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UNA STORIA D’AMORE, UN POPOLO E LA SUA LINGUA

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http://www.nostreradici.it/popolo_lingua.htm

UNA STORIA D’AMORE, UN POPOLO E LA SUA LINGUA
 
Il popolo giudeo e la lingua ebraica intrattengono da tre millenni una relazione straordinaria: essi sono cresciuti insieme. Hanno vissuto un lungo periodo di fusione, poi amori contrastati con separazioni dolorose e ritrovamenti appassionati.

Il nome stesso della lingua è significativo: l’ivrit, è la lingua dell’ivri, dell’Ebreo – cioè, secondo le etimologie, sia il discendente di Ever (Éber, antenato di Abramo) sia l’attraversatore che viene dall’altra parte (ever) del fiume. E, nell’epoca contemporanea, quando i padri fondatori del sionismo hanno cercato un vocabolo per designare il « nuovo giudeo » il cui destino sarà legato a quello della rinascita d’Israele, la parola Ebraico è quella che essi hanno scelto del tutto naturalmente.

Legame passionale, dunque, in cui la lingua non è un mezzo di comunicazione ma esprime la quintessenza della persona.

Come ogni storia d’amore, anche questa ha il suo romanzo delle origini. Cominciamo dunque dall’inizio. Il testo biblico attribuisce al patriarca Abramo origini caldeo-mesopotamiche; nello stesso tempo le radici dell’ebraico risalgono alla madre delle lingue semitiche, l’accadico che, originario della Mesopotamia, si espande nell’insieme del Vicino-Oriente e si mescola ai dialetti locali. Nella terra di Canaan, ciò darà l’ebraico pre-biblico le cui tracce più antiche figurano nelle tavolette trovate a Tell el-Amarna, la cui datazione risale al quattordicesimo secolo prima dell’era cristiana.

L’iscrizione di Siloe, scoperta alla fine del secolo scorso e che data 700 a.C. all’incirca, riferisce lo scavo di un tunnel voluto dal re Ezechia per alimentare d’acqua la città di Gerusalemme. Due squadre di operai sono all’opera, provenienti rispettivamente dalla città e dalla sorgente. L’iscrizione descrive il momento emozionante in cui le due squadre si congiungono: « Allorché i minatori levarono il piccone e non c’erano più di tre cubiti da traforare, si udiva la voce di coloro che si chiamavano tra loro »

Un po’ più tardivi, diversi ostraca (da ostracon, « ostrica » in greco; coccio recante iscrizioni) ci informano sulla lingua usata dagli autori e nello stesso tempo sui problemi ai quali essi fanno fronte. Così un ostracon di Lakhish attesta una corrispondenza tra un funzionario di nome Hoshayahou e il suo « Signore » Yaosh, il comandante di Lakhish; siamo all’epoca del profeta Geremia, quando il regno di Giuda era alle prese con Nabucodonosor.

In questi documenti la scrittura è alfabetica con caratteri vicini al fenicio. Ma la lingua è quella della Bibbia, tale e quale noi la conosciamo. E a ragione: in quest’epoca la codificazione dei primi capitoli del testo biblico è già in corso. Ai brani più antichi, che sono caratterizzati da un ritmo magico (il cantico del mare, la profezia di Bilam o il cantico di Deborah), si aggiungono tra il VII ed il VI secolo il magnifici discorsi dei profeti. Questa lingua evolve naturalmente lungo i secoli e subisce l’influenza delle altre lingue della regione. Influenza rafforzata dall’esilio babilonese (586 a.C.) e sensibile nei capitoli della Bibbia che sono stati trascritti durante il periodo del Secondo Tempio (a partire dal 538 a.C.).

La canonizzazione della Bibbia

L’aramaico, lingua dominante del Vicino-Oriente, si sostituisce progressivamente all’ebraico nell’uso quotidiano. In seguito vi si aggiungerà il greco, soprattutto nelle classi agiate. Il libro di riferimento rimane tuttavia la Bibbia ebraica. Questa conosce un lungo processo di canonizzazione, cioè di definizione formale del contenuto. Il canone della Torah nel senso stretto del termine (i cinque primi libri della Bibbia, o Pentateuco) è senza dubbio anteriore all’esilio di Babilonia. Il canone dei Profeti daterebbe all’inizio del III secolo prima dell’era cristiana, mentre gli altri scritti (Ktuvim) che formano la terza parte della Bibbia sono intervenuti più tardi ancora.

In questo processo di canonizzazione che è durato svariati secoli, numerosi testi sono stati scartati (alcuni troveranno posto nella versione cattolica della Bibbia) ed altri, ben più numerosi, sono stati perduti per sempre. I testi conservati, al termine di questo processo, coprono un millennio di civilizzazione e sono lontani da una omogeneità sia di vocabolario che di grammatica. L’insieme, tuttavia, forma un libro che si legge con continuità e le cui diverse componenti definiscono la lingua della Bibbia.

Questa lingua – a ben considerare – non si chiama ancora l’ebraico. Chiamata in Isaia « lingua di Canaan », o ancora »lingua giudea » cioè lingua del regno di Giuda, essa nella letteratura talmudica è designata dall’espressione « lingua santa » (si tratta allora di distinguere la lingua biblica dagli idiomi in uso a quell’epoca). Essa non prenderà il suo nome attuale se non quando è stata presa coscienza della sua unicità profonda, una unicità che non si riferisce tanto alla sua struttura sintattica quanto alla sua funzione simbolica. La denominazione « ebraico » sarà allora adottata per designare non questo o quello strato linguistico ma la lingua del popolo giudeo nella sua continuità. L’ebraico fonda la Bibbia ed è fondato da essa; la lingua e il libro, custoditi dagli ebrei al pari dei gioielli più preziosi, serviranno loro come viatico in tutti i paesi in cui saranno dispersi.

Una lingua vivente

In Terra d’Israele, abbiamo visto, le dominazioni politiche e le influenze culturali hanno tolto all’ebraico il suo ruolo esclusivo di mezzo di comunicazione. Nella vita quotidiana le persone sono ricorse ad altri linguaggi. L’ebraico non sparì fintantoché i Giudei rimasero la maggioranza nel paese e mantennero vivo il desiderio di restaurarvi la propria indipendenza. Sembra anche che esso si trasformi e si arricchisca degli apporti di altre lingue. I manoscritti del mar Morto – scoperti da mezzo secolo e tuttora oggetto di studio e di controversie – indicano che alla fine del periodo del secondo tempio, due mila anni fa circa, la lingua ebraica classica coesiste, almeno sotto forma scritta, con un ebraico piuttosto moderno. Quest’ultimo ci è conosciuto sotto la denominazione di « ebraico della Mishna », dal nome del codice della legge giudaica la cui redazione finale è datata alla fine del secondo secolo dell’era cristiana.

Gli esperti oggi considerano che questo ebraico, benché ritenuto come « la lingua dei Saggi », in quel momento conserva ancora le caratteristiche di una lingua popolare. Tuttavia, il peso crescente della comunità della diaspora relativamente al numero di ebrei residenti in Terra d’Israele e poi lo schiacciamento da parte di Roma delle ultime rivolte giudaiche, mettono termine a questa evoluzione. La Guemarà, il commentario della Mishna compilato tra il terzo ed il quinto secolo e che con essa costituisce il Talmud, è redatto in aramaico. Con la perdita dell’autonomia giudaica in Terra d’Israele, la lingua ebraica sembra aver perduto la sua caratteristica di lingua parlata.

L’ebraico resta pertanto, contro tutte le apparenze, una lingua vivente. Lungo tutto il Medio-Evo esso è oggetto degli studi dei sapienti ebrei. Essi lo dotano di una grammatica, fino allora inesistente – o, più esattamente, essi estraggono regole grammaticali latenti nei desti antichi, che permetteranno di meglio leggerli e di scriverne di nuovi -. I saggi ebrei sviluppano anche sistemi di vocalizzazione, da cui il sistema detto di Tiberiade, inventato nell’VIII secolo, che si imporrà nella globalità del mondo ebraico.

Poiché la scrittura dell’ebreo antico non indicava che le consonanti. Procedimento economico e logico, dal momento che ognuno sapeva pronunciare le parole. In caso di dubbio, qualche aggiunta di lettere (presenti già nell’ebraico biblico) permetteva di risolvere il problema. Ma quando l’ebraico cessa di essere una lingua parlata, la questione diviene critica: Non si sapeva più come pronunciare a colpo sicuro – e, peggio ancora, ragione dell’esistenza di numerosi dubbi -, lo stesso senso delle parole poteva prestarsi a confusione. Si immaginano dunque dei simboli, posti a lato delle lettere o sotto di esse, destinati a colmare questa carenza (1). La vocalizzazione obbediva a regole che costituivano un sottoinsieme della grammatica ebraica. Lo stesso testo biblico fu vocalizzato retroattivamente (ad eccezione dei rotoli della Torah, che conservano la loro forma originale) e si aggiungono segni necessari alla recitazione cantilenata dei testi.

Così, grazie al lavoro dei masoreti (dal termine ebraico massora, tradizione), l’ebraico fu sia rinforzato nella sua struttura tradizionale, sia arricchito de regole che ne facilitarono la trasmissione.

Poemi religiosi e poesia erotica

La storia d’amore che unisce il popolo ebreo alla lingua ebraica acquista quindi tutto il suo significato. Esiliati dalla loro terra ma mai cessando di sperare il ritorno a Sion, gli ebrei si aggrappano alla loro lingua come a un simbolo di identità. Essi, non soltanto pregano in ebraico tre volte al giorno, non soltanto i testi sui quali si basa la loro cultura sono scritti principalmente in ebraico (più una parte in aramaico, l’antica lingua popolare divenuta paradossalmente una sorta d’estensione sapiente dell’ebraico), ma continuano a corrispondere in questa lingua da un paese all’altro.

Ed essi continuano a creare in ebraico. Poemi religiosi, alcuni dei quali (i pyutim) assumono una forma rituale molto elaborata e altri, come quelli di Yehouda Halevi, sono meraviglie di freschezza. Anche poesie profane, con canzoni e poemi erotici che si moltiplicano nella Spagna dell’Età d’Oro. Testi filosofici e scientifici molto numerosi, che coprono tutte le discipline allora tenute in considerazione. Commentari rabbinici, trattati di pensiero ebraico, cronache, opere di fantasia. In una parola, una letteratura che si estende su un arco di secoli e che, per la sua abbondanza, varietà e qualità ben sta alla pari con quella prodotta da qualsivoglia popolo durante lo stesso periodo. Con la differenza che il popolo ebraico vive disperso e che le persecuzioni da una parte, la pressione dell’ambiente dall’altra, riducono poco a poco il campo in cui si esercita l’influenza dell’ebraico.

Un compagno segreto

Si può dire, dunque, dell’ebraico ciò che si dice del sabato: gli ebrei l’hanno conservato ed esso li ha conservati. Lingua di cultura e di religione, di comunicazione e di riflessione, esso è rimasto il perno della continuità ebraica. La lettera ebraica ha sempre esercitato sugli ebrei un fascino che non ha alcun equivalente tra le altre culture.

