzioni, e soprattutto l’inversione chesed ‘olam, « grazia per sempre », in luogo di ‘olam chesed, « mondo di grazia ». Va notato, infatti, che il termine ‘olam ha sia il valore temporale di « eternità », sia quello spaziale di « mondo » (comunissimo in ebraico rabbinico, ma forse reperibile anche in quello biblico), e il midrash gioca costantemente su questa ambivalenza semantica. Un’espressione tipica del Salterio: hodu la-Adonaj ki tov ki le-’olam chasdo, può essere interpretata: « Rendete grazie al Signore perché è buono, perchéeterna è la sua misericordia »; ma anche: « perché la sua grazia è per il mondo » (da vari esempi, alcuni dei quali inclusi nella presente antologia, mi sembra che sia proprio quest’ultimo il sensus locutionis nel Midrash Tehillim).
Si tratta davvero, dunque, di edificare un « mondo di grazia », vale a dire un mondo edificato sulla grazia, un mondo che ha la sua pietra di fondazione nella grazia: tale almeno è il progetto divino (ki amarti: « Giacché ho detto » oppure « ho pensato »). Secondo il comune insegnamento rabbinico, il primo mondo è stato creato attraverso una miscela di giustizia e di misericordia, avendo Dio capito fin dal principio che, se avesse impiegato solo la giustizia, avrebbe dovuto distruggerlo subito dopo. Ma il nuovo mondo sarà un mondo di grazia. Che cosa significa? Il salmo prosegue dicendo: « Nei cieli hai stabilito la tua fedeltà ». E a tutti noi suona familiare (non fosse altro che dal prologo di Giovanni) 1′endiadi biblica « grazia e fedeltà » (chesed wa-emet), ovverosia « grazia fedele ». La prima creazione era fondata su « giustizia e misericordia », la nuova creazione su « grazia e fedeltà », cioè sulla grazia fedele di Dio, come fedeli sono state le grazie che egli ha accordato a David (Is 55,3). Accanto a questa, si può fare anche un’ altra osservazione: essendovi una cosi precisa corrispondenza tra grazia e fedeltà, ed essendo quest’ultima stabilita nei cieli (cioè una prerogativa divina), vuol dire che un « mondo di grazia » sarà appunto conforme alla « grazia fedele » che ha luogo nei cieli.
Con la grazia tutta rabbinica di dire cose grandi in parole povere, il midrash paragona il trono della gloria (stabilito, secondo Is 16,5, sulla grazia e sulla fedeltà) a una sedia zoppicante perché aveva una gamba più corta delle altre. Con che cosa la si rialza? Con un sassolino! Tale è la grazia: sassolino, realtà infinitesima, che però fa stare in equilibrio il mondo. Sassolino dopo sassolino, ogni chasid apportando il suo, si costruirà finalmente un mondo fondato sulla grazia.
Ma non si deve parlare soltanto di un ‘olam chesed, si può, anzi si deve parlare anche di una chesed ‘olam, di una grazia che rimane « per sempre ». Se è vero che la chesed divina è gratuita, non motivata giuridicamente, ma frutto di un atto puramente benevolo, è altrettanto vero che essa è « fedele », cioè duratura. Non è « da sempre », poiché essa trova inizio in un gesto, in un dono gratuito, in una libera chiamata; ma una volta compiuto quest’atto iniziale, essa rimane « per sempre » e non è più cancellabile neppure dal peccato, neppure dalle sue contraddizioni umane. E proprio questo il senso da dare alle « grazie fedeli » di David, che sono tali da estendersi anche ai suoi figli dopo di lui (vedi 2Sam 7, vedi Sal 89), mentre in Saul, che pure aveva ricevuto l’unzione come David, la grazia del regno non è stata « fedele », non è stata cioè permanente.
« Rendete grazie al Signore perché è buono, perché la sua grazia è per sempre » è il ritornello forse più comune di tutto il Salterio. Il midrash non fa che esplicitare, molto semplicemente, la portata di questo versetto: « Che cosa significa che ‘la sua grazia è per sempre’? Che il Santo, benedetto sia, non fa grazia a Israele per un anno o due, ma per sempre ». Estensione nel senso della durata, ma anche in senso quantitativo: le grazie che il Signore ha riservato a Israele sono infatti senza limite (nr. 40).
Come afferma, tra gli altri, il Sal 106,2, le grazie del Signore sono inenarrabili o innumerevoli (qui c’è un gioco di parole sul verbo le-sapper, che può significare entrambe le cose). Innumerevoli non in senso piattamente aritmetico, come se noi fossimo solo incapaci di tenerne il conto. Ma innumerevoli soprattutto perché noi non siamo neppure capaci di individuarle, di realizzare che esse si stanno producendo in nostro favore, di rendercene conto. Il versetto 4 del grande hallel (Sal 136): « A colui che opera grandi prodigi da solo, perché la sua grazia è per sempre », viene perciò ricondotto a questo senso: « lui solo sa » quanti sono i prodigi che opera per noi. Noi il più delle volte semplicemente li ignoriamo (nr. 37).
Grazia di Dio per sempre, e grazia di Dio per tutti. Certo il Signore è buono anzitutto « verso Israele », ciò che midrashicamente però vuole dire « verso i puri di cuore » (nr. 26). La sua grazia non è ingiusta, rimane fedele alle sue scelte. Cionondimeno, essa si riversa su tutti gli uomini che si prestano a riceverla, anche – come afferma il Sal 68,19 – « sui ribelli ». Questo difficile versetto è traducibile, grosso modo, cosi:

Salito in alto hai catturato prigionieri,
hai preso doni per gli uomini e anche per i ribelli
perché in essi dimori il Signore Dio.

Il midrash lo applica al dono della Torà, a Mosè che sale sul monte, che prende doni – appunto il dono della Torà – destinati agli uomini. Ma non solo agli uomini pii e giusti: « anche per i ribelli ». Anche i ribelli possono essere resi giusti, se accolgono il dono di Dio, il quale è fatto proprio per questo: « perché in essi dimori il Signore Dio » (nr. 24).
Parafrasando un noto theologumenon rabbinico, richiamato in questa stessa raccolta (nr. 31), potremmo forse concludere dicendo che « la grazia è il luogo del mondo, e non il mondo il luogo della grazia ». Entrambe le affermazioni, di per se stesse, sono vere, ma la seconda viene paradossalmente negata solo per far risaltare la prima come ancora più vera, come una verità ancora più profonda. E vero che il mondo nel quale viviamo è dimora, ricettacolo della grazia divina. Ma è ancora più vero che questa stessa grazia divina è il luogo dove consiste, dove si fonda, dove riposa il nostro mondo. Se noi affermassimo soltanto che « il mondo è il luogo della grazia », noi metteremmo ancora al centro il mondo, cioè in fondo noi stessi, con le nostre capacità di accoglienza del dono della grazia. Conviene dire, piuttosto, che « la grazia è il luogo del mondo »: la grazia di Dio è ciò che ci fa sussistere, ciò che ci previene sempre, ciò che, in definitiva, suscita in noi la stessa capacità di accoglierla e di aderirvi cordialmente, liberamente. Non è il mondo che pone in atto la grazia, ma è la grazia che pone in atto il mondo: perciò possiamo parlare di un « mondo di grazia ».

Publié dans:ebraismo, EBRAISMO: STUDI |on 23 avril, 2019 |Pas de commentaires »

IL CAMMINO DELL’UOMO – RITORNO A SE STESSI – Martin Buber

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IL CAMMINO DELL’UOMO – RITORNO A SE STESSI – Martin Buber

Rabbi Shneur Zalman, il Rav della Russia, era stato calunniato presso le autorità da uno dei capi dei mitnagghedim, che condannavano la sua dottrina e la sua condotta, ed era stato incarcerato a Pietroburgo. Un giorno, mentre attendeva di comparire davanti al tribunale, il comandante delle guardie entrò nella sua cella. Di fronte al volto fiero e immobile del Rav che, assorto, non lo aveva notato subito, quest’uomo si fece pensieroso e intuì la qualità umana del prigioniero. Si mise a conversare con lui e non esitò ad affrontare le questioni più varie che si era sempre posto leggendo la Scrittura. Alla fine chiese: « Come bisogna interpretare che Dio Onnisciente dica ad Adamo: «Dove sei?». « Credete voi – rispose il Rav – che la Scrittura è eterna e che abbraccia tutti i tempi, tutte le generazioni e tutti gli individui? ». « Sì, lo credo », disse. « Ebbene – riprese lo zaddik – in ogni tempo Dio interpella ogni uomo: ‘Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?’. Dio dice per esempio: ‘Ecco, sono già quarantasei anni che sei in vita. Dove ti trovi?’ ».
All’udire il numero esatto dei suoi anni, il comandante si controllò a stento, posò la mano sulla spalla del Rav ed esclamò: « Bravo! »; ma il cuore gli tremava.
Qual è il senso di questa storia?
A prima vista ci ricorda quei racconti talmudici in cui un romano o un altro pagano consulta un saggio ebreo a proposito di un passo della Bibbia per mettere in luce una pretesa contraddizione nell’insegnamento di Israele, e riceve una risposta che dimostra l’assenza di contraddizione o che confuta la critica in altro modo, con l’aggiunta a volte di un ammonimento a carattere personale.
Ma non tardiamo a notare una differenza significativa tra i racconti del Talmud e questo chassidico, anche se questa differenza appare all’inizio più importante di quanto sia in realtà. La risposta infatti viene data su un piano diverso da quello in cui è stata formulata la domanda.
Il comandante cerca di smascherare una pretesa contraddizione nelle credenze ebraiche: nel Dio in cui credono, gli ebrei vedono l’Essere onnisciente, ma la Bibbia gli attribuisce domande analoghe a quelle che farebbe chiunque ignori una cosa e voglia apprenderla. Dio cerca Adamo che si è nascosto, fa risuonare la sua voce nel giardino e chiede dov’è; ciò significa che non lo sa, che è possibile nascondersi da lui: dunque Dio non è l’onnisciente.
Ma, invece di spiegare il passo biblico e risolvere l’apparente contraddizione, il Rabbi se ne serve solo come punto di partenza, utilizzandone il contenuto per rivolgere al comandante un rimprovero per la vita da lui condotta fino a quel momento, per la sua mancanza di serietà, la sua superficialità e l’assenza di senso di responsabilità nella sua anima. La domanda oggettiva – che, in fondo, per quanto qui sia posta senza secondi fini, non è però una domanda autentica bensì una semplice forma di controversia – riceve una risposta personale; anzi, invece di una risposta, ne risulta un ammonimento a carattere personale. Di queste repliche talmudiche non è rimasto apparentemente altro che l’ammonimento che a volte le accompagnava.
Ciò nonostante, esaminiamo il racconto più da vicino. Il comandante chiede chiarimenti sul brano del racconto biblico che riguarda il peccato di Adamo. La risposta del Rabbi mira a questo, a dirgli: « Adamo sei tu. E a te che Dio si rivolge chiedendoti: ‘Dove sei?’ ». Apparentemente non gli ha fornito nessun chiarimento sul significato del brano biblico in quanto tale. Ma in realtà la risposta illumina sia la situazione di Adamo nel momento in cui Dio lo interpella, sia la situazione di ogni uomo in ogni tempo e in ogni luogo. Infatti, non appena si renderà conto che la domanda biblica è indirizzata a lui personalmente, il comandante prenderà necessariamente coscienza della portata dell’interrogativo posto da Dio: « Dove sei? », sia esso rivolto ad Adamo o a chiunque altro. Ogni volta che Dio pone una domanda di questo genere non è perché l’uomo gli faccia conoscere qualcosa che lui ancora ignora: vuole invece provocare nell’uomo una reazione suscitabile per l’appunto solo attraverso una simile domanda, a condizione che questa colpisca al cuore l’uomo e che l’uomo da essa si lasci colpire al cuore.
Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento « davanti al volto di Dio », l’uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità. Si crea in tal modo una nuova situazione che, di giorno in giorno e di nascondimento in nascondimento, diventa sempre più problematica. È una situazione caratterizzabile con estrema precisione: l’uomo non può sfuggire all’occhio di Dio ma, cercando di nascondersi a lui, si nasconde a se stesso. Anche dentro di sé conserva certo qualcosa che lo cerca, ma a questo qualcosa rende sempre più, difficile il trovarlo. Ed è proprio in questa situazione che lo coglie la domanda di Dio: vuole turbare l’uomo, distruggere il suo congegno di nascondimento, fargli vedere dove lo ha condotto una strada sbagliata, far nascere in lui un ardente desiderio di venirne fuori.
A questo punto tutto dipende dal fatto che l’uomo si ponga o no la domanda. Indubbiamente, quando questa domanda giungerà all’orecchio, a chiunque « il cuore tremerà », proprio come al comandante del racconto. Ma il congegno gli permette ugualmente di restare padrone anche di questa emozione del cuore. La voce infatti non giunge durante una tempesta che mette in pericolo la vita dell’uomo; è « la voce di un silenzio simile a un soffio », ed è facile soffocarla. Finché questo avviene, la vita dell’uomo non può diventare cammino. Per quanto ampio sia il successo e il godimento di un uomo, per quanto vasto sia il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita resta priva di un cammino finché egli non affronta la voce. Adamo affronta la voce, riconosce di essere in trappola e confessa: « Mi sono nascosto ». Qui inizia il cammino dell’uomo.
Il ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell’uomo l’inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano. Ma è decisivo, appunto, solo se conduce al cammino: esiste infatti anche un ritorno a se stessi sterile, che porta solo al tormento, alla disperazione e a ulteriori trappole. Quando il Rabbi di Gher arrivò, nell’interpretazione della Scrittura, alle parole rivolte da Giacobbe al suo servo – « Quando ti incontrerà Esaù, mio fratello, e ti domanderà: ‘Tu, di chi sei? Dove vai? Di chi è il gregge che ti precede?’ » – disse ai suoi discepoli: « Osservate come le domande di Esaù assomiglino a questa massima dei nostri saggi: ‘Considera tre cose: sappi da dove vieni, dove vai e davanti a chi dovrai un giorno rendere conto’. Prestate molta attenzione, perché chi considera queste tre cose deve sottoporre se stesso a un serio esame: che in lui non sia Esaù a porre le domande. Anche Esaù infatti può porre domande su queste tre cose, sprofondando l’uomo nell’afflizione ».
Esiste una domanda demoniaca, una falsa domanda che scimmiotta la domanda di Dio, la domanda della verità. La si riconosce dal fatto che non si ferma al « Dove sei? » ma prosegue: « Nessun cammino può farti uscire dal vicolo cieco in cui ti sei smarrito ». Esiste un ritorno perverso a se stessi che, invece di provocare l’uomo al ravvedimento e metterlo sul cammino, gli prospetta insperabile il ritorno e così lo inchioda in una realtà in cui ravvedersi appare assolutamente impossibile e in cui l’uomo riesce a continuare a vivere solo in virtù dell’orgoglio demoniaco, dell’orgoglio della perversione.

