Archive pour la catégorie 'ebraismo'

Giorgio Napolitano, in occasione della celebrazione del « Giorno della Memoria »

dal sito: 

http://www.nostreradici.it/notizie1-08.asp

Intervento del Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, in occasione della celebrazione del « Giorno della Memoria »


Palazzo del Quirinale 24 gennaio 2008 

Il capo dello Stato ha voluto dedicare la cerimonia di quest’anno ai Giusti d’Italia, alla presenza di centinaia di studenti. 

Lasciate che mi rivolga, innanzitutto alle ragazze e ai ragazzi, alla platea di giovani di varie regioni d’Italia che è qui raccolta. Questi giovani, sotto la guida dei loro insegnanti, anch’essi qui presenti, e grazie all’impegno del Ministro della Pubblica Istruzione e dei suoi collaboratori, così come grazie all’impegno di regioni e enti locali, hanno compiuto – lo abbiamo sentito – attente e serie ricerche sui Giusti fra le Nazioni e su tutti gli uomini e donne che nel loro territorio, negli anni terribili delle persecuzioni antiebraiche, contribuirono, a rischio della loro vita, a salvare degli ebrei, cui veniva data la caccia per deportarli nei campi di sterminio nazisti.Vi siete misurati, cari ragazzi, con un tema difficile e angoscioso, ma questo impegno è stato importante per la vostra formazione come cittadini della nostra Repubblica, della nostra Europa riunificata nella pace. Bisogna ricordare gli atti di barbarie del nostro passato per impedire nuove barbarie, per costruire un futuro – il vostro futuro – che si ispiri a ideali di libertà e di fratellanza fra i popoli.

E’ nel ricordo di coloro che, in quegli anni bui, non si lasciarono corrompere dalle ideologie di odio allora dominanti, che ho voluto che venisse qui dato, nel Giorno della Memoria, quest’anno, particolare rilievo all’epopea dei Giusti, di coloro che salvarono anche le nostre coscienze, che furono i pionieri e primi costruttori del mondo di pace in cui ci auguriamo che voi giovani possiate trascorrere le vostre esistenze.

Nella vostra formazione storica e morale è bene che si affianchi alla memoria di quell’immenso stuolo di ebrei di tutta Europa che furono vittime della Shoah, anche il ricordo dei Giusti: di coloro, e non furono pochi, che si sforzarono di salvare almeno alcuni tra loro.

Questo 2008 è per noi un anno speciale, in quanto segna il sessantesimo anniversario dell’entrata in vigore della Costituzione della nostra Repubblica. E’ peraltro anche l’anno in cui ricorrerà, nel settembre prossimo, il settantesimo anniversario delle leggi antiebraiche emanate dal regime fascista, che di fatto prepararono l’Olocausto anche in Italia. Leggi che suscitarono orrore negli Italiani rimasti consapevoli della tradizione umanista e universalista della nostra civiltà, e del contributo che ad essa avevano dato, attraverso i secoli, nonostante le persecuzioni, gli Ebrei che vivevano nella nostra terra, ed erano stati partecipi di alcuni dei momenti fondanti della nostra storia, dal Rinascimento al Risorgimento, alle battaglie per l’unità d’Italia; quell’Italia di cui, finalmente parificati nei diritti, essi si sentivano ed erano cittadini, animati da forti sentimenti patriottici.

Noi non abbiamo dimenticato e non dimenticheremo mai la Shoah. Non dimentichiamo gli orrori dell’antisemitismo, che è ancora presente in alcune dottrine, e va contrastato qualunque forma assuma. Non dimentichiamo e non dimenticheremo neppure i Giusti d’Italia, i cui nomi sono stati ricordati in una benemerita ricerca, realizzata grazie al lavoro infaticabile di studiosi che sono oggi qui presenti, e pubblicata qualche anno fa in un volume con un messaggio del mio predecessore, Carlo Azeglio Ciampi, e con la sua prefazione, onorevole Fini, nella sua qualifica, all’epoca, di Ministro degli Esteri.

Ai Giusti d’Italia hanno qui reso oggi omaggio, insieme con noi tutti, anziani e giovani – e per questo li ringrazio – il Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Avvocato Gattegna, e l’Ambasciatore d’Israele Gideon Meir, a nome dello Stato che rappresenta, e di quel Luogo della Memoria, lo Yad Vashem di Gerusalemme, che vuole tener vivo per sempre, nella coscienza dei popoli, accanto al ricordo straziante delle moltitudini di Ebrei che furono vittime della Shoah, anche i nomi di quei Giusti fra le Nazioni che si prodigarono per salvarli: a testimonianza del fatto che l’ideale antico dell’Amore del Prossimo e dello Straniero che vive tra noi, neppure allora era spento.

Anche a nome di voi giovani, che state formando le vostre coscienze in un’Italia e in un’Europa dove oggi si vive in libertà, rinnovo l’espressione della nostra riconoscenza a quei Giusti che tennero vivi gli ideali di umanità a cui si sono ispirati quanti hanno combattuto, in condizioni drammatiche, per dare vita a un’Italia libera e democratica, e poi per costruire un’Europa di pace.

Sono, perciò, onorato e lieto di procedere ora alla consegna delle medaglie d’oro al valor civile, che sono state concesse, dal Ministro degli Interni, ad alcuni, tra i Giusti d’Italia, che sono con noi. Vi ricordo che altre medaglie d’oro e medaglie dei Giusti fra le Nazioni saranno consegnate, fra pochi giorni, a militari del Corpo della Guardia di Finanza, qui rappresentato dal Comandante Generale Cosimo D’Arrigo. 

Publié dans:ebraismo, Presidente Napolitano |on 27 janvier, 2008 |Pas de commentaires »

27 gennaio 2008 giorno della memoria – Primo Levi: Se questo è un uomo

dal sito: 

http://www.ucei.it/giornodellamemoria/index2.htm

 

 SE QUESTO E’ UN UOMO 

Voi che vivete sicuri
Nelle vostre tiepide case;
Voi che trovate tornando la sera
Il cibo caldo e visi amici: 

Considerate se questo è un uomo
Che lavora nel fango
Che non conosce la pace
Che lotta per mezzo pane
Che muore per un sì e per un no 

Considerate se questa è una donna,
Senza capelli e senza nome
Senza più forza di ricordare
Vuoti gli occhi e freddo il grembo
Come una rana d’inverno: 

Meditate che questo è stato:
Vi comando queste parole:
Scolpitele nel vostro cuore
Stando in casa andando per via, 

Coricandovi alzandovi;
Ripetetele ai vostri figli:
O vi si sfaccia la casa,
La malattia vi impedisca,
I vostri cari torcano il viso da voi. 