L’ebraico rappresentava ciò di cui gli ebrei erano stati privati da generazioni: la capacità di esprimere essi stessi, senza ostacoli, i loro propri termini, in rapporto al mondo. Qualunque fosse il comportamento dei propri vicini non ebrei – benevolo od ostile, rispettoso o pieno di disprezzo, l’ebreo non  tornava pienamente se stesso se non nel momento in cui rientrava nel suo focolare, nella sua sinagoga, nella sua aula di studio. L’ebraico letto, pregato o cantato era allora il suo compagno segreto. Una vera e propria storia d’amore.

Spesso il rinnovamento della lingua ebraica viene attribuito alla rinascita dello Stato d’Israele. C’è una gran parte di verità in questo: l’esistenza di un centro in cui l’ebraico si parla, si vive e si trasmette ha svolto senza dubbio un ruolo essenziale per questa lingua – e per il patrimonio di cui essa è portatrice -. Tuttavia si può anche rovesciare la proposizione. La volontà di ravvivare la sorgente ebraica del giudaismo, il desiderio di creare in ebraico una nuova letteratura che abbracci ogni tematica, l’aspirazione naturale ad un nuovo uomo « ebreo » affrancato dalle catene dell’esilio: tutte espressioni d’un rinnovamento che hanno preceduto il sionismo politico e sono indissolubili dai suoi progressi ulteriori. In questo mese in cui gli ebrei d’Israele e del resto del mondo commemorano la rinascita dello Stato ebraico, era dunque necessario ricordare quest’altra storia d’amore che ogni ebreo porta nel suo cuore.
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(1) Nell’ebraico contemporaneo, la vocalizzazione non è più utilizzata che per i testi d’insegnamento dell’ebraico e per la poesia. Tuttavia, nel caso in cui potrebbe sorgere ambiguità sul significato di una parola precisa, si aggiungono le vocali. La scrittura detta « piena », il cui uso si generalizza, permette allo stesso modo di precisare il senso con l’aiuto dei caratteri abituali, senza ricorrere alla vocalizzazione.
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 Fonte: L’arche, mensile dell’ebraismo francese, n.518 – aprile 2001 – p.32-38, Henri Pasternak (Tradotto per Le nostre Radici da Maria Guarini)

Publié dans:ebraismo |on 25 mai, 2010 |Pas de commentaires »

« Amico dell’anima » (preghiera ebraica del mattino)

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http://www.finestramedioriente.it/Patrimonio%20Antico/Preghiere/FrameEbraiche.htm

« Amico dell’anima » (preghiera ebraica del mattino)

O amico dell’anima, padre misericordioso,
piega il tuo servo a compiere il tuo volere!
Correrà allora il tuo servo come un cervo,
si prostrerà dinanzi alla tua gloria,
poiché gli sarà dolce la tua amicizia,
più di un favo di miele e di ogni altro sapore.
O tu glorioso, splendido, ornamento del mondo,
l’anima mia è malata dell’amor tuo!
Ti prego dunque o Dio risanala tu,
mostrandole con dolcezza la tua gloria:
allora essa ritroverà forza e salute,
e diverrà tua ancella in eterno!
O antico, muoviti a misericordia
e abbi pietà di un figlio che ti ama,
poiché questi ha bramato con ardore
di vedere lo splendore della tua potenza:
ti prego dunque o mio Dio, delizia del mio cuore,
accorri, non stare nascosto!
Rivelati ti prego e su di me
stendi o diletto la tenda della tua pace,
illumina la terra con la tua gloria
e noi esulteremo e gioiremo in te.
Presto o amato poiché è giunto il tempo:
abbi pietà di me come nei giorni antichi.

Publié dans:ebraismo, preghiere |on 15 mai, 2010 |Pas de commentaires »

Alla ricerca delle radice – l’identità ebraica di Martin Buber (stralcio)

dal sito:

http://www.nostreradici.it/identit%C3%A0-Buber.htm#nref10

Alla ricerca delle radice – l’identità ebraica di Martin Buber (stralcio)

Clara Levi Coen

 Costruire la pace è completare la creazione        

    Dopo le terribili e meravigliose esperienze di morte e di vita, subite e realizzate da Israele, con la Shoà e con la ricostruzione dello Stato ebraico, il mondo aspetta qualcosa da Buber, dal suo più profondo contenuto spirituale. Egli, parlando a New York nel 1951(10), indicava questa «domanda silenziosa» rivolta dal mondo d’oggi all’Ebraismo, come un fenomeno nuovo nella storia. Per secoli, infatti, il più profondo contenuto spirituale dell’Ebraismo o era rimasto sconosciuto, o aveva ricevuto scarsa attenzione, per la ragione, forse, che durante il periodo dei Ghetti la realtà sottomessa della vita ebraica era intravista a stento dal mondo esterno, mentre, durante il periodo dell’emancipazione, gli Ebrei soltanto e non l’Ebraismo, apparvero a scena aperta.

    Il terribile massacro di milioni di Ebrei, l’avviarsi al martirio di tanti di loro nel nome del Signore, sorretti nell’inumano destino dai cantici della fede e della speranza e, d’altra parte, il rifiorire nella terra dei Padri di un novello stato ebraico, opera umana apparentemente miracolosa, dovuta alla tenace e faticata volontà ed all’azione dei pionieri, tutto questo ha contribuito a far sì che il mondo abbia gradualmente iniziato a percepire che dentro l’Ebraismo vi è qualcosa che ha a che fare, in un modo speciale, con i bisogni spirituali del mondo presente.

    Si può intendere ciò solo considerando l’Ebraismo nella sua interezza e nel suo totale percorso spirituale. Ma «questa interezza, queste fondamentali tendenze e la loro evoluzione – diceva ancora Buber nel 1951 – sono per la maggior parte non riconosciute dagli stessi Ebrei, perfino da coloro che cercano ardentemente il sentiero della verità(11). E portava l’esempio di ebrei spiritualmente importanti come Henry Bergson e Simone Weil:

    Tutti e due, Bergson e Weil, erano ebrei. Tutti e due erano convinti che nel misticismo cristiano avrebbero trovato la verità religiosa che stavano cercando. Bergson ancora vedeva nei profeti d’Israele i precursori della Cristianità, mentre S. Weil semplicemente si sbarazzò tanto di Israele quanto dell’Ebraismo. Nessuno dei due si convertì al Cristianesimo. Bergson, probabilmente perché andava contro le sue inclinazioni lasciare la comunità degli oppressi e perseguitati, e S. Weil per ragioni derivanti dal suo concetto di religione(12).

    Ambedue, secondo Buber, cercavano e credevano di avere trovato nel Cristianesimo la risposta religiosa che stavano cercando e respingevano l’Ebraismo perché non lo conoscevano nella sua interezza:

    Non è vero che Israele non abbia dedicato all’intimità spirituale il suo posto di diritto; piuttosto, non si è accontentato di questo. I suoi maestri contestano l’autosufficienza dell’anima. L’interna verità deve divenire vita reale, altrimenti non rimane verità. Una goccia di realizzazione messianica deve essere mescolata con ogni ora, altrimenti l’ora è priva di Dio, a dispetto di ogni pietà e devozione. Di conseguenza, quello che può essere chiamato il principio sociale della religione d’Israele… ha rapporto con l’umanità sociale, perché la società umana è qui legittimata soltanto se fondata su relazioni reali tra i suoi membri; e l’umanità è considerata nel suo significato religioso. perché la reale relazione con Dio non può essere compiuta sulla terra se mancano le relazioni con il mondo e con l’umanità(13) .

    L’uomo nell’accettare la creazione dalle mani di Dio s.impegna a collaborare all’opera ancora incompiuta: «La creazione è incompleta perché i regni dentro di essa sono ancora discordi e la pace può emergere soltanto dal creato». Nella tradizione ebraica. colui che effettua la pace è chiamato «il compagno di Dio nell’opera della creazione… in nessun luogo l’azione essenziale dell’uomo è così strettamente legata al mistero dell’Essere»(14).

    E proprio per questa ragione la risposta alla domanda silente posta dal mondo contemporaneo in maniera inconscia e non riconosciuta, ma suggerita dai più intimi recessi del cuore, «là dove dimora la disperazione». la domanda di un insegnamento di fede nella realtà, nelle verità dell’esistenza. «cosicché la vita abbia qualche scopo e l’esistenza abbia qualche significato», la domanda rivolta alle religioni storiche, non nei loro dogmi ne nei loro rituali, ma nella intrinseca realtà di fede, appare a Buber come essenzialmente rivolta all’Ebraismo.

      Ma vorrà l’Ebraismo stesso – egli si domanda – rendersi conto che proprio la sua esistenza dipende dal rifiorire della sua esistenza religiosa? Lo stato ebraico può assicurare – egli dice – il futuro di una nazione di Ebrei, anche dotata di una cultura sua propria. ma l’Ebraismo vivrà soltanto se legherà ancora alla vita la primitiva relazione ebraica con Dio, con il mondo e con l’umanità. I profeti di Israele servirono lo spirito, nel mondo umano, generazione dopo generazione, con aggressività, lottando contro chi non attuava «la verità divina nella pienezza della vita di ogni giorno, evadendo così nel puramente formale e rituale, vale a dire nel non impegnativo», limitando il servizio di Dio alla sfera puramente sacrale.

    Il principio religioso-normativo d’Israele è essenzialmente storico. A differenza delle altre religioni, la sua rivelazione è un fatto di storia nazionale. Con questa fede storica, ad un tempo realistica e messianica, il popolo ebreo andò nel mondo, nel suo esilio universale. Il principio della nostra fede, la verità e la giustizia di Dio, l’amore tra gli uomini nella luce della realtà divina: «Ama il prossimo tuo come te stesso. lo sono il Signore tuo Dio» (Lv 19,18), questo principio tentò di attuarsi nel dominio della vita e della storia umane. Ma noi abbiamo negato a noi stessi l’attuarsi del nostro principio nel mondo. L’idea messianica si perse in furiose estasi collettive o in tardive speculazioni gnostiche. E, tuttavia, pur nell’epoca dei ghetti e dei pogrom, si attuò, nel seno delle comunità ebraiche, il principio dell’amore per Dio, per gli uomini e per il mondo, soprattutto nel hassidismo che animò di puro fervore l’intrinseca realtà di fede.

    Quando camminammo nel mondo fuori dal ghetto, ci capitò il peggio. Una spaccatura, sempre più profonda, lacerò l’unità di popolo e religione. E questa spaccatura è presente anche nello stato ebraico. Israele e il principio del suo essere procedono separati. La frattura si può saldare solo nell’adempimento di verità, giustizia, amore di Dio sulla terra. Impresa tremendamente difficile. Nella diaspora, «ancora vigorosamente viva a dispetto della immensa distruzione e devastazione» da nessuna parte vi è un potente sforzo di rinsaldare la frattura.