Publié dans:ebraismo, Ebraismo - Martin Buber |on 8 janvier, 2019 |Pas de commentaires »

L’UMANESIMO BIBLICO DI ABRAHAM JOSHUA HESCHEL

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L’UMANESIMO BIBLICO DI ABRAHAM JOSHUA HESCHEL

(molti studi ne metto uno)

2. Esperienza dell’ineffabile
Il punto di vista fenomenologico, appreso da Heschel nei suoi anni di studio a Berlino, parte dal dato elementare fondamentale «io sono». Un ‘dato’ che tuttavia non ha una propria autoevidenza; la posizione interrogativa conseguente, ‘chi sono? ‘ e ‘perché sono? ‘, dimostra che c’è una paradossale sproporzione tra la datità ontico-ontologica e l’autoconoscenza a cui non possiamo però rinunciare.8 L’affermazione ontologica prelude allo stupore, lo stupore d’esistere.9 Si potrebbe affermare che nell’uomo, il dato richiede l’interrogativo. La tonalità emotiva fondamentale non è né la Geworfenheit (deiezione, essere gettato), né l’Angst (angoscia), per utilizzare la terminologia di Heidegger, bensì piuttosto lo stupore che manifesta la dicotomia tra l’essere e la capacità di dire l’essere, che si meraviglia del suo stesso essere. Io sono, ma non sono in grado di esprimere chi sono e perché sono.10 Questo stupore apre l’uomo al mistero e lo rende insoddisfatto di qualsiasi risposta che pretenda di essere totalizzante e definitiva sul senso del suo esistere. Nel saggio citato «Il concetto di uomo nel pensiero ebraico», Heschel inizia con questa affermazione: «Le nostre teorie svaniranno, e una dopo l’altra ci getteranno polvere negli occhi, a meno che non osiamo affrontare non solo il mondo, ma anche l’anima e iniziare a stupirci della nostra mancanza di stupore di fronte al fatto di essere vivi, stupirci di dare la vita per scontata».11 L’esercizio dell’esistenza non è un’anonima ripetizione di atti, bensì una ‘pretesa di significato’ e per Heschel ciò significa che «la coscienza è dedizione a un disegno».12
Esiste una radice metafisica dello stupore, e qui il termine ‘metafisica’ assume una valenza che trascende le critiche portate a questo concetto dalla modernità, una radice che fenomenologicamente appartiene all’umano nella sua struttura essenziale. Lo stupore nasce dal senso dell’ineffabile. Quest’ultimo non è semplicemente l’espressione della negatività e del limite, ma paradosso di un soggetto che nella sua finitezza non può non aprirsi all’infinito intravisto nell’essere e nella propria esistenza. Mancanza di stupore e assenza del senso dell’ineffabile sono quindi drammaticamente correlati e ben esprimono una delle caratteristiche dell’uomo occidentale contemporaneo, la sua natura prometeica che, come dice il nome dell’eroe greco,13 è caratterizzata da un sapere preveggente. Stupirsi significa riconoscere che non tutto ciò che è, è dicibile e, tuttavia, non siamo condannati al silenzio sterile dell’ignoranza, piuttosto al silenzio fecondo della contemplazione del mistero.14 L’ineffabile ha trovato molti interpreti, tra i più interessanti nella nostra prospettiva possiamo ricordare almeno Kant, Wittgenstein, Jaspers, per citare autori la cui ispirazione non è immediatamente legata al contesto biblico. Il senso dell’ineffabile è il senso dell’infinito, della totalità del senso, misura dell’incommensurabile.
Dell’ineffabile, per definizione, non c’è conoscenza, ma possiamo farne esperienza; anzi costituisce la condizione stessa della possibilità dell’esperienza. Il piano dell’esperienza è più ampio di quello della ragione e della conoscenza. Sperimentare l’ineffabile, non significa ricondurre a concetto o a nome ciò che non ha nome, a parola ciò che non può essere detto; piuttosto significa attingere una dimensione originaria, un’ottica che permette di vedere altrimenti il mondo. Non più soltanto mondo di cose conoscibili, ma anche orizzonte di eventi al di là delle cose. Scrive Heschel: «Divenire consapevole dell’ineffabile vuol dire entrare in urto con le parole. L’essenza, la tangente alla curva dell’esperienza umana, è al di là dei confini del linguaggio. Il mondo delle cose che percepiamo altro non è che un velo. Il suo fluire è musica, il suo ornamento è scienza, ma ciò che vi si cela è imperscrutabile. Il suo silenzio rimane intatto: nessuna parola riesce a cancellarlo».15
Si diceva sopra che lo stupore nasce dal senso dell’ineffabile. Quest’espressione nella visione di Heschel va presa alla lettera. Se stupirsi appartiene in maniera essenziale all’uomo, ciò significa che «Il senso dell’ineffabile non è una capacità esoterica, ma una facoltà di cui tutti gli uomini sono dotati; è una qualità potenzialmente comune a tutti, come la vista o la capacità di formulare sillogismi. Infatti, come l’uomo è dotato della capacità di conoscere determinati aspetti della realtà, così è dotato della capacità di sapere che nella realtà esiste più di quanto egli sappia. La sua mente si interessa all’ineffabile e a ciò che è esprimibile, e la consapevolezza del suo stupore radicale è universalmente valida quanto il principio di contraddizione o quello di ragion sufficiente». [...] «Il senso dell’ineffabile percepisce qualcosa di oggettivo che non si lascia concepire dalla mente o captare dall’immaginazione o dal sentimento, qualcosa di reale che, per la sua stessa natura, trascende la portata del pensiero e del sentimento».16 Tutto ciò significa che «l’ineffabile è concepibile, nonostante che sia inconoscibile».17
Ho sopra ricordato Kant, Wittgenstein e Jaspers, si può aggiungere Levinas e la sua proposta filosofica imperniata sull’idea dell’infinito ripresa da Descartes, ma tutto ciò che cosa ha a che fare con la prospettiva biblica, se è ancora questo l’obiettivo della nostra breve analisi? La lettura hescheliana dell’ineffabile, a mio avviso, apre delle prospettive particolarmente interessanti per l’autocomprensione dell’uomo ed è qui che si intreccia con l’ottica biblica. A differenza di gran parte della filosofia occidentale, in particolare moderna, Dio non è né il grande assente, né la presenza ingombrante che sovrasta e nega l’autonomia dell’uomo. Heschel intorno all’ineffabile presenta un ‘intrico’ in cui Dio e uomo si annodano con forza liberante e creativa. «La nostra consapevolezza di Dio è una sintassi del silenzio, in cui l’anima si mescola al divino, in cui l’ineffabile che è in noi si unisce all’ineffabile che è al di là di noi. [...] Nel regno dell’ineffabile Dio non è un’ipotesi derivata da presupposti logici, ma un’intuizione immediata, evidente di per sé come la luce. Egli non è qualcosa che si debba cercare al buio col lume della ragione. Al cospetto dell’ineffabile Egli è la luce».18
L’esperienza dell’ineffabile oltrepassa la sfera teoretica e diventa carne di un’esperienza esistenziale radicale in cui si dischiude un significato che trasfigura l’esistenza stessa. La trasfigurazione consiste nel riconoscimento, che è però rovesciamento, che ‘essere è obbedire’. «Essere — scrive Heschel — è obbedire al comandamento della creazione. Nell’essere è in gioco la parola di Dio. Vi è una religiosità cosmica nel mero essere. Ciò che esiste rimane come risposta a un comando. » [...] «La mia esistenza infatti non è frutto della mia volontà di esistere. Essere è obbedienza, è una risposta: ‘Tu sei’ viene prima di ‘io sono’. Io sono perché sono chiamato ad essere».19
Una costante del pensiero ebraico nella molteplicità delle sue espressioni è quella di vedere nella creazione dell’uomo un evento qualitativamente diverso rispetto agli altri enti, nella fenomenologia dell’esperienza dell’ineffabile si annuncia questa differenza. La capacità dell’esperienza dell’ineffabile è il fenomeno della sua spiritualità, a sua volta, differenza qualitativa nell’essere. La narrazione biblica della creazione dell’uomo è, in primis, un racconto su Dio, perché Egli ne è il paradigma.

 

Publié dans:ebraismo, EBRAISMO A.J. HESCHEL |on 6 mars, 2017 |Pas de commentaires »

MISTERO DEL NOME DI DIO

http://www.nostreradici.it/nome.htm

MISTERO DEL NOME DI DIO

Nell’ebraismo, chiamare qualcuno per nome significa conoscere la realtà del suo essere più profondo, la sua vocazione, la sua missione, il suo destino. È come tenere la sua anima nella propria mano, avere potere su di lui. Per questa ragione, il Nome di Dio, che indica la sua essenza stessa, è considerato impronunciabile dagli ebrei. Solo il Sommo sacerdote, nel Tempio di Gerusalemme, poteva pronunciarlo nel giorno di Kippur (espiazione), quando faceva la triplice confessione dei peccati per sé, per i sacerdoti e per la comunità. A questo riguardo il Talmud dice: « Quando i sacerdoti e il popolo che stavano nell’atrio, udivano il nome glorioso e venerato pronunciato liberamente dalla bocca del Sommo Sacerdote in santità e purezza, piegavano le ginocchia e si prostravano e cadevano sulla loro faccia ed esclamavano: Benedetto il suo Nome glorioso e sovrano per sempre in eterno » (Jomà, VI,2).

Nella Bibbia ebraica il Nome è espresso con quattro consonanti: MISTERO DEL NOME DI DIO dans ebraismo tetragraz1- JHWH, dette « Tetragramma sacro », citato ben 6.828 volte. Ma la sua esatta vocalizzazione è oggi sconosciuta. E’ bene ricordare che nell’alfabeto ebraico le vocali furono aggiunte in epoca molto tarda (VI-VIII sec. d. C.).

Quando nella Bibbia l’ebreo di allora e di oggi trova quelle famose quattro lettere che cosa legge? La risposta ce la offrono quei rabbini noti come Masoreti (« i tradizionali »), ai quali dobbiamo la vocalizzazione del testo consonantico della Bibbia durante l’alto Medioevo. Essi posero sotto le quattro consonanti JHWH le vocali della parola Adonai, « Signore », che essi pronunciano al posto del tetragramma sacro.

Le vocali sono: e – o – a, e servivano a ricordare al lettore che, giunto a tetragraz1 dans EBRAISMO: STUDI , doveva dire Adonai. Nel tardo Medioevo i cristiani non essendo più a conoscenza di questo meccanismo di sostituzione lessero le quattro lettere JHWH con le vocali e – o – a, creando così quello sgorbio che è Jehowah o Geova che è durato fino ai nostri giorni » (Mons. Gianfranco Ravasi « Jesus »6/1990).

Ancor più diffuso tutt’oggi tra i cristiani è purtroppo l’uso di « Jahwè » che non solo è offensivo per gli ebrei, ma è anche del tutto arbitrario, visto che non se ne conosce la pronuncia.

Il Catechismo degli Adulti della Conferenza Episcopale Italiana: « La Verità vi farà liberi » così si esprime circa il Nome di Dio: « La tradizione ebraica considera questo nome impronunciabile e suggerisce di dire in suo luogo « Adonai », cioè « Signore » o di pronunciare un altro titolo divino. Per rispetto ai nostri fratelli ebrei questo catechismo invita a fare altrettanto e in ogni caso riduce all’indispensabile l’uso del tetragramma sacro » (48,6).

Se questo invito della CEI venisse accolto nelle nostre comunità cristiane, anche certi canti che ripetono all’infinito il Nome di Dio, verrebbero rivisti e corretti. Purtroppo, però, il tetragramma sacro viene ancora troppo spesso vocalizzato da certi sacerdoti, catechisti e da una parte della stampa religiosa.

v.s.