Primo Levi 

 

Publié dans:ebraismo |on 26 janvier, 2008 |Pas de commentaires »

“Padre Nostro”, l’invocazione comune di ebrei e cristiani

16/01/2008, dal sito:
http://www.zenit.org/article-13166?l=italian 

“Padre Nostro”, l’invocazione comune di ebrei e cristiani 

XIX Giornata per il dialogo ebraico-cattolico 

Di Mirko Testa

 ROMA, mercoledì, 16 gennaio 2008 (ZENIT.org).- Questo giovedì si celebra la XIX Giornata per l’approfondimento e lo sviluppo del dialogo tra cattolici ed ebrei, sul tema “Non pronunziare il nome del Signore Dio tuo invano” (Esodo 20,7). 

Dal 1990, infatti, la Conferenza Episcopale Italiana ha dato vita a questa iniziativa coordinata con autorità ed esponenti del mondo ebraico, ed estesa anche in Europa dopo l’incontro ecumenico di Graz (Austria) nel 1998, che fa da preludio alla Settimana di preghiera per l’unità dei cristiani (18-25 gennaio). 

In questo modo la Chiesa cattolica intende rispondere ad un’esigenza di maggiore comprensione di sé attraverso la conoscenza delle sue origini ed esprimere un gesto di dialogo e di fraternità verso il popolo ebraico. 

Dal 2005, quale tema generale della Giornata, si è iniziato un programma di riflessione decennale che medita sulle “Dieci Parole” o Decalogo, rivelate a Mosè sul monte Sinai. 

Per accompagnare la ricorrenza ed illustrarne le prospettive ecclesiologiche ed ecumeniche, è stato approntato un Sussidio a firma del Vescovo Vincenzo Paglia, Presidente della Commissione Episcopale CEI per l’ecumenismo e il dialogo, e del Rabbino Giuseppe Laras, Presidente del Tribunale Rabbinico di Milano e del Nord Italia. 

Nel sussidio si ricorda che “i precetti dati al Sinai, e in particolare i Dieci Comandamenti nei quali tutti sono come riassunti e unificati, sono dati all’uomo per la sua santificazione e nel contesto dell’Alleanza di salvezza”. 

“Ciò implica che ‘per l’uomo’ la fede, l’alleanza, il culto e l’etica personale e sociale sono radicalmente unite dinanzi al Signore”, si legge ancora. 

In particolare, il Comandamento che si pone come “Terzo” nell’ordine tradizionale seguito sia da ebrei, che da cristiani ortodossi e protestanti, suona: “Non pronunziare il nome del Signore Dio tuo invano. Poiché il Signore non lascerà impunito chi avrà pronunciato il Suo nome invano”. 

“Il Comandamento – spiega il testo – vieta l’uso sconsiderato del nome di Dio per fini falsi o superficiali”, nome che è anzitutto quello di “Avinu” (Is 63,16), “Padre nostro” (Mt 6,9), “l’invocazione più semplice e profonda che la Bibbia rivela al credente ebreo e cristiano”. 

“Il santo Nome si fa preghiera ardente e confidente, che sale dal cuore dei figli e delle figlie, come invocazione benedicente al Padre di tutti, rivoltagli ogni giorno nella Birkat ha-Torà (‘Benedizione della Torà’) ebraica e nel Pater cristiano”. 

Allo stesso tempo, però, Dio attraverso il suo “Nome santo e amorevole” esprime la relazione di Creatore e Redentore con i suoi figli. 

“Da questa fondamentale rivelazione che Dio è Creatore e Padre di tutti noi (cfr. Malachia 2, 10) – prosegue il Sussidio – discende la certezza del Suo amore eterno che si esprime in un’Alleanza irrevocabile, della quale le Dieci Parole costituiscono il sigillo etico per la condotta del popolo di Dio, figli e figlie dell’Altissimo”. 

“Il rispetto, la venerazione, l’adorazione, l’amore verso Dio – si legge ancora nel testo – si esprimono in particolare nelle forme della preghiera e della lode, personale e comunitaria, specialmente nella liturgia ebraica familiare e sinagogale, alla quale Gesù stesso prendeva normalmente parte, e dalla quale dopo di lui la Chiesa attinse per sviluppare i tesori della propria liturgia”. 

“Perciò nella proclamazione e nell’ascolto della Parola di Dio, così come nella recita e nel canto di Salmi e Inni, i cristiani possono tuttora apprendere e godere di quegli stessi tesori spirituali, che costituiscono e nutrono la vita di fede e di fedeltà ebraica ai doni di grazia divini”, conclude poi. 

Publié dans:biblica, CEI, ebraismo, ZENITH |on 17 janvier, 2008 |Pas de commentaires »

Visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma – Discorso di Rav Elio Toaff

quello propongo in questo secondo post deriva da un incontro che ho fatto questa mattina, ho incontrato, seduto ad un Bar al centro di Roma l’ex « grande » Rabbino capo di Roma: Elio Toaff, l’avevo incontrato anche se lui non si può ricordare di me, alcuni amici ( che ora ho perduto di vista) ebrei mi hanno parlato di lui di quanto ha aiutato la comunità ebraica nel difficile periodo dopo la guerra ed in seguito, è una persona molto dolce e saggia, posto il suo discorso al Papa Giovanni Paolo II, anche Papa Benedetto si è ricordato di lui, come ha sempre parlato con rispetto ed affetto della fede e del popolo di Israele; 

discorso dei Papa Giovanni Paolo II 

http://www.vatican.va/holy_father/john_paul_ii/speeches/1986/april/documents/hf_jp-ii_spe_19860413_sinagoga-roma_it.html

 discorso di Rav Elio Toaff

http://www.sidic.org/it/docOnLineView.asp?class=Doc00431

Visita di Giovanni Paolo II alla sinagoga di Roma –  

Discorso del Prof. Elio Toaff, Rabbino Capo della comunità ebraica di Roma 

Toaff, Elio 

Italia, Roma, 1986/04/13 

Santità,  come Rabbino Capo di questa Comunità, la cui storia si conta ormai in millenni, desidero esprimerLe la viva soddisfazione per il gesto da Lei voluto e da Lei oggi compiuto di venire per la prima volta nella storia della Chiesa in visita ad una Sinagoga, gesto destinato a passare alla storia. Esso si ricollega all’insegnamento illuminato del suo illustre predecessore Giovanni XXIII, il primo Papa che in una mattina di sabato si fermò a benedire gli ebrei di Roma che uscivano da questo Tempio dopo la preghiera, e si inserisce della scia del Concilio Vaticano II che, con la Declaratio « Nostra Aetate… », ha prodotto, nei rapporti della Chiesa con l’Ebraismo quella rivoluzione che ha reso possibile la Sua odierna visita.