    Siamo noi ancora Ebrei, Ebrei nelle nostre vite? È l’Ebraismo ancora vivo? In Erez Israel il dubbio può essere ancora nascosto dalle controversie politiche e dal pericolo.
Ma alla diaspora si presenta nella sua nudità. Ci si rende conto della grande crisi dell’umanità. Qual’è la condizione delle sue radici? Possono essere salvate? Possono ancora produrre un fresco germoglio? Riconosciamo noi stessi nel nostro ebraismo reale. Noi siamo i custodi delle radici: lo siamo? – si domanda Buber – Come possiamo di nuovo ascoltare la voce di Dio? «Egli è uno, il Signore della storia, il Dio che nasconde se stesso e che rivela se stesso». Vi sono delle ore nella storia apparentemente abbandonate da Dio, silenziose. Dopo la Shoà, il nascondimento di Dio è troppo profondo. possono « i Giobbe delle camere a gas » ancora parlare con Dio? Giobbe contese con Dio e lo accusò di ingiustizia. Ricevette una risposta da Lui e la ascoltò, ma la parola di Dio non rispondeva all’accusa, non la toccava nemmeno. E noi? – si domanda ancora Buber – «Noi, e con ciò si intende tutti quelli che non hanno superato quello che è accaduto e non lo supereranno. Come è ciò con noi?.. Dobbiamo rimanere sopraffatti di fronte alla faccia nascosta di Dio, come il tragico eroe dei Greci di fronte al fato senza volto? No, piuttosto sempre noi contendiamo, anche noi, con Dio… Anche con Lui, il Signore dell’Essere che noi una volta, noi qui, abbiamo scelto per nostro Signore. Noi non accettiamo supinamente l’esistenza terrena, noi lottiamo per la sua redenzione e, lottando, ci appelliamo all’aiuto del nostro Signore che è sempre ed ancora nascosto. In tale stato noi aspettiamo la Sua voce, sia che essa venga fuori dalla tempesta, sia che esca dalla calma che segue ad essa. Benché la sua veniente comparsa non assomigli a nulla di precedente, riconosceremo ancora il nostro crudele e misericordioso Signore» (15)

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10. In., The silent question in At the turning, Ed Farrar, Strauss and Young, New York 1952.
11. ID., o. c., pp. 33.34.
12. Ibidem, p. 38.
13. Ibidem, p. 38.
14. Ibidem, p. 39.
15. ID., Dialogue between Heaven and Earth, in At the turning, Ed. Farrar, Strauss and Young, New York 1952, p. 62.

Publié dans:ebraismo |on 8 mai, 2010 |Pas de commentaires »

La spiritualità ebraica

dal sito:

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Marco Morselli

Università di Modena e Reggio Emilia

La spiritualità ebraica

«Quanta gente è perplessa riguardo alla comprensione della Torah. Non ne percepiscono le verità segrete. La Torah li invita amorosamente ogni giorno, ma loro non ci badano. È proprio come ho detto prima: la Torah mette avanti una parola misteriosa, rivelandosi in questo modo, e poi subito si ritira. Ma questo essa non lo fa che per quelli che la amano e la studiano».(1)
1. La spiritualità ebraica è vita nella Toràh. Il primo versetto della Torah è «Bereshìt barà Eloqìm et ha-shammàyim we-et ha-àretz». Dunque la Torah inizia con una bet, la seconda lettera dell’alfabeto, che ha valore numerico 2. Alef indica l’assoluta unità divina, il Creatore. Ciò che viene creato è invece sotto il segno della dualità, delle opposizioni.
«All’inizio, in principio creò…» abbiamo poi uno dei due Nomi che nella Bibbia indicano il Santo, benedetto Egli sia. Uno è un plurale, l’altro è una sigla impronunciabile. Uno indica l’attributo della sua Giustizia, l’altro della sua Misericordia.
Questi Nomi, come tutti i nomi, sono intraducibili. Nelle circa 2000 traduzioni della Bibbia esistenti, sono invece stati tradotti, facendo ricorso ai nomi delle diverse divinità locali, di modo che il libro che avrebbe dovuto portare al mondo la conoscenza dell’Unità del molteplice è divenuto il ricettacolo di tutte le divinità.(2)
Dunque, che cosa creò il Signore? Lo sanno tutti: i cieli e la terra. Ma nell’originale ebraico prima di queste parole troviamo la particella et, che indica che ciò che segue è un complemento oggetto. Et è formato da una alef e da una taw, che sono la prima e l’ultima delle lettere dell’alfabeto. Che cosa ha creato allora il Santo innanzi tutto? Egli, che è infinito, ha creto l’inizio e la fine.
Eppure no: la prima cosa creata è stata la luce (come Es 20,11 conferma). Rashì (XI sec., il principale commentatore della Torah) scrive: «Questo testo non dice altro che: Interpretami!». I vv. 1-2-3 sono inseparabili, costituiscono un tutt’uno: Al principio della creazione dei cieli e della terra, la terra era turbamento, vuoto e tenebre, il Signore disse: «Sia la luce!».
Questo è solo un piccolo esempio di esegesi ebraica delle Scritture. È significativo anzi che in ebraico non si parli di Scritture, ma di Miqrà, che vuol dire lettura. La Parola del Signore ha infiniti significati, la sua lettura è infinita.
Occorre inoltre tenere presente che non vi è solo la Torah scritta, vi è anche la Torah orale, che precede e accompagna la Torah scritta. In una situazione di estremo pericolo per l’esistenza stessa del popolo ebraico(3) la Torah orale venne messa per iscritto, e abbiamo così la Mishnàh. I commenti alla Mishnah costituiscono il Talmùd. Abbiamo poi ancora il Midràsh e la Qabbalàh.
Elie Wiesel ha definito il Talmud «un oceano vasto, turbolento eppure confortante, che suggerisce l’infinita dimensione dell’esistenza e l’amore per la vita, oltre che il mistero della morte e dell’istante che la precede».
Il Talmud fa parte della storia degli Ebrei da millenni, se consideriamo la sua storia dalle tradizioni orali alla Mishnah, alla discussione della Mishnah, al Talmud orale, al Talmud manoscritto, poi stampato, poi su Internet. Al suo interno, il qui e l’ora sono intimamente connessi con altri tempi e altri luoghi, i Maestri del I secolo discutono con i Maestri del XX secolo, i Rabbini babilonesi con quelli francesi. Più che un libro, è un approccio all’esistenza, nel quale la ricerca e la discussione collegano le realtà di questo mondo alle realtà del mondo a venire.(4)
Quello che il Talmud è per la Mishnah, il Midrash è per la Torah. Il termine deriva da darash, ricercare. Vi sono moltissimi punti oscuri nella Bibbia, incomprensibili senza il riferimento a una tradizione esegetica che precede, accompagna e segue il testo.(5)
La Qabbalah è la mistica ebraica. La realtà è un’unità in cui il visibile e l’invisibile, la materia e lo spirito si compenetrano. Il progressivo disvelamento della Qabbalah ha valenze escatologiche. Vi sono dei momenti privilegiati del passaggio dei segreti dalla sfera esoterica a quella essoterica.
Nell’anno 1240, corrispondente all’anno 5000 nella datazione ebraica, ha avuto inizio il sesto millennio, e ha fatto la sua comparsa lo Zohar, il principale testo cabbalistico. Altra data importante è il 1840, corrispondente al 5600. Siamo ora nell’anno 5766, in un’epoca in cui la preparazione messianica si intensifica.(6)
2. Per millenni l’ebraismo è stato accusato di essere una religione particolaristica. Rav Elia Benamozegh (Livorno 1823-1900) è tra coloro che più si sono adoperati per dimostrare l’infondatezza di tale accusa. Come sarebbe mai stato possibile che da tale particolarismo scaturissero due religioni universali (o meglio: aspiranti all’universalità) come il cristianesimo e l’islamismo? Vi è nell’ebraismo una duplice struttura, articolata in mosaismo e noachismo. L’alleanza con Noè non è in nulla inferiore all’alleanza con Mosè. Colui che si convertiva doveva presentarsi davanti a tre rabbini e dichiarare di voler appartenere alla religione noachide. È probabile che la conversione fosse accompagnata dal battesimo, ossia dall’immersione nelle acque del miqweh. Il noachide si impegna a rispettare sette comandamenti: 1) istituzione di tribunali (= ogni società umana ha bisogno di giustizia); 2) divieto di blasfemia; 3) divieto di idolatria; 4) divieto di adulterio; 5) divieto di omicidio; 6) divieto di furto; 7) divieto di mangiare una parte di un animale vivo (= divieto di crudeltà nei confronti degli animali). Rispettando tali comandamenti il noachide entrerà nel mondo a venire, ossia avrà parte alla vita eterna.(7)
La Torah è dunque un libro da fare: 613 mitzwot per gli Ebrei e per chi voglia entrare nell’alleanza di Mosè, 7 mitzwot per chi voglia entrare nell’alleanza di Noè, con la libertà di osservare, volendo, anche un certo numero delle restanti.
Il Santo, benedetto Egli sia, nella sua trascendenza è assolutamente inconoscibile. Di Lui possiamo conoscere ciò che Lui ha voluto rivelarci: la sua volontà. Aderendo alla sua volontà noi ci avviciniamo a Lui. Come Lui è santo, così noi cerchiamo di santificarci, anche nelle minute attività della nostra vita quotidiana.
Ciò che la Torah ci indica, più che una ortodossia, è una ortoprassi. Il primato dell’etica non è un rifiuto della Rivelazione, ma proprio il contenuto della Rivelazione, con il quale la teologia dovrebbe confrontarsi.
3. So per esperienza che non è facile parlare davanti a un uditorio cristiano dell’antiebraismo cristiano, e dunque non lo farò. Posso rinviare ad alcuni testi che consentono di avviare una riflessione su questo aspetto delle relazioni ebraico-cristiane.(8) Posso anche aggiungere che l’importanza dell’argomento è tale che ne dipende la Redenzione. Posso infine cedere la parola a due cristiani.
Il primo è il Cardinale Jean-Marie Lustiger: «Il massacro e la persecuzione d’Israele ad opera dei pagani [cioè dei goyim] – bisognerebbe dire dei pagano-cristiani – sono la prova della loro menzogna o della loro presunta adorazione di Cristo. […] L’atteggiamento concreto dei pagano-cristiani verso il popolo d’Israele è il sintomo della loro reale infedeltà a Cristo o della loro menzogna nella loro pseudo-fedeltà a Cristo. È la confessione involontaria del loro paganesimo e del loro peccato».(9)
Il secondo è il Pastore Martin Cunz: «Auschwitz è la negazione più assoluta dell’uomo, o più precisamente dell’uomo al cospetto di D. come ce lo presenta il popolo ebraico. E la negazione del popolo ebraico è la negazione più assoluta del D. d’Israele. Se i non ebrei battezzati avessero avuto la minima idea del D. d’Israele e il minimo amore per lui, non avrebbero lasciato morire gli ebrei».(10)
4. A partire dal Concilio Vaticano II ha avuto inizio il percorso di teshuvah dei cattolici (e più o meno contemporaneamente dei cristiani di altre confessioni). Possa questo cammino dell’abbandono della teologia della sostituzione e dell’insegnamento del disprezzo proseguire, nella sequela di Rav Yeshua ben Yosef (= Gesù), fino a raggiungere il monte Sion, il luogo in cui viene imbandito il banchetto messianico: «Sul monte Sion il Signore dell’universo preparerà per tutte le nazioni del mondo un banchetto imbandito di ricche vivande e di vini pregiati. All’improvviso farà sparire su questo monte il velo che copriva tutti i popoli» (Is 25,6-7).
_____________________

