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Mosè parlava con Dio « e tutto il popolo ne fu testimone …. » (Es 20, 18) [per domani, giornata della memoria]

dal sito:

http://www.nostreradici.it/gennaio03_Laras.htm

Mosè parlava con Dio « e tutto il popolo ne fu testimone …. » (Es 20, 18)  

(17 GENNAIO 2003)

Rav Giuseppe Laras,
Rabbino Capo di Milano

La testimonianza dell’Esodo ci presenta Mosè come colui al quale Dio chiede di guidare il suo popolo dalla schiavitù alla libertà e come colui attraverso il quale viene donata la Torà, l’insegnamento divino rivelato al Sinai. Secondo la tradizione rabbinica è proprio questo il momento in cui il popolo di Israele comprende il senso della particolare esperienza che sta vivendo e della vocazione a cui il Signore l’ ha destinato « separandolo » dagli altri popoli:
« Ora, se vorrete ascoltare la mia voce a custodirete la mia Alleanza, voi sarete per me la proprietà fra tutti i popoli perché mia è tutta la terra! Voi sarete per me un regno di sacerdoti e una nazione santa » (Es 19,5-6). Si tratta quindi di passare dalla servitù di Faraone al servizio del Signore che ha ascoltato il lamento del suo popolo oppresso e ha deciso di liberarlo rimanendo fedele alle sue promesse (Es 3, 7-10 e Gen 12, 1-4).
Ogni manifestazione di Dio è un evento trascendente di fronte al quale l’uomo è chiamato a riconoscerne la grandezza e la sproporzione rispetto alla propria creaturalità, per questo anche Mosè, a cui il Signore si rivela attraverso il roveto ardente, « nasconde la faccia » poiché teme di « guardare » verso di Lui (Es 3, 6). Tuttavia è proprio Mosè ad essere definito dalla Scrittura e dalla tradizione rabbinica come colui al quale Dio concede una vicinanza e una « visione » della Sua trascendenza solitamente impossibile e pericolosa (Es 19, 12 e 33, 19-23; Esodo Rabbà XXVIII, 6, Levitico Rabbà 1,14), per questo egli può « salire » sul monte e « parlare » con il Signore che gli « risponde » con « una voce » alla quale « può reggere » (Es 19,19; Esodo Rabbà V, 9). 
Tutto il popolo rimane invece ai piedi del Sinai ove comunque i segni della teofania sono evidenti: tuoni, lampi, nube densa, forte suono di tromba (Es 19, 16), ma soprattutto fuoco: « Il monte Sinai era tutto fumante, perché su di esso era sceso il Signore nel fuoco e il suo fumo saliva come il fumo di una fornace » (Es 19,18). Alcuni commenti colgono un particolare rapporto tra la parola del Signore che si rivela e il fuoco che accompagna tale rivelazione , caratteristica che la tradizione ritiene sia comune a molte teofanie (Es 3, 26 e Gen 15, 17) e alle parole stesse della Torà, come sottolineato in un autorevole commento al Deuteronomio che, a un certo punto, afferma: « infatti entrambi (fuoco e Torà) furono dati dal cielo ed entrambi sono eterni » (Sifrè Deuteronomio 143a).
Siamo quindi di fronte ad un evento divino che, in questo modo, si dà una volta per sempre nell’orizzonte di una mediazione che coinvolge in maniera particolare Mosè, in quanto la rivelazione a lui concessa è la sorgente a cui tutti i profeti successivi hanno attinto: « Ciò che i profeti erano destinati a profetizzare alle generazioni avvenire lo ricevettero dal monte Sinai » (Esodo Rabbà XXVIII, 6).
Il dono della Torà non solo è destinato  a permanere nel tempo, ma è offerto per essere accolto e vissuto. La tradizione rabbinica, a tale proposito, sottolinea due aspetti importanti. Da una parte precisa che Dio si è espresso nelle « settanta lingue dell’umanità » in modo che tutti i popoli potessero comprendere (Esodo Rabbà V,9), dall’altra però fa notare che solo il popolo d’Israele ha accolto i precetti rivelati nella prospettiva di un insegnamento per la vita (Sifrè al Deuteronomio, Pisqa 343).
La Scrittura infatti testimonia che tutto il popolo « vede » i segni della teofania sinaitica ed è testimone di ciò che Dio rivela a Mosè (Es 20, 18), e tutto il popolo si impegna solennemente ad accogliere la Torà con la seguente affermazione: « Tutto ciò che il Signore ha detto/rivelato lo eseguiremo (n’asè) e lo ascolteremo (wenishma’) (Es 24, 7). Gli ebrei che pronunziano queste parole sono gli stessi che hanno vissuto un’esperienza di liberazione unica nel suo genere, e il Dio che li ha liberati mostrando la sua fedeltà alle promesse non può che volere il loro bene, per questo insegna come custodire il patto di Alleanza affinché il medesimo possa durare nel tempo.
Per questo il Suo insegnamento va innanzitutto vissuto e, in questo contesto, « ascoltato », cioè continuamente ricompreso e riconsiderato alla luce dei nuovi eventi della storia Poiché, come la Torà stessa precisa, « non è più in cielo » ma nelle mani degli uomini affinché possano continuare a « scegliere la vita e il bene » (Dt 30, 12-19).
Tutto ciò implica la necessità di comprendere sempre più in profondità una parola che si dà agli uomini nei suoi percepibili molteplici aspetti. Nel Salmo 62 non a caso di legge: « Una parola ha detto Dio, due ne ho udite » (Sal 62,10). La tradizione rabbinica insegna che da ciò si deduce che un versetto della Scrittura può avere diverse interpretazioni, che vanno intese come le scintille prodotte da un martello che spezza la roccia ( Talmud Babilonese, Sanhedrin 34a; Shabbath 88b).
È pertanto importante che la tradizione continui a discutere e ad interrogarsi su come continuare a rimanere fedeli all’insegnamento di libertà del Sinai. Non a caso gli insegnamenti rabbinici, giocando sull’assonanza dei termini ebraici charut (inciso) e cherut (libertà), insegnano a considerare i precetti della Torà « libertà » su tavole anziché prassi « incisa » su tavole (Mishnà, Avot VI, 2), ribadendo così che l’insegnamento rivelato va accolto e vissuto in quanto proveniente dall’unico Dio capace di liberare e di trasformare una storia anonima e perdente in una storia di salvezza.
Ecco allora ciò di cui il popolo ebraico è ancora oggi testimone tra le genti: una libertà che porta all’impegno nella fedeltà al dono della Torà ricevuta attraverso Mosè capace di « parlare con Dio », rivelazione che, come ben ricorda Elia Benamozegh, comprende anche i precetti dati da Dio a Noè dopo il diluvio, i quali costituiscono l’insegnamento per i « giusti » come lui, cioè i « gentili amati da Dio i cui meriti fanno la prosperità tra le nazioni » (E. Benamozegh, Israele e l’umanità, Marietti, Genova, 1990, pp. 209-240).

Publié dans:ebraismo |on 26 janvier, 2011 |Pas de commentaires »

CHANUKKAH: UN MIRACOLO CHE SI RIPETE – 5771 (2010 – 1-9 DICEMBRE)

dal sito:

http://www.nostreradici.it/chanukkah.htm

CHANUKKAH: UN MIRACOLO CHE SI RIPETE

5771  (2010 – 1-9 DICEMBRE)

Gavriel Levi

 Nel giorno di chanukkà che capita di shabbath, i lumi di chanukkà si accendono assieme con quelli dello shabbath e, la sera dopo assieme con quello dell’avdalà1. La vigilia di shabbath si accende prima la chanukkà e dopo i lumi dello shabbath; alla fine dello shabbath si accende prima la torcia dell’avdalà e dopo i lumi della chanukkà. 
È evidente che questa regola è collegata con il divieto di accendere il fuoco durante lo shabbath: non si può accendere nessun fuoco dopo che è cominciato lo shabbath; non si può accendere nessun fuoco finché lo shabbath non è veramente finito. Tuttavia, se ci riflettiamo sopra, questa regola collega, con un significato più ampio e più profondo, i tre fuochi e le tre luci che accendiamo nelle nostre case e che, in modi diversi, rappresentano la forza creativa dell’uomo e la vita di Israele.
Solo se si è acceso il lume di chanukkà si può accendere il lume dello shabbath; solo se si è acceso il lume dell’avdalà si può accendere il lume di chanukkà.
Se si è lottato per rimanere ebrei, se ci si è conquistati il miracolo, allora si può rinunciare ad accendere ogni fuoco e si può godere del lume che deriva direttamente dai giorni della creazione e che riassume, già in sé, la luce del Mashiach.
Se si è acceso il fuoco che permette di accendere ogni fuoco nella settimana, che è stato regalato da Dio al primo uomo e che ci aiuta a distinguere, con i nostri mezzi, la luce dal buio, allora si può accendere, senza più divieti, il fuoco del miracolo.
Le luci della chanukkià devono rimanere divise e distinguibili l’una dall’altra: ogni giorno è un giorno completo di vita; ogni generazione è completa in se stessa ed è necessaria perché la generazione precedente possa vivere nella successiva.
Le luci dell’avdalà devono essere unite e indistinguibili l’una dall’altra: ogni giorno, anche il più banale, è parte del giorno completo che è tutto shabbath.
La luce dell’avdalà è la luce di un fuoco che si accende dopo lo shabbath; la sua benedizione è centrata nella creazione delle « luci » del fuoco e sulla nostra azione di guardarsi le mani, nel buio e alla luce.
La luce di chanukkà è la luce che si accende per rendere manifesto il miracolo; la sua benedizione riguarda l’obbligo di ripetere il miracolo e di preparare la luce di un giorno per farla ardere otto giorni.
Non può esistere la festa di chanukkà senza dentro una vigilia di shabbath, senza uno shabbath e senza un’uscita di shabbath.
Il miracolo di chanukkà (e cioè la luce di un giorno che deve durare fino al termine dei giorni, ed ancora un giorno di più) contiene dentro di sé: a) la luce del fuoco che esiste quando nessun fuoco può essere acceso dall’uomo; b) la luce di un fuoco che deve essere ricreato, per dividere il giorno umano dalla notte umana; il giorno di shabbath dai sei giorni dell’azione; le mani dell’uomo dalla creazione di Dio.
Il miracolo di chanukkà contiene anche due luci: la luce di un fuoco che non esiste (perché è stato acceso prima); la luce di un fuoco creato da D-o (ma acceso dagli uomini) perché l’uomo possa uscire, senza paura, nel mondo degli uomini.
Tra l’inizio di chanukkà e l’inizio dello shabbath esiste un momento di intervallo: noi ebrei abbiamo compiuto il nostro miracolo, quando il sole non è ancora calato; a D-o viene lasciato il tempo per compiere il suo miracolo, finire la creazione e portare il Mashiach.
Tra la fine dello shabbath e l’inizio di chanukkà esiste un altro momento di intervallo: la storia di tutti i giorni si è ripetuta; l’ebreo può accettare il dono del fuoco direttamente da D-o e, ancora una volta, ripetere il miracolo.
Se noi riusciamo a conservare l’olio per un giorno, anche quando ci sembra che il buio durerà più a lungo e quando ci sembra che non ci sia nessun posto per accendere una luce, D-o vedrà questa luce per otto giorni.
Se non conserviamo l’olio nel buio (ma questo è impossibile perché in fondo lo conserviamo anche senza saperlo) allora D-o dovrà fare il miracolo da solo e dovrà riprendere il fuoco di chanukkà da quello donatoci per l’avdalà.
Un cieco adempie al precetto di chanukkià partecipando, se ne ha la possibilità, con una perutà, all’accensione di un altro ebreo e, se non può perché è solo, accendendo la chanukkià, con qualunque aiuto, da solo.
Per quale luce accende la chanukkià, un cieco?
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Fonte: morasha.it
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La giornata dello Shabbat si apre e si chiude con un’ accensione di lumi. All’imbrunire del venerdì si accendono due candele (in teoria ne basterebbe una) recitando la benedizione che termina con « e ci hai comandato di accendere il lume dello Shabbat ». Al termine dello Shabbat, nella cerimonia dell’Avdalà, la separazione tra il giorno di festa e quello feriale si accende una torcia formata da più luci che intrecciandosi formano un’unica fiamma. Su questo lume si benedice il Signore « creatore dei luminari di fuoco ». Nel Talmud Jeruscialmì (citato anche dal compendio « Torà Temimà » ai primi versi della Genesi) si ricerca la fonte del fatto che nella Avdalà si dice la benedizione sul lume solo dopo che il lume è acceso. Questo lascia supporre che nell’altro caso, l’accensione dei lumi dello Shabbat, prima si dica la benedizione e poi si accenda. In effetti ciò avviene quasi esclusivamente secondo il rito di Roma (quasi tutti gli altri oggi prima accendono e poi dicono la benedizione).