Ci troviamo dunque di fronte ad una vera e propria svolta della politica della Chiesa, che guarda ormai verso gli ebrei con sentimenti di stima e di apprezzamento, abbandonando quell’insegnamento del disprezzo la cui inamissibilità Jules Isaac – sia qui ricordato in benedizione – richiamò a Papa Giovanni.

Il mio pensiero – nel momento storico che stiamo vivendo – si rivolge con ammirazione, con riconoscenza e con rimpianto all’infinito numero di martiri ebrei che serenamente affrontarono la morte per la santificazione del Nome di Dio. Ad essi va il merito se la nostra fede non ha mai vacillato e se la fedeltà al Signore ed alla Sua Legge non è mai venuta meno nel lungo volgere dei secoli. Per il loro merito il popolo ebraico vive ancora, unico fra tutti i popoli dell’antichità.

Non possiamo dunque dimenticare il passato, ma vogliamo oggi iniziare con fiducia e con speranza questo nuovo periodo storico che si annuncia fecondo di opere comuni svolte finalmente su un piano di parità, di uguaglianza e di stima reciproca nell’interesse di tutta l’umanità.

Ci proponiamo di diffondere l’idea del monoteismo spirituale e morale d’Israele per raccogliere gli uomini e l’universo nell’amore, nella potenza e nella giustizia di Dio,che è il Dio di tutti, e di portare la luce alla mente e al cuore della gente per far fiorire nel mondo l’ordine, la morale, il bene, l’armonia e la pace.

Nello stesso tempo riaffermiamo la universale paternità di Dio su tutti gli uomini, ispirandoci ai profeti che l’hanno insegnata quale amor filiale che congiunge tutti gli esseri viventi al seno materno dell’infinito, come alla loro matrice naturale. E’ quindi l’uomo che deve essere preso in considerazione. L’uomo che è stato creato da Dio a Sua immagine e somiglianza nell’intento di conferirgli una dignità ed una nobiltà che può mantenere solo se vorrà seguire l’insegnamento del Padre. Nel Deuteronomio è scritto: « Voi siete figli del Signore vostro Dio » per indicare il rapporto che deve legare gli uomini al loro Creatore, un rapporto da padre a figlio, di amore e di benevola indulgenza, ma anche un rapporto di fratellanza che deve regnare fra tutti gli esseri umani. Se esso esistesse veramente non dovremmo oggi lottare contro quel terrorismo e quelle violenze aberranti, che mietono tante vittime innocenti, uomini, donne, vecchi e bambini, come è accaduto anche di recente davanti a questo Tempio. 


Il nostro compito comune nella società dovrebbe essere dunque quello di cercare di insegnare ai 

nostri simili il dovere del rispetto dell’uomo per l’uomo, dimostrando l’iniquità di quei mali che affliggono il mondo come il terrorismo, che è l’esaltazione della violenza cieca e inumana e che colpisce gente indifesa, tra cui ebrei di ogni paese solo perchè sono ebrei; come l’antisemitiamo ed il razzismo, che vanamente credevamo per sempre debellati dopo l’ultimo conflitto.


La condanna che il Concilio ha pronunciato contro qualunque forma di antisemitismo dovrebbe essere rigidamente applicata, come pure la condanna di ogni violenza, per evitare che l’intera umanità affoghi nella corruzione, nell’immoralità, nell’ingiustizia.

L’invito che si legge nel Levitico, dove il Signore afferma: « Io sono il Signore vostro Dio; santificatevi, siate santi, perchè Io sono il Signore vostro Dio; santificatevi, siate santi. perchè Io sono Santo » vuol essere una esortazione ad imitare nelle nostra vita la Santità del Signore.

Così l’immagine di Dio in potenza nell’uomo fino dalla sua prima creazione, diventa immagine di Dio in atto. I1 « Kedoshim Tiiyù » è l’imitazione da parte degli uomini di quelle che sono chiamate le « Vie del Signore ».

In tale modo essi, cercando di sottomettere allo spirito tutte le loro azioni, fanno prevalere lo spirito sulla materia.

Il premio per una condotta siffatta è grande e già il Signore lo disse ad Abramo facendolo uscire a guardare il cielo in una notte stellata: « Io sono il Signore che ti fece uscire da Ur Casdim per darti il possesso di queste terra ». Il possesso della terra promessa si ottiene come premio per aver seguito le vie del Signore e le fine dei giorni verrà quando il popolo vi sarà tornato.

Questo ritorno si sta verificando: gli scampati dai campi di sterminio nazisti hanno trovato in terra d’Israele un rifugio ed una nuova vita nella libertà e nella dignità riconquistata. Per questo il loro ritorno è stato chiamato dal nostri Maestri « l’inizio dell’avvento della redenzione finale », « Reshit tzemihat geulatenu ».

Il ritorno del popolo ebraico alle sua terra deve essere riconosciuto come un bene e una conquista irrinunciabili per il mondo, perchè esso prelude – secondo l’insegnamento dei profeti – a quell’epoca di fratellanza universale a cui tutti aspiriamo ed a quella pace redentrice che trova nella Bibbia la sua sicura promessa. Il riconoscimento ad Israele di tale insostituibile funzione nel piano della redenzione: finale che Dio ci ha promesso non può essere negato.

Potremo così lottare insieme per affermare il diritto dell’uomo alla libertà, una libertà completa che trova il proprio invalicabile confine solo quando prevarica o limita la libertà altrui. L’uomo nasce ed è per sua natura libero, quindi tutti gli uomini, a qualunque popolo appartengano, debbono essere ugualmente liberi perchè tutti hanno la stessa dignità e sono partecipi di medesimi diritti. Non esistono uomini che possano considerarsi superiori ed altri inferiori perchè in tutti vi è quella scintilla divina che li rende uguali.

Eppure ai nostri giorni, ci sono ancora paesi nel mondo dove la limitazione della libertà, la discriminazione e l’emarginazione sono praticati senza alcun ritegno. Mi riferisco in particolare ai negri in Sud Africa, e per quanto riguarda la libertà di religione agli ebrei ed ai cattolici nell’Unione Sovietica. Nostro compito comune dovrebbe essere quello di procla¬mare che da quella libertà fondamentale dell’uomo, scaturiscono diritti umani irrinunciabili: come il diritto alla vita, alla libertà di pensiero, di coscienza, di religione.