(1) Zohar, in S. Avisar, Tremila anni di letteratura ebraica, Carucci 1980, vol. I, p. 555. Per una prima introduzione: L. Sestieri, La spiritualità ebraica, Studium 1986; Ead., Gli ebrei nella storia di tre millenni, Carucci 1986.
(2) Su questo si veda: A. Chouraqui, Mosè, Marietti 1996.
(3) Mi riferisco a quelle che i Romani chiamarono la I e la II Guerra Giudaica. Durante la I venne distrutto il Tempio di Gerusalemme e, riferisce Flavio Giuseppe, non vi erano più alberi in Israele perché centinaia di migliaia di Ebrei erano stati crocifissi dalle truppe di occupazione romane. «Secondo i dati forniti indipendentemente da Giuseppe e da Tacito, oltre 600.000 Ebrei avrebbero trovato la morte nel corso delle operazioni militari, circa il 25% della popolazione, e molti altri vennero fatti prigionieri e venduti come schiavi. Con ciò sembra possibile che qualcosa come la metà della popolazione ebraica sia stata eliminata fisicamente» (J. A. Soggin, Storia d’Israele, Paideia 1984, p. 485). Nel 135 i morti furono 850.000 (Soggin p. 492).
(4) E. Wiesel, Sei riflessioni sul Talmud, Bompiani 2000; Id., Celebrazione talmudica, Lulav 2002; A. Steinsaltz, Cos’è il Talmud?, Giuntina 2004.
(5) G. Stemberger, Il Midrash, Dehoniane 1992.
(6) A. Safran, Saggezza della Cabbalà, Giuntina 1998; Id., Tradizione esoterica ebraica, Giuntina 1999; A. Steinsaltz, La rosa dai tredici petali, Giuntina 2000; G. Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, Einaudi 1993.
(7) E. Benamozegh, Israele e l’umanità, Marietti 1990; A. Pallière, Il Santuario sconosciuto, Marietti 2005.
(8) J. Isaac, Gesù e Israele, Marietti 2001; L. Poliakov, Storia dell’antisemitismo, 5 voll., La Nuova Italia 1974-96 (Sansoni 2004).
(9) J.-M. Lustiger, La Promessa, Marcianum 2005, p. 67.
(10) M. Cunz, Il silenzio ad Auschwitz. Gli interrogativi dopo Auschwitz, in «Sefer», 1990 n. 52, p. 3.

Publié dans:ebraismo |on 4 mai, 2010 |Pas de commentaires »

RAV ELIO TOAFF – VITA

dal sito:

http://calabriajudaica.blogspot.com/2010/05/i-95-anni-di-rav-elio-toaff.html

RAV ELIO TOAFF – VITA

Elio Toaff è nato a Livorno il 30 aprile 1915. Studiò presso il Collegio Rabbinico della sua città natale sotto la guida del padre, Alfredo Toaff, rabbino della città. Frequentò al tempo stesso l’Università di Pisa presso la facoltà di Giurisprudenza, dove poté laurearsi nel 1938 nei tempi stabiliti, in quanto l’introduzione delle famigerate leggi razziali fasciste, precludeva agli ebrei l’ingresso alle università ed espelleva gli studenti fuori corso, ma consentiva di completare gli studi a chi ne fosse giunto al termine. L’anno successivo completò gli studi rabbinici laureandosi in teologia al Collegio rabbinico di Livorno, ottenendo il titolo di rabbino maggiore. Fu nominato rabbino capo di Ancona, dove rimase dal 1941 al 1943.
Dopo l’8 settembre 1943, con la recrudescenza della violenza nazista e le prime deportazioni italiane per i lager, Toaff, sua moglie Lea Iarach e il loro figlio Ariel fuggirono in Versilia, alterando le generalità sui loro documenti, girovagando tra mille insidie. Più volte Toaff scampò alla morte per mano nazista, ricorrendo alla propria inventiva e a tanta fortuna. Entrò nella Resistenza combattendo sui monti e vedendo con i propri occhi le atrocità ai danni di civili inermi.

Dopo la guerra fu rabbino di Venezia, dal 1946 al 1951, insegnando anche lingua e lettere ebraiche presso l’Università di Ca’ Foscari.

Nel 1951 divenne rabbino capo di Roma. Oltre al suo ruolo spirituale, ha ricoperto diverse cariche nella comunità ebraica italiana: presidente della Consulta rabbinica italiana per molti anni, direttore del Collegio rabbinico italiano e dell’istituto superiore di studi ebraici, direttore dell’Annuario di Studi Ebraici. Inoltre è membro dell’Esecutivo della Conferenza dei rabbini europei fin dalla fondazione nel 1957 e dal 1988 è entrato a far parte del Praesidium.
Nel 1987, Toaff pubblicò una sua autobiografia: Perfidi giudei, fratelli maggiori (Mondadori, Milano).
L’8 ottobre 2001 Elio Toaff, all’età di 86 anni, annunciò le proprie dimissioni dalla carica di Rabbino Capo di Roma. Questa decisione venne manifestata da Toaff stesso nella Sinagoga di Roma al termine delle preghiere per il «Oshannà Rabbat». Il motivo era voler lasciare spazio e occasioni ai giovani. Grande fu la commozione tra i fedeli che erano in ascolto. Il successore alla carica venne scelto in Riccardo Di Segni.

Publié dans:CON AFFETTO, ebraismo |on 4 mai, 2010 |Pas de commentaires »

Toaff il traghettatore (Il Rabbino Elio Toaff)

ho conociuto il Rabbino Elio Toaff, una persona dolce e stupenda, quindi metto questi pensieri con affetto e stima, dal sito:

http://www.zammerumaskil.com/rassegna-stampa-cattolica/speciali/toaff-il-traghettatore.html

Toaff il traghettatore   
   
Scritto da Administrator    
lunedì 03 maggio 2010 

In occasione del novantacinquesimo compleanno di Elio Toaff, rabbino capo di Roma dal 1951 al 2001, viene presentato lunedì 3 maggio a Roma il volume Elio Toaff. Un secolo di vita ebraica in Italia (Torino, Zamorani, 2010, pagine 130, euro 18) dal quale pubblichiamo l’introduzione della curatrice e, sotto, un intervento del nostro direttore. Nell’ambito delle celebrazioni, inoltre, il rabbino emerito ha rilasciato interviste che sono state pubblicate sulle riviste « Pagine Ebraiche », mensile di attualità e cultura dell’Unione delle comunità ebraiche italiane diretto da Guido Vitale, e « Shalom », mensile ebraico di informazione e cultura diretto da Giacomo Kahn. A Toaff è stata per l’occasione intitolata una fondazione, varata nell’ottobre scorso e presieduta da Ermanno Tedeschi, che viene presentata nello stesso appuntamento romano nel corso del quale viene anche proiettata l’anteprima di un filmato realizzato da Emanuele Ascarelli e Mirko Duiella sulla vita di Elio Toaff.

di Anna Foa

Questa raccolta di saggi vuole essere un primo contributo allo studio della figura e del percorso di Rav Elio Toaff, rabbino capo di Roma per cinquant’anni, dal 1951 al 2001, oltre che personaggio di primo piano della vita italiana nella seconda metà del Novecento. Colui, in sostanza, che ha traghettato il mondo ebraico italiano nell’Italia di oggi, dopo gli anni difficili del dopoguerra:  un quarto del rabbinato italiano distrutto dalla Shoah, gli ebrei impegnati in una ricostruzione difficilissima, dopo gli anni della persecuzione delle vite e quelli, quasi altrettanto disastrosi dal punto di vista dell’organizzazione comunitaria e della coesione interna, della discriminazione sancita dalle leggi del 1938.
Elio Toaff si è posto, se non immediatamente certamente dagli anni Settanta in poi, come il protagonista del reingresso totale e pieno degli ebrei nella società e nella cultura italiana. Egli ha saputo, certo non da solo ma sicuramente in un ruolo primario, reinserire il mondo ebraico in due nuovi contesti che si aprivano, quello della costruzione della memoria della Shoah e quello dei nuovi rapporti che si erano determinati, a partire dal concilio Vaticano ii e dalla dichiarazione Nostra aetate, fra ebrei e Chiesa Cattolica. Ha saputo cioè cogliere il nuovo, fin dai suoi primi germi, aderirvi senza timori né paure, spingere un mondo ebraico periferico e numericamente ultramarginale nella società italiana su posizioni sempre più egemoni culturalmente e politicamente. Una spinta innovatrice sempre, evidentemente, mantenuta dentro i binari dell’osservanza della tradizione. « Un preciso orientamento tra modernità e tradizione », come sottolinea in queste pagine Rav Riccardo Di Segni, suo successore alla cattedra rabbinica di Roma. Ma non si trattava, vorrei porvi l’accento qui, né di un’operazione facile né di un’operazione scontata. Il legame tra il compito portato avanti da Toaff nel suo ruolo di rabbino di Roma e quello di italiano impegnato in un’opera di mediazione e di costruzione di nuovi rapporti tra la piccola minoranza ebraica e il mondo esterno di cui è parte integrante:  è la chiave di questa raccolta di contributi. Una chiave volta ad approfondire la funzione di Toaff, proprio in quanto rabbino, nella società e nella cultura italiana. Per questo, il libro è orientato a sottolineare soprattutto il ruolo di Toaff nel rapporto con l’esterno, la sua immagine esterna. Non si tratta di un volume destinato ad approfondire la sua esperienza formativa ebraica e i suoi indirizzi rabbinici, qui solo accennati nel saggio di Di Segni e in quello di Marco Morselli.
 Molta attenzione dedichiamo invece al suo rapporto con il mondo esterno, alla sua paziente e coraggiosa tessitura di rapporti, incontri, alla creazione insomma di quell’immagine di Toaff su cui finora assai poco si è detto e scritto, a parte la formula ormai un po’ abusata di « papa degli ebrei ». Qual è l’immagine che la società italiana in trasformazione, intenta a rivedere i suoi rapporti con il mondo ebraico e a edificare tanta parte della sua identità sulla memoria della Shoah, ha avuto del rabbino capo di Roma, fino alla visita di Giovanni Paolo II in Sinagoga nel 1986? E quanto ha influito, in quest’immagine, l’apertura di Toaff, il coraggio nell’affrontare il cambiamento, la capacità di tenere insieme i fili di più mondi, di riannodarli, la sua indiscussa capacità diplomatica e politica? Perché, insisto nel ribadire questo punto, non era affatto scontato che il mondo ebraico italiano del dopo Shoah fosse in grado di reggere i cambiamenti esterni, di comprenderli, di farli suoi. E forse, senza l’apporto del rabbino di Roma, questi cambiamenti stessi sarebbero stati assai più lenti e difficili.
Ecco quindi che i contributi di questo volume, affidati a storici e studiosi tanto ebrei che non ebrei, affrontano temi quali il ruolo di Toaff negli anni Trenta e Quaranta, nel rigoroso e documentato saggio di Tommaso Dell’Era; il dopoguerra e i nessi che legano la ricostruzione del mondo ebraico a quella della società italiana, nel bel saggio sulla cultura ebraica italiana del dopoguerra di Gadi Luzzatto Voghera; la stentata memoria della Shoah nella società esterna e le prime reazioni del mondo ebraico intento a contare i suoi caduti, nel saggio di Manuela Consonni e di Miriam Toaff Della Pergola; l’apporto di Elio Toaff al dialogo ebraico-cristiano, nel contributo di Marco Morselli che rievoca i primi passi del dialogo e il ruolo avutovi da Toaff, e in quello di Andrea Riccardi, che analizza il passaggio del mondo cattolico dall’indifferenza alla simpatia verso gli ebrei; e poi la ricezione del concilio Vaticano ii, un tema importante e poco dibattuto, dal momento che gli studi toccano normalmente la ricezione cattolica del cambiamento e non quella ebraica, qui ampiamente trattato da Alberto Melloni; gli intensi e complessi rapporti tra cattolici ed ebrei e il consolidarsi dell’immagine esterna di Toaff, come il « papa degli ebrei », fino alla visita in Sinagoga del 1986, nel contributo storico di Andrea Riccardi, che queste vicende ha vissuto anche da protagonista. Sullo sfondo, l’immagine dell’anziano rabbino che, avvolto nel talet, in via Catalana  saluta Benedetto XVI nella sua recente visita alla Sinagoga di Roma, sempre fiducioso nel dialogo, ancora disponibile a percorrere la strada, lunga e complessa, da lui stesso aperta in anni ormai lontani.
Ancora una parola sul titolo di questo volume. Certo, il ruolo di Elio Toaff è significativo nella seconda parte del Novecento, e solo a partire da allora. Ma, mentre il protagonista di questo lavoro compie novantacinque anni e si affaccia alla soglia del secolo, ci sia permesso di alludere nel titolo alla sua importanza in quella che è stata l’intera storia del secolo, il secolo dei genocidi e della violenza, ma anche il secolo del cambiamento e delle speranze nella costruzione di un mondo migliore. Cambiamenti e speranze che Elio Toaff ben rappresenta.