Publié dans:ebraismo, feste |on 3 décembre, 2010 |Pas de commentaires »

preghiere quotidiane ebraiche: le benedizioni della sera

dal sito:

http://www.finestramedioriente.it/Patrimonio%20Antico/Preghiere/FrameEbraiche.htm

PREGHIERE QUOTIDIANE EBRAICHE

LE BENEDIZIONI DELLA SERA
 
 Benedetto tu, o Signore Dio nostro re del mondo, la cui parola fa imbrunire le notti; con sapienza apri le porte dell’aurora e del tramonto e con intelligenza alterni le stagioni e cambi i tempi.
Tu con propria volontà fissasti le leggi celesti per gli astri, cosicché sei il creatore del giorno e della notte. Tu fai seguire la luce all’oscurità e l’oscurità alla luce, fai passare il giorno e venire la notte, hai messo separazione fra il giorno e la notte.
Il tuo nome è Signore degli eserciti, il tuo nome è immortale ed eterno, tu regnerai sopra di noi in eterno. Benedetto tu, o Signore che fai imbrunire le notti.

Facci riposare, Signore Dio nostro, in pace e fa, o nostro re, che ci rialziamo per la vita e per la pace. Stendi sopra di noi la protezione della tua pace e difendici, dirigici con un consiglio buono che provenga da te e salvaci in grazia del tuo Nome.
Sii protezione intorno a noi e allontana da noi il nemico, la peste, la spada, la fame, l’angoscia, l’afflizione; allontana satana davanti a noi e dietro a noi. All’ombra delle tue ali nascondici, perché tu sei un Dio che custodisce e salva, un Dio che è re, che usa grazia e misericordia.
Custodisci il nostro uscire e il nostro entrare, per la vita e la pace, da ora e in eterno.

Benedetto colui che fa cadere i lacci del sonno sui miei occhi e la sonnolenza sulle mie palpebre. Sia la tua volontà, signore Dio mio, che tu mi faccia coricare in pace. Non mi turbino né sogni, né pensieri cattivi e sia il mio letto incontaminato davanti a te. Illumina i miei occhi per timore che io non mi addormenti nella morte.
Benedetto colui che illumina tutto il mondo con il suo splendore  

Publié dans:ebraismo, preghiere |on 19 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

A.J. Heschel: Il rabbi dell’Ineffabile

dal sito:

http://www.stpauls.it/jesus/0701je/0701je86.htm

CULTURA – ABRAHAM JOSHUA HESCHEL

Il rabbi dell’Ineffabile

di Maurizio Schoepflin  

Considerato una delle figure di maggiore spicco della cultura ebraica del ’900, Heschel fu un grande studioso del filosofo ebreo sefardita Maimonide e del movimento mistico sorto in Polonia nel XVIII secolo. Dai quali attinse l’idea che al mistero divino ci si può avvicinare solo con lo stupore della fede. 
Cento anni fa, l’11 gennaio 1907, nasceva a Varsavia Abraham Joshua Heschel, una delle figure di maggior spicco della cultura ebraica del XX secolo. La famiglia in cui venne alla luce vantava solidissime tradizioni che affondavano le radici nel ricco terreno del giudaismo dell’Europa orientale. Educato fin dalla più tenera età in questo clima, Heschel si dimostrò tanto brillante e recettivo da sembrare avviato al rabbinato quando era ancora soltanto un ragazzo. Egli scelse però di continuare gli studi in un contesto secolare e frequentò prima il Real-Gymnasium di Vilnius in Lituania e poi l’Università di Berlino, laureandosi, nel 1933, presso la famosa Hochschule fur die Wissenschaft des Judentums, con una tesi sulla profezia, che, pubblicata qualche anno più tardi, lo impose all’attenzione generale, procurandogli, tra l’altro, la stima del noto filosofo Martin Buber, che lo volle come suo successore al Freies Judisches Lehrhaus di Francoforte.
Nel 1938, costretto a fuggire dalla Germania a causa della sempre più incombente minaccia nazista, Heschel riparò a Varsavia e poi a Londra, da dove, nel 1940, si recò negli Stati Uniti, andando a occupare la cattedra di Filosofia e rabbinismo dello Hebrew Union College di Cincinnati, che, a motivo di disaccordi con le dottrine dell’ebraismo liberale, lasciò nel 1945, trasferendosi al Jewish Theological Seminary of America di New York. Qui insegnò etica ebraica e misticismo fino al 1972, l’anno della sua morte.
Grande conoscitore della Bibbia e del Talmud, della filosofia ebraica medievale (rilevante è una sua biografia di Maimonide) e del misticismo chassidico, Heschel ha lasciato un cospicuo patrimonio di opere, tra le quali emergono le seguenti, di cui si citano i titoli in italiano e la data della pubblicazione nella lingua originale: La terra è del Signore. Il mondo interiore dell’ebreo in Europa orientale (1950), L’uomo non è solo (1951), Il sabato (1951), Dio alla ricerca dell’uomo (1955), Chi è l’uomo? (1965) e Israele eco di eternità (1967).
La vita di Heschel non fu soltanto quella di uno studioso e gli si farebbe torto se non ricordassimo le molteplici iniziative e prese di posizione che lo resero noto anche al di fuori degli ambienti accademici. In particolare, egli fu un attivo sostenitore dei diritti civili e un deciso avversario della segregazione razziale; si oppose alla guerra del Vietnam e si adoperò per rendere migliori le condizioni di vita degli ebrei nella Russia comunista.
In campo religioso ebbe convinzioni moderate e mantenne una collocazione intermedia tra i fautori di una modernizzazione dell’ebraismo e coloro che, al contrario, si schieravano su posizioni conservatrici e ultraortodosse. Particolarmente vivace fu il suo impegno ecumenico e molteplici furono i suoi contatti e legami col mondo protestante e con la Chiesa cattolica: partecipò ai lavori preparatori del Concilio Vaticano II e, alla chiusura di esso, fece parte della delegazione ebraica ricevuta da papa Paolo VI.
Ha scritto Massimo Giuliani, uno dei maggiori studiosi del pensiero ebraico contemporaneo: «Tutta la filosofia di Heschel può definirsi, più che un pensiero della religione, un pensiero della religiosità ebraica. La dialettica propria del complesso rapporto tra filosofia e religione non resta perpetuamente aperta ma trova una sua flessibile soluzione nel riconoscimento che, per principio, il discorso religioso sfugge all’approccio filosofico. Perché la religione, e segnatamente l’ebraismo, eccede sempre la filosofia». Proprio in virtù di questa « superiorità », la religione è in grado – a giudizio di Heschel – di offrire le risposte alle domande fondamentali dell’uomo, quelle risposte che, sole, sono in grado di conferire un senso autentico alla vita umana e di indirizzare le scelte della persona verso approdi ricchi di significato.
Alla filosofia deve essere attribuito un ruolo maieutico, cioè capace di far emergere i contenuti più profondi presenti nell’animo umano, che sono, in ultima analisi, quegli interrogativi a cui poi soltanto la fede religiosa può dare soddisfazione. Seguendo questa strada, l’uomo si troverà nella condizione di riscoprire la dimensione sacra della vita, troppe volte dimenticata, e con essa la presenza di Dio nel mondo e nella storia.
Di fronte alla questione di Dio, Heschel manifesta alcune convinzioni. A suo giudizio, non esiste la possibilità di provare l’esistenza del Divino trascendente attraverso la ragione. In questa certezza lo avevano confermato pure gli studi sul pensiero ebraico medievale, in particolare quello dedicato a Maimonide.
A tale proposito, osserva ancora Massimo Giuliani: «E maimonidea è anche la confessione della limitatezza della ragione umana nel cogliere e, dunque, nell’esprimere la realtà divina. Nella sua essenza Dio resta ineffabile, è l’Ineffabile. Presupposto ontologico e vita dei viventi, Dio è un mistero».
Si legge nell’opera hescheliana L’uomo non è solo: «Il regno dell’ineffabile e non la speculazione è l’ambito in cui sorge l’interrogativo ultimo, ed è appunto in questa sua dimora naturale, qui dove il mistero è accessibile a tutti i pensieri, che l’interrogativo dev’essere studiato». Piuttosto che a strumenti razionali, perciò, è opportuno ricorrere ad altri mezzi per avvicinarsi al Divino: lo stupore, il timore e la fede risulteranno preziosi per incontrare il sublime, il mistero e la gloria. Tutto questo fa sì che l’uomo prenda atto di un fatto assai rilevante, che Heschel descrive nei termini seguenti: «Questa è dunque la successione che s’instaura nel nostro pensiero e nella nostra esistenza: ciò che è supremo, ovverossia Dio, viene prima e il nostro ragionamento su di lui viene dopo».
Tuttavia, la scoperta più importante e, per certi aspetti, più sconvolgente è un’altra e consiste nel rendersi conto che, in verità, è Dio stesso che va alla ricerca dell’uomo e non viceversa. L’incontro fra l’uomo e Dio è reso possibile dall’iniziativa divina: all’uomo compete il compito di aprirsi alla dimensione divina – e in questo filosofia e teologia naturale risultano di grande utilità –, ma la fede che corona il cammino e rende certi dell’esistenza di Dio, proviene da Dio stesso, è un suo dono. È così che Dio manifesta una sua peculiarità fondamentale, ovvero quella di nutrire una viva « preoccupazione » per l’uomo: «Vi è un solo modo per definire la religione ebraica», scrive Heschel in L’uomo non è solo. «Essa è consapevolezza dell’interesse di Dio per l’uomo, consapevolezza di un patto, di una responsabilità che investe tanto Lui quanto noi».
Nello scritto dedicato a I profeti, chiarisce ulteriormente questo aspetto così importante: «I profeti non avevano né teorie né idee di Dio… Per i profeti Dio era reale in maniera travolgente e la sua presenza era schiacciante… Essi non offrirono un’interpretazione della natura di Dio, bensì un’interpretazione della presenza di Dio nell’uomo, della sua sollecitudine per l’uomo». La testimonianza più alta di tale sollecitudine è reperibile nella Torah, la legge del Sinai, evento centrale della fede ebraica, che mette in evidenza la netta differenza che intercorre tra il Dio dei filosofi e il Dio biblico.
Nella stessa opera Heschel afferma che mentre la divinità come la intende la filosofia è silenziosa e indifferente nei confronti degli uomini, «il Dio di Israele è un Dio che ama, un Dio conosciuto dall’uomo, che si occupa dell’uomo».
Per questo Abraham Joshua Heschel ritiene che l’ebraismo e ogni filosofia che all’ebraismo si ispira non possano che risolversi in un costante confronto con la Bibbia, la quale non richiede tanto la sapienza quanto l’adesione del cuore e della vita.
D’altro canto, è lo stesso Dio a farsi « condizionare » dal pathos, perché, come attestano in particolare i libri profetici della Bibbia, la rivelazione nasce proprio dal pathos divino per Israele e, più in generale, per l’uomo: a questo riguardo, è opportuno ricordare che Heschel giudicò inestricabilmente intrecciati il destino del popolo eletto e quello dell’intera umanità.
Quale atteggiamento si impone dunque all’uomo che ha scoperto e ammirato il pathos di Dio per lui?
La risposta hescheliana si trova nelle seguenti considerazioni tratte da Dio alla ricerca dell’uomo: «L’uomo è responsabile delle sue azioni, e Dio a sua volta è responsabile della responsabilità dell’uomo. Colui che dà la vita deve dare anche la legge. Egli partecipa alla nostra responsabilità, e attende di penetrare nelle nostre azioni mediante la nostra lealtà alla sua legge. Egli può diventare il compagno delle nostre azioni. Dio e l’uomo hanno un compito comune e anche una reciproca responsabilità…». La religione esprime, secondo Heschel, «un compito da svolgere nell’ambito del mondo dell’uomo, ma i suoi fini vanno molto più in là. Perciò la Bibbia ha proclamato la legge non solo per l’uomo, ma, nello stesso tempo, per l’uomo e per Dio».
Il rispetto della legge e l’osservanza dei precetti divini, lungi dall’essere atti meramente legalistici, tracciano il perimetro di una vita ricca di senso e degna di essere vissuta.
Il ruolo di Heschel fu molto importante anche nel dibattito interno all’ebraismo ed egli offrì contributi assai significativi su questioni quali quella delle diverse tradizioni e culture giudaiche susseguitesi nei secoli e quella riguardante il mistero del male resosi presente nella Shoà.
A un secolo dalla nascita, Abraham Joshua Heschel rimane il testimone di una fede biblica che è speranza e impegno, certezza interiore e azione concreta. Ne La terra è del Signore leggiamo: «La nostra vita è assediata dalle difficoltà eppure non è mai priva di significato… La nostra esistenza non è vana. C’è una sollecitudine divina per la nostra vita… Il peccato più grave per un ebreo è dimenticare che cosa rappresenta. Noi siamo la scommessa di Dio nella storia umana… Fedeli alla presenza di ciò che è fondamentale in ciò che è comune, possiamo essere capaci di chiarire che l’uomo è più che uomo, che nel compiere il finito egli può percepire l’infinito».