Il diritto alla vita deve essere inteso non solo come diritto di esistere, bensì quello di vedere garantita la propria vita, fin dal suo nascere, assicurata la propria esistenza contro ogni minaccia, contro ogni violenza; significa garanzia dei mezzi di sussistenza attraverso una più equa distribuzione della ricchezza affinché nel mondo non ci sia più chi muore per fame. Significa il diritto di ognuno di veder salvaguardato il proprio onore, il proprio buon nome contro la calunnia e il pregiudizio anche di carattere religioso, la condanna di ogni attentato all’amor proprio, considerato dall’ebraismo pari allo spargimento di sangue. Significa combattere la menzogna per le conseguenze disastrose che può recare nella società, e così pure l’odio, che suscita la violenza ed è considerato dall’Ebraismo come odio verso il Signore, di cui l’uomo è l’immagine.

La libertà di pensiero comprende anche la libertà di coscienza e quella religiosa. Dovremo lottare con tutte le nostre forze per impedire che un uomo possa essere oggi ancora perseguitato o condannato per le idee che professa o per le sue convinzioni religiose.

Il concetto di libertà – come si vede – è composito e se una delle componenti viene soppressa, è inevitabile che prima o poi sia la libertà nel suo complesso ad andare perduta, perchè è una unità che ha un valore assoluto e indivisibile. E’ un ideale in sè e per sè, uno degli oggetti di quel regime di giustizia universale predicato nella Bibbia per il quale gli uomini e i popoli hanno l’inalienabile diritto di essere padroni di sè stessi.

Santità, in questo momento così importante nella storia dei rapporti fra le nostre due religioni, mentre il cuore si apre alla speranza che alle sciagure del passato si sostituisca un fruttuoso dialogo che, pur nel rispetto delle esistenti diversità, dia a noi la possibilità di un’azione concorde, di una cooperazione sincera e onesta per il raggiungimento di quei fini universali che sono nelle nostre comuni radici, mi consenta di concludere queste mie riflessioni con le parole del Profeta Isaia: « Io gioisco nel Signore, giubilo nel mio Dio che mi ha rivestito degli abiti della salvezza, ai ha avvolto nel santo della giustizia, come uno sposo che cinge la corona, come una sposa adorna dei suoi monili. Come la terra produce la sua vegetazione e come un giardino fa germogliare i suoi semi, così il Signore Iddio farà germogliare la giustizia e sarà oggetto di riconoscenza da parte di tutte le genti ».

Elio Toaff 

Publié dans:ebraismo, Papi |on 11 janvier, 2008 |Pas de commentaires »

CHANUKKAH: UN MIRACOLO CHE SI RIPETE

dal sito: 

http://www.nostreradici.it/chanukkah.htm

  

CHANUKKAH: UN MIRACOLO CHE SI RIPETE 

Gavriel Levi 

Nel giorno di chanukkà che capita di shabbath, i lumi di chanukkà si accendono assieme con quelli dello shabbath e, la sera dopo assieme con quello dell’avdalà1. La vigilia di shabbath si accende prima la chanukkà e dopo i lumi dello shabbath; alla fine dello shabbath si accende prima la torcia dell’avdalà e dopo i lumi della chanukkà 

È evidente che questa regola è collegata con il divieto di accendere il fuoco durante lo shabbath: non si può accendere nessun fuoco dopo che è cominciato lo shabbath; non si può accendere nessun fuoco finché lo shabbath non è veramente finito. Tuttavia, se ci riflettiamo sopra, questa regola collega, con un significato più ampio e più profondo, i tre fuochi e le tre luci che accendiamo nelle nostre case e che, in modi diversi, rappresentano la forza creativa dell’uomo e la vita di Israele. Solo se si è acceso il lume di chanukkà si può accendere il lume dello shabbath; solo se si è acceso il lume dell’avdalà si può accendere il lume di chanukkà

Se si è lottato per rimanere ebrei, se ci si è conquistati il miracolo, allora si può rinunciare ad accendere ogni fuoco e si può godere del lume che deriva direttamente dai giorni della creazione e che riassume, già in sé, la luce del MashiachSe si è acceso il fuoco che permette di accendere ogni fuoco nella settimana, che è stato regalato da Dio al primo uomo e che ci aiuta a distinguere, con i nostri mezzi, la luce dal buio, allora si può accendere, senza più divieti, il fuoco del miracolo. 

Le luci della chanukkià devono rimanere divise e distinguibili l’una dall’altra: ogni giorno è un giorno completo di vita; ogni generazione è completa in se stessa ed è necessaria perché la generazione precedente possa vivere nella successiva. Le luci dell’avdalà devono essere unite e indistinguibili l’una dall’altra: ogni giorno, anche il più banale, è parte del giorno completo che è tutto shabbath

La luce dell’avdalà è la luce di un fuoco che si accende dopo lo shabbath; la sua benedizione è centrata nella creazione delle « luci » del fuoco e sulla nostra azione di guardarsi le mani, nel buio e alla luce. La luce di chanukkà è la luce che si accende per rendere manifesto il miracolo; la sua benedizione riguarda l’obbligo di ripetere il miracolo e di preparare la luce di un giorno per farla ardere otto giorni. 

Non può esistere la festa di chanukkà senza dentro una vigilia di shabbath, senza uno shabbath e senza un’uscita di shabbathIl miracolo di chanukkà (e cioè la luce di un giorno che deve durare fino al termine dei giorni, ed ancora un giorno di più) contiene dentro di sé: a) la luce del fuoco che esiste quando nessun fuoco può essere acceso dall’uomo; b) la luce di un fuoco che deve essere ricreato, per dividere il giorno umano dalla notte umana; il giorno di shabbath dai sei giorni dell’azione; le mani dell’uomo dalla creazione di Dio. 

Il miracolo di chanukkà contiene anche due luci: la luce di un fuoco che non esiste (perché è stato acceso prima); la luce di un fuoco creato da D-o (ma acceso dagli uomini) perché l’uomo possa uscire, senza paura, nel mondo degli uomini. Tra l’inizio di chanukkà e l’inizio dello shabbath esiste un momento di intervallo: noi ebrei abbiamo compiuto il nostro miracolo, quando il sole non è ancora calato; a D-o viene lasciato il tempo per compiere il suo miracolo, finire la creazione e portare il Mashiach

Tra la fine dello shabbath e l’inizio di chanukkà esiste un altro momento di intervallo: la storia di tutti i giorni si è ripetuta; l’ebreo può accettare il dono del fuoco direttamente da D-o e, ancora una volta, ripetere il miracolo. Se noi riusciamo a conservare l’olio per un giorno, anche quando ci sembra che il buio durerà più a lungo e quando ci sembra che non ci sia nessun posto per accendere una luce, D-o vedrà questa luce per otto giorni. 