Publié dans:ebraismo, EBRAISMO: STUDI |on 13 janvier, 2016 |Pas de commentaires »

IL BAAL SHEM TOV, TRA VITA, ESTASI E LEGGENDA – Di: Rav Alberto Moshe Somekh

http://www.mosaico-cem.it/articoli/cultura/il-baal-shem-tov-tra-vita-estasi-e-leggenda

IL BAAL SHEM TOV, TRA VITA, ESTASI E LEGGENDA

Di: Rav Alberto Moshe Somekh

10/07/2014, Milano

Un secolo creativo. Indubbiamente, il Settecento europeo seppe esprimere anche nel mondo ebraico la sua straordinaria carica innovativa. Come? Con il chassidismo. Di questo movimento “di risveglio”, come lo definisce Gershon Scholem, “che rappresenta tuttora una forza effettiva per migliaia e migliaia di ebrei”, si ha spesso un’immagine parziale. In realtà “gli scritti dei Chassidim presentavano un pensiero più originale di quello dei loro avversari razionalisti – i Maskilim- e… la rinata cultura ebraica poteva ricevere più di un efficace stimolo dall’eredità del chassidismo”. Alle origini del movimento si collocano due fenomeni: uno che possiamo definire storico-sociale, l’altro spirituale. Se fino alla metà del Seicento gli Ebrei in Polonia e nelle terre limitrofe godevano di un relativo benessere che aveva permesso una certa fioritura degli studi, le stragi dei cosacchi di Chmielnicki, nel 1648, capovolsero la situazione. I massacri antisemiti provocarono la morte di decine di migliaia di Ebrei e ne misero in serio pericolo le condizioni economiche. Soggetti ad una forte pressione fiscale, gli Ebrei abbandonarono le città, trovandosi non di rado a vendersi come servi ai proprietari terrieri al cui servizio si erano messi come contadini. L’antisemitismo cresceva sotto la spinta della Chiesa, che sovente reiterava nei loro confronti la secolare accusa di omicidio rituale e faceva bruciare il Talmud nelle piazze. Se la Lituania non fu praticamente toccata dalla crisi e riuscì a mantenere la sua superiorità culturale, le province della Volinia e della Podolia risentirono profondamente dei mutamenti politici ed economici in atto.

All’abbattimento morale e spirituale dell’ebraismo polacco fece eco il fallimento del movimento messianico sabbatiano. Shabbetay Tzvì, nato a Smirne nel 1626, dopo essersi più volte proclamato Messia, fu imprigionato dal Sultano nel 1666 e per sfuggire alla condanna a morte preferì convertirsi all’Islam. Fu allora che il suo discepolo Natan di Gaza diede forza al movimento, interpretando l’apostasia del maestro come un segno positivo. La dottrina si diffuse anche in Polonia ed avrebbe avuto forza attraverso la predicazione di Jacob Frank (1726-1791), fondatore di una setta di ispirazione sabbatiana. Non è chiaro se e quali rapporti diretti abbia effettivamente avuto il primo chassidismo con gli esponenti del sabbatianesimo. Anche se quest’ultimo fu condannato dai Chassidim, cionondimeno alcuni aspetti della dottrina chassidica originaria potrebbero avere capovolto, come vedremo, un ascendente sabbatiano.

Si attribuisce la nascita del movimento chassidico alla figura semileggendaria di R. Israel ben Eli’ezer Ba’al Shem Tov (acronimo: Be.sh.t., 1700-1760 ca.). Narrare la sua vicenda biografica è tutt’altro che semplice, dal momento che non è sempre agevole distiguere, nelle fonti che lo riguardano, fra la realtà e le numerose leggende (raccolte nei Shivchè ha-Be.sh.t, “lodi del Be.sh.t”), con cui i suoi discendenti e discepoli hanno alimentato il mito della sua personalità carismatica. Nato in Podolia da genitori anziani e poveri e rimasto presto orfano, inizialmente si guadagnò da vivere come insegnante elementare nel cheder. A quattordici anni incontrò il figlio di un certo rav Adam, che lo iniziò allo studio della Qabbalah. Sull’identità di questo personaggio ci sono svariate ipotesi: secondo alcuni si trattava di un cripto-sabbatiano. A vent’anni, Israel si sposta nella città di Brody, il cui Rabbino, Abraham Kitower, attratto dalla sua emergente personalità, gli concede in sposa sua figlia. Inizialmente il matrimonio fu osteggiato dall’altro figlio di rav Kitower, Ghershon, preoccupato dalle oscure origini del cognato: ma successivamente, proprio Ghershon sarebbe diventato uno dei suoi principali sostenitori. Ritiratosi sui Carpazi, visse sette anni scavando l’argilla che la moglie rivendeva in città. Il giorno del suo 36° compleanno gli venne rivelato dal cielo che era giunto per lui il momento di rivelarsi al mondo. Cominciò così a girare per la Podolia, operando guarigioni ed esorcisimi come erano soliti fare i Ba’alè Shem (lett. “detentori del Nome Divino”) dell’epoca, facendo uso di cognizioni di Qabbalah pratica ma soprattutto, nel suo caso, della preghiera. Si stabilì a Mesebitz, dove in pochi anni radunò intorno a sé un gran numero di discepoli, che formarono il centro del chassidismo nascente. Il primo elemento che distinse subito il Chassidismo rispetto ad altri movimenti mistici fu il suo carattere “di massa” e non limitato a pochi iniziati. Peraltro, il Chassidismo non elaborò una forma di pensiero né un linguaggio originale. Esso si basava sull’interpretazione della Qabbalah che ne aveva dato R. I. Luria e in particolare sulla teoria dello tzimtzum (lett. “contrazione”) e della shevirat kelim (lett. “rottura dei recipienti o vasi”). La Divinità o Eyn Sof (lett. “infinito”) si sarebbe “contratto” per lasciare spazio al mondo creato. A sua volta la creazione sarebbe avvenuta per stadi, il primo dei quali coincise con la emanazione da parte della Divinità stessa di dieci canali di luce, le Sefirot. Ma i “recipienti” destinati a contenerle non avrebbero retto la forza della luce e si sarebbero rotti, provocando una dispersione della luce Divina nel mondo. Da allora, il Male e il Bene sono mescolati. Compito degli ebrei è andare alla ricerca di queste nitzotzot (lett. “scintille”) di luce e separarle dalle qelippot (lett. “bucce”), distillando il Bene in modo che il Male non abbia più ragion d’essere. La novità del pensiero chassidico consiste nell’aver introdotto in tutto ciò il concetto di elevazione. Il Male va sublimato ed elevato, piuttosto che separato. In che modo? Sebbene non sia vero che lo studio della Torah fosse negletto dai Chassidim ed essi insistessero sul fatto che l’Ebreo deve adempiere i precetti della Torah, la preghiera assume in questa dottrina certamente un’importanza preponderante. Ma lungi dall’essere un’esperienza di raccoglimento, si trattò invece di “movimento”. I Chassidim delle origini si distinguevano per il modo talvolta scomposto con cui pregavano, suscitando non di rado l’opposizione dei tradizionalisti. Anche la danza poteva essere per i Chassidim uno strumento di elevazione. La preghiera perseguita mediante la giusta kawwanah (lett. “intenzione, concentrazione”) “permette di raggiungere quell’annullamento del proprio essere che è condizione indispensabile per poter vedere Dio oltre il velo delle realtà create”. Servire la Divinità con sentimenti di gioia (hitlahavùt) è un’altra caratteristica del Chassidismo (e dell’Ebraismo), rispetto ad altri movimenti mistici. R. Israel ammonisce i suoi discepoli ad evitare “i troppi digiuni, che contribuiscono alla melancolia e alla tristezza”. Lo scopo di tutto è raggiungere la deveqùt, l’“adesione” al Divino. L’uomo deve perseguire questa finalità in ogni esperienza della vita e non solo mentre è intento ad eseguire un precetto, perché “allorché la persona tratta delle sue necessità materiali e il suo pensiero aderisce al Divino, sarà benedetta”. L’altro elemento che distingue il Chassidismo dalla Qabbalah luriana è la dottrina dello Tzaddiq (lett. “giusto”). Ci sono personalità le cui caratteristiche spirituali si distinguono da quelle degli uomini comuni. Gli Tzaddiqim hanno un livello superiore di deveqùt che consente loro di elevare fino a Dio le preghiere e le intenzioni dei loro discepoli, promuovendone la Teshuvah (lett. “ritorno a Dio”). Ma per far ciò lo Tzaddiq deve in prima persona confrontarsi con il Male, sprofondare in esso (mediante il solo pensiero!), per realizzare completamente il tiqqùn (lett. “riparazione”). Qui c’è la differenza rispetto al sabbatianesimo, in cui l’atto di abiura del cosiddetto Messia era stato percepito come necessario al processo di redenzione. Nel Chassidismo, viceversa, il processo di discesa non implica alcun distacco dalla sorgente Divina: al contrario, se lo Tzaddiq vuole risollevarsi dal profondo e risollevare i trasgressori con sé, deve saper preservare costantemente la propria deveqùt. Allorché ci si allontana da Dio, l’amore di un altro essere umano verso di noi sarà la nostra salvezza. Un giorno un padre si lamentava in presenza del Ba’al Shem Tov: “Mio figlio si è sviato da Dio; cosa debbo fare?” Gli rispose: “Amarlo di più!”

Publié dans:ebraismo, EBRAISMO - CHASSIDISMO |on 3 novembre, 2015 |Pas de commentaires »

YOM KIPPÙR IL GIORNO DELL’ESPIAZIONE (NEL 2015 IL 23 SETTEMBRE) – RICCARDO DI SEGNI,

http://w2.vatican.va/content/osservatore-romano/it/comments/2008/documents/235q01b1.html

ALLA VIGILIA DEL KIPPÙR IL GIORNO DELL’ESPIAZIONE (NEL 2015 IL 23 SETTEMBRE)

DI RICCARDO DI SEGNI, RABBINO CAPO DI ROMA

Nel calendario liturgico ebraico il giorno dell’Espiazione – Kippùr o Yom Kippùr o Yom haKippurìm – è il più importante dell’anno; in aramaico è yomà, « il giorno » per eccellenza che dà il titolo al trattato della Mishnà che ne espone le regole. « Il giorno » cade il 10 di Tishri, primo mese autunnale, quest’anno corrispondente alla sera dell’8 e al giorno del 9 ottobre 2008.
Di questo giorno parla in più occasioni la Bibbia e la fonte principale è il capitolo 16 del Levitico. Qui si descrive un complesso ordine cerimoniale affidato al Gran Sacerdote, che deve scegliere estraendo a sorte tra due capretti; uno, dedicato al Signore, viene offerto in sacrificio; l’altro riceve con un gesto simbolico il carico delle colpe di tutta la collettività e viene quindi inviato a morire nel deserto. Di qui l’espressione e il concetto di « capro espiatorio ». Lo stesso brano biblico si conclude spiegando che in quel giorno è d’obbligo affliggere la propria persona e non lavorare, perché « in questo giorno espierà per voi purificandovi da tutte le vostre colpe, vi purificherete davanti al Signore » (versetto 30).
Dai tempi della sua istituzione biblica Kippùr è il giorno dell’anno in cui le colpe vengono cancellate e il destino futuro di ogni uomo viene stabilito, dopo il giudizio cui è stato sottoposto nei giorni precedenti del Capodanno. La tradizione rabbinica si è dilungata a spiegare quali colpe possano essere cancellate del tutto o in parte, o sospese, in base alla loro gravità. La forza espiatrice del Kippùr si misura con l’obbligo principale dell’uomo nei giorni che lo precedono: la tesciuvà; letteralmente è il « ritorno » ed è il termine con il quale si indica il pentimento, nel senso di ritorno alla retta via. Questo ritorno comporta la consapevolezza di avere sbagliato, l’intenzione di non commettere nuovamente l’errore, la confessione pubblica e collettiva. Tutto questo si basa necessariamente sulla fede in un Dio misericordioso e clemente che viene incontro a chi ha sbagliato. In ogni caso la cancellazione delle colpe si riferisce a quelle commesse nei rapporti dell’uomo con il Signore; le colpe tra uomini vengono cancellate solo dagli uomini. Per questi motivi la vigilia del Kippùr è dovere per ognuno andare a chiedere scusa alle persone che sono state da lui offese.
Per tutto il periodo di esistenza del Tempio di Gerusalemme le cerimonie del giorno di Kippùr rappresentavano il complesso liturgico più complesso e solenne. Solo in quel giorno era consentito al Gran Sacerdote accedere al Santo dei Santi. Il rispetto dei dettagli prescritti era essenziale, richiedeva una preparazione prolungata e minuziosa, e un’esecuzione attenta su cui vigilava con ansia l’intera collettività raccolta nel Tempio. Di tutto questo dopo la distruzione del Tempio è rimasto solo il ricordo nostalgico, che nella liturgia del Kippùr avviene con la lettura, al mattino, del brano del Levitico e nel primo pomeriggio con una lunga evocazione poetica del cerimoniale.
La liturgia sinagogale tocca in questo giorno il vertice dell’impegno; lunghe e solenni preghiere la sera d’inizio, e una seduta praticamente ininterrotta dal mattino successivo fino al comparire delle stelle. Sono momenti speciali quelli della lettura di brani di suppliche, la lettura al mattino di Isaia 57, che descrive come vero digiuno la pratica della giustizia, e al pomeriggio il libro di Giona, che è una grandiosa rappresentazione della misericordia divina. La presenza del pubblico nelle sinagoghe raggiunge il massimo annuale in questo giorno, specialmente nei momenti più solenni di apertura e chiusura.
Essenziale nel Kippùr è il coinvolgimento personale, soprattutto con un digiuno totale senza bere né mangiare per circa 25 ore – dal quale sono esenti i malati – insieme ad altre forme di astensione (lavarsi, usare creme profumate, indossare scarpe di cuoio, evitare i rapporti sessuali). Poi c’è la dimensione familiare e sociale, nei pasti che precedono e seguono il digiuno e nelle riunioni delle famiglie in Sinagoga per ricevere la benedizione sacerdotale, impartita dai Cohanim, i discendenti di Aharon.
Malgrado l’austerità, la solennità e le forme imposte di afflizione fisica il Kippùr è vissuto collettivamente con serenità e gioia nella consapevolezza che comunque non verrà meno la misericordia divina.
A conclusione di queste brevi note esplicative, considerando la sede autorevole e certamente non abituale dove vengono pubblicate, può essere interessante proporre una riflessione sul senso che il Kippùr ha avuto, e può avere oggi, nel confronto ebraico-cristiano. Questo perché nella formazione del calendario liturgico cristiano le origini ebraiche hanno avuto un ruolo decisivo, come modello da riprendere e trasformare con nuovi significati: il giorno di riposo settimanale passato dal sabato alla domenica, la Pasqua e la Pentecoste. In alcuni casi la Chiesa ha persino festeggiato il ricordo dell’osservanza di precetti biblici tipicamente ebraici (la festa della Purificazione del 2 febbraio; un tempo l’1 gennaio quella della Circoncisione). Ma l’intero ciclo autunnale, di cui Kippùr è il giorno più importante, è come se fosse stato cancellato. Probabilmente ciò è dovuto al fatto che i simboli del Kippùr riguardano alcune differenze inconciliabili tra i due mondi. I temi del gran sacerdozio, del Tempio, del sacrificio, del capro espiatorio, della cancellazione delle colpe che nella tradizione ebraica si unificano nel Kippùr sono stati rielaborati dalla Chiesa, ma fuori dall’unità originaria. Semplificando le posizioni contrapposte: un cristiano, in base ai principi della sua fede, non ha più bisogno del Kippùr, così come un ebreo che ha il Kippùr non ha bisogno della salvezza dal peccato proposta dalla fede cristiana.