(©L’Osservatore Romano – 3-4 maggio 2010)

Toaff il traghettatore    
  
Scritto da Administrator    
lunedì 03 maggio 2010 

In occasione del novantacinquesimo compleanno di Elio Toaff, rabbino capo di Roma dal 1951 al 2001, viene presentato lunedì 3 maggio a Roma il volume Elio Toaff. Un secolo di vita ebraica in Italia (Torino, Zamorani, 2010, pagine 130, euro 18) dal quale pubblichiamo l’introduzione della curatrice e, sotto, un intervento del nostro direttore. Nell’ambito delle celebrazioni, inoltre, il rabbino emerito ha rilasciato interviste che sono state pubblicate sulle riviste « Pagine Ebraiche », mensile di attualità e cultura dell’Unione delle comunità ebraiche italiane diretto da Guido Vitale, e « Shalom », mensile ebraico di informazione e cultura diretto da Giacomo Kahn. A Toaff è stata per l’occasione intitolata una fondazione, varata nell’ottobre scorso e presieduta da Ermanno Tedeschi, che viene presentata nello stesso appuntamento romano nel corso del quale viene anche proiettata l’anteprima di un filmato realizzato da Emanuele Ascarelli e Mirko Duiella sulla vita di Elio Toaff.

di Anna Foa

Questa raccolta di saggi vuole essere un primo contributo allo studio della figura e del percorso di Rav Elio Toaff, rabbino capo di Roma per cinquant’anni, dal 1951 al 2001, oltre che personaggio di primo piano della vita italiana nella seconda metà del Novecento. Colui, in sostanza, che ha traghettato il mondo ebraico italiano nell’Italia di oggi, dopo gli anni difficili del dopoguerra:  un quarto del rabbinato italiano distrutto dalla Shoah, gli ebrei impegnati in una ricostruzione difficilissima, dopo gli anni della persecuzione delle vite e quelli, quasi altrettanto disastrosi dal punto di vista dell’organizzazione comunitaria e della coesione interna, della discriminazione sancita dalle leggi del 1938.

Elio Toaff si è posto, se non immediatamente certamente dagli anni Settanta in poi, come il protagonista del reingresso totale e pieno degli ebrei nella società e nella cultura italiana. Egli ha saputo, certo non da solo ma sicuramente in un ruolo primario, reinserire il mondo ebraico in due nuovi contesti che si aprivano, quello della costruzione della memoria della Shoah e quello dei nuovi rapporti che si erano determinati, a partire dal concilio Vaticano ii e dalla dichiarazione Nostra aetate, fra ebrei e Chiesa Cattolica. Ha saputo cioè cogliere il nuovo, fin dai suoi primi germi, aderirvi senza timori né paure, spingere un mondo ebraico periferico e numericamente ultramarginale nella società italiana su posizioni sempre più egemoni culturalmente e politicamente. Una spinta innovatrice sempre, evidentemente, mantenuta dentro i binari dell’osservanza della tradizione. « Un preciso orientamento tra modernità e tradizione », come sottolinea in queste pagine Rav Riccardo Di Segni, suo successore alla cattedra rabbinica di Roma. Ma non si trattava, vorrei porvi l’accento qui, né di un’operazione facile né di un’operazione scontata. Il legame tra il compito portato avanti da Toaff nel suo ruolo di rabbino di Roma e quello di italiano impegnato in un’opera di mediazione e di costruzione di nuovi rapporti tra la piccola minoranza ebraica e il mondo esterno di cui è parte integrante:  è la chiave di questa raccolta di contributi. Una chiave volta ad approfondire la funzione di Toaff, proprio in quanto rabbino, nella società e nella cultura italiana. Per questo, il libro è orientato a sottolineare soprattutto il ruolo di Toaff nel rapporto con l’esterno, la sua immagine esterna. Non si tratta di un volume destinato ad approfondire la sua esperienza formativa ebraica e i suoi indirizzi rabbinici, qui solo accennati nel saggio di Di Segni e in quello di Marco Morselli.
 Molta attenzione dedichiamo invece al suo rapporto con il mondo esterno, alla sua paziente e coraggiosa tessitura di rapporti, incontri, alla creazione insomma di quell’immagine di Toaff su cui finora assai poco si è detto e scritto, a parte la formula ormai un po’ abusata di « papa degli ebrei ». Qual è l’immagine che la società italiana in trasformazione, intenta a rivedere i suoi rapporti con il mondo ebraico e a edificare tanta parte della sua identità sulla memoria della Shoah, ha avuto del rabbino capo di Roma, fino alla visita di Giovanni Paolo II in Sinagoga nel 1986? E quanto ha influito, in quest’immagine, l’apertura di Toaff, il coraggio nell’affrontare il cambiamento, la capacità di tenere insieme i fili di più mondi, di riannodarli, la sua indiscussa capacità diplomatica e politica? Perché, insisto nel ribadire questo punto, non era affatto scontato che il mondo ebraico italiano del dopo Shoah fosse in grado di reggere i cambiamenti esterni, di comprenderli, di farli suoi. E forse, senza l’apporto del rabbino di Roma, questi cambiamenti stessi sarebbero stati assai più lenti e difficili.
Ecco quindi che i contributi di questo volume, affidati a storici e studiosi tanto ebrei che non ebrei, affrontano temi quali il ruolo di Toaff negli anni Trenta e Quaranta, nel rigoroso e documentato saggio di Tommaso Dell’Era; il dopoguerra e i nessi che legano la ricostruzione del mondo ebraico a quella della società italiana, nel bel saggio sulla cultura ebraica italiana del dopoguerra di Gadi Luzzatto Voghera; la stentata memoria della Shoah nella società esterna e le prime reazioni del mondo ebraico intento a contare i suoi caduti, nel saggio di Manuela Consonni e di Miriam Toaff Della Pergola; l’apporto di Elio Toaff al dialogo ebraico-cristiano, nel contributo di Marco Morselli che rievoca i primi passi del dialogo e il ruolo avutovi da Toaff, e in quello di Andrea Riccardi, che analizza il passaggio del mondo cattolico dall’indifferenza alla simpatia verso gli ebrei; e poi la ricezione del concilio Vaticano ii, un tema importante e poco dibattuto, dal momento che gli studi toccano normalmente la ricezione cattolica del cambiamento e non quella ebraica, qui ampiamente trattato da Alberto Melloni; gli intensi e complessi rapporti tra cattolici ed ebrei e il consolidarsi dell’immagine esterna di Toaff, come il « papa degli ebrei », fino alla visita in Sinagoga del 1986, nel contributo storico di Andrea Riccardi, che queste vicende ha vissuto anche da protagonista. Sullo sfondo, l’immagine dell’anziano rabbino che, avvolto nel talet, in via Catalana  saluta Benedetto XVI nella sua recente visita alla Sinagoga di Roma, sempre fiducioso nel dialogo, ancora disponibile a percorrere la strada, lunga e complessa, da lui stesso aperta in anni ormai lontani.
Ancora una parola sul titolo di questo volume. Certo, il ruolo di Elio Toaff è significativo nella seconda parte del Novecento, e solo a partire da allora. Ma, mentre il protagonista di questo lavoro compie novantacinque anni e si affaccia alla soglia del secolo, ci sia permesso di alludere nel titolo alla sua importanza in quella che è stata l’intera storia del secolo, il secolo dei genocidi e della violenza, ma anche il secolo del cambiamento e delle speranze nella costruzione di un mondo migliore. Cambiamenti e speranze che Elio Toaff ben rappresenta.

(L’Osservatore Romano – 3-4 maggio 2010) 

Publié dans:CON AFFETTO, ebraismo |on 4 mai, 2010 |Pas de commentaires »

Quando un Papa e un Rabbino commentano le Scritture

dal sito:

http://www.zenit.org/article-21225?l=italian

Quando un Papa e un Rabbino commentano le Scritture

Mons. Vincenzo Paglia analizza la visita del Pontefice alla Sinagoga di Roma

di Mirko Testa

ROMA, lunedì, 1° febbraio 2010 (ZENIT.org).- Il tratto caratterizzante della visita di Benedetto XVI alla grande Sinagoga di Roma è stato il fatto che un Capo della Chiesa cattolica e un Rabbino hanno commentato insieme le Sacre Scritture.

Ad affermarlo a ZENIT è stato mons. Vincenzo Paglia, Vescovo di Terni-Narni-Amelia che dal 2004 fino all’anno scorso ha ricoperto l’incarico di Presidente della Commissione Ecumenismo e Dialogo della Conferenza Episcopale Italiana prima di essere eletto Presidente della Conferenza Episcopale Umbra.

Anche se “avvenuta in un momento un po’ più turbolento, per certi versi”, rispetto a quella compiuta nel 1986 da Giovanni Paolo II, secondo il presule “la visita ha significato, innanzitutto, la conferma della irreversibilità del nostro cammino comune”.

“Non direi che siano scomparse tutte le ombre – ha poi precisato –, tuttavia è emersa la volontà chiara di guardare al futuro, un futuro che ha significato per lo meno due piste: una, quella dei campi comuni di intervento e testimonianza: il valore supremo della vita, la santità della famiglia, la tutela del creato, l’attenzione per i bisognosi; l’altra, che si è realizzata, riguardante il campo delle Scritture”.