Maurizio Schoepflin

Publié dans:ebraismo |on 11 novembre, 2010 |Pas de commentaires »

La Letteratura Rabbinica

dal sito:

http://web.tiscalinet.it/nostreradici/letteratura_rabbinica.htm

La Letteratura Rabbinica

Sofia Cavalletti 
 
    La letteratura rabbinica si divide in due grandi rami: uno a carattere più spiccatamente precettistico (halachico ), e l’altro di carattere narrativo (haggadico) e interpretativo del testo sacro e in particolare della Legge, della Torah. Al primo appartiene la Mishnah, Corpus di norme, redatto alla fine del II sec., contenente materiale giuridico ma soprattutto religioso; preziosa fonte per conosce re la vita del pio israelita nell’epoca intorno al sorgere del l’era cristiana, la sua vita liturgica, privata e pubblica, i suoi principi morali, ecc.            Si divide in sei « ordini » : Semente, Festività, Donne ( diritto matrimoniale), Danni ( diritto civile e penale), Cose sacre, Cose pure. Ciascun « ordine » è risuddiviso in « trattati ».
    È la Mishnah che costituisce la base su cui si sviluppano le due redazioni del Talmud; le singole parti di essa vennero fatte oggetto di discussione approfondita da parte dei dottori (Rabbini) nelle accademie apposite, in Palestina e in Babilonia, dove era sempre rimasta una comunità ebraica fin dal tempo dell’esilio nel 586 a.C., comunità che dal III sec. in poi venne ad assumere una importanza preponderante nell’ebraismo. Possiamo considerare il Talmud babilonese e il Talmud gerosolomitano come la raccolta dei verbali delle discussioni intorno al testo della Mishnah. 
    La discussione tende soprattutto a riallacciare la prassi codificata nella Mishnah al testo biblico e a giustificarla in base ad esso, per mezzo di determinate regole ermeneutiche. Naturalmente nel corso della discussione si introducono gli argomenti più diversi, così che il Talmud è una fonte inesauribile per la conoscenza di tutta la vita degli ebrei nei primi secoli dell’era cristiana; vi troviamo materiale storico, mitico, aneddotico, geografico; in base ad esso possiamo ricostruire il credo degli ebrei intorno a Dio, la Sua attività creatrice, la Sua provvidenza, la Sua giustizia, gli angeli e i demoni, la vita futura, l’escatologia, il messianesimo, l’elezione d’Israele, ecc.; vi troviamo la saggezza di antichi maestri, e la spiritualità e la pietà d’Israele risuona profonda in numerose preghiere.
     Il Talmud palestinese si ritiene concluso nel V sec.; quello babilonese fu invece sottoposto alla revisione dei dottori detti « saborei », che ne vagliarono minuziosamente il materiale, dandogli anche una forma non scevra di artifici letterari; la redazione di esso si conchiude nel VI secolo (1).
      Inseriti nel Talmud si trovano alcuni trattati di origine probabilmente posteriore alla Mishnah, fra cui famoso è Aboth de-Rabbi Nathan, che è un’esposizione a carattere moraleggiante del trattato mishnico « Sentenze dei Padri », e Sopherim, fonte di grande interesse per la conoscenza dell’antica liturgia giudaica.
     Il materiale normativo (halachico) che non aveva trovato posto nella Mishnah venne anch’esso riunito, al principio del III sec., in un’altra raccolta, detta Tosephta « Aggiunta ».

     La halakhah mirava a regolare le azioni secondo le norme del giure religioso, ma la funzione della Torah non si esaurisce in questo; essa deve anche consolare ed edificare. Questo compito viene assolto dalla haggadah, cioè dalla letteratura interpretativa e narrativa (haggadica), che viene indicata con il termine generico di midrash ( dalla radice darash, « ricercare » e « indagare » ). 
    Forse più ancora della letteratura halachica, quella haggadica è un mondo, e possiamo indicarne solo le raccolte più importanti; bisogna distinguere in essa i midrashim di carattere più direttamente esegetico, da quelli prevalentemente narrativi o a sfondo etico; alcuni rispecchiano la predicazione nella Sinagoga, ecc.
    Raccolte haggadiche esistevano a partire dall’inizio del III sec., ma nelle più antiche fra di esse sono raccolti elementi anteriori, così che possiamo asserire di cogliervi, almeno qua e là, l’eco del mondo in cui ha vissuto Gesù. Il periodo veramente produttivo del midrash corrisponde all’epoca talmudica e si esaurisce più o meno intorno al VI sec. Comincia allora l’epoca della raccolta e della redazione definitiva del materiale, periodo che arriva fino circa al XII sec.
    I più antichi midrashim dovuti ai maestri del periodo della Mishnah si attribuiscono parte alla scuola di Rabbi Aqiba (m. 135), e parte alla scuola del suo contemporaneo Rabbi Jishmael; li divide una certa differenza nell’uso delle regole ermeneutiche, e l’interesse giuridico che, nelle opere dovute alla scuola di Rabbi Aqiba, si mescola a quello haggadico, mentre nelle opere della scuola di Rabbi Jishmael l’intento narrativo è prevalente. 
    Al primo gruppo appartiene il Sifrà, detto anche Torath Kohanim, che prende in considerazione il Levitico; il Sifrè a Numeri e a Deuteronomio. Ci sono poi due commenti a Esodo, detti ambedue Mekhilta: quello che prende il nome di Rabbi Shimon ben Johaj è della Scuola di Rabbi Aqiba, mentre l’altro appartiene alla Scuola di Rabbi Jishmael, insieme con un altro Sifrè a Deuteronomio; tuttavia l’attribuzione a una scuola o all’altra non va intesa in maniera assoluta. Si tratta di commenti parziali e non sistematici ai libri biblici.
    Carattere di commento sistematico al Genesi ha il più antico midrash esegetico, detto Genesi rabba (be-reshit rabba); esso contiene materiale assai antico, anche se il periodo della redazione di esso è incerto. Non vi mancano interpretazioni a carattere normativo, ma vi si rispecchia soprattutto la tradizione haggadica palestinese, come nel midrash a Lamentazioni (Ekhah Rabbathi), che appartiene anch’esso ai più antichi midrashim esegetici. Fra i più recenti ricordiamo invece il midrash ai Salmi e ai Proverbi.
    Quanto ai midrashim omiletici, si discute se il più antico sia la raccolta Pesiqta de Rab Kahana (detta anche Pesiqta semplicemente) o il Levitico rabba (wa-jiqra rabba). C’è chi ritiene addirittura Pesiqta come la più antica raccolta midrashica; alcuni la ritengono contemporanea di Genesi rabba, altri vedono invece in Lamentazioni rabbati e in Levitico rabba una fonte di Pesiqta. 
    Si tratta comunque di testi antichi, contenenti materiale assai antico. Pesiqta contiene le omelie alle letture del Pentateuco prescritte per i sabati distinti e le feste, e le omelie ad alcune letture profetiche. Omelie alle stesse letture e ad altre letture della Torah e dei profeti sono raccolte in Pesiqta rabbati, così detta per distinguerla dalla più antica raccolta dello stesso nome.
    Alla letteratura haggadica del primo periodo appartiene anche la Megillath Taanit, « Rotolo del digiuno », dove sono indicati i giorni in cui si è prodotto qualche fausto evento della storia d’Israele e nei quali quindi è proibito digiunare. È un’opera a carattere storico, nella quale tuttavia la storia è abbellita da elementi popolari. Dello stesso genere ma posteriori sono il Seder Olam e i Pirqè Rahhi Eliezer, databili forse all ‘VIII sec.
    Nel V sec. vive in Palestina il famoso haggadista Rabbi Tanhuma bar Abba, che iniziò la raccolta sistematica e la presentazione letteraria della haggadah. Sotto il suo nome è nota la grande collezione omiletica che copre tutto il Pentateuco, seguendo le divisioni in pericopi della lettura liturgica settimanale. Esiste un midrash Tanhuma A (edito da Salomone Buber), e un midrash Tanhuma B, conosciuto anche come Jelammedenu (« Insegnaci »), dalla frase con cui si introducono le domande su questioni halachiche. Sono caratteristiche di queste omelie le conclusioni consolatorie a carattere messianico.
    Dipendono dal midrash Tanhuma le raccolte omiletiche di Esodo rabba (shemoth rabba), Numeri rabba (be-midbar rabba); mentre Deuteronomio rabba (debharim rabba) dipende piuttosto dal Talmud palestinese, da Genesi rabba e da Lamentazioni rabbati; secondo Zunz andrebbe datato al 900.
    Si collega invece ancora al midrash Tanhuma la Aggadath Eereshith, la cui particolarità consiste nella triplice divisione di ogni omelia: la prima parte si collega a un passo di Genesi, la seconda a un brano profetico e la terza a un testo degli agiografi. Si può forse trarre da qui l’indicazione di quale fosse la lettura profetica (haftarah} che seguiva ciascuna pericope di Genesi. I midrashim omiletici sono comunque preziosa fonte per la conoscenza dell’anno liturgico giudaico e in genere della vita liturgica della Sinagoga.
    I midrashim ai « Cinque Rotoli » (Esther, Cantico dei Cantici, Lamentazioni, Ruth ed Ecclesiaste) si trovano riuniti a partire dalla editio princeps di Pesaro nel 1519; si tratta tuttavia di opere indipendenti l’una dall’altra. Di Lamentazioni rabbati abbiamo già detto. Cantico rabba (shir ha-shirim rabba) è un’opera di compilazione che raccoglie, seguendo verso per verso il testo biblico, materiale tratto in gran parte dal Talmud palestinese, da Genesi rabba, da Pesiqta e Levitico rabba. Il testo biblico viene interpretato per lo più in senso allegorico, ricercandovi allusioni di carattere mistico all’incontro tra Dio e il Suo popolo.
    Anche Ruth rabba è un commento verso per verso al libro biblico, preceduto da un lungo proemio. Le fonti sono le stesse del midrash al Cantico.
    Opera di compilazione è anche il midrash a Ecclesiaste (Qoheleth rabba); il compilatore attinge a Genesi rabba al midrash a Lamentazioni e a Cantico, e anche a fonti omiletiche, come Pesiqta e Levitico rabba.
    Il midrash Megillath Esther, contiene anch’esso materiale attinto a fonti antiche (Talmud palestinese, Genesi rabba, Levitico rabba), com’è naturale, dato che il Libro di Esther fu fatto oggetto di studio nelle scuole rabbini – che già in tempi assai remoti; inoltre vi si trovano dei brani interpolati, che si ritengono tratti dal Josippon, opera composta in Italia nel IX sec. che tratta, alla maniera haggadica, la storia d’Israele dalla caduta di Babilonia alla distruzione del Tempio. Le interpolazioni riguardano il sogno di Mardocheo e la sua preghiera, la preghiera di Esther e la sua comparsa davanti al re, passi che non fanno parte del testo ebraico di Esther, ma ci sono pervenuti in greco.
    Le grandi raccolte midrashiche ci riportano infine a tempi più tardi. Leqah tobh sarebbe dovuto a Tobia ben Eliezer (sec. XI-XIl) e copre tutto il Pentateuco e i Cinque Rotoli. Il Midrash ha-gadol è posteriore a Maimonide, ma conserva alcuni midrashim del primo periodo che non ci sono altrimenti noti. Il grande Thesaurus a tutto l’ Antico Testamento porta il nome di Jalqut Shimoni; contiene materiale halachico e haggadico. Di un secolo più tardo è il Jalqut ha-Makhiri.
     L ‘enumerazione dei midrashim è ben lungi dall’essere completa, ma per amore di chiarezza preferiamo limitarci alle opere di importanza fondamentale (2).
     Va aggiunta ancora una parola a proposito delle traduzioni aramaiche della Bibbia, il Targum (3). L’origine del Targum è sinagogale; sorse presto – forse addirittura dall’epoca del ritorno dall’esilio – il bisogno di tradurre il testo biblico per quelle comunità che non capivano la lingua ebraica. Anche la traduzione greca, detta dei settanta, è dovuta a un’esigenza dello stesso genere. Il Trattato Sopherim (10, 1) stabilisce le regole per tali traduzioni: il traduttore (meturgeman) deve tradurre la Torah un versetto alla volta; i profeti tre versetti alla volta. Si sono venute formando così varie raccolte targumiche. 
    Ogni traduzione, anche letterale, è sempre un po’ un’interpretazione del testo; nel Targum poi molto spesso il meturgeman si allontana dal testo, lo abbellisce, vi aggiunge materiale haggadico. In tal modo il Targum diventa una importantissima fonte per la conoscenza del giudaismo tanto più importante in quanto gli studiosi sono oggi per lo più d’accordo nel riconoscere un’origine precristiana al materiale targumico, anche se redatto più tardi.
    La scoperta sensazionale avvenuta nel 1956 di un manoscritto di un Targum completo – meno pochi versetti tralasciati per errore di scriba – al Pentateuco, chiamato dall’indicazione del frontespizio Codice Neofiti, ha destato nuovo interesse per questi studi, e si è visto che gli argomenti che il Kahle aveva portato per rivendicare una data assai antica ad alcuni frammenti targumici d’origine palestinese rinvenuti al Cairo, valevano anche per questo testo. 
    Il Codice Neofiti contiene un Targum per lo più – sopratutto per Levitico e Deuteronomio – sobrio e fedele al testo biblico, tanto che si pensa a una redazione più o meno ufficiale. I lunghi passi haggadici, che malgrado tutto si sono conservati, sarebbero dovuti probabilmente alla veneranda antichità di talune tradizioni o anche a particolari usi liturgici.
    Sta di fatto che la situazione degli studi targumici si è venuta capovolgendo: il Targum detto Onqelos, traduzione quasi letterale dei cinque Libri di Mosè, era ritenuto come il più antico e di origine babilonese; ora si pensa invece che esso sia un’abbreviazione del Targum palestinese, detto pseudo Jonatham e che contenga haggadah palestinese. L ‘Onqelos è redatto in un aramaico di scuole, detto « aramaico imperiale », idioma in cui sono redatte anche le parti aramaiche della Bibbia.
    Il Targum pseudo-Jonathan, detto anche Jerushalmi, copre anch’esso tutto il Pentateuco, ma è più perifrastico dell’ Onqelos, incorporando materiale haggadico, che diventa assai abbondante nella seconda recensione di esso, nota come « Targum frammentario », perché conservato solo per un numero complessivo di 800 versetti. È stato constatato che l’antico midrash Genesi rabba si riferisce sempre – meno una o due volte – al Targum palestinese, e non all’Onqelos, cosa che viene a confermare la datazione antica del primo.
    Esiste ancora un Targum ai profeti detto di Jonathan ben Uzziel, scritto nella lingua del Targum Onqelos. Anche in esso sono state conservate tradizioni assai antiche: è spiegabile ad es. che l’interpretazione in chiave messianica che esso dà del passo di Michea 5,2 «Da Te, Betlemme, uscirà il Messia » ) sia stata conservata dopo la nascita del cristianesimo, ma non si può supporre che vi sia stata inserita dopo.
     Mentre il Targum al Pentateuco e ai profeti era la traduzione ufficiale della Sinagoga palestinese, il Targum agli agiografi non ha mai raggiunto l’importanza degli altri; la cosa ha il suo lato positivo, perché esso ha così goduto di una maggiore libertà nell’uso delle parafrasi, conservando quindi tradizioni haggadiche interessanti. Le constatazioni di una parentela tra il Targum di Proverbi e la traduzione siriaca dello stesso testo, anzi la supposizione Che la seconda dipenda dal primo, fanno pensare anche in questo caso a una datazione antica.
     L’attribuzione del Targum al Pentateuco a Onqelos e di quello dei profeti a Jonathan è una finzione, con la quale si voleva affermare che quello che Aquila e Teodozione avevano fatto per gli ebrei di lingua greca era stato fatto anche per quelli fra loro che parlavano aramaico. I Targumim non sono opera personale, fatta a tavolino, ma rispecchiano la catechesi viva.
    In quanto all’importanza del Targum per la conoscenza dell’ambiente in cui è sorto il Vangelo, ci limitiamo a riportare le parole del noto studioso francese, Roger Le Deaut:
    « …le ricchezze contenute nelle fonti targumiche fanno parte di quella ‘tradizione’ del popolo di Dio, in Cui gli autori ispirati hanno attinto per esprimere il messaggio di Cristo. Noi cattolici che insistiamo tanto, a ragione, sul valore della Tradizione dovremmo essere pronti a considerare con molta simpatia tutte queste ricchezze religiose che costituivano una parte della religione di coloro per mezzo dei quali ci è venuta la luce del Vangelo » (La Nuit Pascal, Rome, 1963, p. 58).
     Ci siamo talvolta riferiti anche a testi liturgici; aggiungiamo quindi qualche notizia sommaria anche intorno ad essi.
    Il grande riformatore della liturgia giudaica fu Rabban Gamlièl Il, che visse al tempo della distruzione del Tempio (70 d. C.). Come il suo contemporaneo Rabbi Johannan ben Zakkaj riconobbe la necessità di alcuni cambiamenti nella Legge (abolì per esempio la prova delle « acque amare » per la donna sospetta di adulterio), così Rabban Gamlièl sentì un bisogno analogo per quel che riguarda la liturgia e affrontò con decisione la situazione cambiata, in conseguenza della caduta del Tempio. Come Rabbi Johannan ben Zakkaj cercò in qualche modo di sostituire Gerusalemme, organizzando l’accademia di Jabne, così Rabban Gamlièl compensò con l’ organizzazione della preghiera – considerata « sacrificio delle labbra » – il culto sacrificale, caduto con il Tempio.
    Le più antiche indicazioni liturgiche si trovano nella Mishnah e nella Tosefta, dove troviamo però per lo più indicazioni di carattere rubristico ( v. in particolare i trattati dell’ordine « Festività » ), e solo raramente il testo vero e proprio di preghiere.
    Si incomincia evidentemente ad andare verso una fissazione della struttura liturgica, rimasta fino ad allora piuttosto fluida; tale fissazione riguarda però ancora piuttosto il quadro esteriore e non le formule. Mishnah e Tosefta sono tuttavia preziose per ricostruire almeno la struttura di gran parte dell’antica liturgia ebraica, e ci permettono di constatare il perdurare fino ad oggi di antichi elementi  liturgici. Le notizie contenute nelle due antiche raccolte rabbiniche vengono naturalmente riprese e ampliate più tardi nella discussione talmudica.
    Carattere ancora più o meno rubristico ha Massekheth Sopherim (il trattato degli « Scribi » ), che fornisce fra l’altro importanti notizie intorno alle letture liturgiche sinagogali (benedizioni che le accompagnano, spiegazione e traduzione di esse, numero dei lettori, ecc.), e rispecchia gli usi gerosolomitani. Si discute se far risalire la sua redazione al VI o all’VIII sec.; comunque contiene materiale, che risale all’epoca della Mishnah.
     Non sappiamo se la terribile proibizione contenuta in Tosefta Shab. 14, 4:
« Chiunque redige in iscritto una preghiera, commette un peccato, come se bruciasse la Torah » sia stata realmente ritenuta valida e per quanto tempo. Comunque la grande epoca di redazione delle raccolte di preghiere (siddurim) inizia nell’VIII-IX sec., con il siddur di Amram gaonita (4); è un documento ufficiale dell’accademia di Sura, la cui fonte principale è il Talmud babilonese e rispecchia la tradizione liturgica babilonese.
    Nel X sec. il gaonista Saadjah redige egli pure un siddur, che rispecchia la prassi liturgica palestinese.
     Una specie di Thesaurus liturgico è il Mahsor Vitry, compilato da Simha ben Shemuel, talmudista francese del XII sec. alunno di Rashj, con aggiunte di altri; vi troviamo raccolte di rubriche, preghiere, commenti a testi liturgici ecc. Altra inesauribile fonte di notizie liturgiche è Mishneh Torah di Maimonide.  