( L’Osservatore Romano, 8 ottobre 2008)

Publié dans:ebraismo, Ebraismo : feste, Rabbino Di Segni |on 22 septembre, 2015 |Pas de commentaires »

TACERE IL NOME. TRE STUDI SULLA TRADIZIONE EBRAICA CIRCA IL DIVIETO DI NOMINARE IL NOME DI DIO

http://mondodomani.org/reportata/ciucci01.htm

TACERE IL NOME. TRE STUDI SULLA TRADIZIONE EBRAICA CIRCA IL DIVIETO DI NOMINARE IL NOME DI DIO

di Andrea Ciucci (28 febbraio 2013)

Da sempre la riflessione ebraica mette a tema la questione del Nome di Dio. A commento dei diversi riferimenti biblici si è infatti sviluppato un vero e proprio capitolo su questo tema all’interno della tradizione talmudica, sfociato poi in quello che potrebbe essere definita l’epoca d’oro del Nome di Dio: la Qabbalah.
Tale filone di pensiero è stato ripreso dalla riflessione ebraica contemporanea e posto in dialogo con le istanze filosofiche coeve, mostrando una sorprendente fecondità. In questo studio se ne vedranno tre esempi dalle opere di Levinas, Scholem e Di Cesare.
La questione del Nome di Dio è estremamente complessa, non solo per la lunga storia che la connota, ma ancor prima per la definizione stessa dell’oggetto. La Torah contiene infatti molti nomi divini, alcuni evidenti e altri nascosti, alcuni comuni e altri propri; ci sono i Nomi mistici e quelli impronunciabili, infine c’è il Tetragramma, normalmente definito il Nome proprio di Dio, la «radice di tutti gli altri Nomi».1 Il pensiero cabbalistico va però oltre e definisce l’intera «Torah come Nome omnicomprensivo di Dio»2. Su questo articolato sfondo si innesta la ricchissima riflessione sul significato dei diversi Nomi, «che sono più che idee [...] e che si celano dietro le parole»;3 nomi da meditare, da calcolare, da scrivere con una minuziosa ritualità; nomi in cui sprofondare per riconoscere l’origine di tutte le lingue, il punto focale del linguaggio, e così evitare la tentazione della magia. Dentro questo complesso costrutto concettuale un posto di particolare rilievo occupa il divieto di pronunciare il Nome di Dio. Tacere il Nome diventa uno degli atti più carichi di senso dell’esperienza ebraica, molto lontana da una certa interpretazione moralistica di matrice cattolica che ha ridotto il divieto di pronunciare il Nome di Dio a una rigorosa norma anti-bestemmia.

1. Un silenzio carico di responsabilità. Le lezioni talmudiche di Emmanuel Levinas
Emmauel Levinas ha affrontato la questione del Nome di Dio in diversi studi dedicati al Talmud e riuniti nella seconda parte della raccolta di saggi ‘Al di là del versetto’, intitolata ‘Teologie’.
A partire dall’articolata e complessa comprensione del tema del Nome di Dio è possibile raccogliere le riflessioni svolte da Levinas in quei saggi intorno al tema del silenzio che gli è dovuto intorno a tre forme con cui questo ‘non dire’ si attua nella prassi talmudica: questo Nome è impronunciabile, impensabile, cancellabile.
1.1. Un Nome impronunciabile
Il Nome di Dio anzitutto non può essere pronunciato. Non può mai essere pronunciato il Tetragramma (tranne che dal sommo sacerdote il giorno del Grande perdono nel santo dei Santi del tempio, e quindi mai nel giudaismo talmudico) e non deve essere ‘pronunciato invano’ (Dt 5, 11) il nome con cui viene chiamato il Tetragramma: Adonai.
Il divieto a pronunciare il Nome è però accompagnato da due comandi che sembrano andare in direzione contraria:
· Ogni benedizione deve contenere un invocazione a Dio nella seconda persona a cui deve seguire il Tetragramma. «Nessuna benedizione senza invocazione del Tetragramma, come Signore (trattato Berakhot 12a) ».4 Il Nome di Dio non può essere pronunciato se non in forma mediata e comunque assai raramente, ma non può non essere presente e invocato in alcuni momenti significativi della vita del popolo e delle persone .
· Il trattato Shebuot (35 a) dedicato ai nomi di Dio, insegna anzitutto che «copiando i nomi di Dio non si deve mai, con nessun pretesto, cancellarli».5 Non solo non si può non scrivere questo Nome ma guai a cancellarlo, anche solo per errore, o a lasciarlo incompleto.
In questo duplice comando emerge tutta la condizione paradossale della realtà del Nome di Dio secondo Israele: esso è impronunciabile perché Dio è totalmente santo e assolutamente unico (e per questo assolutamente diverso da ogni altra realtà umana a tal punto da non poter essere espresso mediante un sostantivo generico) insieme però è presenza sempre attuale e incancellabile. Il Nome si rivela in alcune lettere, in una forma grafica quasi necessaria, che non può però essere letta come è scritta.
Nell’impronunciabilità del Nome di Dio è possibile, secondo Levinas, riarticolare la questione che il trattato Nefesh Ha’Chaim esprime nel rapporto tra ‘Dio dal lato nostro’ e ‘Dio dal lato suo’.
Il Nome di Dio è scritto in lettere umane (‘dal lato nostro’) insieme però, proprio in quanto indicibile, «il Tetragramma significa quel che l’uomo non può né definire né porre, né pensare né finanche nominare»6: ‘Dio dal lato suo’.
La questione, sottolinea Levinas, non è da collocare nell’ambito di una speculazione filosofica fondata da un onto-teologia, bensì sempre entro l’orizzonte dell’esperienza religiosa di Israele: Dio è sempre enunciato come Dio del popolo; è associato a un mondo e insieme gli è totalmente estraneo perché assolutamente uno. Nella dialettica posta da un nome scritto che non può essere pronunciato si dispiega la possibilità di un «pensare l’Assoluto che non attinge l’Assoluto».7
La pratica religiosa (la preghiera e lo studio della Torah anzitutto) diventano così «precisamente il luogo originario»8 di questa esperienza.
Una sintesi significativa di questa dialettica si mostra, secondo Levinas, nel gesto della benedizione:
«La formula «il Santo sia benedetto» con la quale dio è pienamente designato riunisce l’idea della separazione inclusa nel termine ‘Santo’ e quella dell’unione ai mondi impliciti nella nozione di benedizione.»9
L’indicazione di tale luogo peculiare (una benedizione) induce Levinas a pensare che non ci si trovi davanti a un caso alquanto raffinato di teologia negativa, ma a qualcosa di diverso, illuminato dalle altre due modalità in cui il silenzio sul Nome di Dio può e deve realizzarsi.
1.2. Un nome impensabile
Levinas nota che il trattato Nefesh Ha’Chaim, nel tentativo di rendere ragione di ‘Dio dal lato suo’, afferma che neanche la forma assolutamente impronunciabile del Tetragramma è comunque adeguata perché infedele, «Nome impronunciabile ma nome».10
L’autore del trattato introduce a questo punto al nozione di ‘Es-Sof’: un nome che in realtà non è un nome, da tradursi con ‘senza-fine’.
«L’essenza dell’En-Sof è dissimulata più di ogni altro segreto e non deve essere nominata con nessun nome, neanche con quello del Tetragramma, neanche con il pezzo della più piccola lettera».11
Il silenzio che deve segnare il Nome di Dio raggiunge qui il massimo grado: non solo non può essere pronunciato ma neanche pensato. Riferendosi alla realtà dell’En-Sof, Levinas infatti così si interroga: «La parola pensare è qui al suo posto? »12
L’En-Sof costituisce per Levinas il vertice e l’abisso dell’esperienza religiosa, un silenzio che Dio stesso si impone circondandosi dell’oscurità dell’impensabilità, fino all’idea limite dello Zimzum. Con questa parola la Qabbalah definisce la contrazione che Dio opera
«prima della creazione per far posto, a fianco a sé, all’altro da sé. [...] L’infinito si circonda di oscurità. Proibisce di scrutarlo, al fine di lasciare un posto alla verità dell’associazione dell’Infinito e dei mondi».13
Dio tace e impone il silenzio su di sé affinché l’uomo sia e possa entrare in relazione con Lui.
1.3. Un Nome cancellabile
La terza ed ultima modalità con cui si realizza il silenzio sul Nome di Dio è quello della cancellazione.
Levinas nota che anche il divieto di cancellare il Nome ha delle eccezioni, anzi talvolta esso è scritto per essere cancellato. Nei trattati Sotà e Sukkah sono previsti infatti due casi in cui, in contesti celebrativi, il Nome di Dio viene cancellato nell’acqua. In entrambi i casi si tratta di due eventi di riconciliazione e di pace: il primo fa riferimento alla pacificazione fra moglie e marito, il secondo allarga il caso a una riconciliazione cosmica.
Il silenzio sul Nome di Dio, l’affermazione assoluta dell’alterità e della santità di Dio è per la riconciliazione:
«La sua Santità e la santità che essa suggerisce stanno precisamente a significare la costituzione di una società umana in stato di obbligazione. [...] L’elezione [di Israele] significa un surplus di doveri, conformemente alla formula di Amos (3, 2): ‘Voi soli io ho distinto tra tutte le famiglie della terra, per questo vi chiedo conto di tutte le vostre colpe’»14
Anche qui la «riflessione rabbinica su Dio non si separa mai dalla riflessione sulla pratica».15
Il silenzio è per l’etica: «la cancellazione di Dio equivale positivamente all’obbligo di realizzare la pace del mondo».16
Il volto umano e l’appello che esso porta con sé diventa lo spazio della più vera e piena rivelazione di Dio. Il linguaggio si pone al servizio della relazione e diventa pieno di responsabilità.

2. Un silenzio tra scrittura e oralità. Le indagini cabbalistiche di Gershom Scholem
All’interno della complessa analisi del tema del Nome di Dio nella Qabbalah svolte da Gershom Scholem nella sua opera «Il Nome di Dio e la teoria cabbalistica del linguaggio» (1970) e nelle sue «Dieci tesi astoriche sulla Qabbalah» (1938), più volte emerge la questione del divieto di pronunciare il Nome di Dio. Le ragioni di questo silenzio possono essere espresse intorno a cinque punti fondamentali.
2.1. Un silenzio per evitare la tentazione della magia
Sulla scorta della riflessione di Benno Jacob, Scholem inizia a rilevare che, a differenza della pratica religiosa coeva all’esperienza di Israele dove la parola assume un ruolo quasi sacramentale, nella religione israelitica «il silenzio è così assoluto che può essere interpretato solo come intenzionale».17 Tale intenzione non delimitata al solo Nome di Dio ma diffusa in ogni atto sacerdotale ebraico esprime la precisa volontà di evitare ogni rischio di pratica magica connessa all’uso della parola. La Bibbia ebraica «non ha un concetto magico del Nome di Dio»18 e il divieto di pronunciarlo si pone a tutela di questo possibile rischio, condannato in tutta la Scrittura e nel giudaismo successivo, fino ad Abulafia che «respinge con assoluta fermezza ogni forma di magia e teurgia pratiche»19.
2.2. Un silenzio che si fonda sul tacere stesso di Dio
Scholem nota che, sempre secondo la riflessione del cabalista Abulafia, la pratica del silenzio in chiave antimagica non si riduce ad una semplice questione etica, bensì si fonda su un atto stesso di Dio. Neanche il Tetragramma sarebbe infatti il vero Nome originario di Dio, ma solo un espediente che lo nasconde poiché la Torah «aveva esitato a renderlo manifesto per non svelare alla massa, impreparata alle profonde verità della mistica, un segreto di cui poteva forse abusarne».20
Fondata sulla peculiarità delle lettere che compongono il Tetragramma (mater lectionis che in qualche modo rimandano ad altre lettere), tale teoria cabbalistica, giudicata per altro dallo stesso Scholem «oltremodo radicale»,21 arriva ad affermare che Dio stesso tace il suo Nome vero, non lo pronuncia e così facendo non si rivela pienamente per quello che è, affinché il suo popolo non cada nella tentazione idolatrica di un Nome da usare quale potente amuleto.
2.3. Un silenzio che impedisce l’oggettivazione della conoscenza prima
Di un rivelazione ‘opaca’ offerta dalla Torah, Scholem parla anche nelle «Dieci tesi astoriche sulla Qabbalah» poste in appendice al saggio sul nome di Dio nella Qabbalah.
Nella tesi 3, Scholem spiega tale opacità facendo riferimento alla dialettica tra rivelazione scritta (pura e splendente) e quella orale. L’impossibilità a pronunciare tutto il testo della Torah mostra l’impossibilità più radicale a uscire dalla Torah stessa, che risulta il medium insopprimibile di ogni rivelazione. Come recita la brevissima e fondamentale tesi 9:
«L’intero può essere tramandato solo in maniera occulta. Il Nome di Dio può essere richiamato ma non pronunciato. Poiché solo ciò che vi è in essa di frammentario fa sì che la lingua possa essere parlata. Non si può parlare la ‘vera’ lingua, così come non si può compiere un atto assolutamente concreto. »22
L’impronunciabilità del Nome di Dio riafferma, mediante un divieto pratico, «il carattere non oggettuale della conoscenza suprema».23 La Torah non può essere tutta pronunciata e così la rivelazione che essa offre nel testo scritto non può essere del tutto detta, posseduta. «Dio stesso è la Torah e la conoscenza non può uscirne».24
2.4. Un silenzio per preservare la totalità del senso
Nella dialettica tra testo scritto e uso orale, fondata sull’intuizione che «la scrittura precede il discorso, così che il linguaggio nasce dal farsi suono della scrittura»,25 si pone, secondo Scholem, anche la riflessione di un altro cabalista riscoperto solo recentemente: Giqatilla. Egli infatti afferma che il fatto che il testo sinagogale della Torah sia scritto solo con le consonanti e non riporti invece i segni vocalici che ne permettono la pronuncia non è motivato da una semplice tradizione. Gli infiniti strati di senso che la Rivelazione contiene
«verrebbero limitati da una scrittura vocalizzata [...] . La parola di Dio è gravida di infiniti sensi ma non ne possiede uno preciso. Priva in sé di significato, essa è l’assolutamente interpretabile. [...] Nel testo della Torah sono contenute tutte queste infinite possibilità di comprensione».26
Riprendendo il pensiero di Abulafia, Scholem conclude che i Nomi mistici di Dio presenti nella Torah non sono altro che gli elementi di senso ancora inespressi, che fanno del testo biblico un vero e proprio corpus mysticum.