Se non conserviamo l’olio nel buio (ma questo è impossibile perché in fondo lo conserviamo anche senza saperlo) allora D-o dovrà fare il miracolo da solo e dovrà riprendere il fuoco di chanukkà da quello donatoci per l’avdalàUn cieco adempie al precetto di chanukkià partecipando, se ne ha la possibilità, con una perutà, all’accensione di un altro ebreo e, se non può perché è solo, accendendo la chanukkià, con qualunque aiuto, da solo. 

Per quale luce accende la chanukkià, un cieco?
___________
Fonte: morasha.it 


  1. La giornata dello Shabbat si apre e si chiude con un’ accensione di lumi. All’imbrunire del venerdì si accendono due candele (in teoria ne basterebbe una) recitando la benedizione che termina con « e ci hai comandato di accendere il lume dello Shabbat« . Al termine dello Shabbat, nella cerimonia dell’Avdalà, la separazione tra il giorno di festa e quello feriale si accende una torcia formata da più luci che intrecciandosi formano un’unica fiamma. Su questo lume si benedice il Signore « creatore dei luminari di fuoco« . Nel Talmud Jeruscialmì (citato anche dal compendio « Torà Temimà » ai primi versi della Genesi) si ricerca la fonte del fatto che nella Avdalà si dice la benedizione sul lume solo dopo che il lume è acceso. Questo lascia supporre che nell’altro caso, l’accensione dei lumi dello Shabbat, prima si dica la benedizione e poi si accenda. In effetti ciò avviene quasi esclusivamente secondo il rito di Roma (quasi tutti gli altri oggi prima accendono e poi dicono la benedizione). 

Publié dans:ebraismo |on 3 décembre, 2007 |Pas de commentaires »

Cenni per una visita nell’antico ghetto di Roma

non è possaibile mettere le immagini che, comunque nel testo originale non ci sono, dal sito:

http://www.gliscritti.it/index.html

 

 

Cenni per una visita nell’antico ghetto di Roma – a cura del SIDIC

 

Il testo che mettiamo a disposizione on-line è stato preparato dal SIDIC (Service International de Documentation Judéo-Chrétienne, delle suore di nostra Signora di Sion, fondate dai fratelli p.Théodore e p.Alphonse Ratisbonne), per fornire una serie di indicazioni e di suggerimenti per i docenti che desiderano, attraverso la visita dei luoghi, far conoscere ai loro alunni la storia dell’ex-ghetto ebraico di Roma.
Ringraziamo il SIDIC di Roma – che dalla sua fondazione incoraggia con passione la conoscenza dell’ebraismo ed il dialogo ebraico-cristiano – per aver autorizzato la pubblicazione on-line sul nostro sito. Il SIDIC organizza anche visite guidate, per gruppi, all’antico ghetto di Roma.
 

L’Areopago 



Portico di Ottavia Da questo punto è agevole verificare quanto fosse esiguo lo spazio del Ghetto: 3 ettari, con perimetro dall’ipotetica linea spartitraffico in mezzo all’attuale via di Portico d’Ottavia a piazza delle Cinque Scole, al Tevere (all’epoca privo dei muraglioni, eretti dopo l’Unità d’Italia e la proclamazione di Roma capitale). Il primo nucleo ebraico si forma qui nel secolo XVI, proveniente dal Trastevere. 

Elementi da rilevare: ciò che resta del portico di Ottavia (fatto restaurare da Augusto in nome della sorella) fra le colonne del quale è stata eretta nel ’200 circa la chiesa di S. Angelo in Pescheria, sede delle prediche coatte durante il periodo del ghetto. Il nome “in pescheria” si riferisce al mercato del pesce fiorente in questa zona fin dall’antichità. Lo slargo davanti al portico è il punto dove, la mattina del 16 ottobre 1943, i nazisti disposero i camion con cui furono deportati gli ebrei presi durante la razzia. Una lapide ricorda e ammonisce, senza parole di vendetta. 

Procedendo in direzione dell’Arenula, si può vedere a destra il vicolo della Reginella, utile a dare un’idea, insieme a quello di S.Ambrogio, dei vicoli esistenti prima della ristrutturazione. Un vistoso cartello dice “Sabra-Kosher”: indica un negozio dal tipico nome ebraico (Sabra è chi sia nato in Israele) nel quale si vendono cibi “secondo le regole alimentari ebraiche” (Kosher) con garanzia del Rabbinato. L’isolato compreso tra i due vicoli, dipinto in rosso, corrisponde all’edificio inserito nel perimetro del ghetto a partire dal 1825, sotto Leone XII, per intervento dei banchieri ebrei Rothschild che con cospicui prestiti avevano aiutato l’erario pontificio. 

Dal portico d’Ottavia in direzione del Tevere si trova: nei pressi del Ponte Quattro Capi la chiesa di S. Gregorio in Divina Pietà. La chiesetta è dedicata a S. Gregorio perché nella zona sorgevano le case degli Anicii, nobile famiglia romana che ha dato i natali a Papa Gregorio Magno (590-604) difensore dei diritti degli Ebrei. Sulla facciata è stato posto dal 1858 il ‘cartiglio’ che si trovava prima altrove nel ghetto, con la scritta in ebraico e in latino dei versetti di Isaia 65,2—3: “Ho steso tutto il giorno le mani a un popolo incredulo, che cammina seguendo le sue idee per una via non buona; ad un popolo che continuamente mi provoca all’ira”. 

Il Ponte Quattro Capi è detto anche “Pons Judaeorum” e collega con l’Isola Tiberina dalla interessantissima storia. Per quanto riguarda la presenza ebraica, sull’isola, nei locali dell’antico ospedale ebraico, ora adibiti ad ambulatorio, sono presenti due piccole stanze, adibite a “sinagoga dei giovani” e che sono molto care ai romani ebrei perché qui essi sono andati, a rischio della vita, a pregare durante i terribili nove mesi di presenza nazista in città. Un altro ricordo molto triste si riferisce all’altro ospedale, quello dei Fatebene Fratelli, dove sono stati curati i circa quaranta feriti in seguito all’attentato terroristico compiuto da membri dell’OLP nel 1982. In quell’episodio, terribile per la comunità ebraica romana, rimase ucciso un bambino di due anni, ricordato ora in una piccola lapide presso la Sinagoga. 