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(1) Il Talmud babilonese è tradotto in tedesco da Goldschmidt, Berlin 1929-36 e in inglese da J. Epstein, London 1936-48; quello palestinese è tradotto in francese da M. Schwab, Paris 1871-89; ristampato a Parigi. La Mishnah è tradotta in italiano da V. Castiglioni, Mishnaioth, Sabatini 1962, di cui sono usciti per ora quattro ordini. Non ci dilunghiamo su questa letteratura, rimandando a: E. Zolli, Il Talmud Babilonese, Trattato delle Benedizioni, con Introd. alla Letteratura talmudica di S. Cavalletti, Bari 1958; Strack u. Billerbeck, Einleitung in Talmud u. Midrash, Munchen 1921.
(2) Un certo numero di midrashim è stato tradotto da A. Wünsche in « Biblioteca Rabbinica »; per notizie su di essi v. Str ack u.. Billerbeck, o. c.; il Midrash rabba è tradotto in inglese, ed. Soncino, Londra 1939, ristampato nel 1951 e 1961.
(3) V. A. DlEZ MACHO, Targum y Nuevo Testamento, Melan E. Tisserant, Città del Vaticano 1964, I, 153 ss.
(4) Di una parte del siddur di AMRAM esiste una traduzione inglese con testo e commento: Hedegard D., Lund 1951.

Publié dans:ebraismo |on 20 septembre, 2010 |Pas de commentaires »

ROSH AHSHANÀ – CAPODANNO EBRAICO 9-10 SETTEMBRE 2010

dal sito:

http://www.ritornoallatorah.it/public/

Rosh Hashanah 5771    

Rosh Hashanah, il capodanno ebraico stabilito dalla Torah, nel 2010 inizia al tramonto di mercoledì 8 settembre e dura fino al tramonto di venerdì.

Rosh Hashanah è la festa della riflessione sulla propria coscienza, del pentimento e della speranza di riuscire a migliorare sè stessi per amore del Creatore, del prossimo e della giustizia.

Rosh Hashanah è il capodanno ebraico, una delle festività più sacre tra quelle ordinate dalla Torah.
Secondo il testo biblico, il primo mese del calendario è quello in cui si celebra Pesach, cioè Nissan (Esodo 12:2), eppure il capodanno si festeggia il primo giorno del mese diTishrei (in autunno), poichè esso segnava l’inizio dell’anno agricolo, fondamentale nell’antica concezione ciclica del tempo.

Il nome Rosh Hashanah, che significa proprio « capo dell’anno », non compare mai nella Bibbia, dove invece questa festività viene chiamata « festa della raccolta » (Esodo 23:16), e « giorno annunciato dal suono, una santa convocazione » (Levitico 23:24).

Rosh Hashanah ha un significato collettivo che riguarda tutta l’umanità poichè, secondo i Maestri, in questo giorno ricorre l’anniversario della Creazione del primo uomo, ed è quindi il momento in cui Dio rinnova il Suo sostentamento alla natura segnando un nuovo inizio per tutti.
Ma il capodanno ha anche un significato che riguarda individualmente ogni essere umano, ed è per questo che nella tradizione è chiamato anche « Yom HaDin », cioè « Giorno del Giudizio ».
Infatti, come è spiegato nel Talmud e nei Midrashim, nel giorno di Rosh Hashanah Dio prende in esame le azioni di ogni uomo e stabilisce il Suo Giudizio, che tuttavia viene decretato definitivamente soltanto dieci giorni dopo, in occasione di Yom Kippur. Per questo, nei dieci giorni che separano queste due festività, gli uomini hanno ancora la possibilità di ravvedersi rimediando ai propri errori e abbandonando le loro trasgressioni per meritare il perdono Divino.

Il capodanno ebraico è quindi la festa della riflessione sulla propria coscienza, del pentimento e della speranza di riuscire a migliorare sè stessi, non per la paura di essere puniti, ma per amore del Creatore, del prossimo e della giustizia.
Per scuotere gli animi dal torpore spirituale viene suonato lo Shofar, uno strumento musicale costituito dal corno di un animale (di solito un montone), il cui suono nell’antico Israele era un segnale di guerra. Lo Shofar viene utilizzato nelle Sinagoghe per annunciare alcune funzioni religiose, in particolare durante Rosh Hashanah e Yom Kippur.

Nei giorni che precedono Rosh Hashanah vengono recitate delle preghiere penitenziali chiamate selichot, alcune delle quali fanno parte anche della liturgia della festività.

E’ diffusa l’usanza di recarsi ad un luogo dove ci sia acqua corrente nel pomeriggio che precede Rosh Hashanah per gettarvi oggetti vecchi ed inutili recitando il verso del profeta Michea: « Tu getterai le nostre colpe nel mare più profondo » (Michea 7:19).
Non bisogna pensare che si tratti di una cerimonia superstiziosa: il lancio degli oggetti non libera davvero gli Ebrei dai peccati, ma rappresenta simbolicamente l’atto del ravvedimento e dell’abbandono di ogni vecchia colpa.

Durante la cena (seder) di Rosh Hashanah, vengono pronunciate benedizioni di ringraziamento e il pane (challah) viene intinto nel miele per indicare l’augurio di un anno dolce e piacevole. Viene inoltre servita una grande quantità di frutta, in particolare il melograno che simboleggia l’idea di abbondanza e quindi di prosperità.

Quando esisteva ancora il Tempio, durante questa festività venivano offerti particolari sacrifici oggi sostituiti dalle preghiere (Numeri 29:1-6).

Publié dans:ebraismo |on 8 septembre, 2010 |Pas de commentaires »

SBF Taccuino – Alla ricerca del Monte Sinai

dal sito:

http://www.custodia.fr/SBF-Taccuino-Alla-ricerca-del.html

SBF Taccuino – Alla ricerca del Monte Sinai

Messo on line il venerdì 02/04/2010 a 17h55 da  Eugenio

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Ogni primavera gli ebrei celebrano la festività della pasqua. La festa ha luogo nella prima notte o nelle prime due notti del periodo festivo: c’è la lettura del testo, le canzoni e le istruzioni di un libro speciale chiamato Haggada, che significa “raccontare”. Le celebrazioni della pasqua ebraica di quest’anno cadono in questa settimana.

A ogni partecipante al Seder è richiesto di celebrare la festività come se egli stesso avesse vissuto la fuga dall’esercito del faraone e avesse trovato rifugio nel deserto del Sinai presso la Montagna di Dio.

Molti studiosi della Bibbia discutono riguardo alla così detta via “meridionale” dell’Esodo, che confermerebbe l’identificazione del tradizionale Monte Sinai con Jebel Musa (in arabo “Monte di Mosè”), ai cui piedi si trova un monastero ortodosso del quinto secolo costruito dall’imperatore Giustiniano. I sostenitori di questa teoria ritengono che gli israeliti fuggirono a est, poi in qualche modo attraversarono Suez a sud per proseguire a est sugli altipiani del Sinai del sud, dove ricevettero i Dieci Comandamenti.