2.5. Un silenzio che dischiude i tempi messianici
L’esperienza del linguaggio, intesa esattamente come il dar voce alla rivelazione del Nome di Dio che è la Torah, appare così chiaramente come un’esperienza storica, a tal punto che i cabbalisti ipotizzano una modalità angelica di leggere il testo sacro completamente diversa da quella umana.
Preservato dal rischio deturpante della magia, il Nome di Dio, impronunciabile nella storia umana, diventa però «la parola mirabile della speranza messianica».27
Sulla scorta delle riflessioni di Hermann Cohen, Scholem vede proprio nell’impronunciabilità del Nome di Dio, che può essere richiamato ma non proferito, il rivelarsi della promessa di un tempo in cui Dio convertirà «tutti i popoli a una lingua più pura, così che tutti insieme essi invocheranno il Nome di Dio».28
Il divieto di nominare il Nome di Dio non è eterno; il comando è posto per ricordare al popolo santo di Israele che ci sarà il tempo della ‘lingua pura’, della pienezza della rivelazione, della comunione tra tutti i popoli.

3. Un silenizio solo per questo tempo. La grammatica messianica di Donatella Di Cesare
Nel suo recentissimo testo intitolato ‘Grammatica dei tempi messianici’, Donatella Di Cesare utilizza la questione del Nome di Dio nella tradizione ebraica quale chiave interpretativa di una filosofia della storia che va dall’evento protologico della torre di Babele allo schiudersi della speranza messianica.
3.1. Due giustificazioni del silenzio sul nome di Dio
In una più ampia riflessione sul tema del Nome di Dio che si ispira in più punti ai testi di Levinas e di Sholem sopra considerati, la Di Cesare ricorda anzitutto la duplice motivazione classica posta a sostegno del divieto di pronunciare tale Nome.
Evitare il rischio dell’idolatria. La vicenda di Babele mostra l’uomo desideroso di darsi un nome da sostituire al Nome di Dio. Un nome per dire un’identità e quindi una possibilità, una potenza da esercitare.
«Il nome sembra costituire il culmine, l’idolo alla sommità della torre. Il nome è la forma estrema dell’idolatria, è l’idolatria come tale [...] . Vogliono un nome perché vogliono farsi un nome. Il nome serve per assicurarsi fama eterna, eternità.»29
L’impossibilità di pronunciare il Nome di Dio è anzitutto proibizione a trasformare Dio in un idolo, in una potenza da usare a proprio uso e consumo. Nessuno può collocare Dio sulla propria torre, sul proprio altare.
Evitare il rischio dell’oggettivazione. Alla radice dell’idolatria sta un rischio ancor più grande che consiste nel ridurre Dio a un oggetto. Per questo motivo:
«il divieto di leggere il Tetragramma come è scritto, e più in generale di pronunciarlo, indica l’impossibilità di afferrare, possedere, oggettivare il Nome di Dio. Altrimenti detto: vocalizzare il Tetragramma sarebbe come abbassare dio a semplice oggetto, un ente tra gli altri, seppur supremo. Proprio questo è vietato: dire e dunque pensare che Dio sia un ente determinabile, definibile, nominabile. »30
3.2. Impronunciabilità radicale
Il Nome di Dio, nota la Di Cesare, non è però impronunciabile solo per un divieto morale. Esso è impronunciabile radicalmente anzitutto in quanto il Tetragramma è l’unica parola della Torah a non essere stata vocalizzata: «il Tetragramma non ha vocali e dunque non è possibile pronunciarlo. Di più: non è permesso neppure tentare. È anzi assolutamente proibito».31
Questa radicale impossibilità è testimoniata, secondo la Di Cesare, anche dalla peculiarità delle lettere che compongono il Tetragramma32 e dall’«irriducibilità del Tetragramma a ogni traduzione»,33 connessa alla problematica trasposizione in altre lingue del significato del Nome espresso in Es 3, tentata da molti autori.
Questa impossibilità radicale apre però lo spazio ad altro: la lettura della Torah è costretta ad interrompersi davanti al Nome di Dio, ma mentre «la bocca tace, l’occhio fermandosi si solleva silenzioso verso l’oltre a cui le quattro lettere rinviano».34
Si schiude una dimensione altra, un tempo nuovo, diverso dal presente segnato da un linguaggio disgregato (frutto di Babele) e incapace di creare unità.
3.3. Il silenzio del presente
Lo sguardo orientato a un tempo nuovo è indirizzato dal significato stesso del Nome di Dio rivelato in Es 3 e riletto dalla tradizione rabbinica: un doppio futuro che la Di Cesare rende in italiano con ‘Sarò colui che sarò’.
Il rimando al futuro è dischiuso dalla rivelazione stessa di Dio, indisponibile — impronunciabile — all’uomo ma segno visibile dell’opera di Dio: «Interrogato sul proprio Nome, Dio risponde con un verbo, un futuro incompiuto».35
Il silenzio sul Nome Dio risulta così necessario perché «come è possibile chiamare, nominare, invocare un Dio che non c’è, dal momento che non si definisce per quel che è, bensì per quel che sarà? »36
Così il Tetragramma diventa «la possibilità di oltrepassare il tempo all’interno del tempo, di fare della memoria l’inizio della redenzione».37 Il futuro evocato nel Nome si rivela il tempo dell’agire di Dio, del suo svelarsi per quello che è veramente.
Il contenuto di questo tempo non può non essere allora indicato che da una profezia:
Ma allora muterò/farò alle nazioni un labbro chiaro
perché tutte invochino per Nome Y-H-W-H,
perché lo servano in unico accordo. (Sof 3, 9) 38.
Secondo la Di Cesare l’interpretazione talmudica di questo testo lo connette direttamente al racconto della torre di Babele. Seguendo Radaq, l’opera di Dio non è una semplice purificazione del cuore umano che lo rende abile a un culto messianico, ma la possibilità offerta all’uomo di pronunciare il vero Nome di Dio senza cadere nella tentazione idolatrica che Babele aveva evidenziato. «Labbro chiaro vuol dire che non parleranno di altri dei. »39
Così conclude la Di Cesare:
«La redenzione sarà l’inversione del tempo, la conversione del linguaggio, l’irruzione del Nome nella storia. [...] La fine sarà nel Nome. [...] Ogni creatura conoscerà e confesserà il suo Nome e solo il suo. [...] Soltanto allora, quando, invocato all’unisono, l’Unico Nome sarà il solo, sarà il tutto in-fine unito per divenire Uno. »40
Il silenzio che grava sul Nome di Dio è legato al tempo di Babele e insieme prefigura l’opera rigeneratrice di Dio.
Il Nome di Dio non è fatto per essere taciuto per sempre ma per essere ‘invocato’ all’unisono da ‘labbra chiare’.

4. Conclusione. L’oscuro tacito rivelarsi
In un breve quanto denso saggio di ripresa del pensiero di Heidegger riguardo la possibilità di un discorso su Dio post moderno, Giancarlo Penati definisce il silenzio come successivo e conseguente la Parola, un significante che si esprime nel tacere, «non come nulla, ma come assenza accennante alla presenza».41
La breve analisi condotta sul tema del silenzio nella riflessione ebraica contemporanea sul Nome di Dio mostra, con un’ampia articolazione, esattamente questo: la siepe del silenzio posta a salvaguardia del Nome di Dio non è semplicemente una proibizione dal contenuto negativo.
Il silenzio della tradizione ebraica è pratica positiva (e non una astensione), è la possibilità perché la Parola che esprime il Nome di Dio possa rivelare esattamente il suo contenuto senza tradirlo, possa custodire la sua potenza senza renderla inefficace.
Il silenzio diventa la forma concreta con cui, per utilizzare ancora le parole di Penati che riflette sul tema della verità in Heidegger, si manifesta «non soltanto la differenza ontologica, ma una permanente e ineliminabile distanza fra segni, parole, figure in e attraverso cui la verità dell’Essere (e quindi di Dio) si pre-senta, e l’origine di tale sempre mai totale e quindi sempre parzialmente oscuro-tacito rivelarsi».42
Nella pratica del silenzio, l’uomo può imparare la differenza, può smettere di definire-nominare Dio e disporsi così ad accogliere una rivelazione salvifica che lo libera dalle tentazioni dell’idolatria e della magia e che lo restituisce a una forma nuova di vita comune.
All’uomo è vietato nominare Dio affinché impari ad invocarlo.

Publié dans:ebraismo, EBRAISMO: STUDI |on 19 mai, 2015 |Pas de commentaires »

I DUE ALBERI DEL GIARDINO DI EDEN: L’ALBERO DELLA CONOSCENZA DEL BENE E DEL MALE E L’ALBERO DELLA VITA (RAV LUCIANO CARO)

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I DUE ALBERI DEL GIARDINO DI EDEN: L’ALBERO DELLA CONOSCENZA DEL BENE E DEL MALE E L’ALBERO DELLA VITA

(RAV LUCIANO CARO)