Adiacenze: Nella vicina piazza Mattei (si percorre vicolo della Reginella) sorge la famosa fontana delle Tartarughe. I Mattei erano fra le famiglie cristiane le cui case erano adiacenti al ghetto e che avevano le chiavi dei portoni che venivano chiusi all’Avemaria e riaperti la mattina, dall’esterno, nel periodo del ghetto. 

Dietro il Portico di Ottavia si vede l’abside di S. Maria in Campitelli: qui, durante il periodo del grande pericolo nazista, gli ebrei dell’antico ghetto trovarono più volte rifugio fraterno. Nel 1990 qui è stata celebrata solennemente per Roma la prima delle Giornate per l’Ebraismo che la CEI desidera siano celebrate da tutti i cristiani, il 17 gennaio di ogni anno. 

Casa di Lorenzo Manili: nel 1497 il mercante Lorenzo Manili, volendo contribuire all’abbellimento della città in quel periodo di risveglio edilizio dell’Urbe, costruisce la propria casa “ad forum Judaeorum”: prospiciente la Piazza degli Ebrei, o Piazza Giudia che verrà più tardi letteralmente divisa in due dal muro del ghetto. La facciata porta la lunga iscrizione in greco e latino di cui si è detto, più alcuni bassorilievi di abbellimento. 

Nell’angolo di casa Manili la piccola porta di uno dei punti del ghetto più popolari in Roma: la pasticceria che sforna quotidianamente ghiottonerie tipiche ebraiche. Girato l’angolo, si vede un tempietto attualmente mal coperto di lastre arrugginite, ma dalle linee squisite. Un tempo era un’edicola della Madonna. 

Nel lato opposto, la chiesetta di S. Maria del Pianto, sorta intorno a un’immagine dipinta sul muro e legata al racconto di un miracolo. E’ una delle ben sedici chiese che sorgevano in questo che è sempre stato il più piccolo dei Rioni di Roma. Nelle vicinanze sono rimaste la chiesa di S.Tommaso ai Cenci, di S. Caterina dei funari, S. Stanislao dei Polacchi e quella che sorge sulla casa della famiglia di S. Ambrogio. 

Di fronte a casa Manili, nella piazza Giudia, si ergeva la bella fontana che ora troviamo dietro S. Maria del Pianto e davanti a palazzo Cenci Bolognetti. E’ del Della Porta e ha una storia travagliata perché fu più volte rimossa e modificata. Palazzo Cenci venne temporaneamente incluso nel ghetto in seguito all’ampliamento resosi necessario nel 1836 sotto Gregorio XVI. 

Proseguendo troviamo la “piazza delle Cinque Scole”: il nome porta il ricordo del palazzetto delle Cinque Scale o Sinagoghe che sorgeva in questo punto, e che scomparve con la ricostruzione. Uno dei divieti del tempo del ghetto consisteva nella proibizione di avere più di una sinagoga, indipendentemente dal numero degli ebrei e soprattutto senza tener conto della estrema varietà di provenienze (catalani, aragonesi, siciliani e altri). La difficoltà fu in parte aggirata comprendendo all’interno di un unico palazzetto, locali diversificati per i diversi gruppi. 

La Sinagoga [1] : visibile da molti punti della città con la sua cupola quadrata, la sinagoga o Tempio, come amano chiamarla gli ebrei romani, rappresenta architettonicamente la riconquistata cittadinanza della comunità dopo la vergogna del ghetto. Gli architetti Armani e Costa che la costruirono nel 1904 erano non ebrei: la comunità non aveva ancora potuto avere architetti propri. Fu inaugurata con grandissima solennità e devozione. E’ tuttora frequentata praticamente da tutti gli ebrei romani, anche se nella città vi sono almeno altre cinque sinagoghe più piccole in vari rioni. Lo stile è un misto di Liberty e di arte babilonese, con evidente richiamo all’origine mediorientale della religione ebraica e allo stile dell’epoca di costruzione. Non porta immagini, solo simboli: la menorah, le tavole della legge, i “lulav”. Le molteplici scritte in ebraico sono quasi tutte versetti della Scrittura che esaltano la sacralità del luogo. Sul lato sinistro di chi guarda la facciata si vedono ancora i segni dell’attentato compiuto da membri dell’OLP il 9 ottobre 1982 nel quale rimasero ferite più di 40 persone e morì Stefano Tachè di due anni.
Proseguendo il giro intorno alla sinagoga si passa davanti al piccolo ingresso che porta alla sottostante sinagoga spagnola, poi si arriva davanti alla chiesa di S. Gregorio di cui già abbiamo parlato, ci si trova di fronte l’Isola Tiberina. All’interno degli edifici annessi alla Sinagoga troviamo il Museo Ebraico. Sul lato verso il Tevere, il muro della sinagoga porta diverse lapidi di notevole interesse storico; ricordano il lungo elenco di ebrei caduti nella prima guerra mondiale; gli ebrei caduti alle Fosse Ardeatine; invocano pace per tutti. 

Il “giro del ghetto” può chiudersi qui. Raramente è dato trovare in uno spazio così piccolo tanta memoria, tanto dolore e tanta speranza. 



Breve cronologia del ghetto di Roma e delle sue porte 

·         1555: Paolo IV (1555-1559) con la bolla “Cum nimis absurdum’ revoca tutti i diritti concessi e ordina l’istituzione del ghetto. 

·         Per lo “Jus Gazzagà” i cristiani restano proprietari delle case poste nella zona del ghetto, ma senza il diritto di cacciarne gli ebrei subentrati o di aumentare l’affitto. 

·         1572: Gregorio XIII (15 72-1585) ordina le “prediche coatte” settimanali. 

·         Sisto V (1585-1590) revoca alcune restrizioni e consente un piccolo ampliamento del ghetto che raggiunge un’estensione di 3 ettari. 

·         Sotto Leone XII (1823-1829) la situazione peggiora, tuttavia il Pontefice consente – visto l’alto numero di persone – che il ghetto sia ulteriormente ingrandito: viene inclusa via della Reginella e autorizzato l’acquisto di nuove case. Si raggiunge un totale di 8 porte. 

·         Le porte del Ghetto, originariamente, al tempo di Paolo IV, erano due. 