E’ una teoria affascinante, perché il paesaggio è aspro, le montagne sono impressionanti ed è certo che gli isareliti potrebbero non aver avuto problemi a tenersi a distanza dalle attente perlustrazioni degli egiziani (che non occuparono mai l’area stabilmente). Il fatto che numerose tribù beduine abbiano vissuto lì per secoli rende la teoria anche più convincente. In quei luoghi desertici possono aver vissuto per 40 anni e, temprati dalla vita del deserto, gli israeliti conquistarono in seguito Canaan, risalendo il lato est della penisola e il territorio che è l’odierna Giordania, da dove si pensa che Mosè stesso guardò verso la Terra Promessa, a est del fiume Giordano, sul Monte Nebo.

Nel nord del Sinai si trovano le oasi di Ein al Qderat e, a sud di Gaza, le sorgenti di Kossaima, sul confine degli altopiani centrali del deserto del Negev. Molti studiosi credono che questo sia il luogo chiamato Kadesh Barnea, dove gli isareliti si stabilirono per 40 anni prima di entrare nella Terra Promessa.

Kossaima è un’estesa oasi attraversata da un fiume che in certi punti è largo quasi quanto il Giordano. Da qui migliaia di seminomadi potrebbero aver dato vita ad una forte armata. Se Kossaima è davvero l’antica Kadesh Barnea, questa identificazione costituirà una indizio per quegli studiosi che sostengono che gli israeliti fuggirono attraverso il nord e il nord-est del Sinai, vicino l’altopiano del Tih. Miriam, la sorella di Mosè, fu sepolta a Kadesh Barnea. Secondo i sostenitori della teoria della via del nord è possibile che Jebel Helal, che si trova ad est, sia il Monte Sinai.

Nella Bibbia si legge che, quando gli israeliti lasciarono il Sinai per entrare nella Terra Promessa, passarono per le steppe di Moab in Giordania vicino Gerico e chiesero al re edomita il permesso di passare attraverso la sua terra. Costui rifiutò ed essi dovettero evitare il suo regno. Questa indicazione ha condotto altri studiosi a pensare che forse gli isareliti si fermarono per qualche tempo a Madian, la terra del suocero di Mosè, Ietro. Alcuni ne hanno dedotto che il Monte Sinai possa trovarsi a sud-ovest dell’Arabia Saudita o a est della Giordania.

La teoria ha già dei precedenti. Quando nel diciannovesimo secolo l’esploratore Charles Beke attraversò il deserto, più tardi scrisse nel suo libro Sinai in Arabia and of Median che la montagna era situata a nord-est del Golfo di Aqaba, nella valle di Wadi Yutm. Beke credeva che Jebel Ertowa fosse il Monte Horeb (Sinai).

Nel 1927, un altro ricercatore visitò le rovine della città di Petra, a est del fiume Giordano, e sostenne che una delle vette chiamata Jebel Madhbah era il Monte Sinai. Egli basò la sua identificazione sul fatto che l’altura misura più di 1000 metri e che sulla cima sembrava che ci fosse qualcosa come un altare, vi si saliva per una faticosa scala ricavata nella roccia e c’era una piscina che poteva aver avuto un uso cerimoniale. Il fatto che San Paolo nella lettera ai Galati (4,25 “il Sinai è un monte dell’ Arabia”) situi il Sinai ad est della Giordania rende i sostenitori di questa tesi molto più sicuri.

Ci sono anche altri punti di vista. Emmanuel Anati ha posto il Monte Sinai vicino Jabal Eideid nel sud-est del deserto del Negev dell’Israele odierno. Hershel Shanks della Biblical Archaeological Society ha proposto di recente di identificare il Monte Sinai con Jebel al Lutz in Arabia Saudita.

Fondamentalisti cristiani, avventurieri e scrittori hanno approfittato di quest’ultima teoria e hanno ricavato molto vendendo libri sull’argomento.

Una volta che gli israeliti lasciarono il Sinai ed entrarono nella Terra Promessa, l’unica altra volta in cui il Monte è menzionato nella Bibbia come luogo che qualcuno ha visitato è quella dove si parla della fuga del profeta Elia, il quale vi si rifugiò per sfuggire all’intrigante Gezabele. Pochi secoli dopo e un migliaio di anni dopo il dissolvimento del regno del re Davide, sembrava che il popolo ebreo non sapesse più dove fosse il Monte Sinai.

La rivelazione sul Sinai fu un evento reale etnografico. Ma per il popolo ebreo, e ciò appare molto significativo, quell’episodio è passato nell’ambito della storia sacra o del mito che è diventato più importante del luogo dove si svolse l’evento.

Adattamento: R.P.

di Gavriel Haim Cohen: Il ruolo della donna nell’evoluzione

dal sito:

http://e-brei.net/old/modules.php?name=News&file=article&sid=403

Il ruolo della donna nell’evoluzione 

 Gavriel Haim Cohen  – Scrivere  »
 
Da una lettura superficiale della Bibbia si potrebbe arrivare alla conclusione che il ruolo della donna nel periodo biblico fosse molto ridotto. Potrebbe sembrare che il suo posto sia in casa; cio’ sembra emergere da una frase simbolica, espressa a proposito di Sara, la nostra matriarca ecco e’ nella tenda (Gen XVIII, 9).

L’idea di concentrare la donna nei compiti casalinghi e’ espressa in forma sintetica nei salmi: l’onore della principessa e’ all’interno (XIV, 14): la principessa con tutto il suo splendore si trova nel suo palazzo. D’altro canto e’ sottolineata nella Bibbia la centralita’ dell’uomo; gia’ nell’elenco della discendenza in genesi viene chiaramente alla luce questo elemento.

Anche se la donna ha un ruolo fondamentale nella discendenza, in ogni generazione e’ scritto chi ha generato chi, senza ricordare assolutamente la donna. Quando il testo ricorda una donna nelle discendenze si afferma la sorella di Tuval Gaiin era Haama’ (Gen IV, 22), i commentatori sentono l’esigenza di spiegare questa espressione particolare.

Non solo la donna non e’ ricordata negli eventi che percorrono la storia, ma sentenzia che il suo statuto giuridico non e’ molto forte. Basti ricordare che un suo voto non e’ tale visto che il marito ha il potere di scioglierlo (Num, IX 9). Anche in caso di divorzio e’ il marito a dover assumere l’iniziativa, a preoccuparsi della redazione e della consegna dell’atto (Deut, XXIV). Lo stesso termine isha’, donna, deriva dal termine ish uomo quasi come se dovesse trovarsi all’ombra dell’uomo, almeno secondo il verso in Gen II, 23. per questo (motivo) verra’ chiamata isha’ donna poiche’ e’ stata tratta dall’uomo ish. Molto spesso la donna e’ ricordata, non tanto per il suo contributo diretto alla formazione della societa’, quanto per il suo aspetto esteriore. Si potrebbe pensare che l’essere bella d’aspetto o bella a vedersi sia l’unico punto di riferimento fondamentale per il suo status.

Tutto cio’ che abbiamo detto e’ giusto, pero’ questo quadro non e’ completo e veritiero.

Se approfondiamo lo studio delle fonti guardando l’intera Bibbia si ricava tutto un altro quadro. Dobbiamo pero’ ricordarci di classificare le nostre spiegazioni in due:

La Bibbia copre un periodo storico di quindici secoli; non e’ paragonabile assolutamente lo status ed il ruolo di Sara, la matriarca, con quello della regina Ester.
Il nostro lavoro e’ di creare un bel mosaico con pietre preziose sparse qua e la’.
Non abbiamo nella Bibbia un’unica opera dedicata alle donne; dobbiamo raccogliere il materiale da fonti diverse: racconti storici, passi profetici, sapienzali e poetici. Dobbiamo aggiungere che nel pensiero biblico l’uomo non agisce solo sotto la spinta del tempo e del luogo. Secondo la concezione biblica non sono l’uomo e la donna a creare la storia; abbiamo due fattori in ogni processo storico-sociale: un fattore terreno ed uno celeste. I racconti della Bibbia sono improntati a questa doppia causalita’. Una causalita’ naturale, sensibile ed un a superiore, nascosta, non sensibile, il progetto della ashgara’ divina. (difficilmente traducibile con provvidenza)

Questo aspetto sembra estraneo alla posizione della donna nella Bibbia, ma e’ necessario ricordare che la donna si inserisce pienamente in questo sistema basato sulla collaborazione ed interazione tra la causalita’ divina e quella umana.

Guardando nella Bibbia ed analizzando i diversi capitoli storici del periodo biblico, possiamo dire che non vi e’ una professione o condizione a cui la donna non abbia partecipato. Il fatto che la donna venga riconosciuta sapiente e’ riferito ai maestri e tanto piu’ alle donne. La sapienza femminile incide molto sulle situazioni sociali e storiche piu’ delicate.

Una donna di Teqoa impedisce con la sapienza l’uccisione di Avshalom (II Sam. XIV). Una donna anonima salva una citta’ intera andando da Ioav e dai suoi concittadini, proponendo un accordo particolare per calmare i dominatori e salvare la citta’ con la sua intermediazione. (II Sam XX) nella Bibbia non vi sono pero’ solo donne fornite di sapienza generica, ma troviamo profetesse. La prima donna cui e’ riferito questo attributo e’ Miriam. Dietro di lei vengono le altre. Secondo la Torah e’ molto difficile fornire una valutazione piena dell’importante contributo di Miriam. Questo e’ passato in misura maggiore nella coscienza delle generazioni future. Cosi’ il profeta Micha’ (VI, 4) rappresenta in un periodo molto successivo il ruolo di Miriam a fianco di Mose’. Ti ho fatto salire dall’Egitto e ti ho riscattato dalla casa di schiavitu’ e ti ho inviato Mose’, Aharon e Miriam.

Cosi’ come vi sono profetesse tra i profeti, cosi’ vi sono donne tra i giudici. Debora e’ nello stesso tempo profetessa e giudice Debora la moglie di Lapidot era profetessa e lei giudicava e governava Israele in quel tempo. I figli d’Israele salivano verso di lei per chiedere giustizia.

Vi e’ stata anche una donna che arrivo’ al rango di regina (come governatrice indipendente, non come moglie del re). Si parla della regina Atalia’ arrivata al potere con un atto molto cruento: tutto il suo governo era impregnato di idolatria. Anche nel campo militare strategico le donne offrono il loro contributo decisivo. Quando richiedono a Debora di associarsi alla guerra contro Sisera’, lei pur essendo d’accordo disse: verro’ con te pero’ la gloria non sara’ tua nella strada che stai intraprendendo perche’ il signore consegnera’ Sisera’ nelle mani di una donna. Abbiamo inoltre l’azione di Israel contro Sisera’.Un’altra donna sconosciuta getta una pietra della macina sulla testa di Avimelech salvando l’intera citta’ dall’incendio. (giudici IX, 53)

Da tutti gli esempi portati risulta chiaro che tutti i compiti amministrativi esistenti in quel periodo vennero ricoperti anche da donne, con l’eccezione dei ruoli sacerdotali riservati all’uomo. E’ necessario sottolineare che il testo ricorda che queste donne assolvono il loro compito con gran successo. Solo Atalia falli’ e fece sbagliare gli altri, ma vi e’ il dubbio che non fosse di origine ebraica.

Un altro ambito in cui la donna puo’ agire dando espressione alla sua personalita’ e’ l’aiuto fornito all’uomo. E’ chiaro dalle fonti che la donna non viveva sempre sotto una campana di vetro, ma condivideva con l’uomo i pericoli e adempiva a compiti fondamentali a fianco del marito. L’influenza della donna sulle azioni del marito e sulla storia si riconosce gia’ al tempo di Adamo ed Eva la donna che mi hai posto al fianco mi diede il frutto e lo mangiai. La donna contribuisce quindi all’inizio della storia umana. Il legame, anzi al dipendenza reciproca tra Adamo ed Eva e tra la moglie ed il marito e’ gia’ stabilita all’inizio dalla Torah: l’uomo abbandonera’ suo padre e sua madre e si incollera’ a sua moglie (Gen II, 24) bisogna fare molta attenzione alla struttura di questo verso. La donna non abbandonera’ il suo ambiente, ma deve essere l’uomo ad abbandonare i genitori. C’e’ chi spiega che in questo verso vi e’ un accenno al potere della donna. L’uomo incollandosi alla moglie crea qualcosa di nuovo e questa novita’ la crea con la moglie. Non vi e’ un creatore ed una creatrice, ma lei e’ socia fedele nella sua strada. Molte espressioni accennano a questo rapporto societario. La Torah parla della donna come aiuto simmetrico: ezer kenegdo’ II, 20.

Il profeta parla della donna come contraente del patto (Malachi II,14) e la letteratura sapienzale parla della donna valorosa (Proverbi XXXI, 6).

L’uomo nella Bibbia associa spesso sua moglie nelle sue decisioni ed invita la donna ad un incontro nel consiglio di famiglia. Disse Lemech alle sue mogli Ada e zilla, ascoltate la mia voce, donne di Lamech porgete orecchie al mio detto. (Gen IV, 23) Giacobbe mando’ a chiamare Rachele e Lea. (Gen XXXI, 4) Se la cooperazione e’ cosi’ stretta e’ chiaro che chi trova la donna adatta merita l’espressione chi trova una donna trova il bene. E’ vero anche il contrario; le donne che non sono adatte ai loro mariti li allontanano dalla buona strada. Basti ricordare l’influenza negativa esercitata dalle mogli straniere di Salomone il re (XI, 1-3).