L’aspetto innovativo della prima visita di Benedetto XVI al Tempio maggiore di Roma, ha continuato il presule, è che “in Sinagoga, si è compiuto già un passo in avanti perché tutti e due hanno commentato le Scritture accogliendosi a vicenda”.

“Per la prima volta un Rabbino ha commentato la Scrittura davanti al Papa e viceversa – ha osservato –. Questo evento, secondo me, si comprende bene all’interno della visione indicata dal Papa, secondo cui anche Israele deve rispondere alla Rivelazione”.

“Si tratta di un passo in avanti nella linea spirituale – ha aggiunto –. E l’importanza del discorso papale sta proprio in questo passaggio non al piano della diplomazia ma al piano spirituale, che a mio avviso è l’aspetto che deve essere solidificato”.

Mons. Paglia, che nel 2002 è stato nominato dalla Santa Sede Presidente della Federazione Biblica Cattolica Internazionale, ha poi posto l’accento sull’ “’invito del Papa a prestare maggiore attenzione all’interpretazione ebraica delle Scritture”.

Nel suo discorso il Pontefice ha infatti citato un passaggio del documento pubblicato nel 2001 dalla Pontificia Commissione Biblica – quando a presiederla era il Cardinale Joseph Ratzinger – dal titolo “Il popolo ebraico e le sue Sacre Scritture nella Bibbia cristiana”, e il cui intento era anche quello di contribuire al dialogo fraterno tra cristiani ed ebrei a partire dal riconscimento dell’autorità e dell’importanza delle Sacre Scritture del popolo ebraico per la Bibbia cristiana.

Nello specifico, durante l’incontro in Sinagoga, il Papa ha richiamato “la solidarietà che lega la Chiesa e il popolo ebraico ‘a livello della loro stessa identità’ spirituale e che offre ai Cristiani l’opportunità di promuovere ‘un rinnovato rispetto per l’interpretazione ebraica dell’Antico Testamento’ ».

Mons. Vincenzo Paglia ha quindi richiamato la necessità per ebrei e cattolici di “procedere su spazi comuni percorrendo quei ponti che man mano rassodano l’incontro”.

“Io sono convinto – ha detto ancora – che l’ignorarsi non sia mai foriero di prospettive positive. Al contrario, le difficoltà che ci sono non debbono impedirci di seguire quella linea di fraternità che ci vincola nelle Scritture”.

“Le difficoltà, ovviamente, ci sono poi ognuno le vive in base alla storia passata. E non dobbiamo dimenticarci che la sensibilità ebraica su certe tematiche è molto attenta”, ha continuato.

“Però ho notato che c’è una volontà di superare le difficoltà, tenendo presente che non tutti erano d’accordo sulla visita del Papa in sinagoga – ha sottolineato il Vescovo –. E il fatto che sia avvenuta, ugualmente, mostra una chiara volontà di continuare”.

Riguardo, invece, alla questione di Pio XII e ai suoi presunti silenzi sulla tragedia della Shoah, “il problema rimane ancora aperto”, ha detto mons. Paglia.

“A mio avviso, lì va distinto, come sottolineato da padre Federico Lombardi, la questione storica da altre questioni – ha spiegato –. In ogni caso questo non deve impedirci di continuare a incontrarci, proprio perché la fede nel Dio dei Padri ci unisce”.

Il Vescovo di Terni-Narni-Amelia ha quindi detto di condividere le dichiarazioni dell’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, Mordechay Lewy, apparse su “L’Osservatore Romano”, e cioè che “solo pochi rappresentanti dell’ebraismo sono realmente impegnati nell’attuale dialogo con i cattolici” e che molti ebrei guardano alla propria identità religiosa in termini di “autosufficienza teologica”.

“L’ebraismo ‘italiano ed europeo’ è in genere aperto, dialogante e quindi pronto anche a riflettere su temi condivisi insieme ai cattolici – ha commentato mons. Paglia –. Un esempio di novità, in questo caso, è l’attenzione prestata alla figura di Gesù anche da parte degli ebrei”.

“Tutto questo è totalmente assente in un certo ebraismo ortodosso – ha osservato poi –. In effetti questo spiega anche perché è importante dialogare: il rinchiudersi porta facilmente, in un mondo come l’attuale, alla autoreferenzialità. Mentre di fronte ai grandi problemi dobbiamo unire le forze, ad esempio per parlare di Dio, per parlare della dignità dell’uomo. Ma ciò è possibile se c’è di fatto un riferimento a Dio”.

“Noi dobbiamo evitare da un parte una faciloneria sincretista – ha continuato il presule – che sarebbe soltanto deleteria e dall’altra di erigere un altro muro di separazione”.

“C’è uno spazio stretto e complesso del dialogo, che è l’unica possiblità ma anche la grande sfida che deve unire ebrei e cristiani per rispondere alle nuove frontiere del mondo”.

Il presule ha poi commentato come “un passaggio dal dialogo al trialogo” l’accenno fatto durante la visita del Papa da Riccardo Pacifici, Presidente della Comunità Ebraica di Roma, sulla necessità di “solidarizzare con le forze che nell’Islam interpretano il Corano come fonte di solidarietà e fraternità umana, nel rispetto della sacralità della vita”.

“Tuttavia, è chiaro che ormai, come più volte ripetuto dal Papa, il problema non è assolutamente il mettere sullo stesso piano tutte le religioni – ha precisato mons. Paglia –. Questa sarebbe una bestemmia. Altro, invece, è il discorso su come convivere e su quali responsabilità comuni possiamo avere”.

“Oggi di fronte a città, paesi e società di fatto multireligiosi è chiaro che si chiede la capacità dell’incontro senza rinunciare alla propria identità – ha concluso –. Questa è la grande sfida. Anzi l’incontro è possibile se restiamo in qualche modo fermi nelle nostre profonde convinzioni religiose”.

Publié dans:ebraismo, Papa Benedetto XVI |on 2 février, 2010 |Pas de commentaires »

Il dovere della memoria (27 gennaio 2003)

dal sito:

http://www.nostreradici.it/dovere_memoria.htm

Il dovere della memoria 
(27 gennaio 2003)
  
  Roberto Della Rocca, direttore Dipartimento Educazione e Cultura dell’Unione delle Comunità
  Ebraiche Italiane
 
 La Tradizione ebraica è caratterizzata dall’imperativo categorico zachor, ricorda. « Noi ebrei – scriveva Martin Buber nel 1938 – siamo una comunità basata sul ricordo. Il comune ricordo ci ha tenuti uniti e ci ha permesso di sopravvivere… ».

Il verbo zachar, nelle sue varie forme, ricorre nella Bibbia ben 222 volte e, nella maggior parte dei casi, ha per soggetto Israele o Dio. La memoria, infatti, incombe su entrambi.
Il concetto di ricordare trova il suo complemento e completamento in quello di segno opposto: dimenticare. Al popolo ebraico viene ingiunto di ricordare e al tempo stesso di non dimenticare.
La Toràh – il Pentateuco – in particolare nel versetto del Deuteronomio, 32; 7, ci sprona ripetutamente a ricordare e a non dimenticare.

Nelle ultime parole di congedo, Mosè raccomanda al popolo:  » Ricorda i tempi antichi, cercate di comprendere gli anni dei secoli trascorsi (il corso della storia ), interroga tuo padre e ti racconterà, i tuoi anziani e te lo diranno…. ».

Ma sbaglierebbe chi intendesse questa affermazione come un mero invito a fondare la nostra esistenza sul passato che ci appartiene. La memoria, custodita di generazione in generazione, è l’antidoto più potente contro la morte, rappresentando una ferma determinazione, una volontà di non abbandonare nel nulla le tracce di ciò che è già trascorso e passato ed è ormai sparito dalla storia. Nell’ebraismo, infatti, il passato non è qualcosa di sorpassato, privo di utilità, ma al contrario costituisce un valido aiuto per affrontare la vita. Per questo nella Toràh ci viene detto anche che ricordare gli avvenimenti non può bastare: « …binu scenot dor vador…. », « …cercate di comprendere gli anni dei secoli trascorsi… ». Bisogna riflettere su di essi, ponderarli, capirne a fondo il significato. L’ insegnamento della Toràh, come si vede, è ben differente rispetto alla saggezza di Plutarco, secondo cui  » la storia si ripete « . Per la cultura ebraica la storia non si ripete. E’ semmai l’uomo che può perpetuare i suoi fallimenti e i suoi successi. Ricordare il passato, ma soprattutto comprenderlo, ci aiuta a mettere a fuoco correttamente gli eventi attuali.

Non a caso Rashi’, forse il più autorevole commentatore della Bibbia ( 1040-1105 ) nel suo commento a Deuteronomio, 32; 7, interpreta il passaggio « … Binu scenot dor vador… » non tanto come  » gli anni dei secoli trascorsi  » ma piuttosto come  » gli anni delle future generazioni « , nella convinzione che il futuro sarà tanto migliore quanto meno si dimenticheranno le lezioni del passato.

Il compito di trasformare il ricordo in memoria viva e trasmetterlo alle generazioni future è assegnato dall’ebraismo alla ‘Tradizione orale’ che, anziché essere isolata e decontestualizzata in un monumento, è inserita nella continuità di un sistema culturale.

Ma come impedire che la memoria muoia cristallizzandosi nella prospettiva storica, come è accaduto con le Crociate, con l’Inquisizione, con i progrom? La storia dà garanzia di stabilità al ricordo, ma quasi sempre monumentalizza e distanzia i sentimenti, li raffredda, li normalizza, e pretende di offrire in cambio un’impossibile obiettività. La storia come il monumento sottrae la memoria alla sua appartenenza individuale per consegnarla alla collettività universale, che la deposita nel proprio archivio polveroso dopo averla elaborata in modo soggettivo, magari opportunamente revisionata, per liberarsene come di un documento scomodo.

La commemorazione del passato, i monumenti ai caduti, i musei, sono tutte forme di memoria collettiva istituzionalizzata e, di fatto, sottratta alla coscienza individuale. Per assicurare alla memoria un ruolo vitale, anche nella salvaguardia di un modello di vita, è dunque necessario che la memoria storica si innesti nel presente entrando a far parte della coscienza individuale. A maggior ragione, quindi, abbiamo il dovere di ricordare e perpetuare il ricordo della Shoah, momento tra i più tragici della storia ebraica.
Oggi, quindi, le manifestazioni e le testimonianze sono particolarmente significative poiché assistiamo ad una recrudescenza di violenza che non ci deve lasciare inerti.

Anche in Italia vi è un tentativo esplicito da parte di alcuni di mettere sullo stesso piano, vittime e carnefici, persecutori e perseguitati. Ma il tempo trascorso non può legittimare operazioni del genere. Per questo siamo convinti che il dovere di ricordare appartenga a tutti gli uomini, proprio perché quei fatti hanno ancora un aspetto di attualità. Noi dobbiamo in tutti i modi sostenere i superstiti che si sono assunti il gravoso impegno di testimoniare affinché il sacrificio di coloro che non sono più ritornati non cada nel vuoto. Il loro messaggio è un monito che ci invita ad operare affinché ciò che è accaduto una volta non si ripeta. Quindi oggi più che mai dobbiamo ricordare quei giorni e non dimenticare, poiché dimenticare nell’ingenua speranza di sopire l’offesa subita, come taluni affermano, può significare vedere riacutizzare ancora di più il pericolo che tali tragedie possano ripetersi.