·         Nel 1577 ne viene aperta una terza. La porta principale era sulla Piazza Giudia (ora scomparsa), le altre vicino alla Chiesa S.Angelo e vicino alla Chiesa S.Gregorio. 

·         1589: Sisto V allarga il ghetto verso il Tevere: via della Fiumara (ora scomparsa) ai capi della quale vi erano altre due porte. 

·         1823: ai tempi di Leone XII vengono aggiunte tre porte. 

·         Pio IX (1846-1878): il 17 aprile 1848 Pio IX ordina l’apertura delle porte del ghetto e la demolizione delle mura, che saranno completamente distrutte nel 1885. Fino al 1847 un alto muro separava la Piazza dei Cenci dalla Piazza delle Cinque Scole. Ma, con la fine della Repubblica romana, nel 1849, e il ritorno di Pio IX, gli Ebrei sono obbligati a rientrare nel ghetto fino alla abolizione definitiva nel 1870. 



Note 

[Nota 1] (Nota dell’Areopago) Il 13 aprile 1986 il papa Giovanni Paolo II si è recato in visita alla Sinagoga, pronunciando, fra l’altro, queste parole: “Siamo tutti consapevoli che, tra le molte ricchezze del numero 4 della dichiarazione Nostra Aetate, tre punti sono specialmente rilevanti…
Il primo è che la Chiesa di Cristo scopre il suo “legame” con l’ebraismo “scrutando il suo proprio mistero”. La religione ebraica non ci è “estrinseca”, ma in un certo qual modo, è “intrinseca” alla nostra religione. Abbiamo quindi verso di essa dei rapporti che non abbiamo con nessun altra religione: Siete i nostri fratelli prediletti e, in un certo modo, si potrebbe dire i nostri fratelli maggiori.
Il secondo punto rilevato dal concilio è che agli ebrei come popolo, non può essere imputata alcuna colpa atavica o collettive, per ciò “che è stato fatto nella passione di Gesù”. Non indistintamente agli ebrei di quel tempo, non a quelli venuti dopo, non a quelli di adesso. E’ quindi inconsistente ogni pretesa giustificazione teologica di misure discriminatorie o, peggio ancora, persecutorie. Il Signore giudicherà ciascuno “secondo le sue opere”, gli ebrei come i cristiani.
Il terzo punto che vorrei sottolineare nella dichiarazione conciliare è la conseguenza del secondo; non è lecito dire, nonostante la coscienza che la Chiesa ha della propria identità, che gli ebrei sono “reprobi o maledetti”, come se ciò fosse insegnato o potesse venire dedotto dalle Sacre Scritture, dell’Antico come del Nuovo Testamento. Anzi, aveva detto prima il concilio, in questo stesso brano della Nostra Aetate, ma anche nella costituzione dogmatica Lumen Gentium, citando san Paolo nella lettera ai Romani, che gli ebrei “rimangono carissimi a Dio”, che li ha chiamati con una “vocazione irrevocabile”. 

 

Publié dans:ebraismo |on 15 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

il rotolo della Torah

il rotolo della Torah dans ebraismo sefer_torah

metto questa immagine perché sul Blog inglese ho messo un articolo di Heshel, così mi è rimasto dentro il suo pensiero e la sua fede,

http://www.metaforum.it/forum/showthread.php?t=1213

Publié dans:ebraismo |on 7 novembre, 2007 |Pas de commentaires »

di Riccardo Di Segni: Le Candele di Shabbàht

dal sito:

http://www.morasha.it/alefdac/alefdac_02.html#0201 

di Riccardo Di Segni

(Rabbino di Roma) 

Le Candele di Shabbàht 

Nel pensiero ebraico viene costantemente accentuata la differenza esistente tra la situazione reale in cui si vive e gli obiettivi ideali verso i quali l’azione dell’uomo deve proiettarsi. Questa opposizione si presenta in campi differenti: sociale, etico, politico, fino al concetto più generale della sacralità dell’esistenza; investe poi la sfera metafisica, della quale si immagina la dimensione nascosta e solo parzialmente percettibile da parte dell’uomo. 

La differenza tra le due realtà si traduce anche in una divisione del tempo, nel ritmo costante delle settimane. In questa prospettiva il giorno del Sabato diventa l’esempio, la rivelazione temporale di un campione di perfezione, l’immagine di una sacralità nascosta che finalmente si può raggiungere. 

Tutte le regole e i divieti di questa giornata sono una preparazione e un segno di questa condizione superiore che si cerca di raggiungere; e anche i minimi dettagli del rito sono portatori di profondi significati. 

Basta considerare un solo esempio, quello dell’accensione delle candele all’entrata del Sabato, per constatare la ricchezza dei simboli e dei concetti che ogni rito particolare sottintende. 

* * * 

I Rabbini interpreti della Scrittura si sono soffermati a lungo su una contraddizione che emerge dal racconto della creazione del mondo nel primo capitolo della Genesi. Nel terzo verso, come prima opera della creazione, è descritta la formazione della luce, che consente di separare le giornate e distinguere il giorno dalla notte. Poco dopo, nella descrizione dell’opera del quarto giorno, si parla della creazione del sole, della luna e delle stelle. I Maestri si chiedevano quale fosse il senso di questa apparente ripetizione, e offrivano due tipi di soluzione. In una prima interpretazione si ammetteva che la luce del primo giorno fosse stata già quella del sole e degli astri, e che la narrazione successiva si riferisse non tanto alla creazione quanto alla disposizione di queste sorgenti di luce nel firmamento. Secondo la seconda interpretazione, invece, si immaginavano due tipi differenti di luce: una luce primordiale, caratteristica solo dei primi giorni dell’universo, e una luce successiva, quella che si conosce, emanata dagli astri e dal sole. 

Questa idea di luce primordiale ricorda vagamente recenti teorie cosmogenetiche che parlano di una radiazione iniziale che si diffuse nei primi momenti della nascita dell’universo; ma è chiaro, malgrado queste strane coincidenze, che l’interesse degli interpreti della Genesi non è, almeno inizialmente, quello di una teoria fisica. La spiegazione, almeno a grandi linee, di questa immagine mitica della luce, emerge dal seguito midràsh: la luce primordiale non venne distrutta, ma nascosta; tolta temporaneamente all’umanità per le colpe che questa avrebbe commessa, e che non la rendevano degna del godimento di questo bene eccezionale; ma riservata in futuro ai giusti e ad un’umanità redenta, per la quale sarebbe tornata a risplendere. Al di là della metafora rabbinica si cela in queste immagini un esempio particolare dell’idea generale di contrapposizione di due realtà; l’ideale nascosto è presentato come un obiettivo eccezionale ma reale, che si può raggiungere e conquistare. 