Voglio fare un approccio al testo biblico, come messaggio di origine divina indirizzato a tutti gli uomini che credono, ebrei o non ebrei. Vediamo cosa insegna questo messaggio all’uomo. Tutta la prima parte del libro della Genesi appartiene a quelle parti del testo biblico che sono le più pericolose; io li chiamo capitoli trappola. Dico questo nel senso che sono talmente interessanti e semplici nella loro esposizione, che possono portarci fuori strada; sembrano solo delle belle storielle (la creazione del mondo, il paradiso terrestre, l’arca di Noè, ecc.), che noi leggiamo con un certo sorriso di compiacimento, credendoci molto più avanti. Secondo me, invece, dietro questa esposizione così semplice, c’è un bagaglio di significati che molto spesso non riusciamo a vedere. Quando il testo ci dice che Dio creò il mondo in sei giorni, o che creò il cielo e la terra, non è vero, perché le cose non sono andate così, ma nessuno sa come sono andate in realtà. Dietro questo modo così elementare, apparentemente puerile della descrizione, ci sia una provocazione rivolta ad ognuno di noi, perché cerchiamo di approfondire e di capire il messaggio divino insito in quelle pagine.
Volevo anche sottolineare che la Genesi non è stata prodotta in un ambiente completamente vergine; cioè non è che Mosè un bel giorno ha detto: « Adesso scrivo la creazione, il diluvio, i patriarchi, ecc. », ma il testo è stato prodotto in un ambiente già saturo di miti, storie, leggende che circolavano. Di questi miti di ambiente mesopotamico, egiziano, numerico, ecc. lascia alcune cose così come si trovano, mentre altre le manipola, per cercare di presentarci un racconto dal quale noi possiamo cercare di ricavare un insegnamento, così come si fa con i bambini. Se voglio parlare di Dio a un bambino piccolo, non posso adoperare un linguaggio teologico, che non sarebbe in condizione di capire, ma devo utilizzare dei raccontini, che gli permettano di ricavare lui il significato. Così tutto quello che il testo biblico ci dice della creazione, è ripreso da miti più antichi, ma sono raccontati in modo tale da togliere dalla mente della gente determinati elementi negativi, per fare cogliere loro degli elementi positivi. Il racconto sulla creazione, ad es., a mio avviso vuole insegnarci che tutte quelle forze della natura, che anticamente erano divinizzate, non sono altro che il prodotto di una volontà superiore. Il mare, dunque, non è più il dio del mare, ma un qualcosa creato da qualcuno che è al di sopra; lo stesso per le piante e così via. Viene così insinuato in noi il concetto che tutto è nato da una volontà superiore imperscrutabile. La Torah non vuole insegnarci il come e il perché Dio abbia creato il mondo, ma vuole solo dirci che c’è un creatore che ha creato le forze della natura.
La cosa ha particolare significato per quanto attiene ai passi che dovremo considerare oggi. Il testo ci racconta che Dio, tra le cose che ha fatto, ha piantato un giardino in una località chiamata Eden; un giardino a oriente dell’Eden, nel quale ha collocato l’uomo, dandogli l’ordine di non mangiare un certo frutto. Si parla della mela, perché tutti i pittori di tutti i tempi hanno rappresentato Adamo ed Eva nel giardino sempre con la mela; doveva essere un frutto, ma nell’immaginario collettivo il frutto è un qualche cosa di rotondo e quindi questa cosa tonda, per noi, è la mela. Il testo, però, dice solo « il frutto dell’albero », che era bello da vedersi e appetibile da mangiarsi. I nostri maestri si sono sbizzarriti nel trovare tutte le risposte a questo riguardo. Qual è il frutto bello da vedersi e appetibile? Ognuno ha i suoi gusti. Fate attenzione, perché molto spesso le traduzioni ci portano fuori strada.
Dobbiamo abituarci, in queste parti narrative del testo sacro, a cercare di vedere qual è il significato interno; buttare via (è un’espressione usata dai nostri maestri) la buccia, cioè il contorno e guardare qual è l’interno. Da una lettura dei primi capitoli della Genesi, si ricava che Dio ha creato il mondo tov, buono ed è stata la presenza dell’uomo a sottrarre, in un certa misura, questa bontà all’universo, con il suo comportamento.
Nel nostro racconto si parla dell’albero della conoscenza del bene e del male. Ma facciamo attenzione, perché il testo biblico a volte ci prende in giro, ci stimola. Noi traduciamo tov e ra’, con buono e cattivo, bene e male. Non so se vuol dire bene nel senso nostro; quando leggiamo che Dio vide che una cosa era buona, cosa vuol dire? Che è una cosa bella, o utile, o buona dal punto di vista morale ed etico?
Leggendo il testo così con semplicità, ci vengono delle perplessità sulla figura di Dio, il quale crea e, dopo aver creato, vede che è una cosa buona. Prima non lo sapeva? Possiamo farci un’idea sbagliata di Dio. Il succo è che cosa vuol dire buono. Tutto il libro della genesi è focalizzato su questa parola. Dio crea la donna, perché dice: lo tov, cioè non è bene che l’uomo sia solo. Non è cosa buona dal punto di vista morale, etico, oppure non è comodo, cioè l’uomo senza la donna non sta bene? A un certo punto del testo si dice che vennero i figli di Dio (chi sono non lo sa nessuno) e videro le figlie dell’uomo che erano tovòt, buone e si sono prese delle donne, da cui nacquero i giganti. Cosa vuol dire? Che erano belle più delle donne che ci sono tra gli angeli? Buone alla romana, nel senso di formose? E’ evidente che le cose non stanno in questi termini. Analogamente in termine di provocazione, quando si narra della nascita di Mosè, è detto che la mamma non l’ha buttato via, perché era buono; se era cattivo lo buttava, forse? E qual è quella madre che nei confronti del bambino appena nato, trova qualcosa che non funziona?
Lo stesso vale per l’albero della conoscenza del tov e del ra’. Il ra’ è il contrario del tov, ma cos’è?
C’è un altro elemento che vorrei sottoporre alla vostra attenzione; sembra che vada fuori tema, ma soltanto parzialmente. Nel racconto del giardino dell’Eden, compaiono degli altri personaggi. C’è il giardino, le piante, Adamo ed Eva, il serpente e alla fine ci sono i cherubini. Cosa sono? Non lo sappiamo di preciso. Un qualche cosa che sono degli esseri posti da Dio a guardia del giardino per fare in modo che l’uomo, cacciato dal giardino, non ci ritorni. L’immagine che abbiamo noi dei cherubini è quella di angioletti paffuti, dalla forma pseudo umana. Ma è proprio così o vuol dire un’altra cosa? Sembra che questa parola cherubìm fosse chiarissima ai tempi in cui fu scritto il testo. Ritroviamo questo termine nel racconto dell’Esodo, dove si narra della tenda del convegno, in cui vi era una cassetta, che conteneva le tavole della Legge e che aveva sopra un coperchio e su di esso due cherubini, che si guardano. Rimaniamo sbigottiti. Proprio nel momento culminante, in cui si sottolinea il divieto di farsi alcuna immagine per adorarla, compaiono due forme umane. Io credo che nell’antichità, quando la Torah fu emanata, avessero delle idee più chiare delle nostre su cosa fossero questi cherubini.
Un’altra cosa che vorrei suggerire alla vostra attenzione, sempre come provocazione, perché cerchiate di approfondire, è che del giardino dell’Eden se ne parla, in forma piuttosto oscura, in fonti mesopotamiche e anche in altre fonti ebraiche bibliche, in particolare nel libro di Ezechiele, ai capitoli 28 e 31, dove è riproposto in chiave diversa. Non sappiamo nemmeno cosa vuol dirci Ezechiele. Lui ci parla di un cherubino, cherùv, che forse è la personificazione del re di Tiro. Lui sta rivolgendo una petizione al re di Tiro e in modo sarcastico gli dice: « Ma cosa ti credi di essere ancora il cherubino del giardino dell’Eden? ». Inoltre in quella circostanza si fa riferimento al fatto che questo giardino, nella visione di Ezechiele, era in un monte sacro, mentre, viceversa, nel testo della Genesi, di monte non se ne parla per niente. E cosa vuol dire Eden? Nell’ebraico moderno è una radice che vuole dire soavità, dolcezza, delicatezza, ma sembra che in una radice araba più antica abbia il significato o di un nome di luogo oppure sembra che abbia delle attinenze con pianura, quindi il giardino dell’Eden è il giardino della pianura. Ezechiele lo pone, invece, su una montagna. Probabilmente c’erano vari miti che circolavano. La Genesi ce lo propone anche con dei fiumi e delle pietre preziose, mentre Ezechiele ci parla di alberi che invece di frutti, producevano pietre preziose. La stessa cosa troviamo in miti numerici precedenti, dove si parla del giardino collocato in un posto pieno di miniere di pietre preziose.
Se leggete quei capitoli di Ezechiele, troverete che il giardino è chiamato il giardino di Dio, facendoci immaginare che fosse una specie di residenza divina. Sembra che Dio l’avesse preso per abitarci, ma poi ci ha messo l’uomo. Ma cos’è questa storia? Quindi siamo veramente provocati a cercare di capire cosa ci vuole insegnare il testo.
Spero di non deludervi, ma devo dire ancora una cosa. Per cercare di capire bene qual è il significato di questi passi, dobbiamo tenere conto anche della terminologia antica usata nel testo. Ad es. per indicare il nome di Dio, che compare sotto forme diverse. All’inizio della Genesi compare il nome Elohìm, un termine molto generico: divinità. Chiunque sia, qualunque cosa sia. Poi, andando avanti nel testo, si usa il termine tetragrammato, cioè con le quattro lettere sacre, impronunciabile. Come mai l’autore usa questo e quello? In altri passi viene chiamato in tutti e due i modi: il Tetragramma seguito da Elohìm. Una delle interpretazioni che va per la maggiore, è quella che dice che quando si usa Elohìm si vuole indicare Dio dal punto di vista della giustizia, mentre quando si parla di Dio dal punto di vista della bontà e della misericordia, si usa il tetragramma. Ma c’è chi dice esattamente il contrario.
Qualcuno dice che il termine Elohìm viene usato per indicare il Dio in qualche modo trascendente, il Creatore, che non si sa bene cos’è; mentre l’altro termine indica un Dio più personale, che parla con l’uomo in un rapporto più diretto. Sarà vero? Non lo so.
Quello che non riusciamo a capire è cosa sia questa faccenda di Dio che crea il giardino e vi mette dentro l’uomo. Un passo dice che l’ha messo lì « per lavorarlo e per custodirlo ». E noi ci inalberiamo subito. Intanto perché dal punto di vista grammaticale le cose non funzionano, perché se lavorarlo si riferisce al giardino, la parola giardino, in ebraico, è maschile, mentre viene adoperato un suffisso femminile, come se dicessimo in italiano: « Dio creò un giardino e vi mise l’uomo per lavorarla e custodirla »; ma lavorarla e custodirla che cosa? Mosè non sapeva la grammatica? Prima adopera un maschile e poi ci mette un suffisso femminile? Tra l’altro non è nemmeno chiaro se sia un suffisso femminile o no. Qualcuno dice che Mosè volesse intendere la terra e non il giardino, da lavorare. Ma poi non funziona dal punto di vista del significato, perché Dio ha decretato il lavoro dopo che l’uomo aveva peccato. Sembra, da una lettura sommaria, che l’uomo, quand’era nel giardino, passasse il tempo a fare i complimenti a sua moglie, forse, oppure a mangiare i frutti che gli capitavano. Cosa vuol dire custodire il giardino? Custodirlo, proteggerlo da che cosa? Non lo sappiamo. I nostri maestri, adoperando il meccanismo di andare a cercare tutti i significati dei vari termini, sostengono che lavorarlo e custodirlo ha un significato più cultuale, perché la parola avodà vuol dire lavoro, ma anche culto e la parola custodire vuol dire anche osservare. Già nel momento in cui l’uomo è stato collocato lì dentro, Dio aveva lo scopo che l’uomo prestasse una specie di servizio di Dio, osservando quello che Dio gli aveva detto di osservare. Come un segno di riconoscimento che tutte le cose di cui l’uomo stava godendo, venivano da Dio. Ovviamente l’uomo non ha fatto né l’una, né l’altra cosa.
Poi troviamo l’albero della conoscenza del bene e del male collocato proprio nel mezzo del giardino, quasi come una provocazione; qualunque strada l’uomo facesse, si trovava davanti questo albero. Inoltre c’era anche l’albero della vita; però Dio non gliel’ha detto. Lo scopo sembra che sia quello di fare in modo che, prima o poi, l’uomo mangi anche di quell’albero e perciò divenga immortale. Dio dice solo che se mangiano di quell’albero, moriranno; ma cosa vuol dire morire? Fino a quel momento non era ancora morto nessuno e perciò che idea potevano avere Adamo ed Eva della morte? Dio è scorretto! Una delle forme interpretative è quella di considerare l’uomo, in quel momento, come l’uomo bambino. Dio si rivolge a lui come ci si rivolge a un bambino, perché non aveva nessuna esperienza. La provocazione consisterebbe in questo: l’albero della conoscenza del bene e del male è l’albero delle esperienze. L’uomo ha due possibilità davanti a sé: o obbedire a Dio e non mangiare dell’albero della conoscenza e continuare, così, a vivere come un bambino, senza l’esperienza di quello che è buono e cattivo, ma non in senso morale, ma nel senso di quello che è positivo e quello che è negativo nella vita: malattie, dispiaceri, vecchiaia, ecc. Se l’uomo fosse stato lì dentro come un bambino, ubbidendo a Dio, avrebbe continuato a vivere una vita felice inconsapevole, senza particolari problemi. Invece l’uomo ha voluto prescindere da questo avvertimento, scegliendo di conoscere, anche se questa conoscenza è legata alla sofferenza. L’albero della conoscenza del bene e del male diventerebbe l’albero dell’esperienza di quello che la vita può dare, allorché diventiamo consapevoli. L’avere ottenuto questa esperienza, disubbidendo a Dio, ha sottratto all’uomo la possibilità di diventare immortale. Questa disubbidienza dell’uomo era in qualche modo pilotata da Dio, perché gli ha detto quello che era vero in modo che non poteva capire. Gli pone davanti due possibilità: o vivere illimitatamente in modo inconsapevole, oppure vivere limitatamente nel tempo, ma consapevolmente, con tutto quello che la consapevolezza comporta: sofferenza, guai, ecc. ma, in qualche modo, Dio l’avrebbe spinto in quella direzione, perché gli ha messo accanto la donna, che gli ha dato il consiglio, poi gli ha dato il serpente, che ha consigliato la moglie e poi ha collocato questo albero nel punto più strategico, inoltre gli avrebbe detto le cose in modo incomprensibile. Gli dice: « Morirai, se fai questo », ma per Adàm quella parola era incomprensibile, perché è come se voi diceste a un bambino: « Non metterti il dito in bocca, quando hai toccato per terra, perché se non ti ammali! ». E’ vero che gliel’avete detto, ma io ho dei dubbi se lui ha capito. Quand’è che comincia a capirlo? Appena gli hai dato la sberla. Come noi: cerchiamo di lasciare i nostri figli liberi di scegliere, ma un po’ li pilotiamo.
Fermiamoci un attimo su una questione semantica, che riguarda il significato delle parole. In varie parti del testo biblico, la conoscenza del bene e del male è un attributo di Dio. Cosa significa, però, che Dio conosce il bene e il male? Che sa distinguere? Mangiando quel frutto proibito, l’uomo può acquisire quella caratteristica di Dio. Anche la vita eterna è una caratteristica divina, ma ad essa Dio non vuole che l’uomo attinga.
Di nuovo. Bene e male è quello che è utile, non dannoso, o in senso morale? Adoperando lo stesso verbo conoscere, il testo dice che, quando ebbero mangiato il frutto, conobbero che erano nudi. Il fatto di essere nudi era una cosa negativa? E’ questo il male? Dio provvede in prima persona a fare loro i vestiti; è il primo sarto dell’universo. Determinati filoni di interpretazione, soprattutto in campo cristiano, hanno portato a pensare il bene e il male in termini sessuali. Quasi a sottolineare che l’uomo e la donna abbiano cominciato a praticare il sesso, dopo aver mangiato il frutto proibito. Io ho molte perplessità che voglia dire questo. Non so bene cosa vuol dire questa nudità. Forse conoscenza vuol dire esperienza; dopo aver mangiato il frutto, si rendono conto di certo aspetti della realtà, ai quali prima non facevano caso. Come i bambini, che crescono piano piano e acquisiscono una conoscenza oggettiva delle cose.
Qualcuno interpreta che tutta questa storia è stata deliberata; in origine sembra che Dio avesse previsto che l’uomo stesse nel giardino e Dio si sarebbe comportato nei suoi confronti come un padre che pensa a tutto. Fa’ quello che ti dico io, e starai bene. L’uomo si sarebbe ribellato: « No, papà! Io voglio uscire dalla tutela paterna. Sbaglierò, non sbaglierò, ma voglio affrontare la vita come desidero io ».
Dio dice che non voleva che l’uomo diventasse immortale, infatti pone i cherubini a guardia del giardino perché l’uomo non potesse mangiare dell’albero della vita. Ma allora perché ha inventato questo albero e l’ha messo nel giardino?
Il passo biblico è provocatorio, incomprensibile. Sta di fatto che il regista di tutto è Dio: è Lui che ha creato, determina e giudica l’operato dell’uomo. Maimonide dice che c’è qualcosa che non funziona; si chiede: « Come fa Dio a dare degli ordini a chi non è in condizione di sapere che disubbidire è male? ».
Quando Adamo si nasconde nell’albero, dopo il peccato, Dio si rivolge a lui dicendogli: « Dove sei? ». Frase bellissima, con un significato molto preciso e cioè il significato più ampio, come se Dio chiedesse a noi tutti i giorni: « Dove sei? Dove stai andando? Dove sei collocato nell’universo? Ti rendi conto? ». C’è un altro elemento più terra terra ed è che noi da qui impariamo il comportamento di Dio, che non ha accusato direttamente l’uomo, assalendo col rimprovero, ma gli ha posto questa domanda per dargli il tempo di formulare una risposta. Viceversa Dio si rivolge all’uomo, dandogli il tempo di prepararsi una difesa, quasi a prepararlo alla seconda domanda, che sarebbe arrivata subito dopo. Quando dobbiamo accusare qualcuno, dovremmo anche dargli la possibilità di prepararsi una giustificazione. Dobbiamo leggere questi racconti, imparando come Dio si comporta, per imitarlo.
Non lasciamoci trascinare dal fascino che esercitano questi racconti o dalle tradizioni stereotipate che ci portano fuori strada. Le traduzioni fanno molta fatica a rendere ciò che il testo vuole dire, perciò dobbiamo sempre stare attenti, tenendo conto anche che certi termini sembrano molto semplici a tradurli e invece non capiamo bene cosa veramente significano. Per es., cosa significa santificare,