Non resta che percorrere quindi la via della perpetuazione del ricordo a monito per i posteri. Una memoria attiva, come ci ha insegnato Primo Levi, che significa per ognuno, e non solo per l’ebreo, assumere i crimini della storia come male fatto a ciascuno di noi, appartenenti tutti alla grande famiglia dell’umanità. E significa anche non liberarsi mai passivamente del dolore e del lutto elaborandoli attraverso riti, cerimonie e monumenti, ma accettarli come segno permanente di un crimine le cui responsabilità collettive e singole sono assai precise, malgrado i ripetuti tentativi di confondere la storia.

Ben vengano tutte le testimonianze, articoli, libri di storia, film e conferenze di ogni genere che ci parlino della Shoah e che ne parlino a tutti.
Resta, poi, a noi il compito di trasmettere, commentare e far rivivere questa memoria per non dimenticare chi si è e da dove si viene.

Nel libro di interviste ai figli dei deportati di Claudine Vegh, Non gli ho detto arrivederci, un figlio racconta ancora perplesso dopo quasi quarant’anni, come suo padre, mentre veniva trascinato dalle SS, anziché dirgli per l’ultima volta « ti voglio bene, non temere nulla, bada a te stesso » , gli abbia invece urlato soltanto:  » Robert, non dimenticare mai che sei ebreo e devi restare ebreo ». Il figlio, ormai adulto, continua a interrogarsi sul senso di quel monito « non dimenticare mai….. ». Evidentemente era, per il padre, l’unico modo di dirgli – nei pochi attimi che gli restavano – che per sopravvivere, egli doveva preservare viva la memoria di sé, la sua identità, la sua coscienza, la sua storia.
__________________
[Fonte
: www.ucei.it

Publié dans:ebraismo, Shoah |on 27 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

La visita del Papa alla sinagoga, una sorpresa per l’ambasciatore israeliano

dal sito:

http://www.zenit.org/article-21049?l=italian

La visita del Papa alla sinagoga, una sorpresa per l’ambasciatore israeliano

Mordechay Lewy commenta il suo impatto, soprattutto tra i media

di Jesús Colina

ROMA, lunedì, 18 gennaio 2010 (ZENIT.org).- Per l’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, la visita di Benedetto XVI alla sinagoga questa domenica è stata una sorpresa positiva e un sostegno alla lotta contro l’antisemitismo.

In un’intervista concessa a ZENIT, l’ambasciatore di Israele presso la Santa Sede, Mordechay Lewy, riconosce che non potrà dimenticare un aspetto di questo evento: « Prima della visita la stampa ha fomentato un’atmosfera di crisi, e i media sono stati molto delusi per il fatto che dopo non ci sia stata alcuna crisi ».

E’ stata questa la vera sorpresa dell’incontro, spiega il rappresentante israeliano in Vaticano dal maggio 2008, riconoscendo che con questo gesto il Papa offre anche un contributo alla lotta contro l’antisemitismo.

In questo senso, ha constatato, « penso sia molto utile, perché il Santo Padre ha ribadito ed esteso il significato della Nostra Aetate », la Dichiarazione del Concilio Vaticano II sul dialogo tra i cattolici e i credenti delle altre religioni, in particolare gli ebrei.

Concretamente, osserva, ciò che il Papa sta facendo è « andare all’essenza di questo dialogo ».

Per il diplomatico, la visita ha anche un impatto positivo sulle relazioni tra Israele e il Vaticano, che « sono di due tipi: un livello spirituale e uno politico. Vorremmo che entrambi fossero buoni, e tutti e due stanno procedendo nella giusta direzione ».

Per quanto riguarda il livello spirituale, l’ambasciatore ricorda che nella sinagoga erano presenti i rabbini della delegazione di Israele che questo lunedì hanno iniziato a Roma la riunione della Commissione Mista del Rabbinato di Israele e della Santa Sede.

Le conversazioni vertono sul tema « L’insegnamento cattolico ed ebraico sulla Creazione e sull’Ambiente. Le sfide dell’intervento umano nell’ordine naturale ».

Quando alla dimensione politica, il rappresentante israeliano considera che « abbiamo relazioni molto buone e le stiamo promuovendo a livello della cultura e a quello dei negoziati, che stanno procedendo bene ».

Il diplomatico si riferisce alla serie di riunioni che stanno mantenendo rappresentanti di Israele e della Santa Sede su questioni giuridiche e fiscali legate alla presenza secolare della Chiesa nei Luoghi Santi e che sono in sospeso dalla firma dell’Accordo Fondamentale (dicembre 1993), che ha permesso di stabilire relazioni diplomatiche.

Per quanto riguarda l’opinione pubblica in Israele, l’ambasciatore ritiene che l’impatto della visita papale alla sinagoga non sia ancora facile da valutare.

« In Israele dobbiamo procedere con l’idea di mantenere un dialogo con la Chiesa cattolica intenso per quanto sia possibile, ma alcune differenze rimarranno, e dovremo convivere con questo fatto. E questo a mio avviso è un processo di apprendimento », ha concluso.

Publié dans:ebraismo, Papa Benedetto XVI |on 19 janvier, 2010 |Pas de commentaires »

Rav Riccardo Di Segni : Non avrai altre divinità al Mio cospetto» (Es 20, 3) (18ma Giornata del Dialogo Ebraico Cristiano 2007)

dal sito:

http://www.sidic.org/it/conferenzaView.asp?id=59

Non avrai altre divinità al Mio cospetto» (Es 20, 3)
 
Diciottesima Giornata Dialogo Ebraico Cristiano

Intervento del Rabbino Capo della Comunità Ebraica di Roma (Il testo è tratto dalla registrazione e non è stato rivisto dall’autore.)
 
Riccardo Di Segni – Pontificia Università Lateranense – 17/01/2007
 
Buonasera e grazie a Mons. Fisichella per questo invito che è una splendida occasione omai abituale per scambiarci delle opinioni in uno spirito di studio comune e di attenzione comune. Questa è la seconda delle occasioni che in questi giorni avrò per incontrare Mons. Fisichella dato che ce n’è stata già una al Convegno fatto al Senato, organizzato dalla Comunità di Sant’Egidio, questa è la seconda, e la terza sarà nel Dies Memoriae che verrà celebrato il 25 gennaio, rispetto al 27 gennaio che quest’anno è sabato. Vorrei ringraziarlo anche, in particolare, perché mi offre – e lo dico con un certo timore – l’occasione di incontrare e ascoltare le parole di un grande dotto che siede alla mia sinistra, Francesco Rossi De Gasperis, che ho avuto modo di conoscere in altre circostanze. Abbiamo fatto insieme anche dei programmi radiofonici anni fa e ne ho sempre apprezzato la saggezza, la saggezza complessiva, e lo apprezzerete anche voi.

Secondo uno schema che è stato accettato l’anno scorso noi lavoriamo su un progetto che ci dovrà portare avanti per molto tempo (questo è il secondo anno): “i Dieci Comandamenti”. Quello di questa sera è il secondo. E siccome siamo in un contesto di confronto ebraico-cristiano, vorrei subito mettere dei segnali e dire qualcosa a cui avevo accennato anche lo scorso anno, di quanto siano paradossali questi incontri perché molto spesso noi veniamo a discutere di temi sui quali apparentemente siamo d’accordo, ma in realtà non siamo d’accordo. Su questo tema bisogna capire che c’è una differenza fondamentale.

Il secondo comandamento o affermazione è, in realtà, una serie di affermazioni. Voi sapete che tradizionalmente la Bibbia stessa dice che i comandamenti sono stati dieci, ma non li ha divisi ed è complicato dividerli perché, se pensiamo a questo che doveva essere il secondo, in realtà ci sono tre divieti e una affermazione. I tre divieti sono, in ordine:
- non avrai altre divinità al Mio cospetto (e poi vedremo meglio la traduzione);
- non farti immagine (e poi c’è un dettaglio delle immagini che non bisogna farsi: il cielo la terra ecc.);
- non inchinarti a loro e non adorarli;
- perché il Signore è un D-o geloso che “ricorda” o “fa ricadere la colpa dei padri sui figli fino alla terza e alla quarta generazione e fa del bene fino alle migliaia di generazioni”.

Questa è la struttura del Comandamento che è stato letto e interpretato in maniera differente dalla tradizione ebraica e da quella cristiana ed è anzi stato oggetto di polemiche – quando si facevano le polemiche – e bisogna saperlo anche per potersi rendere conto che se noi siamo oggi qua a parlare di qualche cosa, è in virtù di un modo diverso di porci i problemi.

L’ebraismo interpreta questo comandamento come una affermazione assoluta di monoteismo che esclude qualsiasi possibilità di unire l’idea monoteistica a qualsiasi altro tipo e in questo differisce sostanzialmente dal cristianesimo che inserisce nell’idea di D-o, l’immagine del D-o incarnato. Questo è un punto radicale di differenza e non possiamo ignorarlo nel contesto.

L’altro punto è un discorso che l’ebraismo ha elaborato principalmente in un certo modo e sul quale in cristianesimo si è diviso: è il tema dell’immagine divina. Se noi facciamo uno schematismo, abbiamo da una parte il mondo islamico che, in qualche modo ispirandosi a questo comandamento, proibisce qualsiasi tipo di immagine; il mondo ebraico che ammette soltanto alcuni tipi di immagine con molta attenzione, per es. ammette immagini bidimensionali, ma non immagini tridimensionali a grandezza di uomo, certamente non ammette in alcun modo la possibilità di raffigurare D-o sotto immagine. Se pensate a un’icona della spiritualità cristiana, a un capolavoro dell’arte come potrebbe essere la Cappella Sistina in cui è rappresentata la creazione di Adamo, dal punto di vista ebraico che legge questo comandamento, una cosa del genere è assolutamente proibita, perché è assolutamente proibito raffigurare D-o. Questo è un elemento sul quale non si può far finta che non esista, bisogna conoscerlo. E di qui anche il concetto della liceità di inchinarsi ad una immagine. Chiaramente – non devo certo io spiegarlo – il cristiano che si inchina ad una immagine, lo fa perché proietta in questa immagine qualcosa che sta molto al di là dell’immagine. Questo per l’ebraismo non è tollerabile, ma è ciò che ci unisce e ciò che ci divide: in qualche modo questo è per il cristiano una proiezione verso l’alto.