In che modo queste idee si traducono nella simbologia del Sabato? Un altro midràsh spiega questo concetto. Alla fine del racconto della creazione è detto che « Dio benedì il settimo giorno » (Genesi). I Maestri dicono che questa benedizione particolare consisté, nel primo Sabato, in una continuazione ininterrotta del flusso di luce primordiale. La luce non avrebbe dovuto più brillare per il peccato commesso da Adamo nelle ultime ore del Venerdì ma fu concessa una deroga per lo Shabbàt. Il primo Sabato, prototipo di tutti i sabati successivi, fu un giorno di tutta luce. 

In questa espressione mistica i Maestri vollero esprimere il concetto che nella giornata sabbatica all’uomo è data da godere un’immagine di quel bene eccezionale e metafisico promesso come premio futuro per i giusti; in altri termini che il Sabato rappresenta un embrione di mondo futuro, una prima realizzazione delle aspirazioni ideali; un primo godimento di un contatto con l’assoluto. 

* * * 

La tradizione prescrive che all’entrata del Sabato, prima ancora che faccia notte, in ogni casa si accendano delle luci, che illuminino in particolare la mensa. Non è un atto facoltativo; è un obbligo preciso, che va accompagnato dalla recitazione di una benedizione (lehadliq ner shel Shabbàt). Le luci da accendere dovrebbero essere almeno due, a ricordo delle due versioni differenti dei dieci comandamenti (Esodo e Deuteronomio), che impongono di « ricordare » (zakhòr) e « osservare » (shamór) il Sabato; secondo il Midràsh la differenza è dovuta al fatto che un unico suono fu inteso dal popolo di due mondi differenti; per questo si usano preferibilmente dei lumi a due braccia che partono da un unico fusto, come le due parole derivarono da un solo suono, non c’è comunque limite a chi vuole aggiungere altri lumi oltre il minimo. 

Queste luci rispondono a un bisogno elementare e immediato: la illuminazione del tavolo dove si mangia, in un momento in cui è proibito accendere il fuoco. L’origine dell’uso è quindi ben evidente, ma ogni particolare lo fa diventare non tanto un’abitudine opportuna, quanto piuttosto un rito, che riassume i doveri dell’osservanza e del ricordo. Da pura esigenza materiale le luci divengono presto il tramite per n simbolismo molto più ampio; riassumono l’essenza del Sabato. La tavola illuminata è segno di serenità, di pace, di armonia. 

Ma è anche un segno che oltrepassa la dimensione puramente domestica; e qui si inserisce il midràsh della creazione, e la luce domestica diventa segno della luce primordiale irradiata nel Sabato della Genesi. 

Traducendo in un linguaggio più attuale questi dati osserviamo che l’immagine della luce primordiale perduta e nascosta può equivalere a quella della riconquista della propria libertà soffocate dalle costruzioni della società e del lavoro quotidiano. Riuscire a celebrare il Sabato significa per l’uomo di oggi segnare il proprio distacco dalla schiavitù dei propri ordinamenti e delle sue creazioni; avere la possibilità di scoprire nella propria esistenza una dimensione più ampia e liberatrice. Tutto questo si realizza attraverso i numerosi divieti, che impongono all’uomo di astenersi da determinate azioni: la conquista della nuova dimensione è come una conseguenza implicita delle astensioni. Accanto a queste, numerose, ben poche sono le azioni positive prescritte; ma appunto perché poche, ricche di significato. L’accensione delle luci è una di queste. È ormai diventata un segno che trascende le esigenze elementari di illuminazione domestica; è un segno di ripresa e riconquista di vita, di allontanamento dalle costrizioni e dai condizionamenti della società; è l’entrata in una dimensione più vasta e liberatrice. 

Anche solo come piccolo impegno iniziale di ricordo e di osservanza l’accensione dei lumi ha una grande importanza; non si può sottovalutare l’effetto psicologico che crea nell’ambiente, né la carica pedagogica che ha verso i piccoli. Questo spiega perché un uso pratico, una necessità immediata, è stata trasformata dai Maestri in un obbligo, ricco di effetti ambientali ed educativi e capace, anche da solo di istituire un nuovo clima. 

* * * 

Uomini e donne sono tenuti al rispetto di questa norma: ma la tradizione in questa norma; ma la tradizione in questo caso ha maggiormente responsabilizzato la donna. È chiaro che in una società in cui il ruolo femminile è stato prevalentemente concentrato nella casa, questo rito, prettamente domestico, è stato affidato specificamente alla donna. Questo non vuol dire che in una società diversa, in cui i ruoli reciproci dell’uomo e della donna non siano più quelli di un tempo, il rito debba essere il segno di una condizione negativa e uno stimolo di discordia; nella tradizione ebraica l’imposizione di una mitzwàh è un privilegio, per cui anche se la donna cambia la sua condizione domestica non dovrebbe per questo rinunciare al privilegio di un obbligo in cui ha sempre avuto la precedenza. 

Per segnalare quanto la questione sia dibattuta, anche dietro il velo dei simboli midrashici, si può ricordare l’opinione di un Maestro che diceva che la donna deve accendere il lume di Shabbàt per farsi perdonare la colpa primordiale di Eva, che aveva metaforicamente spento la luce — cioè l’eternità — di Adamo. A questa ipotesi (che per quanto suoni oggi pesantemente antifemminista non si esaurisce nella semplice formulazione midrashica, ma contiene significati molto più profondi) un altro Maestro rispondeva nella stessa lingua, rammentando le responsabilità maschili nel peccato del vitello d’oro, che avevano nuovamente pregiudicato la seconda possibilità di completa redenzione offerta con l’uscita dall’Egitto. Quindi donne e uomini ciascuno con la colpa da scontare, ed entrambi tenuti all’osservanza della regola: ed è per questo che nel rito se la donna accente, è l’uomo che deve preparare le candele. Il discorso quindi si ripropone ad armi pari. Di nuovo anche da questi dettagli emerse che il simbolo delle luci non è quello della discordia, ma l’armonia, la pace, la tensione verso una vita più completa e libera. 

Riccardo Di Segni 

 

Publié dans:ebraismo |on 15 septembre, 2007 |Pas de commentaires »
1...56789

PUERI CANTORES SACRE' ... |
FIER D'ÊTRE CHRETIEN EN 2010 |
Annonce des évènements à ve... |
Unblog.fr | Annuaire | Signaler un abus | Vie et Bible
| Free Life
| elmuslima31