F. ROSENZWEIG, LA STELLA DELLA REDENZIONE – L’essenza del cristianesimo

http://www.jesus1.it/Pages/it_giovanni_filosofi_davanti_a_gesu.aspx?arg=99&rec=424

F. ROSENZWEIG, LA STELLA DELLA REDENZIONE, A C. DI GIANFRANCO BONOLA,

Casale Monferrato, Marietti, 1985, pp. 371-377).

FRANZ ROSENZWEIG (1886-1929)

L’essenza del cristianesimo

Espansione verso l’esterno, ma non già soltanto fin dov’è possibile, bensì, che sia possibile o impossibile, espansione verso tutto, assolutamente tutto ciò che è esterno, e che perciò, nel presente di volta in volta attuale, può essere al massimo un ancora-esterno. Se questa espansione è intesa in modo così incondizionato, così illimitato, allora vale evidentemente anche per essa quanto valeva per il radicamento giudaico nel proprio intimo: nulla può più rimanere esterno ad essa come un che di opposto. Anche qui, anzi, tutti gli opposti devono in qualche modo essere fatti rientrare nei propri confini. Ma dei confini, simili a quelli che possedeva il proprio «sé» radicato in se stesso, sono totalmente estranei a questa espansione all’esterno, anzi sono per essa inconcepibili: L’illimitato che fa’sempre esplodere ogni confine, dove mai avrà confini? Certo non può averne lei stessa, l’espansione. Quanto a quell’esterno in cui l’espansione avviene, potrà forse avere confini, i confini del Tutto. Ma questi confini non vengono raggiunti nel presente e neppure in alcun presente futuro; infatti l’eternità può irrompere oggi e domani, ma non posdomani, ed il futuro è sempre soltanto posdomani.
Così anche il modo in cui gli opposti sono viventi, qui, dev’essere diverso che nell’immersione nel sé. Là essi entravano subito in tensione attraverso le interne figure di Dio, mondo, uomo; le tre figure erano vive come in un costante alternarsi di corrente tra quei poli. Qui invece gli opposti devono trovarsi già nel modo dell’espansione; solo in questo caso essi sono operanti ad ogni istante e in modo completo. L’espansione deve sempre avvenire lungo due vie distinte, anzi opposte. Sotto i passi della cristianità nelle tre regioni, Dio, mondo e uomo devono ogni volta fiorire necessariamente due tipi di fiori diversi, anzi questi stessi passi devono portare nel tempo in direzioni divergenti e ogni volta due forme di cristianesimo devono percorrere ciascuna la propria strada attraverso quelle tre regioni, in attesa di ricongiungersi un giorno, ma non nel tempo. Nel tempo esse procedono divise e solo procedendo divise sono certe di coprire in tutta la sua estensione l’intero Tutto e ciò nonostante di non perdersi in esso.
Solo in questo modo il giudaismo aveva potuto essere il popolo unico ed il popolo eterno, solo portando già in se stesso tutte le grandi opposizioni, mentre per i popoli del mondo quelle opposizioni compaiono solo là dove essi si separano l’uno dagli altri. Anche la cristianità, se davvero vuol’essere onninclusiva, deve allo stesso modo custodire in sé quelle opposizioni attraverso le quali altre forme di associazione, già nel loro nome e nel loro scopo, si delimitano ciascuna nei confronti di tutte le altre; soltanto così facendo essa si caratterizza come la forma di associazione che abbraccia tutto e tuttavia rimane unica nel suo genere. Dio, mondo, uomo possono diventare il Dio cristiano, il mondo cristiano, l’uomo cristiano solo secernendo dal proprio interno le opposizioni in cui la vita si muove e percorrendole fino in fondo ciascuno per conto proprio. Altrimenti la cristianità sarebbe soltanto un’associazione tra le altre, giustificata forse per il suo scopo particolare e nel suo ambito particolare ma senza la pretesa di espandersi fino ai confini del mondo. Ed inoltre se cercasse di espandersi al di là di quel. le opposizioni, certo la sua via non dovrebbe necessariamente dividersi ma non sarebbe neppure la via attraverso il mondo, la via lungo il fiu. me del tempo, bensì sarebbe una via nel mare impervio dell’aria, là dove il Tutto è esente da confini e da opposizioni ma è anche privo di contenuto. E non là, ma dentro al Tutto vivo che ci circonda, dentro al Tutto della vita, il Tutto costituito da Dio, uomo, mondo, deve condurre la via della cristianità.
La via della cristianità nella regione Dio si divide dunque in due strade; una dualità che è assolutamente inconcepibile per gli ebrei, ma sulla quale nondimeno si basa la vita cristiana. Per noi essa è inconcepibile, infatti l’opposizione che anche noi conosciamo in Dio è la compresenza in lui di giustizia ed amore, di creazione e rivelazione, proprio nella sua relazione incessante con se stesso. Tra gli attributi di Dio passa una corrente alternata; non si può dire che egli sia l’una o l’altra cosa; egli è Uno proprio nella costante compensazione tra gli «attributi» apparentemente contrapposti.
Per i cristiani al contrario la separazione in «Padre» e «Figlio» significa molto di più che una sem. plice scissione tra la severità divina ed il divino amore. Il Figlio è anche il giudice del mondo, il Padre ha «così amato» il mondo da donare totalmente anche suo Figlio; così severità ed amore non sono propriamente suddivisi tra le due persone della divinità. E neppure vanno divisi, poniamo, secondo creazione e rivelazione. Infatti né il Figlio è inattivo nella creazione, né il Padre lo è nella rivelazione. Peraltro la religiosità cristiana percorre vie diverse a seconda che si rivolga al Padre o al Figlio. Soltanto al Figlio il cristiano si avvicina con quella famigliarità che a noi è così naturale nei riguardi di Dio da farci apparire quasi impensabile che ci siano uomini che non osano condividere questa fiduciosa confidenza. Il cristiano osa comparire davanti al Padre soltanto tenendo la mano del Figlio: solo attraverso il Figlio, egli crede di poter venire al Padre. Se il Figlio non fosse uomo, non sarebbe di alcuna utilità per il cristiano.
Egli non può immaginare che Dio stesso, il Dio santo, possa abbassarsi fino a lui come egli richiede le non diventando uomo a sua volta. Qui affiora la componente pagana presente ineliminabilmente al fondo di ogni cristiano. Il pagano vuol essere attorniato da dèi umani, non gli basta essere lui uomo, anche Dio dev’essere uomo. La vitalità, che anche il vero Dio ha in comune con gli idoli dei pagani, diviene credibile al cristiano solo se diviene carne in un’autonoma persona umano-divina. Ma per mano di questo Dio divenuto uomo egli procede allora attraverso la vita, fiducioso come noi, ma, diversamente da noi, pieno di forza conquistatrice; infatti carne e sangue si lasciano sottomettere soltanto dai suoi pari. da carne e sangue, e proprio quel «paganesimo» del cristiano lo rende capace di convertire i pagani.
Ma al tempo stesso egli percorre anche un’altra via, la via che percorre direttamente con il Padre. Come nel Figlio egli ha direttamente assunto Dio nella prossimità fraterna del proprio «io», così davanti al Padre può spogliarsi nuovamente di tutto ciò che gli è proprio. In prossimità di Dio egli cessa di essere un «io». Qui sa di essere nell’ambito di una verità che si beffa di ogni «io». Il suo bisogno della vicinanza di Dio è soddisfatto nel Figlio; nel Padre egli possiede la verità divina, Qui egli attinge la pura distanza e la fredda oggettività del conoscere e dell’agire che, in apparente contraddizione con la calda intimitàdell’amore, contraddistinguono l’altra via del cristianesimo attraverso il mondo.
Sotto il segno di Dio padre la vita si dispone sia al sapere che all’azione in ordinamenti solidi e stabili. Anche su questa via il cristiano sente lo sguardo di Dio diretto su di sé, e proprio lo sguardo del Padre, non del Figlio. Non è cristiano confondere l’una con l’altra queste due vie a Dio. È una questione di «tatto» tenerle distinte l’una dall’altra e sapere quando è il caso di percorrere l’una e quando l’altra. Quegli inattesi, fulminei spostamenti dalla coscienza dell’amore divino alla coscienza della giustizia divina e viceversa, così essenziali alla vita giudaica, sono sconosciuti al cristiano; il suo procedere verso Dio rimane duplice, e se l’essere costretto a questa duplice via lo dilacera, così gli è però consentito decidere per una delle due e dedicarsi completamente ad essa, piuttosto che oscillare qua e là nella zona di indistinto crepuscolo tra le due. Alla compensazione provvederanno poi il mondo e gli altri cristiani. Infatti, a ciò che qui in Dio si palesa come una separazione tra le persone divine, nel mondo cristiano corrisponde una duplicità di strutture e nell’uomo cristiano una dualità di forme di vita.
L’uomo, che come uomo giudaico vive in tutto l’incomponibile contrasto tra il suo essere amato da Dio e il suo amore di Dio, tra la sua giudaicità e la sua umanità, patriarca e messia, e che però in tutte qu:. ste opposizioni resta un uomo intero e proprio in esse è un uomo vivo, questo uomo nella cristianità si scinde in due figure. Non però due figure che necessariamente si escludano o entrino in contrasto. Ma due figure che percorrono vie separate e sono ancora divise persino quando, come può sempre accadere, si presentano insieme nello stesso uomo.
E di nuovo queste strade separate conducono attraverso tutta la vasta terra dell’umanità, nelle cui contrade forma e libertà sembrano in conflitto incessante. Ed è proprio questa contrapposizione che si può dispiegare interamente dentro la cristianità nelle due figure del prete e del santo. E ancora una volta non è che il prete sia soltanto l’uomo che diviene ricettacolo della rivelazione, mentre il santo sarebbe soltanto colui il cui calore amoroso fa maturare il frutto della redenzione. Il prete non è semplicemente l’uomo nel quale la parola della bocca divina risveglia con un bacio l’anima dormiente, bensì è l’uomo redento così da essere immagine e somiglianza di Dio, e preparatosi a divenire il ricettacolo della rivelazione.
E solo sul fondamento della rivelazione che gli è appena, e sempre appena giunta. e solo nella vicinanza del suo Signore che gli si è fatta sempre nuovamente gustabile e visibile, solo così il santo può, amando, redimere il mondo. Egli non può affatto agire come se non ci fosse un Dio che gli pone direttamente nel cuore ciò che deve fare; proprio come sarebbe impossibile al prete portare l’abito sacerdotale se non gli fosse già concesso di appropriarsi della redenzione nelle forme visibili della chiesa e con ciò, mentre esercita il suo ministero, di appropriarsi della prerogativa di essere ad immagine e somiglianza di Dio. Un elemento di arbitrarietà ereticale si nasconde nella coscienza dell’ispirazione divina Da che il santo nutre dentro di sé, mentre vi è un elemento di autodeificazione da Grande Inquisitore in quell’appropriazione dell’essere ad immagine e somiglianza di Dio che la veste sacerdotale comporta. Solenne autodeificazione sovrapersonale, momentanea arbirarietà personale, l’imperatore di Bisanzio che la pompa fastosissima ella più rigorosa etichetta innalza ben al di sopra di quanto è terreno e casuale, ed il rivoluzionario che scaglia la fiaccola incendiaria della sua pretesa istantanea / di colpo d’occhio [augen-blicklichen] sopra edifici vecchi di millenni, sono i limiti estremi di forma e libertà tra i quali si estende la vasta regione dell’anima; la via bipartita della cristianità l’attraversa totalmente.
Il mondo, che per l’ebreo è pieno di fluidi trapassi da «questo» mondo al mondo «futuro» e viceversa, per il cristiano si articola nel grande duplice ordinamento di stato e chiesa. Del mondo pagano si è detto, non erroneamente, che non conosceva né l’uno né l’altra. Per i suoi cittadini la pólis era stato e chiesa a un tempo, ancora senza alcuna contrapposizione. Nel mondo cristiano stato e chiesa si divisero fin dall’inizio. Nel mantenimento di questa separazione si viene compiendo, da allora, la storia del mondo cristiano. E non che la chiesa soltanto sia cristiana e lo stato non lo sia.
Il «Date a Cesare ciò che è di Cesare» nel corso dei secoli non ha pesato di meno della seconda metà del detto evangelico. Infatti da Cesare proveniva il diritto a cui i a, la creazione. Già l’imperatore, cui si doveva dare ciò che era suo, aveva dominato su un mondo unificato per quanto concerne il diritto. La chiesa stessa ne trasmise il ricordo e la nostalgia di una sua ricostituzione in una età futura. Fu il papa a cingere la fronte di Carlo re dei Franchi con la corona dei Cesari. Essa è rimasta sul capo dei suoi successori per un millennio, in dura lotta con la chiesa stessa, la quale, contro la pretesa universalistica del diritto imperiale, peraltro da lei stessa alim-entata, ergeva e difendeva il suo privilegio ed il suo diritto autonomo. Nella lotta tra i due diritti parimenti universali per il dominio sul mondo crebbero nuove formazioni, «stati», i quali al contrario dell’impero, non pretendevano di conquistarsi il diritto sul mondo, ma di conquistare il proprio diritto.
Questi stati erano sorti dunque come ribelli contro l’unità giuridica, sottoposta alla tutela dell’imperatore, di un mondo creato da un’unica potenza creatrice. E nell’istante stesso in cui essi poterono credere di aver trovato un saldo fondamento nella creazione, nell’istante in cui lo stato ebbe trovato il suo nido nella nazione costituita dalla natura, la corona venne definitivamente strappata dal capo dell’imperatore romano e assunta dall’imperatore nazionale, novello re dei Franchi. A lui seguirono altri, rappresentanti delle proprie nazioni, ma insieme al nome di imperatore parve che anche la volontà di costituire l’impero fosse passata ai popoli; i popoli stessi divennero ora i portatori della volontà sovranazionale indirizzata al mondo intero. E se nei popoli questa volontà d’impero è stata ora ridotta in polvere dalle lotte incrociate, essa verrà presto ad assumere una nuova figura, Infatti nel suo duplice ancorarsi sia al divino creatore del mondo, di cui rispecchia la potenza, sia all’ispirazione del mondo alla redenzione, al cui servizio si trova, essa apre l’unica necessaria via della cristianità in questa parte del Tutto che è il mondo.
L’altra via passa attraverso la chiesa. Anch’essa si trova nel mondo.
Così non può far a meno di venire a conflitto con lo stato. Non può rinunciare a costituirsi in un ordinamento giuridico. Essa è appunto un ordinamento visibile, ma non tale che lo stato la possa tollerare, cose, ad esempio, si limitasse ad un ambito determinato, bensì è un ordinamento che non intende essere meno universale dello stato. Anche il suo diritto, e non solo quello imperiale, viene a toccare prima o poi ogni uomo. Essa si accaparra gli uomini per l’opera della redenzione ed assegna a quest’opera un posto nel mondo creato; pietre devono essere portate giù dai monti ed alberi devono essere abbattuti nei boschi, perché venga eretta la casa in cui l’uomo possa servire Dio. Poiché dunque è nel mondo, visibile e dotata di un proprio diritto universale, la chiesa non è affatto il regno di Dio così come non lo è neppure l’impero. Essa cresce nella sua storia secolare, mondana, attraverso i secoli incontro al regno, frammento di mondo e di vita anch’essa, e resa eterna solo se vivificata dall’atto d’amore dell’uomo. La storia della chiesa non è storia del regno di Dio, come non lo è la storia degli imperatori. Infatti in senso stretto non si dà storia del regno di Dio. L’eterno non ha storia, ma tutt’al più preistoria. I secoli ed i millenni della storia della chiesa sono soltanto la forma terrena, mutevole attraverso i tempi, intorno alla quale solo l’anno liturgico tesse l’aureola dell’eternità.