Due esempi classici sottolineano l’importanza della donna quando il marito e’ al centro della vita pubblica. Izevel e Ester; entrambe, in senso contrario, soggiogano il sovrano. Izevel introdusse il culto idolatra, perseguito’ ripetutamente il profeta Elia, esercito’ un’influenza decisiva sulla vita della societa’ a lei contemporanea collaborando ad una impostazione assimilazionista nella storia del popolo ebraico. Ester e’ la sua parallela. Ester godeva di un’influenza fortissima proprio in quel regno ove era stato stabilito chiaramente di rafforzare la condizione maschile affinche’ ogni uomo domini in casa propria e si parli la lingua del suo popolo (Est. I, 22) l’influenza di Ester era molto forte sul sovrano e in conseguenza di cio’ sull’intero regno.

Anche altre donne della Meghilla’ hanno un’influenza non indifferente; la sorte di Aman venne decretata dalle ambizioni della moglie di Zeresh. Nel caso di Ester e’ rilevante il fatto che una donna, scelta per la sua bellezza, si ritagli uno spazio nel panorama del potere governativo, dando un’impostazione a tutta la storia della potente Persia. Le attribuzioni di Izevel ed Ester sono cosi’ larghe che di entrambe si dice chiaramente che avessero in mano il sigillo reale. Si rivela quindi chiaramente il fenomeno che prima abbiamo delineato: quando una donna e’ ebrea l’influenza e’ positiva, quando non lo e’, e’ negativa. Da qui capiamo le frequenti raccomandazioni ripetute piu’ volte contro il matrimonio misto. Questo tipo di matrimonio puo’ portare al fatto che sia la donna a guidare il comportamento del marito, la vita familiare ed a volte la sorte di un intero popolo verso una direzione indesiderabile. (Nehemia XIII, 23-27)

A questo punto e’ necessario aggiungere anche un altro piccolo punto che illumini l’argomento. Anche D-o benedetto ed Israele vengono considerati come una coppia. Il popolo ebraico e’ la compagnia. (Isaia IV, 5) vi e’ tra loro un’amore esclusivo. Come deve fare il marito, anche D-o benedetto deve attaccarsi al coniuge: l’immagine di uno chiarisce l’altra; i rapporti tra moglie e marito e quelli tra D-o ed Israele. Il terzo ambito e’ quello della donna come madre. Anche se si tratta di cose risapute, vieta la loro centralita’, e’ bene ricordarle sia pur brevemente. In effetti si puo’ dire che l’influenza della donna sulla storia si riconosce gia’ dal fatto che la donna partorisce i protagonisti della storia. Cosi’ la prima donna viene chiamata hava’ perche’ la madre di tutti i viventi. (Gen III, 20)

Vogliamo sottolineare che la donna come educatrice, come madre di famiglia fornisce l’indirizzo educativo alla generazione successiva. L’importanza della donna come educatrice e’ rilevante anche nell’immagine dell’ordine familiare. Nel periodo biblico la persona cresceva non in casa del padre, bensi’ in quella materna. A proposito di Rivqa’ e’ detto che corse e ando’ a riferirlo a casa della madre. (Gen XXIV, 25); cosi’ Noemi dice alle nuore Ruth ed Orpa’: tornate a casa di vostra madre (Rut I, 8). Nell’epoca biblica un uomo poteva avere piu’ mogli ed ognuna abitava in una sua casa, dove allevava ed educava i suoi figli.

La Torah sottolinea l’importanza della donna come educatrice e stabilisce che l’onore ed il rispetto per la madre siano pari a quelli dovuti al padre (es. 20: 12; lev. 19: 3); analogamente si richiede ai giovani di aprire il loro cuore all’influenza educativa della madre: ascolta, figlio mio, l’insegnamento di tuo padre, non disprezzare l’istruzione di tua madre (Deut. XXI, 18), soltanto se non ascolta entrambi i genitori, il ragazzo merita di essere condannato, perche’ non e’ piu’ un essere civile. La donna comprende i problemi dell’educazione piu’ dell’uomo e la Torah lo sottolinea: la matriarca Sara vide che Ismaele scherzava con Isacco e la cosa non le piacque (cfr. Gen. XXI, 9); i maestri del Midrash hanno spiegato la parola scherzare in vari modi, ma resta il fatto che Sara aveva veduto la cattiva influenza di Ismaele su Isacco e quindi insiste’ perche’ il figlio primogenito di Abramo venisse scacciato (cfr. Gen XXI,11), mentre Abramo tentennava in quanto gli spiaceva la cosa a motivo di suo figlio (ibidem), il santo uno diede ragione proprio a Sara: tutto quello che lei ti dice eseguilo (Gen: XXI, 12), in quanto l’influenza di Sara sull’educazione di Isacco era enorme.

Vi sono altri testi della scrittura che dimostrano quanto abbiamo detto. A proposito della regina Ataliah viene detto che suo figlio Achaziah compiva il male perche’ sua madre lo consigliava (2 Cron.XX, 3): detto altrimenti, il figlio rimane sotto l’influenza della madre sebbene fosse responsabile delle sue proprie azioni, la sua colpa era minore in quanto dovuta all’influenza della madre. Cosi’ come il rapporto fra la donna e il marito, anche quello fra la madre ed il figlio viene usato per simboleggiare il legame fra D-o ed Israele: come un uomo viene consolato dalla madre, cosi’ io vi consolero’ (Is.66, 13); questo passo e gli altri simili mostrano quale sia il legame fra il figlio e la madre.

Ci sono tre categorie di donne che giungono ad avere la forza di influenzare le cose: quelle che godono di un particolare successo che le porta ad una posizione sociale di forza, la moglie che puo’ influire sul marito in quanto aiuto a lui piu’ conveniente (cfr. Gen.XX, 18) ed infine la madre che influisce sul processo storico come educatrice dei figli; certamente queste tre categorie non esauriscono l’argomento: un’importanza particolare e’ riservata ad una quarta categoria di donne, l’influenza delle quali non dipende dalla loro personalita’ o dai loro legami sociali; se esaminiamo la scrittura vediamo che essa attribuisce a queste donne un grande influsso sull’evoluzione storica e sociale. La donna in questa categoria sociale e noi parliamo della donna in questo senso, contribuisce molto a fissare il livello morale del popolo. Troviamo nella Torah una decisa opposizione a qualsiasi forma di immoralita’ sessuale, ma l’adempimento di quanto prescrive la scrittura a questo proposito dipende in maniera decisiva dal livello etico del bel sesso. Notiamo a questo proposito il brutto episodio degli israeliti con le donne moabite (Num:XXV, 1): in esso appare che il comportamento delle donne puo’ influire sulla moralita’ di un intero popolo.

Allo stesso modo del livello morale del popolo, pure quello culturale dipende in gran misura dalle donne. Non e’ un caso che la Torah fin da principio ai matrimoni misti; essa conosce molto bene l’influenza della donna sulla vita culturale delle famiglie e delle collettivita’; l’opposizione della Torah ai matrimoni misti deriva essenzialmente dal timore che il legame con donne straniere potesse avere un influsso negativo sugli israeliti in campo religioso e spirituale-culturale. La donna puo’ indirizzare il popolo in una direzione antireligiosa e si deve stare attenti a questa possibilita’. Quando il popolo ritorna compatto ai valori ebraici, acquista valore l’abbandono completo dell’influenza negativa di quelle donne che non sono figlie del patto e non possono diventarlo.

In altre parole, da un punto di vista sociale la donna ha un compito importante in quanto da essa dipende in gran misura il livello morale, culturale e religioso del popolo e dei singoli.

Oltre a quanto abbiamo detto va ricordato che qualunque donna possiede la facolta’ di influire sul processo storico; non intendiamo parlare di quei casi nei quali la donna e’ stata oggetto passivo e non oggetto attivo, come il fatto della concubina di Gabaon (cfr. Giud.XIX e segg.). Intendiamo parlare di quelle donne che hanno dato un importante contributo alle vicende della storia: fra queste ricorderemo Tamar e le figlie di Lot; quanto la prima compi’ a Petach ‘enaim ebbe come conseguenza la nascita di Perets, che fu antenato di re Davide (cfr. Gen XXXVIII, 14 e segg.) E delle azioni delle seconde derivavano due interi popoli, ‘ammon e Moav (cfr. Gen:XIX, 36-38). La scrittura ricorda molte donne le cui azioni salvarono Israele, come Shifra e Pua’, le due levatrici ricordate nel primo capitolo dell’esodo, o Rachav, che rese possibile la conquista di Gerico (Gios. Cap.2).

Qualunque donna, quasi ascoltando il suono della storia,puo’ compiere delle azioni dalle quali dipendera’ il corso degli avvenimenti.

Un altro esempio e’ rappresentato dalle figlie di Tselofchad: costoro si rivolgono a Mose’, a colui che ha dato la Torah ai figli di Israele e gli chiedono quali siano le regole a proposito dell’eredita’, in rapporto alla loro situazione particolare; Mose’ accoglie la loro richiesta, si consulta con D-o stesso, e cosi’ viene ad essere stabilito un completamento delle parole della Torah a proposito della successione (cfr. Num. XXVII, 1-11); da questo completamento deriveranno molte regole tradizionali che riguardano la facolta’ delle donne di ereditare.

Vanno in fine ricordate quelle donne che diedero alla loro vita un indirizzo etico-religioso tale che il loro comportamento, sia secondo che al di qua dei limiti legali, e’ stato, secondo la scrittura, paragonabile al far esistere mondi interi: di queste donne citeremo tre esempi, uno preso dalla Torah, il secondo dai profeti ed il terzo dagli agiografi.

Quando il servo di Abramo arrivo’ ad Aram Naharaim ed incontro’ Rebecca, non sapeva chi fosse lei e lei non sapeva chi fosse lui, pero’ lei diede da bere a lui ed anche ai suoi cammelli (Gen:XXIV, 19), esprimendo cosi’ la sua bonta’; in seguito, quando le chiesero se voleva sposare Isacco, lei accetto’ senza mezzi termini: e le dissero: andrai con quest’uomo? E lei rispose. Andro’ (Gen.XXIV), sebbene sapesse che vivere in Erez Israel non fosse facile; in altre parole Rebecca, basandosi sulla giustizia e sulla morale esegue il suo compito storico.

Passiamo ora a Channa’: questa e’ una di quelle donne delle quali la scrittura dice che erano sterili, Channa’ non si lamenta, non dice se non ho figli io sono morta (Gen.XXX, 1) come Rachele, Channa’ prega il santo uno e la sua preghiera suscita entusiasmo per la forza che e’ in essa (cfr. 1 Sam.i, 11); Channa’ era afflitta e pregava su D-o piangendo dirottamente (1 Sam.I, 10): Channa’ non prega D-o ne’ davanti a D-o, ma su D-o, vi e’ qui una sorta di lamentela verso il santo uno; Channa’ prega e richiede, la sua preghiera e’ molto intuitiva e fa un voto dicendo:

Signore delle schiere, se avrai riguardo all’afflizione della tua serva a ricordarmi non dimenticherai la tua serva e darai alla tua serva delle progenie di maschi, lo daro’ al signore per tutti i giorni della sua vita ed il rasoio non salira’ sul suo corpo (1 Sam.I, 11).

Channa’ conosceva il suo posto: per tre volte si dice serva> del santo uno, che chiama signore delle schiere, vale a dire l’essere che e’ ben piu’ in alto di lei, ma tutta la sua umilta’ non le impedisce di insistere, lei sa che non ha soltanto la possibilita’ di pregare che il signore la esaudisca, sa anche di poter dare qualcosa a lui: se mi darai un figlio, lo consacrero’ e percio’ quando la preghiera venne esaudita, Channa’ adempi’ il suo voto (cfr.1 Sam.I, 26-28). La preghiera di Channa’ dimostra che quando una donna, qualsiasi donna, insiste presso il santo uno, egli le risponde, mostra altresi’ l’influenza che ebbe Channa’ sulla storia ebraica

Per ultima viene Rut: abbandonando il paese di Moav per seguire Noemi sua suocera, Rut sapeva bene che non avrebbe potuto avere una vita di sposa e di madre, cio’ nonostante segui’ quella via, comportandosi al di qua dei limiti legali e percio’ il libro di Rut parla delle lezioni di lei come azioni di bonta’ (Rut 3, 10) e percio’ Rut ha contribuito a costruire il mondo, nella misura in cui il mondo e’ costruito con la bonta’ (Sal.89,3).

Le vicende di Rut assomigliano a quelle di Rebecca, ed anche a questo proposito va detto che non e’ un caso che lo stile del libro di Rut assomiglia a quello della Parashah che parla di Rebecca e del servo Abramo. In entrambi i racconti troviamo le stesse parole, lo stesso stile e la stessa atmosfera: in entrambi le narrazioni spicca la bonta’ delle protagoniste, entrambe salgono in Erez Israel di loro spontanea volonta’, pur andando incontro a grandi difficolta’. In grazia della sua personalita’ e delle sue buone azioni Rut la moabita ebbe il privilegio di diventare la madre dei re legittimi.