C’è un altro elemento importante che è quello del ragionamento sulla colpa che va a cadere sulle generazioni successive. Preso così, staccato dal contesto, è un elemento che si presta a una elaborazione polemica e giustizialista nella quale si dice: “questo è un tipico esempio della malvagità del D-o dell’Antico Testamento”. Oggi un discorso del genere lascia il tempo che trova. Mi sono andato a rileggere, preparando questo intervento, un libro molto datato se vogliamo, che venne fatto negli anni venti dello scorso secolo, chiamato “Il Decalogo”, nel quale sono raccolte delle conferenze che fecero dei rabbini italiani dell’epoca, ciascuna dedicata a un comandamento. Il secondo comandamento venne discusso da colui che era allora il Rabbino Capo di Roma, Angelo Sacerdoti. E’ interessante che tutto questo discorso della vendetta lo fa in senso apologetico dicendo: ecco ci viene rinfacciato questo aspetto vendicativo, ma chi rinfaccia questo aspetto dovrebbe ripensare al fatto che a noi viene fatto scontare ben oltre la quarta generazione una colpa che non abbiamo commesso, come quella del deicidio”. Questo è un discorso che veniva fatto negli anni venti. Rileggendo questo brano mi sono detto: benedetto sia il Signore che ci ha fatto giungere a tempi nuovi e differenti! Perché francamente il discorso che si fa fra cristiani ed ebrei oggi è – almeno suppongo e non soltanto in quest’aula, ma anche in altri contesti – ben più maturo. Per cui quest’antica opposizione, giustizia – amore, deicidio e tutti questi temi che erano un’angoscia, una sofferenza, una malattia del confronto ebraico-cristiano, oggi, in qualche modo, stanno riposti o dovrebbero essere riposti in un cantuccio. Quindi noi stiamo a un livello differente di comunicazione ed è in qualche modo una soddisfazione poterlo affermare. Tra l’altro questo discorso della presumibile vendetta è sviluppato dai nostri esegeti sottolineando una cosa importante. In quella affermazione si dice che il Signore ricorda o fa cadere la colpa fino alla terza e alla quarta generazione, mentre fa misericordia al plurale di mille, quindi almeno duemila generazioni. I maestri dicono che il Signore ricompensa il bene almeno cinquecento volte più di quanto ricompensi negativamente il male. Questa è un’esplosione di misericordia divina e non di giustizialismo.

Chiariti questi punti vorrei farvi assaggiare qualche cosa della metodologia ebraica di esegesi del testo in modo che si possa apprezzare un modo particolare di avvicinarsi.

Fondamentale nell’esegesi ebraica è leggere il testo nella lingua originale e cogliere in essa le sfumature, cosa che si perde in maniera totale quando si lavora nelle traduzioni. E allora soffermandoci proprio sulla prima espressione emerge subito un’enorme difficoltà grammaticale. Si traduce “non avrai altre divinità”, ma il senso letterale, tradotto parola per parola, è: “non sarà a te divinità altre”. Perché “non sarà” viene tradotto con “avrai”? Perché in ebraico il verbo « avere » non esiste e questo è importante. Non esiste il verbo “avere” e viene sostituito da “essere a”, ed è una grande scelta teologica confermata dall’uso linguistico, che già ci pone in un rapporto differente con la realtà per cui il tema del possesso è contrapposto al tema dell’essere, confermato in questa espressione. La cosa strana che si pone è che questa parola, “elohim”, che rappresenta “divinità”, è una parola che viene riferita regolarmente a D-o con una particolare accezione. D-o ha un nome che noi non possiamo pronunciare, tetragrammato con quattro lettere, yod, he, waw, he. Questo è il nome che non possiamo pronunciare e che sostituiamo con Adonaj. Questo è il nome personale. Elohim è la sua qualifica, cioè quello che è Lui. Lo può essere Lui, lo può essere, per una errata interpretazione, altri. Paradossalmente questo nome, oggetto di polemiche antiche, è linguisticamente al plurale: Elohim è plurale. Essendo al plurale… come può essere D-o, che è uno, al plurale? E anche la parola “altre” è al plurale mentre il verbo è al singolare: “Non sarà a te divinità altre”. C’è un salto grammaticale. Bisognerebbe dire così: Tu non avrai, non saranno a te, altre divinità. Questa è una stranezza linguistica alla quale si risponde commentando in vario modo, dicendo che nella Bibbia molte volte ci sono questi salti per cui si usa il verbo al singolare con un soggetto al plurale. Se qui c’è qualcuno marchigiano, lo saprà benissimo: ad Ancona si parla così, “è belli” si dice… Questo succede anche nella Bibbia. Ma, a parte questo, il senso del discorso che era anche interpretato profondamente, alla ricerca di un significato, dovrebbe stare nel fatto che ciò che ti sembra un’altra cosa, può diventare una molteplicità di altre cose. Se cominci con uno che affianchi a D-o, un unico diventerà una moltitudine. Quindi, attenzione a fare qualsiasi associazione anche singola, rispetto all’idea di D-o, perché nel momento in cui una persona contamina la purezza del concetto dell’Uno, immediatamente ha rovinato tutto e quest’uno che è stato contaminato con un altro può diventare una moltitudine di altri. Se si viola il concetto dell’unità si passa su un altro campo.

Un’altra riflessione importante è quella che riguarda il concetto di “al-panai” tradotto qui abbastanza correttamente “al Mio cospetto”. Letteralmente significa “di fronte al Mio volto”, “sopra il Mio volto”. Anche qua c’è tutta una riflessione. Cosa significa “il Mio volto”? Un esegeta italiano di grande attenzione al significato delle parole, Samuel David Luzzatto, faceva notare che molto frequentemente l’espressione “il Mio volto” si associa a qualche cosa di poco bello, alla rabbia, al dispiacere, al dolore, per cui si muore al cospetto di…, nel senso che si muore provocando un dolore per qualcuno. Quindi molto spesso “al-panai” significa: se tu metti qualcuno di fronte alla mia faccia, lo fai, come si dice in italiano, alla faccia mia… per farmi un dispetto. E’ un dolore che mi provochi.

Ma sempre ricercando nelle profondità linguistiche della parola emergono altri significati perché con simile espressione per es. è detto che morì qualcuno quando il padre era ancora vivo e allora “al-panai” significa concetto temporale: finché Io sono esistente. Per tutto il tempo che Io esisto, e Io sono infinito, tu non dovrai avere altri dei con Me. Perché Io esisto sempre, in eterno.

Altra profondità del testo è quella spaziale: tu non devi pensare che in questa stanza c’è D-o e fuori di questa stanza non c’è D-o. D-o sta sempre ovunque presente e quindi il volto di D-o è sempre presente: tu non potrai avere altre divinità in nessun luogo. Dunque “al-panai” significa: Io sono presente in eterno e Io sono presente in ogni luogo.

Il tema di questo comandamento ha una immediatezza riferita al contesto in cui viene data questa legge: gli ebrei usciti dall’Egitto dopo la sconfitta dei falsi déi egiziani. E’ già una precisa accezione rispetto ai modi dell’antichità di fare idolatria. Ma questo discorso, riferito all’eternità di “al-panai” pone la riflessione, che è comune ai mondi ebraici e cristiani, di che cosa sia l’idolatria in ogni momento. Ed ecco quindi la necessità di definire quali sono gli idoli per i quali non bisogna fare tradimento rispetto all’idea divina. Questa è una riflessione che in ogni secolo ha prodotto i suoi frutti. Il pantheon possibile è infinito. C’è il pantheon dello Stato, il dio stato, nazione, razza, arte, scienza. Tutte queste sono forme di “altri déi al mio cospetto”. A proposito della scienza, la Bibbia ci insegna che il principio della scienza è il timore di D-o. Noi non dobbiamo pensare alla scienza, non dobbiamo pensare all’altro, non dobbiamo rispettare lo stato e la nazione? No. Possiamo e dobbiamo rispettare tutto questo. Il problema è quello dell’importanza che si dà a queste strutture. Come ci insegna il profeta Osea, capitolo 14, 4: “E noi non chiameremo più nostro D-o l’opera delle nostre mani”. La nostra creazione non deve diventare D-o. “Non avrai altri déi all’infuori di Me” significa che devi riconoscere che tu sei un creato e che ciò che tu crei con le tue mani non potrà mai sostituire la funzione centrale della presenza divina.

Abbiamo detto che esiste un nome proprio di D-o e che Elohim rappresenta l’attributo di D-o, il fatto di essere D-o, Divinità. Nella teologia ebraica questa opposizione è anche di qualità perché il nome di D-o tetragrammato rappresenta l’aspetto della misericordia divina, il nome di D-o, Elohim, che sta in questo comandamento, rappresenta D-o che si realizza e si presenta nel mondo sotto l’attributo della giustizia. Allora, tenendo presente questa identità, l’espressione “non avrai altri elohim” dice: tu non dovrai avere altre forme di giustizia, giustizia differente al Mio cospetto. Qui emerge il grido fondamentale, sottolineato da quello che è stato appena detto dal primo comandamento e poi sarà detto nel quarto comandamento: è D-o che fa giustizia all’umanità e che libera il suo popolo oppresso dall’Egitto. Non dovrai avere altre forme di giustizia, non dovrai inquinare il senso di giustizia, il grido di giustizia che viene dalla Mia immagine divina. La giustizia che viene dalla Bibbia è la giustizia nella quale non si costruisce una società giusta perché è comodo farlo, perché altrimenti, se ci si ammazza o si ruba, non si può convivere. La giustizia che emerge dal messaggio divino è quella che dice che non bisogna uccidere perché l’uomo è fatto a immagine di D-o. E se l’uomo è fatto a immagine di D-o ecco che questo “elohim acherim” riemerge con tutta la sua forza. Quindi il messaggio è quello di non compromettere l’immagine divina: non bisogna spodestare, falsificare, privare di identità, coprire di menzogna quest’immagine divina che è in noi e che deve essere il centro delle nostre attenzioni. Sì a qualsiasi passione umana, ma queste passioni umane devono essere in qualche modo marginali, funzionali e mai il centro.

Maimonide, nelle regole sul pentimento, rappresenta il rapporto che deve esistere con D-o, come quello di un innamorato. L’innamorato è quello che pensa soltanto a questa cosa. Questo deve essere il tipo di rapporto che noi dobbiamo avere con il Signore. Questo tema dell’amore compare alla fine del comandamento: questo D-o geloso. Com’è possibile che D-o sia geloso? Com’è possibile che D-o sia geloso di qualche cosa che non è D-o? Se D-o è geloso di qualcosa che non è D-o, del tradimento potenziale dell’uomo, dà dignità agli oggetti che sono culto estraneo… Com’è possibile che D-o si metta sullo stesso piano di ciò che è culto estraneo? E’ una contraddizione in termini! Cosa vuol dire secondo la nostra tradizione questo D-o geloso? Significa che ci sono due tipi di gelosia. C’è la gelosia del possesso in cui – ecco il fatto del verbo “avere” che neppure esiste in ebraico – io voglio le cose per me, ho qualche cosa, possiedo qualche cosa, lo controllo totalmente perché lo voglio far diventare mio. Questa è la gelosia del possesso. E poi c’è la gelosia dell’amore, quella nella quale il tradito ama tanto la persona che si sente tradito non perché il possesso gli è venuto meno, ma perchè la persona che lui ama e che vorrebbe veder crescere, la vede scendere… Quando una persona si dedica ad un amore falso, degrada il suo livello. Allora la gelosia del Signore è una gelosia di amore che si preoccupa per la nostra crescita spirituale. Nel momento nel quale noi ci dedichiamo ad altri déi, quelli che sono déi per noi, e non sono comunque déi, la gelosia divina si scatena perché vede che l’immagine divina nell’uomo, la sua crescita, si sta interrompendo, si sta compromettendo.
Grazie 

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