PERCHÉ LA GUERRA NON PUÒ ESSERE CONDOTTA NEPPURE “IN NOME” DI DIO. – AMOS LUZZATTO

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LA VIOLENZA NELLA TRADIZIONE BIBLICA

PERCHÉ LA GUERRA NON PUÒ ESSERE CONDOTTA NEPPURE “IN NOME” DI DIO. – AMOS LUZZATTO

La violenza è un’imposizione esterna su individui o su gruppi di individui volta a far loro compiere azioni contro la propria scelta volontaria, o a sposare opinioni o intere teorie che contrastino il loro modo di essere o di comportarsi, o gli stessi loro radicati convincimenti. Questa imposizione può essere dovuta alla sproporzione di forza fra colui che si impone e colui che subisce l’imposizione, oppure alla imprevedibilità dell’evento esterno, che è a tal punto eccezionale, ancorché “possibile”, da non permettere a colui che ne è succube di approntare o escogitare qualsiasi difesa.

Deboli e forti
Non spenderemo troppe parole sulla violenza umana per antonomasia, che è quella della guerra. Ma una considerazione si impone. Quando si descrivono le gesta tattiche di un Alessandro Magno, di un Giulio Cesare, di un Napoleone, si coltiva volentieri l’idea di un singolo genio, tanto abile nelle mosse e contromosse da sconfiggere il più potente e agguerrito degli avversari, che è certamente forte e aggressivo, ma un tantino scemo o almeno goffo. Insomma, il genio contro il bruto. Può darsi anche che qualche volta succeda proprio così.
Credo, però, che il più delle volte il “più debole” (forse più debole numericamente) possieda strumenti bellici superiori (come l’arco lungo degli Inglesi ad Azincourt), giochi sulla sorpresa e sulle condizioni del terreno (come Napoleone ad Austerlitz) o sull’ “evento giudicato impossibile” (come nel caso dei Panzer tedeschi che attraversano il bosco delle Ardenne). La maggiore padronanza dei complessi elementi tecnici rende “più forte” quello che poteva superficialmente essere giudicato il “più debole”, e viceversa. Ma allora, David e Golia?
Golia appare il più forte fisicamente, è armato di spada, di lancia e di picca, mentre David ha da parte sua un bastone, una fionda e cinque pietre. Dietro di sé Golia ha i Filistei, David il Dio di Israele (I Sam 17, 40-46). In realtà, David sa benissimo adoperare la spada, ma la usa soltanto, dopo avere già abbattuto il suo avversario, per mozzargli la testa. Sul piano materiale, il vantaggio di David sta nell’uso appropriato che lui fa delle singole armi. Sul piano morale, nel convincimento di agire a nome di Colui cui “appartiene (o “spetta”?) la guerra”: “ki le H. ha-milchamà wenatan etkhem be-yadenu” (I Sam 17, 47).

Il nome di Dio e la guerra
Che cosa vuol dire, esattamente? Cerchiamo di dedurlo da tre brani biblici nei quali il nome di Dio è posto in parallelo alla parola “guerra”. Il primo è la Cantica del Mare (Es 15,1-19). Traducendo molto alla lettera, e pertanto omettendo in italiano la copula, leggiamo: “Il Signore guerriero, il Signore il Suo nome”. Non sembra esservi un rapporto logico tra il primo e il secondo emistichio. (c) Olympia Sembra quasi che il testo voglia sottolineare il parallelismo tra la parola guerriero e la parola nome. Nel secondo brano è appunto David che dice: “Tu vieni a me con spada, con lancia e con picca ma io vengo a te con il nome del Signore delle moltitudini, che tu hai insultato”.
Infine, il terzo brano (Sal 20,8): “Gli uni giungono con carri, gli altri con cavalli – ma noi ricorderemo il nome del Signore”.
È come se ci si dicesse che la guerra, l’ “arte della guerra”, nella quale l’uomo si sente potente e crede di poter affermare la sua forza, non può essere condotta neppure “in nome” di Dio (Gott mit uns), perché la guerra stessa non gli appartiene, non è uno strumento umano, ma è inclusa nelle facoltà divine (nel “nome” di Dio) che ne dispone come Egli ritiene più giusto – e basta. Sono coerenti con questa concezione varie narrazioni bibliche. A partire dalla guerra inverosimile che muove Abramo con i suoi garzoni contro ben quattro re per liberare suo nipote Lot. Guerra-lampo vittoriosa, mossa per giunta da un mite capostipite di miti e timidi Patriarchi! A continuare con l’annegamento nel Mar Rosso di tutte le truppe del Faraone, per pensare poi all’assedio di Gerusalemme mosso dal terribile re assiro Sancheriv, l’invincibile, sconfitto dalla mano divina. Ciò è coerente, infine, con Zaccaria 4, 6: “Non con la truppa e non con la forza, ha detto il Signore delle moltitudini, bensì con il Mio spirito”.

La “violenza ” di Dio
Se la stessa guerra, che è la maggiore delle violenze umane, non appartiene all’uomo ma a Dio – il quale pertanto la decide, nel suo sorgere, nella sua evoluzione, nelle sue conclusioni – non è influenzata dall’ “arte bellica umana”, anzi spesso la contraddice, che dire delle altre forme di violenza? Appartiene certamente a Dio la violenza della natura. Prima di tutto perché, oltre ad aver creato gli oggetti materiali nella loro sostanza, Egli ne ha prescritto le forme (Sal 26, 10; Pr. 8, 27 e 8, 29; Gb 38, 33) e ne ha stabilito le regole, le leggi di natura, come le chiamiamo noi moderni (Ger. 5, 22; Sal 28, 26 e 148, 6; Pr 8, 29). Le leggi prevedono anche eventi eccezionali, spesso cataclismi micidiali che noi non sappiamo prevedere, che sembrano contraddirle, a meno che queste ultime non siano totalmente espressione della volontà divina che, per definizione, è imprevedibile.
Questi cataclismi hanno a che fare con il comportamento o con la volontà umana?
Se si risponde negativamente, abbandonandosi a un rassegnato fatalismo, si nega nel contempo la Provvidenza divina e ci si colloca inevitabilmente su un terreno religiosamente agnostico. Dio si configura allora come un potere misteriosamente e imprevedibilmente antiumano, crudele e forse addirittura cinico. Alcuni cristiani potrebbero consolarsi dicendo che tale sarebbe propriamente il Dio degli Ebrei e non il Dio dell’Amore. Ma sarebbe una posizione molto debole, anche sul piano logico.
Se, invece, si risponde affermativamente, si accetta la violenza divina nella sua qualità di azione orientata, punitiva nei confronti dei malvagi, che ha lo scopo di salvaguardare dal peccato incombente coloro i quali ne sono ancora esenti. Tale è, ad esempio, il caso del diluvio universale ai tempi di Noè o quello della distruzione di Sodoma e Gomorra ai tempi di Abramo e di Lot. Vi è poi un caso ulteriore: la violenza divina esercitata nei confronti di quegli uomini che usano violenza nei confronti dei propri simili; ed è il caso dell’affogamento dell’esercito faraonico nel Mar Rosso, dopo l’attraversamento all’asciutto da parte degli Ebrei.
Ma è proprio questo modello che richiede un esame più approfondito, perché la violenza dell’uomo sull’uomo non ha nulla a che fare con la “legge del più forte” alla quale parrebbero ispirarsi i lottatori delle Olimpiadi nella antica Ellade. In quel caso, almeno all’apparenza, i contendenti dovrebbero partire da un piano di pari occasioni e possibilità. In altre parole, sarebbe il risultato della contesa l’unico metro possibile per stabilire chi fosse in partenza il più forte. È un modello che serve di bandiera anche ai fautori della libertà d’impresa, della libertà di concorrenza e di altre libertà ancora. È un modello bellissimo, che ha un solo difetto: non si verifica mai nella vita concreta.

Compassione e memoria
Gli Ebrei che attraversano il Mar Rosso sono gerim, che significa residenti precari, ai quali non spettano molti di quei diritti che spettano ai residenti stabili, chiamati nella Bibbia ezrachim. Per queste due categorie umane non esiste il filo di partenza eguale: il ger è, a priori, il più debole. Ora, la schiavizzazione degli Ebrei in Egitto è un modello, tristemente molto diffuso nella storia umana: violenza usata da chi è in partenza più forte nei confronti di chi è, già in partenza, più debole. È una violenza clamorosamente evidente ad Auschwitz; ma esiste anche laddove essa è occultata nei segreti dei conti bancari o nella precarietà del lavoro, e non per questo è meno reale.
La Bibbia respinge questo modello: “… E non opprimere il ger; voi ben conoscete il sentire del ger, perché siete stati gerim in terra d’Egitto” (Es 23,9). È un chiaro invito alla compassione (con-passione) un invito a quella comprensione per il debole che può provare solo colui che si è già trovato (o che è consapevole di potersi trovare) nella medesima situazione di inferiorità. Oggi essa viene chiamata spesso solidarietà.
È chiaro che si tratta di un sentimento al quale si può e si deve educare, ma che trova forti ostacoli nella società umana dove raramente si rinuncia al proprio vantaggio di partenza. Questa solidarietà richiede poi la conservazione della memoria della propria sperimentata inferiorità; e la memoria ha due difetti: si attenua con il passare del tempo ed è selettiva, molto spesso cancella ciò che disturba nel presente. Si può pertanto persino proclamare la memoria e nel contempo praticare l’oblio. E allora?
“Se lo tormenterai ed egli mi invocherà, darò ascolto alla sua invocazione. E mi adirerò, e vi ucciderò per spada; e le vostre donne diventeranno vedove e i vostri figli orfani”. (Es 22, 22-23). Questa è la “violenza di Dio” che sostituisce alla perdita della compassione, nutrita dalla memoria del passato, un avvenire non meno severo. Per molti basta il monito che deriva da questo modello di punizione, senza attendere la punizione stessa. Per molti altri, no: invece di accettare questo monito, essi si faranno pronti paladini di civiltà, vedendo in questo modello la ritorsione propria della Legge del taglione e la crudeltà del divino. Con orgoglio condurranno la loro battaglia per una civiltà più avanzata rispetto a quella della “vecchia” Bibbia. Ma intanto, il ger seguirà il suo destino.

Note
Presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane

Publié dans:ebraismo, STUDI |on 12 janvier, 2015 |Pas de commentaires »
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