Questo esame del mondo della donna nell’epoca biblica e’ una fonte di incoraggiamento per la donna stessa. In pratica possiamo dire che l’esistenza del popolo di Israele, sia dal punto di vista fisico che da quello spirituale e’ legata in modo notevole alle donne, la cui influenza e’ sempre stata grande: possiamo anzi dire che e’ stata Eva, la prima donna, che ha dato inizio alla storia dell’umanita’ e che un’altra donna, Rut, portera’ la storia umana alla redenzione che la concludera’. Non sempre gli uomini vedono i risultati delle loro azioni, al contrario molti muoiono senza sapere cosa possono aver compiuto per le generazioni future e quanto diciamo vale anche per le donne, forse Rut sapeva che da lei sarebbero discesi i re della casa di Davide? Ma comunque possiamo vedere che qualsiasi donna possiede la capacita’ di costruire il mondo del popolo di Israele, se cammina durante la sua vita sulla strada della bonta’.

Appare dunque chiaro da questo studio che il contributo della donna alla vita sociale ed alla coesione storica del popolo di Israele e’ stato un contributo grandissimo, ancorche’ non appaia al primo colpo d’occhio, le generazioni future lo riconosceranno. »

Publié dans:biblica, ebraismo |on 15 juin, 2010 |Pas de commentaires »

A.J. Heschel: Siamo testimoni della meraviglia

dal sito:

http://oratoriotirano.files.wordpress.com/2008/11/siamo_testimoni_della_meraviglia_-_aj_heschel.doc

Siamo testimoni della meraviglia
A.J. Heschel

  Pregare è accorgersi della meraviglia, riguadagnare il senso del mistero che anima tutti gli esseri, il margine divino in ciò che conseguiamo.
  La preghiera è l’umile risposta che diamo all’inconcepibile sorpresa del vivere. È tutto quel che sappiamo contraccambiare di fronte al mistero grazie al quale viviamo.
  Chi è degno di assistere al costante dispiegarsi del tempo? In mezzo al meditare delle montagne, all’umiltà dei fiori (più eloquenti di qualsiasi alfabeto), a nubi che costantemente si dissolvono per amore della Sua gloria, noi continuiamo a odiare, a perseguitare, a ferire.
  Tutt’a un tratto proviamo vergogna per il nostro disamore e i nostri reiterati lamenti, al cospetto della tacita gloria che dimora nella natura. E così imbarazzante vivere!
  Come siamo strani nel mondo, e quanto presumiamo nelle nostre azioni! C’è una sola risposta che può mantenerci in vita: la gratitudine. Siamo testimoni della meraviglia, per un dono che ci è stato fatto senza che da parte nostra lo si sia meritato, cioè il diritto di servire, di render culto, di portare a compimento. E la gratitudine che rende grande l’ anima.

A.J. Heschel
L’uomo alla ricerca di Dio
Qiqajon, Bose

(www.monasterodibose.it)

Publié dans:ebraismo, preghiera (sulla) |on 9 juin, 2010 |Pas de commentaires »

MARTIN BUBER: RITORNO A SE STESSI

dal sito:

http://www.atma-o-jibon.org/

MARTIN BUBER

RITORNO A SE STESSI

Rabbi Shneur Zalman, il Rav della Russia, era stato calunniato presso le autorità da uno dei capi dei mitnagghedim, che condannavano la sua dottrina e la sua condotta, ed era stato incarcerato a Pietroburgo. Un giorno, mentre attendeva di comparire davanti al tribunale, il comandante delle guardie entrò nella sua cella. Di fronte al volto fiero e immobile del Rav che, assorto, non lo aveva notato subito, quest’uomo si fece pensieroso e intuì la qualità umana del prigioniero. Si mise a conversare con lui e non esitò ad affrontare le questioni più varie che si era sempre posto leggendo la Scrittura. Alla fine chiese: « Come bisogna interpretare che Dio Onnisciente dica ad Adamo: «Dove sei?». « Credete voi – rispose il Rav – che la Scrittura è eterna e che abbraccia tutti i tempi, tutte le generazioni e tutti gli individui? ». « Sì, lo credo », disse. « Ebbene – riprese lo zaddik – in ogni tempo Dio interpella ogni uomo: ‘Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?’. Dio dice per esempio: ‘Ecco, sono già quarantasei anni che sei in vita. Dove ti trovi?’ ».

All’udire il numero esatto dei suoi anni, il comandante si controllò a stento, posò la mano sulla spalla del Rav ed esclamò: « Bravo! »; ma il cuore gli tremava.

Qual è il senso di questa storia?

A prima vista ci ricorda quei racconti talmudici in cui un romano o un altro pagano consulta un saggio ebreo a proposito di un passo della Bibbia per mettere in luce una pretesa contraddizione nell’insegnamento di Israele, e riceve una risposta che dimostra l’assenza di contraddizione o che confuta la critica in altro modo, con l’aggiunta a volte di un ammonimento a carattere personale.

Ma non tardiamo a notare una differenza significativa tra i racconti del Talmud e questo chassidico, anche se questa differenza appare all’inizio più importante di quanto sia in realtà. La risposta infatti viene data su un piano diverso da quello in cui è stata formulata la domanda.

Il comandante cerca di smascherare una pretesa contraddizione nelle credenze ebraiche: nel Dio in cui credono, gli ebrei vedono l’Essere onnisciente, ma la Bibbia gli attribuisce domande analoghe a quelle che farebbe chiunque ignori una cosa e voglia apprenderla. Dio cerca Adamo che si è nascosto, fa risuonare la sua voce nel giardino e chiede dov’è; ciò significa che non lo sa, che è possibile nascondersi da lui: dunque Dio non è l’onnisciente.

Ma, invece di spiegare il passo biblico e risolvere l’apparente contraddizione, il Rabbi se ne serve solo come punto di partenza, utilizzandone il contenuto per rivolgere al comandante un rimprovero per la vita da lui condotta fino a quel momento, per la sua mancanza di serietà, la sua superficialità e l’assenza di senso di responsabilità nella sua anima. La domanda oggettiva – che, in fondo, per quanto qui sia posta senza secondi fini, non è però una domanda autentica bensì una semplice forma di controversia – riceve una risposta personale; anzi, invece di una risposta, ne risulta un ammonimento a carattere personale. Di queste repliche talmudiche non è rimasto apparentemente altro che l’ammonimento che a volte le accompagnava.

Ciò nonostante, esaminiamo il racconto più da vicino. Il comandante chiede chiarimenti sul brano del racconto biblico che riguarda il peccato di Adamo. La risposta del Rabbi mira a questo, a dirgli: « Adamo sei tu. E a te che Dio si rivolge chiedendoti: ‘Dove sei?’ ». Apparentemente non gli ha fornito nessun chiarimento sul significato del brano biblico in quanto tale. Ma in realtà la risposta illumina sia la situazione di Adamo nel momento in cui Dio lo interpella, sia la situazione di ogni uomo in ogni tempo e in ogni luogo. Infatti, non appena si renderà conto che la domanda biblica è indirizzata a lui personalmente, il comandante prenderà necessariamente coscienza della portata dell’interrogativo posto da Dio: « Dove sei? », sia esso rivolto ad Adamo o a chiunque altro. Ogni volta che Dio pone una domanda di questo genere non è perché l’uomo gli faccia conoscere qualcosa che lui ancora ignora: vuole invece provocare nell’uomo una reazione suscitabile per l’appunto solo attraverso una simile domanda, a condizione che questa colpisca al cuore l’uomo e che l’uomo da essa si lasci colpire al cuore.

Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento « davanti al volto di Dio », l’uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità. Si crea in tal modo una nuova situazione che, di giorno in giorno e di nascondimento in nascondimento, diventa sempre più problematica. È una situazione caratterizzabile con estrema precisione: l’uomo non può sfuggire all’occhio di Dio ma, cercando di nascondersi a lui, si nasconde a se stesso. Anche dentro di sé conserva certo qualcosa che lo cerca, ma a questo qualcosa rende sempre più, difficile il trovarlo. Ed è proprio in questa situazione che lo coglie la domanda di Dio: vuole turbare l’uomo, distruggere il suo congegno di nascondimento, fargli vedere dove lo ha condotto una strada sbagliata, far nascere in lui un ardente desiderio di venirne fuori.

A questo punto tutto dipende dal fatto che l’uomo si ponga o no la domanda. Indubbiamente, quando questa domanda giungerà all’orecchio, a chiunque « il cuore tremerà », proprio come al comandante del racconto. Ma il congegno gli permette ugualmente di restare padrone anche di questa emozione del cuore. La voce infatti non giunge durante una tempesta che mette in pericolo la vita dell’uomo; è « la voce di un silenzio simile a un soffio », ed è facile soffocarla. Finché questo avviene, la vita dell’uomo non può diventare cammino. Per quanto ampio sia il successo e il godimento di un uomo, per quanto vasto sia il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita resta priva di un cammino finché egli non affronta la voce. Adamo affronta la voce, riconosce di essere in trappola e confessa: « Mi sono nascosto ». Qui inizia il cammino dell’uomo.

Il ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell’uomo l’inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano. Ma è decisivo, appunto, solo se conduce al cammino: esiste infatti anche un ritorno a se stessi sterile, che porta solo al tormento, alla disperazione e a ulteriori trappole. Quando il Rabbi di Gher arrivò, nell’interpretazione della Scrittura, alle parole rivolte da Giacobbe al suo servo – « Quando ti incontrerà Esaù, mio fratello, e ti domanderà: ‘Tu, di chi sei? Dove vai? Di chi è il gregge che ti precede?’ » – disse ai suoi discepoli: « Osservate come le domande di Esaù assomiglino a questa massima dei nostri saggi: ‘Considera tre cose: sappi da dove vieni, dove vai e davanti a chi dovrai un giorno rendere conto’. Prestate molta attenzione, perché chi considera queste tre cose deve sottoporre se stesso a un serio esame: che in lui non sia Esaù a porre le domande. Anche Esaù infatti può porre domande su queste tre cose, sprofondando l’uomo nell’afflizione ».

Esiste una domanda demoniaca, una falsa domanda che scimmiotta la domanda di Dio, la domanda della verità. La si riconosce dal fatto che non si ferma al « Dove sei? » ma prosegue: « Nessun cammino può farti uscire dal vicolo cieco in cui ti sei smarrito ». Esiste un ritorno perverso a se stessi che, invece di provocare l’uomo al ravvedimento e metterlo sul cammino, gli prospetta insperabile il ritorno e così lo inchioda in una realtà in cui ravvedersi appare assolutamente impossibile e in cui l’uomo riesce a continuare a vivere solo in virtù dell’orgoglio demoniaco, dell’orgoglio della perversione.

RITORNO A SE STESSI

Rabbi Shneur Zalman, il Rav della Russia, era stato calunniato presso le autorità da uno dei capi dei mitnagghedim, che condannavano la sua dottrina e la sua condotta, ed era stato incarcerato a Pietroburgo. Un giorno, mentre attendeva di comparire davanti al tribunale, il comandante delle guardie entrò nella sua cella. Di fronte al volto fiero e immobile del Rav che, assorto, non lo aveva notato subito, quest’uomo si fece pensieroso e intuì la qualità umana del prigioniero. Si mise a conversare con lui e non esitò ad affrontare le questioni più varie che si era sempre posto leggendo la Scrittura. Alla fine chiese: « Come bisogna interpretare che Dio Onnisciente dica ad Adamo: «Dove sei?». « Credete voi – rispose il Rav – che la Scrittura è eterna e che abbraccia tutti i tempi, tutte le generazioni e tutti gli individui? ». « Sì, lo credo », disse. « Ebbene – riprese lo zaddik – in ogni tempo Dio interpella ogni uomo: ‘Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?’. Dio dice per esempio: ‘Ecco, sono già quarantasei anni che sei in vita. Dove ti trovi?’ ».

All’udire il numero esatto dei suoi anni, il comandante si controllò a stento, posò la mano sulla spalla del Rav ed esclamò: « Bravo! »; ma il cuore gli tremava.

Qual è il senso di questa storia?

A prima vista ci ricorda quei racconti talmudici in cui un romano o un altro pagano consulta un saggio ebreo a proposito di un passo della Bibbia per mettere in luce una pretesa contraddizione nell’insegnamento di Israele, e riceve una risposta che dimostra l’assenza di contraddizione o che confuta la critica in altro modo, con l’aggiunta a volte di un ammonimento a carattere personale.

Ma non tardiamo a notare una differenza significativa tra i racconti del Talmud e questo chassidico, anche se questa differenza appare all’inizio più importante di quanto sia in realtà. La risposta infatti viene data su un piano diverso da quello in cui è stata formulata la domanda.

Il comandante cerca di smascherare una pretesa contraddizione nelle credenze ebraiche: nel Dio in cui credono, gli ebrei vedono l’Essere onnisciente, ma la Bibbia gli attribuisce domande analoghe a quelle che farebbe chiunque ignori una cosa e voglia apprenderla. Dio cerca Adamo che si è nascosto, fa risuonare la sua voce nel giardino e chiede dov’è; ciò significa che non lo sa, che è possibile nascondersi da lui: dunque Dio non è l’onnisciente.

Ma, invece di spiegare il passo biblico e risolvere l’apparente contraddizione, il Rabbi se ne serve solo come punto di partenza, utilizzandone il contenuto per rivolgere al comandante un rimprovero per la vita da lui condotta fino a quel momento, per la sua mancanza di serietà, la sua superficialità e l’assenza di senso di responsabilità nella sua anima. La domanda oggettiva – che, in fondo, per quanto qui sia posta senza secondi fini, non è però una domanda autentica bensì una semplice forma di controversia – riceve una risposta personale; anzi, invece di una risposta, ne risulta un ammonimento a carattere personale. Di queste repliche talmudiche non è rimasto apparentemente altro che l’ammonimento che a volte le accompagnava.

Ciò nonostante, esaminiamo il racconto più da vicino. Il comandante chiede chiarimenti sul brano del racconto biblico che riguarda il peccato di Adamo. La risposta del Rabbi mira a questo, a dirgli: « Adamo sei tu. E a te che Dio si rivolge chiedendoti: ‘Dove sei?’ ». Apparentemente non gli ha fornito nessun chiarimento sul significato del brano biblico in quanto tale. Ma in realtà la risposta illumina sia la situazione di Adamo nel momento in cui Dio lo interpella, sia la situazione di ogni uomo in ogni tempo e in ogni luogo. Infatti, non appena si renderà conto che la domanda biblica è indirizzata a lui personalmente, il comandante prenderà necessariamente coscienza della portata dell’interrogativo posto da Dio: « Dove sei? », sia esso rivolto ad Adamo o a chiunque altro. Ogni volta che Dio pone una domanda di questo genere non è perché l’uomo gli faccia conoscere qualcosa che lui ancora ignora: vuole invece provocare nell’uomo una reazione suscitabile per l’appunto solo attraverso una simile domanda, a condizione che questa colpisca al cuore l’uomo e che l’uomo da essa si lasci colpire al cuore.

Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento « davanti al volto di Dio », l’uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità. Si crea in tal modo una nuova situazione che, di giorno in giorno e di nascondimento in nascondimento, diventa sempre più problematica. È una situazione caratterizzabile con estrema precisione: l’uomo non può sfuggire all’occhio di Dio ma, cercando di nascondersi a lui, si nasconde a se stesso. Anche dentro di sé conserva certo qualcosa che lo cerca, ma a questo qualcosa rende sempre più, difficile il trovarlo. Ed è proprio in questa situazione che lo coglie la domanda di Dio: vuole turbare l’uomo, distruggere il suo congegno di nascondimento, fargli vedere dove lo ha condotto una strada sbagliata, far nascere in lui un ardente desiderio di venirne fuori.

A questo punto tutto dipende dal fatto che l’uomo si ponga o no la domanda. Indubbiamente, quando questa domanda giungerà all’orecchio, a chiunque « il cuore tremerà », proprio come al comandante del racconto. Ma il congegno gli permette ugualmente di restare padrone anche di questa emozione del cuore. La voce infatti non giunge durante una tempesta che mette in pericolo la vita dell’uomo; è « la voce di un silenzio simile a un soffio », ed è facile soffocarla. Finché questo avviene, la vita dell’uomo non può diventare cammino. Per quanto ampio sia il successo e il godimento di un uomo, per quanto vasto sia il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita resta priva di un cammino finché egli non affronta la voce. Adamo affronta la voce, riconosce di essere in trappola e confessa: « Mi sono nascosto ». Qui inizia il cammino dell’uomo.

Il ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell’uomo l’inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano. Ma è decisivo, appunto, solo se conduce al cammino: esiste infatti anche un ritorno a se stessi sterile, che porta solo al tormento, alla disperazione e a ulteriori trappole. Quando il Rabbi di Gher arrivò, nell’interpretazione della Scrittura, alle parole rivolte da Giacobbe al suo servo – « Quando ti incontrerà Esaù, mio fratello, e ti domanderà: ‘Tu, di chi sei? Dove vai? Di chi è il gregge che ti precede?’ » – disse ai suoi discepoli: « Osservate come le domande di Esaù assomiglino a questa massima dei nostri saggi: ‘Considera tre cose: sappi da dove vieni, dove vai e davanti a chi dovrai un giorno rendere conto’. Prestate molta attenzione, perché chi considera queste tre cose deve sottoporre se stesso a un serio esame: che in lui non sia Esaù a porre le domande. Anche Esaù infatti può porre domande su queste tre cose, sprofondando l’uomo nell’afflizione ».

Esiste una domanda demoniaca, una falsa domanda che scimmiotta la domanda di Dio, la domanda della verità. La si riconosce dal fatto che non si ferma al « Dove sei? » ma prosegue: « Nessun cammino può farti uscire dal vicolo cieco in cui ti sei smarrito ». Esiste un ritorno perverso a se stessi che, invece di provocare l’uomo al ravvedimento e metterlo sul cammino, gli prospetta insperabile il ritorno e così lo inchioda in una realtà in cui ravvedersi appare assolutamente impossibile e in cui l’uomo riesce a continuare a vivere solo in virtù dell’orgoglio demoniaco, dell’orgoglio della perversione.

MARTIN BUBER

RITORNO A SE STESSI

Rabbi Shneur Zalman, il Rav della Russia, era stato calunniato presso le autorità da uno dei capi dei mitnagghedim, che condannavano la sua dottrina e la sua condotta, ed era stato incarcerato a Pietroburgo. Un giorno, mentre attendeva di comparire davanti al tribunale, il comandante delle guardie entrò nella sua cella. Di fronte al volto fiero e immobile del Rav che, assorto, non lo aveva notato subito, quest’uomo si fece pensieroso e intuì la qualità umana del prigioniero. Si mise a conversare con lui e non esitò ad affrontare le questioni più varie che si era sempre posto leggendo la Scrittura. Alla fine chiese: « Come bisogna interpretare che Dio Onnisciente dica ad Adamo: «Dove sei?». « Credete voi – rispose il Rav – che la Scrittura è eterna e che abbraccia tutti i tempi, tutte le generazioni e tutti gli individui? ». « Sì, lo credo », disse. « Ebbene – riprese lo zaddik – in ogni tempo Dio interpella ogni uomo: ‘Dove sei nel tuo mondo? Dei giorni e degli anni a te assegnati ne sono già trascorsi molti: nel frattempo tu fin dove sei arrivato nel tuo mondo?’. Dio dice per esempio: ‘Ecco, sono già quarantasei anni che sei in vita. Dove ti trovi?’ ».

All’udire il numero esatto dei suoi anni, il comandante si controllò a stento, posò la mano sulla spalla del Rav ed esclamò: « Bravo! »; ma il cuore gli tremava.

Qual è il senso di questa storia?

A prima vista ci ricorda quei racconti talmudici in cui un romano o un altro pagano consulta un saggio ebreo a proposito di un passo della Bibbia per mettere in luce una pretesa contraddizione nell’insegnamento di Israele, e riceve una risposta che dimostra l’assenza di contraddizione o che confuta la critica in altro modo, con l’aggiunta a volte di un ammonimento a carattere personale.

Ma non tardiamo a notare una differenza significativa tra i racconti del Talmud e questo chassidico, anche se questa differenza appare all’inizio più importante di quanto sia in realtà. La risposta infatti viene data su un piano diverso da quello in cui è stata formulata la domanda.

Il comandante cerca di smascherare una pretesa contraddizione nelle credenze ebraiche: nel Dio in cui credono, gli ebrei vedono l’Essere onnisciente, ma la Bibbia gli attribuisce domande analoghe a quelle che farebbe chiunque ignori una cosa e voglia apprenderla. Dio cerca Adamo che si è nascosto, fa risuonare la sua voce nel giardino e chiede dov’è; ciò significa che non lo sa, che è possibile nascondersi da lui: dunque Dio non è l’onnisciente.

Ma, invece di spiegare il passo biblico e risolvere l’apparente contraddizione, il Rabbi se ne serve solo come punto di partenza, utilizzandone il contenuto per rivolgere al comandante un rimprovero per la vita da lui condotta fino a quel momento, per la sua mancanza di serietà, la sua superficialità e l’assenza di senso di responsabilità nella sua anima. La domanda oggettiva – che, in fondo, per quanto qui sia posta senza secondi fini, non è però una domanda autentica bensì una semplice forma di controversia – riceve una risposta personale; anzi, invece di una risposta, ne risulta un ammonimento a carattere personale. Di queste repliche talmudiche non è rimasto apparentemente altro che l’ammonimento che a volte le accompagnava.

Ciò nonostante, esaminiamo il racconto più da vicino. Il comandante chiede chiarimenti sul brano del racconto biblico che riguarda il peccato di Adamo. La risposta del Rabbi mira a questo, a dirgli: « Adamo sei tu. E a te che Dio si rivolge chiedendoti: ‘Dove sei?’ ». Apparentemente non gli ha fornito nessun chiarimento sul significato del brano biblico in quanto tale. Ma in realtà la risposta illumina sia la situazione di Adamo nel momento in cui Dio lo interpella, sia la situazione di ogni uomo in ogni tempo e in ogni luogo. Infatti, non appena si renderà conto che la domanda biblica è indirizzata a lui personalmente, il comandante prenderà necessariamente coscienza della portata dell’interrogativo posto da Dio: « Dove sei? », sia esso rivolto ad Adamo o a chiunque altro. Ogni volta che Dio pone una domanda di questo genere non è perché l’uomo gli faccia conoscere qualcosa che lui ancora ignora: vuole invece provocare nell’uomo una reazione suscitabile per l’appunto solo attraverso una simile domanda, a condizione che questa colpisca al cuore l’uomo e che l’uomo da essa si lasci colpire al cuore.

Adamo si nasconde per non dover rendere conto, per sfuggire alla responsabilità della propria vita. Così si nasconde ogni uomo, perché ogni uomo è Adamo e nella situazione di Adamo. Per sfuggire alla responsabilità della vita che si è vissuta, l’esistenza viene trasformata in un congegno di nascondimento. Proprio nascondendosi così e persistendo sempre in questo nascondimento « davanti al volto di Dio », l’uomo scivola sempre, e sempre più profondamente, nella falsità. Si crea in tal modo una nuova situazione che, di giorno in giorno e di nascondimento in nascondimento, diventa sempre più problematica. È una situazione caratterizzabile con estrema precisione: l’uomo non può sfuggire all’occhio di Dio ma, cercando di nascondersi a lui, si nasconde a se stesso. Anche dentro di sé conserva certo qualcosa che lo cerca, ma a questo qualcosa rende sempre più, difficile il trovarlo. Ed è proprio in questa situazione che lo coglie la domanda di Dio: vuole turbare l’uomo, distruggere il suo congegno di nascondimento, fargli vedere dove lo ha condotto una strada sbagliata, far nascere in lui un ardente desiderio di venirne fuori.

A questo punto tutto dipende dal fatto che l’uomo si ponga o no la domanda. Indubbiamente, quando questa domanda giungerà all’orecchio, a chiunque « il cuore tremerà », proprio come al comandante del racconto. Ma il congegno gli permette ugualmente di restare padrone anche di questa emozione del cuore. La voce infatti non giunge durante una tempesta che mette in pericolo la vita dell’uomo; è « la voce di un silenzio simile a un soffio », ed è facile soffocarla. Finché questo avviene, la vita dell’uomo non può diventare cammino. Per quanto ampio sia il successo e il godimento di un uomo, per quanto vasto sia il suo potere e colossale la sua opera, la sua vita resta priva di un cammino finché egli non affronta la voce. Adamo affronta la voce, riconosce di essere in trappola e confessa: « Mi sono nascosto ». Qui inizia il cammino dell’uomo.

Il ritorno decisivo a se stessi è nella vita dell’uomo l’inizio del cammino, il sempre nuovo inizio del cammino umano. Ma è decisivo, appunto, solo se conduce al cammino: esiste infatti anche un ritorno a se stessi sterile, che porta solo al tormento, alla disperazione e a ulteriori trappole. Quando il Rabbi di Gher arrivò, nell’interpretazione della Scrittura, alle parole rivolte da Giacobbe al suo servo – « Quando ti incontrerà Esaù, mio fratello, e ti domanderà: ‘Tu, di chi sei? Dove vai? Di chi è il gregge che ti precede?’ » – disse ai suoi discepoli: « Osservate come le domande di Esaù assomiglino a questa massima dei nostri saggi: ‘Considera tre cose: sappi da dove vieni, dove vai e davanti a chi dovrai un giorno rendere conto’. Prestate molta attenzione, perché chi considera queste tre cose deve sottoporre se stesso a un serio esame: che in lui non sia Esaù a porre le domande. Anche Esaù infatti può porre domande su queste tre cose, sprofondando l’uomo nell’afflizione ».

Esiste una domanda demoniaca, una falsa domanda che scimmiotta la domanda di Dio, la domanda della verità. La si riconosce dal fatto che non si ferma al « Dove sei? » ma prosegue: « Nessun cammino può farti uscire dal vicolo cieco in cui ti sei smarrito ». Esiste un ritorno perverso a se stessi che, invece di provocare l’uomo al ravvedimento e metterlo sul cammino, gli prospetta insperabile il ritorno e così lo inchioda in una realtà in cui ravvedersi appare assolutamente impossibile e in cui l’uomo riesce a continuare a vivere solo in virtù dell’orgoglio demoniaco, dell’orgoglio della perversione.

Publié dans:ebraismo |on 8 juin, 2010 |Pas de commentaires »
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